XVI Redattore Sociale 27-29 novembre 2009

Disorientati

Informare i giornalisti

Intervento di Laura Boldrini. Conduce Maria Nadotti

 
Parte 1
Durata: 15' 54''
 
Parte 2
Durata: 11' 04''
 
Parte 3
Durata: 18' 39''
 
Parte 4
Durata: 21' 21''
 
 
 
 
Laura BOLDRINI

Laura BOLDRINI

Presidente della Camera dei Deputati, è stata per molti anni portavoce dell’Unhcr nella cui funzione ha promosso tra l’altro la "Carta di Roma" su giornalismo e immigrazione. Ha scritto tre libri: "Tutti indietro" (Rizzoli, 2010), sulla propria esperienza nelle crisi umanitarie; "Solo le montagne non si incontrano mai" (Rizzoli, 2013), storia di una bambina somala gravemente ammalata portata in Italia da un militare italiano nel 1994, che dopo 14 anni riconosce il padre naturale in una puntata di Chi l'ha visto?; "Lo sguardo lontano" (Einaudi, 2015) sui suoi primi due anni a Montecitorio.

ultimo aggiornamento 01 dicembre 2013

Maria NADOTTI

Maria NADOTTI

Giornalista, saggista, consulente editoriale e traduttrice. Ha curato il libro “10 in paura” (Epochè, 2010), dieci racconti di autori italiani.

ultimo aggiornamento 26 novembre 2010

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LEGGI IL TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Maria Nadotti

Io partirei da qui. Laura tu hai fatto per 5 anni lo stesso mestiere che poi Paola (Biocca) sarebbe andata a fare con il Programma Alimentare Mondiale e con lo stesso ruolo: ce lo puoi spiegare bene in cosa consista questo lavoro?

Laura Boldrini

Intanto buonasera e grazie a Redattore Sociale per aver voluto organizzare anche questo spazio. Sento di avere un legame con Paola Biocca se non altro dovuto al fatto che appunto avevo lasciato il Programma Alimentare Mondiale per andare all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ; un giorno Paola mi chiamò per chiedermi un consiglio visto che c'era questo posto che si era liberato e per capire come sarebbe stato il lavoro. Io le parlai di questa organizzazione, del tipo di lavoro, incoraggiandola a fare quella che noi chiamiamo l'application, perché effettivamente la mia esperienza era stata positiva, era un lavoro bello, io avevo imparato tanto in quei 5 anni. Erano anche anni in cui il mondo cambiava a un ritmo velocissimo, c'era stata la guerra nei Balcani, la Bosnia, il genocidio nei Grandi Laghi, lo sgretolamento dell'impero sovietico e quindi anche tutte le tensioni nelle repubbliche centro-asiatiche. Per me era stato un periodo di grande acquisizione, anche se poi combaciava con una fase della mia vita un po' delicata, avevo avuto una bambina da poco, quindi i primi anni è stato difficile stare sempre in giro e curarsi anche di lei. Consigliai a Paola di andare avanti e devo dire che spesso ci ripenso a questa telefonata con molta amarezza perché forse mi chiedo, forse non avrei dovuto dare questo consiglio, forse chissà se l'avessi scoraggiata… Comunque Paola ha accettato quel lavoro e lo ha fatto al meglio, e lo dico anche perché tutte le persone poi mi riferivano di come Paola lavorava e di quanto era apprezzata all'interno dell'organizzazione. Aveva lavorato umanizzando il conflitto che poi è la stessa cosa che nel mio piccolo io tento di fare in Italia, perché vedete, paradossalmente è più difficile umanizzare la guerra in Kosovo o in un'altra parte, in Afghanistan, lontano, che umanizzare una situazione che invece ci tocca in casa, quando la politica poi gioca un ruolo pesantissimo. Quindi lei questo faceva ed era ciò che ci accomunava, cioè vedere quello sguardo di cui si diceva prima, vederlo sempre, vederlo comunque e tentare di restituirlo al pubblico attraverso la stampa. Per arrivare al pubblico bisognava riuscire ad avere degli alleati all'interno delle redazioni, quegli alleati che hanno il tuo stesso sguardo, che vuol dire mettersi nei panni dell'altro e che si chiedono "e se toccasse a me?". Stando sempre dalla parte dell'altro così tu puoi vedere l'anima, mentre il cinismo io credo che sia lo stato d'animo che t'impedisce di vedere lo sguardo dell'altro, come appunto Kapuściński diceva " il cinismo è una grande malattia che non ti permette di fare il mestiere di giornalista ". In questo senso penso che abbiamo in comune qualcosa, questo modo di tentare di fare informazione, di comunicare cioè passando attraverso lo sguardo e l'umanizzazione o del conflitto o comunque della tensione sociale e cercando di mostrare l'altra faccia: così come la guerra non è solamente lo spiegamento di mezzi e di forza, l'immigrazione non è solo criminalità. Io oggi la battaglia la porto avanti qui, in quegli anni la portavo avanti altrove, ma non è cambiato il mio ruolo, è cambiata la situazione perché all'epoca l'emergenza era lontana. Io ho passato tanto tempo in Kosovo, in Sudan, nelle Repubbliche Centro Asiatiche, in Afghanistan dalla guerra dei mujaheddin a quella dei talebani, però a un certo punto l'emergenza ha bussato alle porte del Mediterraneo. Non era però emergenza perché arrivavano a casa nostra degli immigrati bensì perché morivano in mare. Emergenza sbarchi, emergenza clandestini, Lampedusa presa d'assalto… no! No! No! È emergenza morti nel Mediterraneo, è emergenza la guerra non dichiarata, è l'ultimo baluardo tra l'uomo e il mare. Questa guerra non dichiarata però non fa notizia o se la fa è solamente perché ci si sente assediati. È lo sguardo di chi vede il nuovo e si chiede chi siano, se sono una minaccia… Ma vi rendete conto il paradosso: la vittima che chiede protezione rischiando la vita, nell'immaginario collettivo diventa minaccia alla sicurezza nazionale e questo perché il linguaggio utilizzato è un linguaggio da guerra, da conflitto.

