XVI Redattore Sociale 27-29 novembre 2009

Disorientati

Ricordo di Paola Biocca

Interventi di Dario Biocca e Maria Nadotti

 
Durata: 21' 00''
 
 
 
 
Dario BIOCCA

Dario BIOCCA

Docente di storia contemporanea all'università di Perugia, coordinatore didattico alla Scuola di Giornalismo Radio-televisivo di Perugia.

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

Maria NADOTTI

Maria NADOTTI

Giornalista, saggista, consulente editoriale e traduttrice. Ha curato il libro “10 in paura” (Epochè, 2010), dieci racconti di autori italiani.

ultimo aggiornamento 26 novembre 2010

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Maria Nadotti

Qui con noi ci sono Dario Biocca e Lucia Marghieri Biocca rispettivamente fratello e mamma di Paola Biocca ; ci racconteranno di Paola, del lavoro che aveva avviato, ma non solo. Vi mostrerò una cosa straordinaria che mi è stata data dalla signora Lucia, sono delle fotografie fatte da Paola all'epoca in cui lavorava in Kosovo per il Programma Alimentare Mondiale, World Food Programme nel '98-'99. Mentre guarderemo queste fotografie io vorrei ricostruire insieme a voi un'altra parte delle tante identità di Paola Biocca, che era quella di lei come scrittrice, che ha tenuto parallela e non solo parallela. Paola ha lavorato prima con Greenpeace, poi con varie associazioni, ed era una figura interessante nel panorama italiano perché era un'attivista, parola screditata in Italia e ritenuta nobile nel resto del mondo. Paola era un'attivista e anche una scrittrice a pieno titolo, autrice di un romanzo, "Buio a Gerusalemme" e di una serie di saggi brevi che a noi sono piaciuti molto, perché andavano nella direzione del reportage letterario ed anche di questo poi vi leggerò degli stralci.

Passeremo poi ad incontrare Laura Boldrini che come sapete è la portavoce italiana dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati , che per cinque anni ha fatto lavoro che poi sarebbe stato preso da Paola Biocca, quindi c'è un legame molto preciso, c'è una continuità molto precisa non solo professionale tra Laura Boldrini e Paola Biocca.

Dario Biocca

Come potrete ben comprendere io ho qualche difficoltà a parlare di mia sorella , non l'ho mai fatto in questi dieci anni, credo che questa sia la prima volta. Io sono anche coordinatore di una scuola di giornalismo, insegno storia del giornalismo e qui sono molte le cose che si mettono insieme. In pochi minuti vorrei soltanto sottoporvi alcune riflessioni perché questo convegno, questo dibattito e tanti temi che sono stati discussi in queste ore riguardano i disorientati. Eppure devo dirvi che nello studiare storia del giornalismo, nel lavorare in una scuola di giornalismo, a volte ho il sospetto che il problema sia quasi opposto, cioè che i giornalisti siano troppo orientati, che la storia del giornalismo italiano sia stata storicamente fatta di strutture forti, coese, i giornalisti sono stati organizzati in albi, poi ordini dei giornalisti, in contratti di lavoro che legano i giornalisti alle loro testate, li obbligano molto. Sono poche le occasioni, le possibilità in cui i giornalisti possono esplorare e cercare per conto proprio delle storie, poterle raccontare liberamente. Io credo che la storia del giornalismo italiano è stata molto costretta da queste strutture forti.

C'è un altro elemento che sottopongo alla vostra riflessione, che riguarda il passato, ma anche il presente, che è legato anche a Paola, che è quello della parola, del racconto. Voi sapete che il padre del giornalismo italiano Indro Montanelli, deve la sua fama di miglior giornalista italiano ai suoi straordinari articoli, reportages, prima della guerra di Etiopia e poi della tragedia quale è stata la guerra civile spagnola; questi reportages, questi articoli sono stati letti e apprezzati da moltissimi in Italia e Montanelli si è guadagnato la fama di uno scrittore di straordinario talento, solo che le cose che ha raccontato non erano vere, sono state raccontate così bene da convincere molti, dal suo direttore ai suoi lettori, ma era la verità come la si raccontava. Questo connubio tra parola, tra romanzo o abilità nell'uso della parola e il suo mischiarsi con l'informazione, con la realtà di quello che effettivamente stava accadendo, ha lasciato una traccia che credo duri ancora oggi nel nostro giornalismo, a volte impedendo di distinguere fra ciò che è notizia e ciò che è sua interpretazione.

