XVI Redattore Sociale 27-29 novembre 2009

Disorientati

Immigrazione: respingere/convivere

Sintesi del workshop: interventi di Corrado Giustiniani e Marco Carsetti

 
Durata: 24' 10''
 
 
 
 
Corrado GIUSTINIANI

Corrado GIUSTINIANI

Giornalista del Messaggero.

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

Marco CARSETTI

Marco CARSETTI

Fondatore dell'associazione Asinitas di Roma, dove coordina le attività socio-educative con i richiedenti asilo e rifugiati. Redattore de Lo straniero.

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

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LEGGI IL TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Corrado Giustiniani

Respingere e convivere la dicotomia del titolo alla quale si possono aggiungere almeno altri otto sotto binomi dicotonici : Clandestini-Regolari, Criminali-Persone per bene, Ladri di posti di lavoro-Persone indispensabili alla nostra economia e alle nostre famiglie, Lavoratori ospiti-Persone che mettono radici, Ladri di welfare-Sottoutilizzatori di welfare, Guastatori della nostra scuola-Portatori di una ricchezza per così dire a colori, Negare loro il voto alle elezioni amministrative-Ammetterli al voto amministrativo, Alzare le barriere alla cittadinanza-Abbassarle.

Ho individuate queste non in ordine gerarchico ma così come mi son venute, ognuna di queste ha poi delle sotto antinomie.

L'accusa di ladri di welfare, perché risuona decine, forse centinaia di volte nel mio Blog "I nuovi italiani" in www.messaggero.it, non è un blog enorme come quello di Beppe Grillo, però è una base diciamo di ascolto molto interessante di un pezzo di società italiana, nato il 15 novembre di due anni fa e che ha già avuto 600mila visite, quindi circa 300mila l'anno e 24-25mila al mese. Il tema ricorrente è che gli stranieri vengano a rubarci i posti in ospedale, le pensioni… Secondo i dati della Banca d'Italia, come dichiarato dal governatore Mario Draghi nel maggio scorso, nel 2006 quando gli immigrati erano ufficialmente il 5% della popolazione, in termini di welfare, istruzione, sanità, pensioni, sostegno del reddito, cassa integrazione, ecc., a questi andava solo il 2,5% del reddito, quindi la metà rispetto alla loro consistenza percentuale; inoltre sempre Draghi ha detto che gli immigrati nel 2006 tra contributi e tasse hanno pagato 20 miliardi di euro.

La scuola: è appena uscito questa settimana il libro "Una classe a colori" di Vinicio Ongini e Claudia Nosenghi che secondo me è utile ovviamente per maestri e insegnanti, ma anche per i giornalisti. Vinicio Ongini è un ex maestro che attualmente lavora al Ministero della Pubblica Istruzione. Di questo libro vorrei leggere soltanto mezza paginetta di introduzione: "Un giorno in una classe di una scuola elementare di Torino il direttore si presenta all'improvviso con un nuovo iscritto, un ragazzo spaurito di viso bruno coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte raggiunte sulla fronte e vestito di scuro, una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Chi sarà? Un ragazzo albanese? Tunisino? Peruviano? Quando il direttore se ne va il maestro si rivolge alla classe: voi dovete essere contenti oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria a più di 500 miglia da qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto da lontano, in maniera che non si accorga di esser lontano dalla città dove è nato. Fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola metta piede, trova dei fratelli. Detto questo il maestro si alza ad indicare sulla carta geografica d'Italia il punto dove si trova Reggio di Calabria. Siamo in una classe a colori dell'anno 1881-82, in un'Italia unita che ha da poco compiuto 20 anni. Un giovane paese multiculturale quindi segnato da profonde differenze sociali, culturali, geografiche e linguistiche. Il maestro del libro Cuore cerca di mettere insieme i pezzi di quell'Italia, di unire le classi sociali e le diverse regioni italiane".

Ecco questo è un mixage tra De Amicis, Ongini e la sociologa Nosenghi; tutti i titoli del libro Cuore come La piccola vedetta lombarda, Sangue romagnolo, Il tamburino sardo, Dagli Appennini alle Ande, erano un tentativo di mettere insieme questa Italia così diversa. Oggi la sfida nuova è di mettere insieme tante nazionalità, è una sfida più difficile ma se ci pensiamo è ancora più appassionante.

Giancarlo Blangiardo

Io sono la voce laica dei dati statistici sull'immigrazione , nel senso che ritengo sia estremamente importante, anche per dare valore all'informazione, non giocare coi numeri, presentare quindi le cose per quello che sono anche con i numeri, poi a partire dalla conoscenza, uno si fa le proprie idee e decide da quale parte stare.