Maria Nadotti

Mettersi nei panni dell'altro , è già tanto difficile mettersi nei propri panni, figuriamoci in quelli dell'altro. Sono molto seria, non è un paradosso. Io credo che il problema inizi tra sé e sé, cioè non è così facile essere nei propri panni, ne abbiamo tanti, quindi quando uno dice mettersi nei panni dell'altro, l'altro chi? Stiamo nei nostri, cominciando a capire quali sono i nostri, forse solo a quel punto possiamo immaginare che anche gli altri hanno i propri panni. Cominciamo ad avere un soggetto che ha i suoi panni qui, è un soggetto forse che ha dei panni più stracciati, non lo so; ti prego di farlo perché so che ti sei posta, ti devi essere posta il problema, di cosa voglia dire nel tuo ruolo, portavoce di un organismo internazionale, Nazioni Unite, che si occupa in particolare di richiedenti asilo, di rifugiati di vario tipo. Dicevi appunto che il mondo è cambiato nel frattempo da quando lavoravi nel programma alimentare mondiale, metà degli anni '90 diciamo, ad oggi; il mondo è cambiato tantissimo, non solo perché c'è stato l'11 settembre, è cambiata proprio l'economia dei rapporti, la geografia economica, anche culturale del mondo, si sono create delle situazioni che prima non c'erano. Allora dato che questo scenario si è modificato, come si fa? E concretamente come lo fa soprattutto un funzionario di un organismo, cioè non un libero cittadino? Un funzionario di un'istituzione di questo genere, come fa a mettersi nei panni dell'altro? E vorrei che veramente questa frase finalmente avesse sostanza sennò è retorica.

Laura Boldrini

Intanto come per tutti i mestieri ognuno lo fa così come se lo sente. Io questo mestiere lo faccio in questo modo, cioè cercando di capire la condizione di chi arriva in questo caso sulle coste italiane dopo aver rischiato la vita prima nel deserto e poi in mare. Io mi metto nei panni di quella donna che per arrivare ad avere un minimo di rispetto e di sicurezza, ha dovuto subire le peggiori violenze. Mi metto nei panni di quella donna che ha dovuto magari essere umiliata, essere abusata lungo la strada e capisco il suo dolore. E allora capisco che questa situazione però noi dobbiamo renderla nota, perché le persone in Italia, come in altri paesi, la ignorano, perché non si sa, non si dà voce a questo. Quindi io lo faccio così questo mestiere, ma si può fare in tanti altri modi. Il mio è un modo che tende appunto a dare voce a queste situazioni, però potrei magari essere molto più diplomatica, molto meno diretta, potrei evitare di mettere il dito nella piaga; penso però che in quel modo non farei bene il mio lavoro. Ritengo comunque che anche un'istituzione delle Nazioni Unite ha il dovere di alzare la voce e siccome io faccio il portavoce ritengo che sia mio dovere farlo, se io non lo facessi avrei la vita più facile ma non farei bene il mio lavoro. Se c'è una situazione come si accennava prima in cui queste persone richiedenti diritto di asilo, non hanno più la possibilità di accedere alla protezione perché vengono respinte, vengono rimandate indietro, allora cosa facciamo? Non ci mettiamo nei panni di quelle persone in mare che vengono rimandate indietro? Oppure facciamo capire che questo è qualcosa che non è tollerabile né dal punto di vista del diritto, né dal punto di vista umano. Io ritengo che mettersi nei panni degli altri significa assumersi le responsabilità, non ignorare la realtà e non aver paura. Assumersi le responsabilità vuol dire appunto fare in modo che queste realtà vengano conosciute con tutto quello che ne consegue, poi dopo certo ci sono esponenti di governo che dicono che l'Unhcr non deve interferire nella politica di governo… L'Unhcr non vuole interferire con la politica di governo, fintanto però che certe misure non vanno a discapito del diritto di asilo, dei richiedenti asilo e dei rifugiati. A quel punto l'Unhcr ha il dovere di dire qualcosa, perché se non lo fa, magari ha la vita più facile, ma non rispetta il proprio mandato. Quindi il problema è che oggi questo ambito dei richiedenti asilo e dei rifugiati, s'inserisce in una situazione di politica interna molto incandescente e quindi chi difende i diritti di queste persone si trova a doversi relazionare con questo e a volte non è facile, anche perché si polarizza tutto, si estremizza tutto, come dire, non c'è più neanche molto margine. Quando si dice che è giusto fare respingimento, perché non c'è niente di contrario e che l'Italia sta nelle regole nel fare questo, evidentemente si altera lo stato delle cose, perché l'ordinamento giuridico italiano sostiene si che c'è l'istituto del respingimento, lo sappiamo bene, il Testo Unico dell'Immigrazione lo prevede, ma prevede delle garanzie, cioè che le persone devono essere prima identificate, gli deve essere dato un decreto di respingimento che può essere anche impugnato. Questo è lo stato di diritto, cioè avere le garanzie. Se in mezzo al mare rimandi tutti indietro, non saprai mai chi hai rimandato indietro, non avrai applicato quelle norme e quelle garanzie, per non parlare della convenzione di Ginevra del '51, che all'art. 33 stabilisce il principio del non respingimento di persone che sono in pericolo di vita e delle proprie libertà, che sono quindi in una situazione per cui non possono essere rimandate indietro. Allora quando si altera tutto questo è chiaro che mettersi nei panni dell'altro, cioè di quello respinto, finito in una prigione libica senza aver commesso nessun crimine, significa rendere noto tutto questo. Ci sono donne, uomini, bambini, che sono stati rimandati in una prigione, non hanno commesso alcun crimine, colpevoli solo di essere scappati da un bombardamento, colpevoli di essere fuggiti dalla tortura. E poi non c'è nessuna garanzia che queste persone non verranno rimandate ancora più indietro in mezzo al deserto. Si può essere d'accordo con tutto questo? Io mi sento in difficoltà quando vedo plaudire al fatto che il Centro di Lampedusa è vuoto. Ma ce le vogliamo fare le domande a che costo, a quale prezzo è vuoto? Saremmo molto felici di sapere che è vuoto perché non c'è più bisogno, ma noi sappiamo che è vuoto perché queste persone sono nei centri di detenzione. Possiamo essere d'accordo con questo?