Vengo al punto che vi volevo sottoporre. Io so che Paola non ha ricevuto un training formale come giornalista, non era neppure iscritta all'ordine dei giornalisti, però ha scritto moltissimo , ha scritto anche degli articoli che sono apparsi sul Corriere, ha fatto una cronaca della guerra nei Balcani. Paola ha imparato da sé, ha imparato perché era intelligente, perché ha avuto la fortuna di trovarsi intorno delle persone che l'hanno molto aiutata nel capire come si fa, perché era appassionata a questo. Però gli altri, quelli che saranno giornalisti domani, quelli che oggi studiano nelle scuole per esempio, o che sono studenti in scienza della comunicazione, ma che questo vorranno fare in futuro, non avranno la stessa possibilità; la loro preparazione professionale è affidata a regole che sono molto rigidamente stabilite dall'ordine dei giornalisti, quante ore, come, dove, quante alla storia del giornalismo, quante alla televisione, quante alla radio, quante alla scrittura, non ci sono corsi, preparazioni, training professionali previsti nella formazione di giornalista, che porti le nuove generazioni di giornalisti ad acquisire competenze sui temi della pace, dell'ambiente, della cooperazione internazionale, dell'immigrazione… non ci sono. Quindi questo è lasciato all'intelligenza, all'entusiasmo, alle possibilità, ma non è previsto perché forse in un certo senso è come se il giornalismo italiano sia stato storicamente troppo orientato e poco libero di trovare tante diverse possibili manifestazioni. Quindi vi ripeto, io credo che Paola in questo senso abbia avuto un talento straordinario nella scrittura e una diversità di interessi che le ha consentito di mettere insieme tutte ciò che ha scritto e che ci ha lasciato. Ma se uno riflette sulle prospettive di chi sta cercando come formarsi una vera competenza professionale su come davvero informare senza essere orientati, la faccenda è molto complicata.

Volevo soltanto, se mi consentite, chiudere con il dire che nell'aereo dove è morta mia sorella, c'erano 24 persone ed credo che fossero tutte, ciascuna a modo proprio, straordinarie . Erano funzionari delle Nazioni Unite, erano persone che andavano a lavorare nelle carceri, che stavano per essere organizzate in Kosovo, una varietà di persone le più diverse, con interessi e obiettivi diversi però tutte accomunate, credo, da un elemento un po' straordinario individuale, la cui vita è stata stroncata da quell'incidente la cui inchiesta, a dieci anni di distanza, non è chiusa, ancora non sappiamo esattamente cosa è accaduto. Vi ringrazio moltissimo.