In un paese dove il welfare è, come dire, da pensione, è abbastanza evidente che una popolazione giovane non si mangia la fetta di torta relativa alla pensione, se la mangerà dopo ovviamente. E' evidente che il costo del welfare di una popolazione giovane è necessariamente più basso, quindi il confronto tutto sommato non è proprio così corretto, messo in questi termini. Molto spesso però si ricorre al dato statistico, all'informazione statistica, ai numeri, alla forza dei numeri, per poter sostenere delle tesi che sono anche valide, ma che probabilmente in quei numeri non trovano la conferma oggettiva. Allora ecco io quello che vorrei fare in questo come dire, atteggiamento laico, è quello di presentarvi dei numeri e di sfatare, se ci riesco, qualche luogo comune, dopodiché non vuol dire che le affermazioni possono non essere valide, ma comunque non è quella la via per dimostrarlo.

Qualche dato giusto per partire. I dati sull'immigrazione parlano di una popolazione di milioni di persone, di cui 4 milioni iscritte in anagrafe, quindi persone che risultano avere una localizzazione territoriale ben precisa, una dimora abituale come si dice in termine tecnico. Ci sono poi i molti regolari non residenti, pensate ai romeni che non hanno ottemperato all'obbligo d'iscriversi, sono qui da 3 mesi e nessuno ha niente da ridire. Ci sono poi gli irregolari o clandestini, vediamo come chiamarli, ma comunque un certo numero di persone che sono qui senza avere un valido titolo di soggiorno. La somma finale dell'operazione porta a 5 milioni di persone complessivamente. Quello che si vede da questi dati, giusto per introdurre l'argomento, è che sono tanti in un paese di 60 milioni di abitanti, e soprattutto sono in forte crescita.

Prima osservazione: 5 milioni di persone in forte crescita, come si reagisce? Io mi ricordo che negli anni Ottanta quando cominciava a manifestarsi il fenomeno dell'immigrazione si diceva che l'Italia non poteva dire di no per una serie di fattori: necessità, convenienza, etica, le parole d'ordine erano queste. Necessità: non ne possiamo fare a meno; Etica: siamo stati emigranti quindi insomma non è che possiamo chiudere la porta in faccia a queste persone. Etica e necessità sono due dati di fatto su cui tutto sommato non c'è da intervenire, vorrei invece puntare sulla convenienza. Al mondo siamo 6 miliardi e mezzo di persone, continueremo a crescere, se andrà bene la stabilizzazione arriverà sugli 8-9 miliardi, il mondo va in quella direzione, passatemi il termine, di surplus di popolazione rispetto alle crescite economiche locali. Una delle convenienze rispetto all'immigrazione che va per la maggiore di questi tempi è il discorso delle culle vuote, le cicogne non ci visitano più come una volta, avevamo infatti un milione di nati negli anni Sessanta, mentre adesso sono 550mila tenendo conto anche del contributo degli immigrati che si attesta tra i 60 e i 70mila… quindi che bello arrivano gli immigrati, risolvono la situazione, sono loro la soluzione, tranquilli, non c'è problema arrivano i bambini " importati "…

E' vero che l'immigrazione dà un importante contributo in termini di capitale umano per dirla in termini corretti e lo dà in maniera consistente e crescente in questi ultimi anni, togliamoci però dalla testa che sia la soluzione, questo non deve essere l'alibi per dire va be' chi se ne importa, il problema è risolto, no, perché l'immigrazione in questi anni ha fornito un numero crescente di nascite, ma il comportamento delle coppie immigrate è esattamente uguale a quello delle coppie italiane; gli stessi problemi di gestione delle coppie italiane li hanno gli immigrati quando perlopiù vivono in una grande città, entrambi i genitori lavorano, perché bisogna lavorare in due per vivere, spesso non ci sono i nonni al seguito… Le coppie straniere, nonostante la cultura, la tradizione, tutto quello che si può dire, reagiscono come le coppie italiane che si difendono ad esempio tagliando le nascite di ordine più elevato. Se in questi anni c'è stata una ripresa in tal senso, teniamo conto anche che c'è stata una sanatoria da 700mila soggetti dovuti ai ricongiungimenti familiari; quindi come dire, si aspettava a far nascere i figli perché uno stava qua, l'altra stava nel paese di origine…