Maria Nadotti

Insisto sulla domanda, la ripropongo in un altro modo . Se vogliamo proprio metterci nei panni degli altri, non sarebbe ora, perché sennò non si è efficaci effettivamente, di provare a mettersi nei panni di quelli che invece plaudono alla vuotità del Centro di Lampedusa? L'Italia è un paese molto particolare, è caratterizzato da due situazioni: uno, abbiamo una dirigenza politica discutibile, ma effettivamente democraticamente eletta a maggioranza; due, abbiamo un popolo che ritiene di essere felice di essersi affidato a quella dirigenza politica. C'è quindi una specie d'intesa tra la maggioranza dell'elettorato italiano e questa dirigenza che è stata espressa da questo elettorato. Insieme queste due situazioni esprimono una volontà in cui è molto difficile effettivamente identificarsi per persone come te e come noi, perlomeno credo. Eppure se vogliamo fare questo esercizio teorico del metterci nei panni degli altri, secondo me dovremmo cominciare a chiederci cosa fa si che nella maggioranza dei cittadini, spesso dei cittadini ancora non cittadini perché questo problema esiste anche tra aree di vecchia migrazione, abbia avuto il sopravvento una cosa che io considero di poter definire come un'ansia sociale forte. E' una paura sociale forte che fa credere che tenendo fuori tutto quello che non è già qui, si starebbe meglio. Io credo che per fare buona informazione agli informatori, non si possa saltare questo passo.

Laura Boldrini

No infatti è così, gli italiani hanno ragione ad aver paura, anch'io avrei paura se non avessi la possibilità di leggere le cose in un modo diverso perché faccio questo mestiere, se mi limitassi a vedere i talk show di prima serata. Come potrei non aver paura di questa situazione in cui gli immigrati sono comunque persone che minacciano la nostra sicurezza, che sono sempre sempre di criminalità, come potrei non aver paura? Bisogna mettersi dalla parte della signora che sta a casa e vede la tv, magari una signora anche di una certa età che giustamente si sente più minacciata. Io la capisco profondamente, non la condanno e non la giudico, la capisco e infatti il problema è più complesso, ci riporta al motivo per cui siamo qui. Perché quella signora ha paura e ha ragione di aver paura? Perché per almeno 10-12 anni, ogni sera, lei ha visto in tv dei dibattiti sull'immigrazione e sulla sicurezza, sulla sicurezza e sull'immigrazione. La signora non ha mai potuto vedere una trasmissione sull'immigrazione che non coniugasse la parola sicurezza, mai! Non ha mai potuto vedere una trasmissione che parlasse d'immigrazione come di un fenomeno sociale che sta cambiando la nostra comunità italiana, come un fenomeno culturale che ci sta arricchendo, come un fenomeno economico che sta portando dei vantaggi non indifferenti, non da ultimo anche per le pensioni, magari quella stessa che la signora percepisce. Questo no, non ce l'hanno propinato e la signora ha ragione ad aver paura. Ora se il dibattito pubblico si incardina su questa equazione, immigrazione = minaccia alla sicurezza, allora come fanno gli italiani a non aver paura? Io credo che è importante avere lo sguardo diverso, non appiattirsi sulle equazioni che funzionano, non accettare sempre unicamente questa lettura dei fatti che, come diceva Dario Biocca, sono troppo orientati da alcuni giornalisti.

Io ritengo che per quello che ci riguarda, noi cerchiamo sempre di fare anche un lavoro di sensibilizzazione, andare incontro alle persone, le tante persone per bene che in questo paese sono molto confuse perché quello che vedono e sentono fa loro paura , ma poi di fatto hanno la badante a casa che è tanto brava e con la quale hanno un ottimo rapporto. Si crea una dissociazione. Quello che voglio dire è che tanta gente comune nella vita di tutti i giorni ha rapporti con gli immigrati e fa di per sé già un lavoro d'integrazione anche in modo inconsapevole, poi c'è l'immigrazione in tv che è un'altra storia; i politici e alcuni giornalisti ci raccontano un altro film, ma gli italiani per fortuna sono andati avanti da soli e hanno conquistato molta più comprensione di questo fenomeno rispetto a quella che gli è stata propinata dai mezzi d'informazione e dai politici. E' per questo che con la Federazione Nazionale della Stampa e con l'ordine dei giornalisti, abbiamo tentato di unire le forze e mettere insieme la Carta di Roma. La Carta di Roma è un esercizio che abbiamo voluto fare per facilitare i giornalisti ad occuparsi di queste materie in maniera un po' più mirata, con degli strumenti aggiuntivi, dicendo che si può intervistare un rifugiato senza esporlo o esporre i familiari a delle ritorsioni, cioè senza far vedere il volto, mettendo in atto delle accortezze. L'altro giorno la questura di Ragusa ha mandato in giro a tutta la stampa perlomeno locale, fotografie e generalità complete di 6 eritrei che nel centro di Pozzallo, secondo la ricostruzione della polizia, avevano tentato di scappare via e per resistenza a pubblico ufficiale sono stati arrestati. Le loro foto, nome e cognome, sono state diramate a tutte le agenzie di stampa, i quotidiani e le tv locali. Molti eritrei sono persone a rischio, perché sono disertori, sapete infatti che in Eritrea il servizio militare è obbligatorio per uomini e donne, senza scadenza, sine die, allora alcuni si ribellano a questo e scappano via; purtroppo però quando loro fuggono, le famiglie devono fare i conti con il regime e se poi vengono pubblicate in Italia fotografie con le generalità di queste persone, abbiamo già visto che ci sono state poi ripercussioni sulle famiglie. Quando ho saputo ciò ho chiamato l'Ansa infuriata e il capo redattore dell'Ansa a Palermo mi ha detto: scusa ma che vuoi da me? Ma prenditela con la questura di Ragusa che manda in giro il comunicato con tutte le fotografie… Io ero incredula. Questo significa che magari alcuni giornalisti in totale buona fede pubblicano quelle foto perché non fanno il collegamento, per questo che noi abbiamo voluto fare la Carta di Roma, per dare invece anche questa lettura delle cose, uno sguardo diverso dalla parte dei rifugiati, dalla parte delle vittime di tratta, dalla parte degli immigrati. In questo senso la Carta di Roma è uno strumento per fare un po' di più e con più attenzione…