Maria Nadotti

Mentre io parlo vedremo scorrere queste fotografie fatte da Paola Biocca . Con la mamma di Paola abbiamo deciso di mostrarvi queste foto, perché da queste foto si capiscono secondo noi molte cose del modo non solo di lavorare di Paola, ma del suo modo di stare al mondo, di guardare il mondo, di ascoltare. Ci tengo a dire "ascoltare" perché in particolare in queste piccole cronache che sono state pubblicate dal Corriere della Sera, mentre Paola lavorava con il programma alimentare mondiale che poi sono state raccolte in un piccolo volume "Diario Umanitario", Paola non raccontava quello che di solito raccontano i giornalisti di professione, e non perché questi siano cattivi o non professionali, ma perché al giornalista medio è richiesto altro; Paola invece si poteva prendere il lusso, e grazie a Dio che qualcuno può farlo, di farci vedere e di farci sentire il fuori scena. Nei suoi testi raccolti in "Diario umanitario", per esempio c'è un'enfasi precisa sul silenzio, su quei momenti della storia in cui apparentemente non sta succedendo niente, che poi invece sono momenti in cui si sta preparando quello che succederà. Per un buon giornalista, un buon storico, un buon osservatore, è importantissimo guardare quello che succede quando apparentemente non succede niente, è importantissimo sentire quello che non viene detto. Io ho avuto la fortuna di essere nella giuria del premio Calvino Opera Prima a Torino l'anno in cui Paola Biocca vinse con il manoscritto "Deliberata ambiguità", un romanzo formidabile che in seguito fu pubblicato da Baldino e Castoldi con un titolo più adatto al mercato dei libri "Buio a Gerusalemme", faceva più intrigo internazionale… Pensate che io avevo preparato da leggere qui con voi l'incipit di questo romanzo, però lo ha già fatto De Aglio nel video per cui non lo ripeterò… La cosa formidabile di quel romanzo era che s'intuiva che dietro quella storia, una detective story formidabile, poco italiana, una storia costruita con sapienza narrativa, c'era però una cosa che normalmente non si trova nei romanzi dei giovani autori italiani: c'era un sapere. E' un romanzo che si capiva benissimo era scritto da qualcuno che sapeva di cosa stava parlando e l'oggetto di quel romanzo, a parte la storia d'amore, le storie parallele, ecc., è Israele e il nucleare; e si capiva benissimo che quello che Paola Biocca raccontava e di cui scriveva non era di quarta mano, ma di primissima mano. Dietro le due figure femminili che animano il romanzo, la giovane Penelope e la donna più matura, Elisa, c'era lei; di Elisa Paola scrive: " aveva imparato a non distrarsi mai ", e bastava guardare Paola e si capiva che neanche lei si distraeva, guardava, guardava…

Vi leggo qualche stralcio da una di queste sue cronache inviate in Italia, si tratta di un pezzo che fa parte di "Diario umanitario", ma non è comparsa sul Corriere della Sera , bensì sulla rivista "Lo straniero", è una lettera da Pristina dove Paola scrive: " Sono un'operatrice umanitaria portavoce di un'agenzia delle Nazioni Unite che distribuisce aiuti umanitari di emergenza. Non sono una saggista, né la persona adatta a sviluppare teorie, non sono neppure una giornalista e raccolgo informazioni per lavoro oppure casualmente, per predilezione o intuizione soggettiva. Le mie interpretazioni e i miei giudizi su quanto avviene in questi giorni al di là dell'Adriatico, valgono quanto quelle di chiunque, li terrò per me, ho trascorso però un mese nei Balcani dal 17 marzo al 15 aprile e ho almeno una cronaca da offrire, informazioni sparse, testimonianze e segni che la scrittura può cercare di mettere in ordine, anche se non è facile ordinare un racconto quando l'idea appartiene ad altri e della storia non si conoscono ancora la fine, la trama, l'intenzione.". Vorrei leggervi semplicemente la chiusa, poi magari vi leggerete l'articolo integralmente se non l'avete già fatto, credetemi è un testo di grande importanza per chi fa il vostro mestiere, anche se lei dichiara di non essere una giornalista. Racconta appunto il lavoro che stava facendo a Glogovac, a un certo punto la dirigenza della sua organizzazione la richiama in patria perché stare lì era diventato troppo pericoloso e lei scrive: " Le ore passano piuttosto silenziose. La mattina dopo in ufficio, la segretaria dell'ufficio mi dice che l'emittente principale del Kosovo ha raccontato la missione umanitaria a Glogovac come un bel momento, dice che i rifugiati non si sono sentiti soli. Ma è già domenica e noi sappiamo benissimo che in poco tempo li lasceremo soli. I due giorni successivi sono giorni frettolosi e vuoti, cerchiamo di fare quel che non si può più fare. A poco a poco le jeep sono scomparse, anche i giornalisti sono diminuiti, un taxi ormai costa 600 marchi al giorno, la guerra è ovvia. Nessuno di noi vuole partire perché per un operatore umanitario non è facile andarsene nel momento in cui c'è più bisogno. Aspettiamo da un momento all'altro l'ordine di evacuazione da New York, ma l'ordine non arriva. Possibile che non abbiano capito che Pristina è ormai pronta per le truppe serbe? Ormai siamo fantasmi e nessuno ci presta più neanche attenzione. Aspettiamo e usiamo il tempo per imballare computer e documenti. Sappiamo che di quello che lasciamo indietro non troveremo mai più traccia. L'ordine di New York arriva martedì sera, 3 ore dopo UNHCR, Unicef e World Food Programme partono in convoglio verso Skopje con le bandiere a prua degli automezzi. Non occorreva essere profeti o visionari per immaginare il futuro".