Molto spesso i giornalisti sguazzano nel dare dei numeri senza aver chiaro il significato di quei numeri, vedi l'esempio del numero medio di figli per donna . Quando si dice ad esempio che in Italia ci sono 1,3-1,4 figli per donna, si fa la seguente considerazione: si prendono i dati di un anno, si fanno dei conti e alla luce di quei dati si dice che se il comportamento in quell'anno fosse un modo di fare consolidato, cioè se una generazione di donne nelle diverse età, da 15 anni a 50 anni nel corso della vita riproduttiva dovesse comportarsi come si sono comportate le donne di tutte le età in quell'anno, il cosiddetto modello di comportamento, a conti fatti questa generazione di donne metterebbe al mondo in media 1,3 figli in tutta la propria vita riproduttiva. Non è 1,3% come ho sentito dire certe volte, né tantomeno come detto al Tg1 che la media di figli è 1,3 per anno; è un grosso fraintendimento, non solo non sanno la demografia, ma neanche come funzionano queste cose...

La morale è: dagli immigrati dobbiamo aspettarci un importante sostegno ma non la soluzione al problema, smettiamola di dire che questa è la soluzione, diciamo che danno un importante contributo.

Chi pagherà le pensioni? Allora anche qui è chiaro che abbiamo davanti dei lavoratori che contribuiscono e che non incassano, soprattutto per il fronte pensione, dato anche che non c'è ricambio generazionale tra gli immigrati. C'è l'effetto di svecchiamento della popolazione estremamente importante ed essenziale in un paese come l'Italia, ben venga, però anche qui non è la soluzione. Noi abbiamo fatto delle simulazioni, abbiamo provato a calcolare l'indice di dipendenza dagli anziani, cioè il rapporto tra popolazione ultra 65enne e popolazione 18-64enne, cioè in età attiva. Ora questo rapporto, questa frazione che oggi si attesta intorno a 30 e che tendenzialmente cresce, è un indicatore importante, perché da questo indicatore, banalmente, dipende per esempio il rapporto spesa pensionistica e prodotto interno lordo. Lasciate da parte i passaggi ma è solo per dire quale fetta di torta del prodotto interno lordo, si mangiano le pensioni, ma potrei fare lo stesso discorso per la spesa sanitaria ecc… Con ciò si mette in evidenza come, se l'indice di dipendenza dagli anziani cresce, non cambierà l'ammontare di denaro che riceve in media ogni pensionato; se però il tasso di occupazione raddoppia è chiaro che anche la fetta di torta raddoppia. Come si fa a evitare invece che la fetta di torta diventi la metà? Reazione provocatoria: dimezziamo le pensioni però ci sono degli altri modi, possiamo aumentare, spostare l'età del pensionamento, possiamo raddoppiare la produttività, sarebbe bello ma non è così semplice, potremmo aumentare l'occupazione… Con l'aggiunta degli immigrati cosa succede rispetto a questo indicatore, cioè quanto mi frenano questi indicatori? Ebbene la risposta è: lo frenano ma non invertono la tendenza cioè da qui al 2020, con un ingresso annuo di 450mila persone, questo mezzo milione di persone in più genererà un aumento dell'indice di dipendenza non del 20% come sarebbe stato con 150mila ingressi, ma del 10%, quindi riduce l'aumento, ma non inverte la tendenza. Ancora una volta è un'interessante e utile toccasana, ma non la soluzione.

L'offerta di lavoro. La popolazione italiana invecchia, a un certo punto la gente esce dal sistema produttivo, diminuisce l'offerta di lavoro, quindi l'immigrazione viene e risolve, compensa la caduta di offerta di lavoro locale. Questo è un discorso che si sente fare in Italia e anche in Europa. Che cosa fare per cercare di disegnare il futuro? Mi aggancio ai dati che ho come punto di riferimento ossia le ultime previsioni Istat uscite nel 2008. Tutte le previsioni hanno delle ipotesi, quindi anche le previsioni Istat vanno lette alla luce anche delle ipotesi perché sennò quei numeri non vogliono dire niente. L'Istat quando ha fatto i suoi conti ha dovuto scegliere necessariamente delle ipotesi e rispetto all'immigrazione ha immaginato che ogni anno, da qui al 2050, il flusso netto sarà di 200mila unità; purtroppo negli ultimi anni non è stato così, negli ultimi 2 anni è stato infatti di circa 460/470mila.