Maria Nadotti

La Carta di Roma non è detto però che tutti la conoscano: c'è anche un ragionamento puntuale sul lessico?

Laura Boldrini

Si, assolutamente si, c'è un glossario alla fine della Carta di Roma, perché il lessico è fondamentale, la terminologia è importantissima. Nel momento in cui tutti vengono messi in questo calderone della clandestinità, noi facciamo una cosa altamente ingiusta, non possiamo pensare che siccome sono irregolari sono tutti clandestini. Il rifugiato, il richiedente asilo non ha il privilegio di avere i documenti. Se voi scappate da un regime dove siete perseguitati o da un bombardamento, è ovvio che non potete avere a disposizione i documenti ed è ovvio che dovete arrivare irregolarmente, però questo poi non dovrebbe portare alle esemplificazioni che quindi sono clandestini. Peraltro non sono clandestini perché sono visibili, si vogliono far vedere, chiamano la guardia costiera, vogliono anzi che si sappia che stanno arrivando, spesso chiedono soccorso. Mettere quindi tutti in questo calderone della clandestinità è qualcosa che non solo non è corretto dal punto di vista della definizione, ma è anche altamente ingiusto. Definirli clandestini e già un'accezione negativa mentre non c'è nulla di negativo se io non ho i documenti per l'espatrio perché sono l'oppositore di un regime, perché non è automatico nell'80% dei paesi al mondo avere i documenti dell'espatrio. Perché non ci mettiamo nelle condizioni dell'altro? E' molto facile etichettare tutti come clandestini.

Maria Nadotti

Una domanda che sembra essere leggermente fuori dal nostro tema, in particolare rispetto al tuo ruolo. Questa è un po' una modalità di lavoro del giornalismo italiota, la parte per il tutto. Un esempio recentissimo che se non fosse tragico sarebbe veramente esilarante: avete notato che attorno a questa storia del povero Marrazzo tutti i transessuali d'Italia, tutti i travestiti d'Italia, tutti gli omosessuali maschi d'Italia, perchè il giornalista medio italiano non fa differenza fra queste tre categorie, sono diventati viados, cioè prostituti? È una cosa interessantissima nel senso che certamente esistono anche i transessuali che di mestiere fanno questo, ma non tutti. Quindi non mi stupisce affatto che tutti quelli che arrivano senza documenti diventino dei pericolosi clandestini.

Laura Boldrini

La cosa più paradossale è che spesso sono vittime che diventano minaccia…

Maria Nadotti

Questo però è il gioco delle tre carte molto praticato nel mondo. Le vittime vere, quelli che dovrebbero avere paura nelle città italiane sono soprattutto loro e invece ci fanno paura. Come succede, come avviene questo ribaltamento dei termini? Non sono cose naturali, perché c'è tutta una naturalizzazione di questi fenomeni, ma non sono fenomeni naturali, sono fabbricati e come tutte le cose fabbricate possono essere de-fabbricate. Le cose costruite come le case mattone su mattone, possono essere distrutte, quindi la domanda: è come si fa. Ti pregherei di essere molto, come dire, terra terra nel descriverci almeno un'operazione, vorrei capire poi come questi programmi calano, se per esempio c'è un lavoro metodico. Non dico di fare come la comunità ebraica italiana che ha un sito, per me spazzatura, "informazione corretta", dove ogni giorno riescono a segnalare tutto ciò che è uscito sulla stampa italiana ma che a loro non è piaciuta, sono capillarmente presenti e denunciano. Non dico di prendere esempio da loro perché fanno un lavoro un po' pazzo, ma mi chiedo se non ci sia modo di monitorare e di, appunto, decostruire queste cose.

Laura Boldrini

Si ma è molto difficile perché noi stiamo partendo dal pensiero unico dominante in questo paese per cui gli immigrati sono tutti delle potenziali minacce alla sicurezza.

Maria Nadotti

Si, ma chi l'ha costruito questo pensiero unico?

Laura Boldrini

Anni e anni e anni in cui questa equazione è stata riproposta costantemente senza che nessuno ponesse argine, senza che nessuno rilanciasse un'immagine diversa.

Maria Nadotti

Ma non è vero perché per esempio un'esperienza come questa…

Laura Boldrini

Ci siamo ma le persone che sono qui oggi che lavorano nelle testate, sicuramente avranno i loro problemi poi quando vanno a proporre certi servizi con certi pezzi, con certi tagli e comunque sia le linee editoriali sono altro. Io conosco gran parte di chi sta qui, so che ognuno di loro è impegnato, che ce la mette tutta, ma so pure che reazione avranno dal loro capo quando gli vanno a proporre certe cose.