Vi ho letto questa cosa perché qui c'è traccia del miglior giornalismo possibile, che è un giornalismo che non esagera, che appunto sta coi piedi molto per terra . E' per questo che io prima dicevo che Paola è stata una figura molto anomala nel panorama italiano, come in quello internazionale, ha scelto di scrivere questo tipo di cose e di essere attivista. Io credo che noi abbiamo bisogno di attivisti e non solo di giornalisti e di letterati, e dico attivista nel senso di persone dotate di capacità di capire, di prevedere e che non hanno paura di prendere posizione, di mandare veramente al diavolo quella categoria con cui spesso si educano i giornalisti, che è quella dell'oggettività. L'oggettività è una cosa strana, è una cosa che serve ad altro non a raccontare il mondo reale, l'oggettività è, diciamocelo pure, una balla, perché comunque sia, è impossibile guardare il mondo senza avere una posizione, se uno è alto lo vede da un po' più su, se uno è basso lo vede da un po' più giù, se uno è una donna lo vede in un modo, se uno è un uomo lo vede in un altro... Queste figure come Paola e come Kapuscinski, ci danno una buona, buonissima indicazione.

Intervento

Io non conoscevo Paola, conosco però i suoi scritti, mi ricordo che del Corriere aspettavo con ansia quegli articoli, li ho anche ritagliati e conservati. Alcune cose su quello che è stato detto. Uno: lo sguardo, se ne è parlato anche ieri, lo sguardo con cui guardiamo il mondo cambia e allora è importante capire qual è lo sguardo con cui osserviamo. Io credo che comunque il giornalista si deve immergere nella realtà e deve assumere uno sguardo. Ricordo che Grossman in una lettera aperta che ha scritto, credo a Sharon, diceva: "per favore provi a guardare i palestinesi non più dal mirino del fucile, scoprirà che sono molto simili a noi, che c'è un popolo che soffre". I o credo che noi dobbiamo smettere di guardare dal mirino della notizia, noi cerchiamo la notizia. 

Guerra in Iraq. Ricordo un servizio di Giovanna Botteri al Tg2 dove non c'erano blindati come abbiamo visto mille volte, la Botteri ci ha raccontato la guerra in Iraq attraverso il silenzio ammutolito di una bambina che non è più riuscita a parlare dopo il bombardamento. Quello era un modo diverso di raccontare la guerra ed è un modo che non trova spazio nei giornali. Non è un caso che Paola non fosse una giornalista e fosse autorizzata a raccontare una guerra in modo diverso. Io ricordo che Paola scriveva delle rughe dei profughi, mi ricordo della farina portata in un posto in cui non c'erano forni, perché anche questa era la guerra… Allora lo sguardo che deve essere uno sguardo che conosce, che condivide e che va al di là delle notizie.

Torno alle non notizie. L'ho imparato, l'ho trovato in Paola, forse l'ho imparato anche da Paola e da Svetlana Aleksievic. La ricerca del racconto del quotidiano: noi non raccontiamo mai il quotidiano, noi facciamo questi racconti tragicomici si diceva ieri, o la tragedia o la commedia, mentre avere il coraggio di guardare la vita, di raccontare la vita è molto più difficile, però bisogna starci dentro. Io credo che quella di Paola sia una grandissima lezione.

* Testo non rivisto dagli autori.