Andiamo a leggere le previsioni ma con questa attenzione: c'è un'ipotesi di evoluzione di ingressi netti di una certa dimensione, che per il momento però gli ultimi anni sembrerebbero smentire, non è detto che poi magari ci si allinei, però al momento le cose stanno così. In ogni caso questa è la tendenza, l'andamento complessivo della popolazione della forza lavoro, dell'offerta di lavoro, tiene a 35 milioni di potenziali lavoratori, gli italiani però scendono sotto i 30 milioni, in compenso però sale la componente straniera; da questo punto di vista sembrerebbe che tutto sommato i conti complessivamente tengono. Anche qui però andiamo a vedere un attimo nel dettaglio, tengono a livello nazionale, perché poi cosa succede? Che se andiamo a scomporre anche per solo grandi ripartizioni territoriali, allora si perdono 4 milioni e mezzo di persone, compensate da altre 2 milioni e 700mila, quindi la compensazione è inferiore alla caduta, ciò però avviene in maniera abbastanza originale, cioè nel nord mancano tanti italiani rispetto agli stranieri che ci sono, quindi si aggiungerebbero ed ecco la compensazione, così come c'è la compensazione nel centro Italia; nel sud invece non c'è la compensazione, nel senso che c'è un'uscita di forza lavoro di quasi 2 milioni contro i 120mila circa immigrati, stranieri in più. La domanda che uno si fa con un po' di buon senso è: senza nulla togliere al Mezzogiorno, ma è proprio così necessario continuare a mantenere sostenuta l'offerta del Mezzogiorno se qui ci sono tutto sommato grossi problemi di carattere occupazionale? Non potrebbe cioè essere la grande occasione per riuscire a dare una sistemata alla disoccupazione del Mezzogiorno? Da un certo punto di vista le cose sembrerebbero andare nella direzione giusta, è vero che non riusciamo a compensarli tutti, però compensiamo dove c'è occupazione e lasciamo che in qualche modo si sistemino quasi naturalmente i fenomeni di disoccupazione del Mezzogiorno d'Italia. Sottolineo però che qui stiamo parlando di previsione con 200mila unità annue che la realtà di questi anni avrebbe già smentito.

C'è comunque un altro elemento da considerare e cioè la struttura per età , perché è vero che il gioco della compensazione sembrerebbe funzionare, però come dire, anche l'offerta di lavoro immigrata invecchia. Nella logica utilitaristica dell'imprenditore conviene la forza lavoro degli immigrati perché sono giovani, imparano abbastanza in fretta, costano meno, sono più flessibili, cioè è chiaro che avere forza lavoro giovane viene comodo, però è evidente che anche l'immigrazione poi si stabilizza, gli immigrati rimangono sul territorio, il lavoratore cresce, invecchia, impara; costa di più ovviamente però sarà anche più bravo, con più esperienza… Allora dobbiamo mettere in conto che col passare del tempo, questo gioco dell'invecchiamento dell'offerta di lavoro, cioè quest'offerta di lavoro che sembrerebbe compensarsi, al suo interno cresce in termini di anzianità e quindi è meno flessibile, meno innovativa, meno adattabile e più costosa, può però compensare poi con l'esperienza. È un dato di fatto e questo avviene sia per la popolazione straniera che per quella italiana. Insomma il finale della storia, se dovessimo usare una logica di tipo esclusivamente di convenienza, ma chiaramente non può essere così, è che l'apporto straniero al mercato del lavoro deve essere di gente giovane, flessibile, economica, poco costosa e magari temporaneamente presente, perché poi quando invecchia ritorna al paese di origine… è chiaro che è pura follia…

Qual è lo scenario realistico con cui fare i conti? Come fondazione Ismu abbiamo fatto una nostra piccola previsione con metodi un po' diversi rispetto a quelli dell'Istat, cercando di tenere conto anche del mercato del lavoro e della struttura demografica dei paesi di provenienza. Non si può infatti prescindere dall'economia dei Paesi, dal fatto che tutti i Paesi hanno una loro struttura demografica, una loro evoluzione demografica e delle loro esigenze sul mercato del lavoro. Non è detto che necessariamente abbiano della forza lavoro da mandare in giro in altri paesi. Allora sulla base di queste considerazioni e vi risparmio gli aspetti metodologici, abbiamo cercato di disegnare una realistica prospettiva di evoluzione, prendendo quelli che oggi sono i primi 20 paesi che coprono l'80% dell'immigrazione.