Maria Nadotti

Non è così semplice . Stamattina noi abbiamo sentito dire da uno di voi, io non ho reagito perchè mi disciplino, che chiamava i migranti poveretti , insomma a me il poveretto mi sta proprio sullo stesso piano del clandestino dal punto di vista dell'immagine rispetto all'immaginario collettivo, perché il poveretto è la versione simpatizzante, umanizzante di una categoria pesante, noi la serie A e loro poveretti… aiutiamoli. Allora forse io preferisco quelli che dicono "noi siamo la serie A e tali vogliamo rimanere e quindi questi per piacere respingiamoli, perché sono dei brutti clandestini…".

Laura Boldrini

Penso che perlomeno quello che io faccio e tento di fare costantemente è usare i numeri che da soli sono già eloquenti. Rispetto ai respingimenti, non mi stancherò mai di ripeterlo continuamente, i numeri parlano. Questa azione dei respingimenti che è stata comunque presentata come un modo efficacissimo di contrastare le immigrazioni irregolari, di fatto sta mettendo in serio, serissimo pericolo il diritto d'asilo; pensate ché il 75% delle persone che sono arrivate lo scorso anno via mare in Italia ha fatto domanda di asilo, e lo Stato, dopo aver ascoltato nelle dieci commissioni territoriali, ogni singola persona delle 31mila, solo al 50% di queste ha riconosciuto il diritto alla protezione. Fare respingimento non vuol dire avere la meglio sul contrasto alle immigrazioni irregolari, bensì entrare in rotta di collisione con il diritto di asilo. Questo concetto secondo me va riveduto continuamente come un life motive.

Sul versante del monitoraggio, io continuo a sottolineare la validità della Carta di Roma perché non è che nel giro di un anno se ne vedranno i risultati, ma intanto è nelle scuole di giornalismo, si comincia con la formazione anche nelle redazioni, è uno strumento ufficiale del giornalismo italiano che darà i suoi frutti. Stiamo inoltre lavorando per istituire l'associazione Carta di Roma che avrà tra i vari obiettivi quello dell'istituzione di un osservatorio che possa monitorare la stampa sugli argomenti della Carta. Sarà un monitoraggio scientifico, i cui risultati verranno resi noti con delle pubblicazioni e se ci sono poi delle lamentele e delle segnalazioni riguardo ai contenuti della carta da un singolo cittadino, o da un giornalista che ha visto un altro pezzo i cui contenuti non ottemperano i principi della Carta stessa, l'osservatorio si farà tramite per trasferire poi queste segnalazioni agli ordini regionali dei giornalisti. Tutte queste sono iniziative importanti, così come la campagna contro il razzismo dove 27 organizzazioni della società civile, cioè penso il 90% della società civile italiana, si è messa insieme, ossia tutti i sindacati Cgil, Cisl e Uil, Ugl, Amnesty, Arci e Chiese evangeliche, Caritas con Antigone: abbiamo fatto questo sforzo nel fare una campagna per dare il segnale che c'è un'emergenza in questo paese. È un altro tassello.

Ritengo che il lavoro di un'agenzia dell'Onu non può essere oggi limitato strettamente al suo mandato. Il nostro è un impegno su più piani, va dall'impegno con i media, facilitare il lavoro ai giornalisti, facilitarli suggerendo loro le storie, trovare le testimonianze, fornirgli delle cose interessanti che possano essere vendute a loro volta nella redazione. Il mio lavoro è questo, è facilitare i giornalisti nel coprire queste notizie, renderle per loro vendibili poi all'interno delle redazioni. Non dare nulla per scontato, perché ci sono giornalisti e giornalisti: ci sono giornalisti che io chiamo di frontiera, quelli che stanno sulla notizia dell'immigrazione costantemente e sono degli interlocutori dai quali io anche imparo tanto; ci sono poi giornalisti che si occupano di questo saltuariamente. Allora tu non puoi dare nulla per scontato, devi sempre comunque partire dai princìpi fondamentali per arrivare a un buon pezzo, perché è fondamentale che ci sia una buona informazione, perché se io, come dire, mi limito a darti gli ingredienti ma poi tu la torta non la sai fare, è inutile darteli quegli ingredienti. Quindi bisogna fare in modo che ci siano tutti i pezzi e che la persona poi sia in grado con le informazioni che ha, di mettere in piedi un buon pezzo, un buon servizio.

Maria Nadotti

Una domanda linguistica: come è stato possibile passare dai Cpt, Centri di permanenza temporanea ai Cpe, Centri di identificazione e espulsione? Quando il linguaggio cambia è cambiato qualcos'altro? Perché si usano delle parole di questo genere? Perché si usa tanto il respingimento e non si usa quasi più la parola accoglimento, ricevimento, comunque il contrario di respingimento? Si parla molto di impronte digitali, cosa sta succedendo dal tuo punto di vista sul piano del lessico e delle procedure simboliche?

Laura Boldrini

Di fatto sta avvenendo che c'è in qualche modo un'impostazione che tende comunque a vedere nell'immigrato una figura minacciosa, una figura che deve essere identificata e possibilmente allontanata. Il respingimento è l'emblema di questo, cioè ti respingo anche se hai diritto di arrivare, io ti respingo, non voglio che tu possa usufruire del tuo diritto; traspare un'impostazione chiara di non volersi occupare della questione. Anche nel pacchetto sicurezza ci sono delle misure che riguardano l'immigrazione, ma perché se riguardano l'immigrazione bisogna chiamarlo pacchetto sicurezza? Quello che riguarda l'immigrazione chiamatelo pacchetto immigrazione, pacchetto integrazione, se tu lo chiami pacchetto sicurezza è chiaro che poi fai scattare delle associazioni di idee. E' molto fuorviante, il linguaggio è fondamentale e spesso viene usato in modo fuorviante, per far quindi pensare a qualcosa di negativo. Per questo non mi sento assolutamente di criminalizzare gli italiani, perché tutto questo induce sempre a pensare a senso unico.