Il messaggio sintetico è questo: lo scenario Istat si avvera se l'80% rimane l'80%, cioè se questi principali paesi restano anche in futuro i principali paesi. Il finale della storia è questo: abbiamo visto che come dire l'evoluzione è tutto sommato morbida, gestibile, governabile, senza particolari problemi, se i principali paesi di oggi - soprattutto i paesi dell'est Europa ma anche alcuni asiatici - rimangono i principali paesi di domani. E' chiaro che quel gioco di apparente equilibrio può non funzionare. Questo è un messaggio importante che può essere visto in due modi diversi: uno, dicendo spariamo sulle barche che arrivano dall'Africa, e non è elegante, l'altro è quello di dire diamo una mano a fare in modo che questo potenziale migratorio dell'Africa non si scarichi sull'Italia. Ed ecco che entra in scena la cooperazione che non è solo, come dire, essere disponibili ad aiutare l'altro, ma è anche un qualcosa di razionale in queste logiche. Questo è un po' il messaggio che secondo me in maniera abbastanza oggettiva viene fuori da questi dati.

L'immigrazione non risolve tutti i problemi, non è la soluzione magica, non c'è da spaventarsi se l'immigrazione va avanti in questi termini anche se ha questi livelli di crescita. Ci lancia però un importante messaggio : attenti che potrebbe avere un'evoluzione meno governabile se non ci diamo da fare concretamente per dare una mano a chi vive problemi di disagio di vario genere e che in qualche modo poi potrebbe scaricare questo disagio…

Il governo delle irregolarità : anche qui ci vuole un po' di realismo. L'Italia non ha mai avuto una politica immigratoria particolarmente vivace da sempre, siamo andati avanti con la cadenza dei mondiali di calcio ossia ogni 4 anni arrivava una sanatoria, la gente si accumulava prima, si metteva in coda, arrivava la sanatoria, e colpo di spugna, scendeva, quindi effetto richiamo sta arrivando la sanatoria alla carica! E via telefoni all'amico, al parente, al conoscente… Arriva la sanatoria si libera un certo numero di persone, si scende e in attesa della prossima si ricostituisce lo stock…. E il gioco va avanti… Possiamo chiamarle sanatorie oppure decreti flussi allargati, vedi quello del 2006, però il gioco è sempre quello. Una volta in numeri erano 100mila, 200mila, fino a 300mila, adesso arriviamo tranquillamente al mezzo milione, ai 700mila, 800mila… Ilclic day del 2007 se ricordo bene consisteva di circa 500mila domande, tra cui erano previste 20mila di badanti cinesi e mi viene difficile immaginare che ci fossero tutte queste cinesi come colf… A fine agosto io avevo già scritto, e me ne vanto, su Il Sole 24 Ore, quindi è certificato, che se ci fossero state più di 250mila domande c'era sotto il trucco, addirittura i numeri giravano sugli 800mila e compagnia bella… Mi sembra poi che siano state 230-240 una roba del genere… Giocare coi numeri si è sempre fatto, ci vuole niente a dire 5 milioni, 10 milioni, 50 milioni, 200 milioni e poi il giornale lo scrive perché lo ha detto quello o quell'altro e invece ci vuole molta attenzione perché poi si rischia di fare opinione, scorretta soprattutto. Io so che molti di voi sono giornalisti assolutamente molti seri, ma molti invece vanno semplicemente alla ricerca dell'elemento che fa titolo e basta, non gliene frega niente di cosa ci sia dietro un numero, vogliono un numero e basta. Queste cose succedono, non va bene e soprattutto non è corretto nei riguardi poi di chi va a leggere quelle cose e dice: lo ha detto il giornale.

Non so quanto sia riuscito a farvi capire, ho cercato di raccontare in maniera molto tranquilla, razionale delle cose che sono estremamente importanti, perché si tratta di persone, di essere umani. Nel leggere questi fenomeni, appunto anche se con una posizione più laica, ci vuole molto realismo e non possiamo giocare coi numeri perché vuol dire anche giocare con le persone, grazie.