Maria Nadotti

Però sarebbe divertente provare a criminalizzare gli italiani…

Laura Boldrini

No, non credo che se lo meritino…

Maria Nadotti

Penso alla parola badante che è diventata molto comune negli ultimi 15 anni e mi chiedo che se c'è una badante ci sarà pure un badato; allora il badato di solito è o un animale, bisogna badare alle vacche, oppure si badano i bambini, quindi di solito è qualcuno che ha bisogno di qualcosa… Non è una boutade però, lo penso seriamente, quando si fa informazione su queste cose, non capisco perché non s'insista ogni tanto sull'altro lato, perché se c'è un badante che sembra sempre colei/colui che crea problemi, non si parla invece del badato: e questo forse perché il badato di solito siamo noi? Ho l'impressione che abbiamo bisogno d'inventarci degli strumenti, ma per questo dico che bisognerebbe pensare un po' di più a chi siamo noi, per questo dicevo criminalizzare gli italiani, tanto non ce lo lasciano fare di sicuro… E' difficile mettersi nei panni della badante, mentre è molto facile immaginarsi tra qualche decennio vecchi con necessità di essere badati. Provare allora ad essere meno buoni forse e magari più dispettosi?

Laura Boldrini

No, non si tratta di essere buoni o di essere cattivi, io non liquiderei la politica migratoria di un paese incitando la cattiveria, penso che è molto più complicato, bisogna innanzi tutto capire che la società cambia, che nel mondo globalizzato ci si mischia, ci siamo mischiati anche secoli fa, quindi tutto questo è normale, è assolutamente fisiologico. Non capisco perché oggi tutto questo venga presentato come una minaccia alla nostra identità, alla nostra religione, alla nostra esistenza. Bisognerebbe contrastare tale visione, metterla in un'ottica anche storica di un'evoluzione naturale, vedere altri paesi che già lo fanno, basta andare in metropolitana in Inghilterra a Londra per vedere che tutto questo già esiste, e nessuno ha subìto, come dire, una perdita identitaria.

L'altRa cosa che ritengo sia molto triste è che si tende ad usare la religione come fenomeno identitario. Ultimo esempio questo White Christmas, cioè il Natale, la religione come un momento per poi mettere in atto dei passaggi assolutamente discutibili dal punto di vista del rispetto dei diritti; è tutto un sistema oggi che non pone il diritto dell'altro al centro, ed è come se noi facendo così pensiamo che più i nostri diritti si affermano, più siamo sicuri, invece più i nostri diritti non si affermano di pari passo con i diritti degli altri, meno sicuri saremo tutti.

Giorgio Contessi

Il primo fronte è quello della Libia, questo sconosciuto mondo che ci è stato raccontato in questo radio documentario o audio documentario che dir si voglia, che ha mandato in onda anche Radio3 ; ci può aiutare ad essere informati su questo benedetto territorio sconosciuto che è la Libia e per far capire anche quanto i respingimenti siano deleteri. Mi riallaccio alle crisi dimenticate di cui si è affrontato il discorso oggi e non raccontare un territorio come quello dell'Eritrea, dell'Etiopia e la Somalia, che sono e rappresentano il Corno d'Africa contraddistinti da malnutrizioni, conflitti, ecc., vuol dire anche creare questo vuoto informativo. Io parlo come ufficio stampa di Medici Senza Frontiere, abbiamo raccolto il 33% delle persone sbarcate a Lampedusa, erano persone che venivano da quella realtà. Il cittadino che viene informato su Eritrea, Somalia, Etiopia non conosce i paesi, i luoghi di partenza e guarda solo il luogo di arrivo che era Lampedusa fino a pochi giorni fa. Altro problema è quello geografico: Tg1 delle 20 di un mese e mezzo fa, dà la notizia che scoppiano subbugli in Guinea, collegamenti con operatori umanitari in Guinea, e sapete come parte il servizio del Tg1? Con una cartina della Nuova Guinea, c'è quindi anche un vuoto geografico da colmare…

Laura Boldrini

Io in Libia non ci sono mai stata, però penso di sapere abbastanza di questo paese perché ho passato tanti mesi a Lampedusa . Se un giornalista oggi vuole sapere quello che succede in Libia sicuramente sarebbe bene che andasse sul posto, ma ci sono obiettive difficoltà per andare lì, non possiamo neanche sottovalutarlo, prima tra tutte il visto. Sarebbe necessario sapere di più sulla Libia, sul trattamento che i migranti richiedenti asilo subiscono in quel paese, e tanti sarebbero i posti dove raccogliere queste informazioni e storie come ad esempio nelle scuole dove si insegna italiano agli stranieri, nei centri di accoglienza... Questo è un ambito in cui, anche se in seconda battuta, comunque si potrebbe fare molta più informazione, ma anche qui vedo che non c'è molto spazio.

Riguardo ai paesi di origine: io organizzavo spesso, come sai, dei viaggi di giornalisti italiani nelle crisi magari un po' dimenticate . Per anni questa cosa è andata molto bene fino a quando però siamo arrivati al punto che non c'era più interesse per niente, io non so più cosa proporre. L'ultimo viaggio l'ho fatto con 15 giornalisti italiani in Yemen dove per altro adesso c'è una guerra completamente oscurata in Italia. Io ho cercato, anche questo è il mio lavoro, d'impacchettare, infiocchettare la cosa, sbarchi a Lampedusa, somali che arrivano a Lampedusa ma arrivano anche in Yemen, insomma offrire una chiave di lettura che potesse essere spendibile e abbiamo fatto questo viaggio, ma non ha trovato seguito. Il problema è anche di chi paga i viaggi ai giornalisti e di chi compra poi il servizio. Noi non l'abbiamo mai fatto e siamo contrari a fare questo, facilitiamo la logistica nel paese, organizziamo magari gli incontri con i Ministri, con i guerriglieri se c'è la guerriglia, ma non ci mettiamo a pagare. Allora di fronte al fatto che tu non paghi il viaggio e la testata non è disposta a investire, alla fine i giornalisti vanno solo quando il ministro va fuori, perché col volo di stato non si spende… Allora come facciamo a fare informazione? Io non lo so più ragazzi, non so più come o cosa offrire, perché nel momento in cui accettiamo l'idea di pagare il viaggio, ed io non posso accettare questa dimensione, d'altro canto però non riesci più a mettere insieme un gruppo per andare a coprire una delle tantissime emergenze che abbiamo. Quindi anche in questo caso non si fa informazione sui paesi di origine, invece servirebbe per far capire alla gente che se poi i somali arrivano a Lampedusa e così gli Eritrei, c'è un buon motivo. Lo sappiamo bene che è l'unica cosa che funziona, ma se poi non abbiamo la disponibilità ad avere attenzione su questo, alla fine tutto ciò viene meno.

Rosita Ferrato - Redattore Sociale

Io parto dalla situazione di Torino che conosco, dei rifugiati nell'ex clinica San Paolo che molto spesso sono abbandonati a loro stessi. Io so che ci sono dei progetti da parte di alcuni enti, però si parla sempre di numeri abbastanza piccoli; può dirmi qual è secondo lei la soluzione a questo problema?

Laura Boldrini

Grazie per questa domanda. I rifugiati non sono delle persone che vogliono vivere di assistenza, non ricevono la casa e non hanno neanche un lavoro garantito , questo deve essere subito chiarito, perché troppe volte sento dire: abbiamo tanti disoccupati e invece i rifugiati trovano lavoro… Oppure: ci sono le case popolari, siamo in lista di attesa, gli stranieri arrivano prima... Per quanto riguarda i rifugiati che hanno gli stessi diritti dei cittadini, questo non accade, non c'è la corsia preferenziale, non c'è. Se l'Italia non fa un investimento adeguato in termini d'integrazione, non riuscirà neanche a sfruttare il potenziale di queste persone, perché se è vero che non vogliono vivere di assistenzialismo, ed è vero questo, è anche vero che all'inizio tu li devi accompagnare in un percorso di autonomia, anche qui mettiamoci nei panni dell'altro. Se noi dovessimo andare a finire a vivere non so, in Giappone o in Burkina Faso, o in qualsiasi altro posto del mondo senza sapere la lingua, conoscere il sistema paese, dall'oggi al domani, catapultati in una realtà totalmente diversa, come faremmo… Alla clinica San Paolo dove io sono stata, ho incontrato veramente tanti giovani in gamba, volenterosi, che volevano fare, ma come si fa a non sfruttare queste energie, la meglio gioventù che tenta di farcela e che noi non riusciamo a valorizzare… Queste persone hanno una grande carica molto più dei nostri giovani, molto più dei nostri giovani hanno fatto una scommessa con la vita, perché hanno pure rischiato di non farcela. Allora perché non capire che questo è un potenziale straordinario? Non vogliono essere assistiti a vita, vogliono solo cercare di essere indipendenti e autonomi, ma per fare questo c'è bisogno di un piccolo investimento e invece i fondi destinati ai comuni per l'integrazione sono sempre di meno e con la finanziaria approvata per il prossimo anno, saranno ancora di meno. Purtroppo io temo che in futuro noi avremo ancora più difficoltà e ancora più questo esacerberà la situazione nei comuni, perché poi la gente quando vede che i rifugiati vivono nelle case occupate, nelle cliniche in disuso, reagisce creando tensione; ma quei rifugiati lì non vorrebbero stare a dormire in un posto fetido come la clinica San Paolo, vorrebbero lavorare, pagare le tasse e avere un posto dignitoso dove dormire. Ma se non li aiutiamo a fare questo temo che il futuro sarà uguale….

Gabriele Del Grande

Le domande in realtà sarebbero tante da fare però insomma cerchiamo di essere brevi. Con Laura appunto ci conosciamo perché telefonicamente ci sentiamo spesse e devo dire che a maggio quando iniziarono i respingimenti rimasi anche stupito, lo dico sinceramente, dalle critiche che venivano appunto esternate dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite in Italia e che poi sono costati anche attacchi personali da parte di alcuni politici esponenti di governo. Rimasi stupito perché fino a maggio di quest'anno, fin quando insomma i respingimenti poi ebbero effettivamente inizio, non c'era stata da parte dell'Onu questa grande informazione su quello che succede in Libia, ma forse può anche stare nello schema delle cose. Io volevo fare a Laura una domanda tecnica su questo, su come funzionano, su quali sono le direttive alle quali devono rispondere in questo caso i portavoce dell'Alto Commissariato dei Rifugiati, l'UNHCR che è anche a Tripoli ed io personalmente dall'alto commissariato di Tripoli mi sono visto chiudere le porte in faccia e non soltanto quando sono stato lì, anche in altri momenti, sia prima che dopo, telefonicamente, per e-mail… Sappiamo tutti che in Libia non c'è nessuna libertà d'informazione, però volevo capire se all'interno dell'Onu, che non è un'associazione di quartiere, ci sono delle direttive, cioè se c'è una direttiva che va nel senso di denunciare quello che succede in questi paesi. Ad esempio tu stessa hai accennato prima delle violenze che subiscono le donne, le torture, gli anni che si passano a marcire in quelle carceri…; ci sono delle direttive per cui si deve comunque parlare e denunciare, o se invece vale un principio di ragione pratica?