Corrado Giustiniani

Ringraziamo il professor Blangiardo; io direi, per alternare un momento di ascolto e uno di dialogo, di aprire subito con delle domande al professore che ha chiuso la sua relazione dicendo "io non ho soluzioni". Ecco, purtroppo per noi che siamo in gran parte giornalisti questo è il problema, buttiamo lì dati, diciamo così, diamo iniezioni di paura o rilanciamo la paura che nasce dal corpo sociale, la rilanciamo e l'amplifichiamo senza fare un dibattito sulle soluzioni. Noi andiamo avanti con questi decreti flussi che sono delle sanatorie mascherate, son d'accordo, perché è assurdo che uno venga qui, poi però deve ritornare nel suo paese per rientrare di nuovo bello bello con il visto d'ingresso, facendo finta tutti di non averlo mai visto; è un'assoluta finzione con cui andiamo avanti non dalla Bossi-Fini, ma da ben prima, dalla Turco-Napolitano e prima ancora. Questi meccanismi sono complicati anche in altri paesi, però per esempio la Gran Bretagna l'anno scorso ha cambiato il sistema di reclutamento, sta sperimentando un sistema a punti nato da un'esperienza australiana e canadese, per cui tu entri e vieni a lavorare se hai determinate caratteristiche, se hai un certo titolo di studio, anche se hai un reddito, se hai ovviamente un'esperienza professionale ecc.; in Italia io non so se questo sistema potrebbe funzionare, perché noi andiamo in cerca di manodopera di livello medio-basso e il livello di iscrizione della manodopera straniera forse non è inferiore a quella italiana, il livello educativo anzi è anche superiore, forse. Quindi il problema è realmente complesso: non dovremmo dibattere di più sulle soluzioni anziché cercare slogan?

Giancarlo Blangiardo

Condivido perfettamente molte di queste cose. Io credo che in Italia il gruppo dei romeni potrebbe fungere da esempio se l'osservassimo bene, perché possono arrivare e muoversi tranquillamente, non hanno bisogno del decreto Fini-Bossi per stare in Italia . Bisognerebbe, cosa che confesso non è stata fatta, verificare un attimo quali sono i problemi di gestione nel mercato del lavoro della comunità romena, potrebbe essere una piccola esperienza di ingresso per ricerca del lavoro anche di soggetti che hanno comunque il titolo di soggiorno a posto, e potrebbero tranquillamente, penso che succeda, non avere un lavoro. Si tratta di una comunità consistente, quindi anche le osservazioni che possono derivare dall'analisi di questi dati potrebbero essere utili.

Corrado Giustiniani

A quanto ammonta secondo l'Ismu la comunità romena?

Giancarlo Blangiardo

I romeni, solo i residenti, complessivamente sono sugli 800mila, aggiungiamoci qualcuno non residente, perché è incidente tra i romeni la quota di quelli che non sono iscritti in anagrafe perché tutto sommato possono avere interesse o convenienza, oppure non hanno capito bene ancora dove stare, quindi direi che viaggiamo intorno al milione di persone, che non è pochissimo e potrebbe essere un laboratorio interessante. Io non ho proposto soluzioni però se posso esprimere una mia opinione, credo che per esempio in questo gioco della sistemazione dell'offerta di lavoro di immigrati, bisognerebbe che in qualche modo ci sia maggiore responsabilità da parte dei datori di lavoro. I datori di lavoro sono quelli che portano a casa senza pagare granché, nel senso che loro hanno la manodopera flessibile, con tutto quello che si diceva, a costi bassi, i 1000 euro al mese, non hanno i costi indiretti perché poi tutto il welfare viene scaricato sul comune, sulla regione, quindi tutto sommato hanno i benefici, ma non ne hanno come dire, gli svantaggi. Bisognerebbe in qualche modo, avviare magari anche delle sperimentazioni di ingresso per ricerca del lavoro, però con delle modalità, non so sinceramente come ma ci si può pensare, che richiedano da parte dei datori di lavoro un maggior coinvolgimento e un maggior elemento di rischio. I punti sperimentati altrove anche se un po' paradossalmente, credo che in Italia scandalizzerebbero, quindi quello che può essere pensato in maniera molto razionale, ad esempio ci servono le persone che abbiano queste caratteristiche, quindi 3 punti, 5 punti, 20 punti, chi li supera arriva, chi non li supera no, si può fare in paesi che hanno una certa visione dell'emigrazione, magari perché sono loro stessi paesi di immigrati costituzionalmente, è più facile lì come ad esempio in Canada, Australia mentre è molto più difficile in paesi come l'Italia che ha tante anime.

Sull'istruzione è vero, c'è anche da dire che è un'immigrazione più giovane quindi il confronto non è reale, anche qui è un gioco coi dati statistici: il confronto tra l'incidenza di laureati fra gli italiani e quella fra gli stranieri, non si può fare perché tra gli italiani contiamo anche le generazioni anziane che per la loro storia di vita, quando andava bene facevano le scuole medie; gli stranieri sono generazioni più giovani che hanno avuto percorsi formativi che, anche se in altri paesi, risentono del cambiamento dei tempi. C'è certamente anche un effetto di selezione perché è gente che ha avuto anche un pochino più di audacia e di conoscenza, di collegamento, per poi fare il passo verso l'emigrazione.