La seconda domanda invece ci porta un po' più in là perché non mi sento da giornalista di scaricare tutta la responsabilità sull'Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Ok, possiamo ragionare e fare autocritica, voi autocritica, noi critica sull'Onu, sulla totale impotenza dell'Onu, su certe situazioni del diritto internazionale, perché qui appunto è stato scritto sulle prime pagine che si stanno violando delle convenzioni e delle leggi nazionali, eppure non cambia niente; anche Gutierrez, l'Alto Commissario, ha espresso critiche sui respingimenti, eppure non cambia niente, ma andiamo avanti. Siamo giornalisti e veniamo appunto ai giornalisti: sono i giornalisti che dovrebbero scrivere i giornali, non i portavoce delle Nazioni Unite. Io di queste cose me ne occupo da qualche anno, appunto non c'è bisogno di andare in Libia, come è stato detto, per sapere quello che succede in quel paese, basta farsi due chiacchiere anche a Roma sotto casa con qualche persona, ce ne sono decine di migliaia di persone nel nostro paese che sono arrivati via mare, e attraverso le quali ricostruire pezzetto per pezzetto quello che succede là. La domanda quindi parte proprio da quello che succede in questi giorni: la settimana scorsa c'è stato un respingimento che è stato definito proprio da Laura un inseguimento, più che respingimento, nel senso che una barca che era a 120 miglia dalla Libia e a 60 miglia da Lampedusa, è stata raggiunta da una motovedetta libica che è partita appositamente da Tripoli mentre per 24 ore un aereo italiano monitorava la posizione del gommone senza prestare soccorso; sono venuti a prendere queste persone e se le sono riportate indietro. Ora è una cosa abbastanza grave questa eppure non ha trovato una grande eco sulla stampa, diciamo che a parte qualche trafiletto non se l'è filata nessuno. La domanda la rivolgo a te, ma la rivolgo in qualche modo anche ai giornalisti: a cosa è dovuto questo silenzio sui respingimenti? C'è assuefazione o semplicemente è finita la benzina? Non si può più soffiare sul fuoco, non ci sono più polemiche, polveroni da buttare in prima pagina perché appunto l'alto commissariato è stato già accusato più e più volte, quindi la polemica già l'abbiamo fatta, non c'è un'opposizione su questi temi, comunque tutti son d'accordo, perché i sondaggi dicono che gli italiani sono d'accordo.

Queste due questioni quindi: il silenzio dell'Onu in Libia e il silenzio dei giornalisti sui respingimenti.

Laura Boldrini

Io devo ricordare che l'Alto Commissariato lavora in 160 paesi e quindi in ogni situazione deve adattarsi anche alla realtà del paese ; è chiaro che quello che noi facciamo in Italia non è lo stesso di quello che facciamo in Afghanistan o ad Oslo. Ci sono paesi in cui certe cose non si possono fare e altre si. Noi in Libia non siamo riconosciuti neanche formalmente dalle autorità libiche, cioè siamo lì come un ufficio di collegamento, non è riconosciuta neanche l'esistenza della nostra presenza a livello formale. Abbiamo grosse difficoltà ad andare, i visti ci vengono dati sempre con molta parsimonia, non abbiamo accesso a tutti i centri di detenzione, solo ad alcuni e poi appunto in un modo altalenante. In poche parole non abbiamo una capacità d'incidere tale che ci possa permettere di dire che noi facciamo la differenza in quel paese. Allora io credo che questo tu lo debba prendere in considerazione come un modo molto onesto di dire le cose come stanno, cioè non pretendiamo di fare qualcosa che non facciamo; quindi nell'ottica che non siamo in una posizione di poter espletare il nostro mandato al meglio così come dovremmo, tu devi anche cercare di capire che in quel momento è possibile che avvenga quello che tu hai sperimentato, perché non siamo in condizione di poter fare di più e c'è sempre quella minaccia che da un giorno all'altro diventi una persona non grata e vieni cacciato. Allora tu puoi dire è meglio essere cacciati e questo è un dilemma perché in certi paesi vale più invece la politica dei piccoli passi. Intanto potevamo avere accesso a due centri, poi a quattro, poi otto, adesso a dieci, in un certo modo stiamo lentamente, forse, avendo un po' più di margine. Quando noi in Italia facciamo delle dichiarazioni vengono immediatamente, come dire, evidenziate dall'ambasciata libica, quindi non è che per questo noi non parliamo più, ma c'è un momento in cui in un certo posto è meglio parlare, in un altro è meglio di no. Il nostro obiettivo non è stare necessariamente sui giornali, è portare a casa migliori condizioni per i rifugiati e se questo in alcuni contesti significa non parlare, non parliamo. Ora non ti dico che le condizioni in Libia oggi siano migliori di quelle di sei mesi fa, forse no, forse qualcosina invece l'abbiamo portata a casa, piccole cose ma in certi contesti è questo che funziona.

L'ultimo respingimento è stato grave ed è stato assolutamente ignorato perché forse non è stato presentato al meglio, forse anch'io non sono riuscita a comunicarlo al meglio , ma quello che è successo è che per la prima volta e uso il condizionale perché non ci sarà mai conferma, oramai non abbiamo le conferme, sembrerebbe che l'imbarcazione con un'ottantina di persone a bordo di cui noi avevamo avuto una segnalazione da alcuni parenti, si trovava in acque di competenza e di soccorso maltese a 50 miglia a sud di Lampedusa. Ora sembrerebbe che invece di fare come al solito si fa in questi casi di respingimento quando appunto va l'unità italiana, mette a bordo le persone e le porta direttamente a Tripoli o comunque c'è diciamo una consegna più a ridosso delle coste libiche, questa volta invece nessuno si è sporcato le mani: sembrerebbe cioè, ed uso ancora il condizionale, che le unità libiche siano entrate in acque maltesi e abbiano direttamente preso i naufraghi, riducendo ancora di più se possibile, il margine di protezione di queste persone. Perché nessuna associazione ha rilanciato ciò? Perché non c'è stato nessun politico che l'ha considerata? Perché non è stato fatto nessun dibattito? La risposta è perché nessuno ha considerato questa una notizia, siamo stati gli unici purtroppo a commentare quanto stava accadendo. E' chiaro che, se non c'è un minimo d'interessamento della società civile, se non c'è un minimo di reazione da parte di altri, diventa difficile poi che con i condizionali del caso si riesca a fare una notizia che possa uscire sui giornali. Forse c'è bisogno anche da parte delle associazioni di un po' più di capacità di reazione in tempo utile.

* Testo non rivisto dagli autori.