Corrado Giustiniani

Volevo intanto dare un dato che non è ancora venuto fuori : lei professore ha detto di aver previsto 255mila domande per la sanatoria badanti del 31 agosto scorso. Anzitutto c'è da dire che abbiamo fatto questa sanatoria per il lavoro domestico e non capisco sul piano costituzionale come si può discriminare un lavoratore che lavora nelle famiglie da un lavoratore che invece lavora in una piccola impresa, per cui io prevedo che la Corte Costituzionale che ha già all'esame il provvedimento prima o poi impallinerà il tutto e quindi ci troveremo a dover fare una sanatoria più grande. La notizia che dovevo dare però è questa: il governo Berlusconi aveva dato due canali per regolarizzare le badanti e le colf straniere, uno attraverso il Ministero dell'Interno, l'altro attraverso l'Inps, sempre con le stesse regole, cioè pagamento di 500 euro di contributi di arretrati, e si poteva mandare la domanda sia per posta che attraverso internet. C'è qualcuno che mi dice quante domande sono arrivate a fronte delle 255mila previste? Sono arrivate 4.500 domande… Allora questa è un'analisi un po' della fedeltà fiscale del popolo italiano, evidentemente il lavoro familiare è un lavoro che ha una grande evasione…

Volevo dire al professore che è vero che bisogna cercare di aiutare queste popolazioni sul posto, cercare di fare una cooperazione vera, ma c'è un rischio in questa cooperazione fatta anche bene, perché il migrante oltre ad essere una persona come lei ha detto audace e anche di buona salute, sebbene con i ricongiungimenti familiari qualcosa sta cambiando, è soprattutto una persona che nasce in una realtà familiare in cui dei reduci ci sono. L'aiuto della cooperazione a questi paesi può essere una spinta a un'ulteriore immigrazione purtroppo, perciò il problema è veramente di difficile soluzione.

Giancarlo Blangiardo

Le donne e l'immigrazione: nella fase iniziale i lavoratori o le lavoratrice arrivano da soli, sono a seconda della provenienza filippine donne e senegalesi uomo, poi più il processo va avanti, quindi più c'è maturazione del fenomeno, più si arriva alla risistemazione, ai ricongiungimenti, in qualche modo al riequilibrio in genere. Quello che si nota in maniera estremamente evidente è che c'è un buon riequilibrio che non è solo il totale complessivo, che in fondo quadrava anche prima, senegalesi e filippini si compensavano; quello che invece succede è che c'è un riequilibrio anche interno alle diverse comunità, quindi arrivano anche i filippini maschi, così come le senegalesi femmine, non siamo ancora al completo riequilibrio, però in qualche modo ci si sta andando. Si tratta dell'elemento fondamentale di passaggio tra l'immigrazione di lavoratori e immigrazione di tipo popolazione, popolazione in senso demografico, tant'è che poi ci sono le seconde generazioni. Quindi questo è un dato di evoluzione.

L'altro elemento, il discorso degli ospizi pieni e della popolazione anziana: l'invecchiamento della popolazione è un fenomeno serio e importante, non dimentichiamo però che il settantenne di oggi non è quello di 50 anni fa, quindi c'è uno spostamento continuo del confine e quindi poi anche di tutta la parte di supporto. Io credo che ci sia una maggior tendenza a risolvere alcuni problemi legati alla popolazione che invecchia, quindi che si deteriora in qualche modo, all'interno delle famiglie: anche questo gioco delle badanti diventa un elemento per offrire una soluzione alternativa a quelli che una volta erano brutalmente i ricoveri istituzionali, e questa cosa mi sembra di capire, ma in maniera molto empirica, in qualche modo sta funzionando. Io credo che la gestione del fenomeno invecchiamento della popolazione italiana, che è un fenomeno importante, avviene su diversi fronti e il welfare in qualche modo secondo me sta facendo qualcosa. C'è però un welfare familiare che forse fa molto di più di quanto si pensasse. L'unico elemento negativo di tutto ciò è che come sempre, come valeva anche per le culle, anche per la gestione degli anziani le famiglie sono spesso abbandonate a sé stesse, cioè non c'è un grande riconoscimento di questa funzione. Io so che c'è una detrazione del badante, mi sembra una roba fiscale, ma credo che sia una cosa molto modesta, senza mettere in conto che tutto sommato quando poi si è emersi dall'irregolarità questo ha un suo costo che si carica integralmente la famiglia. Da questo punto di vista l'elemento speranzoso è questo: nel 2045-50 l'invecchiamento in Italia sparirà, ecco lo scoop del giornalista, e questo per un motivo molto semplice, perché tra un paio d'anni, i nati del recupero dopo la Seconda Guerra Mondiale diventano ultra65enni, poi ci sarà una gobba seria una decina di anni dopo, quella del baby boom degli anni Sessanta, quindi diventano ultra65enni questi signori, intanto la curva delle morti sale perché la popolazione invecchia… Quindi da un lato gli anziani saranno sempre in eccesso fino al 2040-2045, quando il numero delle morti sarà superiore a quelle delle nascite, a quel punto in assoluto la popolazione anziana italiana smetterà di crescere, quindi dobbiamo riuscire a resistere fino al 2045…

Corrado Giustiniani

Il NAGA, un'organizzazione di Milano che si occupa della salute degli irregolari, ha divulgato proprio pochissime settimane fa un'indagine sulla base di 47.500 cartelle cliniche degli ultimi 5 anni. Dall'indagine che è stata affidata a 3 università tra cui la Bocconi, ne viene fuori che il 76% degli irregolari presenti sul territorio nazionale a tre anni dall'arrivo è occupato, ha un impiego. Quindi essere irregolari non è una cattiveria è quasi una condizione di necessità per entrare nel nostro territorio nazionale. Sappiamo che il fenomeno principale è che si entra invece con un permesso turistico, poi il permesso scade e nel frattempo si cerca lavoro e poi una regolarizzazione…

Intervento

Il rapporto Ismu in preparazione ha dei dati relativi ai minori non accompagnati?

Giancarlo Blangiardo

Purtroppo la risposta è no, è un fenomeno che è presente però noi non siamo ancora riusciti ad attrezzarci per coglierne la dimensione reale.

Mi aggancio al discorso irregolarità e lavoro: è chiaro che tutti quelli che stanno qui non sono criminali, perché i criminali sono una decisissima minoranza, la maggior parte invece ha un lavoro regolare, tranquillo, ovviamente non alla luce del sole perché non avendo il permesso di soggiorno non possono essere regolari dal punto di vista lavorativo. Anche dalla nostra indagine viene fuori che il livello di disoccupazione dell'irregolare è solo leggermente più alto rispetto al livello di disoccupazione dei regolari, generalmente comunque molto basso.

Che ci siano dei ritorni sì, anche dalle indagini vengono fuori spesso le intenzioni di tornare, cioè il modello è un po' il mito del ritorno, il migrante difficilmente ammette basta sto qui, no, sto qui un po' poi torno, quindi l'idea di fondo c'è, ci sono sicuramente dei ritorni, però dirlo in termini oggettivi, seri, quantitativi, quale sia la dimensione del fenomeno non lo sappiamo. In termini comparativi, sembra che sia perlopiù una caratteristica dei cittadini dell'Est Europa, in particolare dell'Ucraina, però non è un ritorno pensionistico, è un ritorno di turnover, cioè la donna ucraina che non è più giovanissima e che quindi in qualche modo deve far studiare i figli, deve far sposare i figli, o costruire la casa o che so io, viene qui, lavora per un certo periodo poi ritorna a casa perché ha, come dire, realizzato l'obiettivo che aveva in mente.

Corrado Giustiniani

Posso dire una cosa non statistica ma fenomenologica? Ho dei dati recenti del Ministero dell'Istruzione sulle iscrizioni che si riferiscono all'anno scolastico 2008-2009: erano iscritti nelle nostre scuole 629mila alunni stranieri, con un leggero rallentamento del ritmo di crescita; negli ultimi anni ci si è attestati sempre su una media di 76mila aumenti all'anno, invece adesso siamo sempre in crescita ma soltanto di 54mila. Questo certificherebbe il ritorno ai loro paesi di origine soprattutto per quello che concerne le famiglie romene come ho avuto riscontro da alcune associazioni romene. Quindi c'è questo fenomeno di rientro prodotto evidentemente anche dalla crisi economica.

Gabriele del Grande

Non tutti quelli che hanno i documenti vivono poi in Italia. Io lo dico per esperienza diretta perché sono stato in Egitto per lavoro, come giornalista ho fatto un'inchiesta sull'immigrazione egiziana e a Tatun che è la città da dove arriva la maggior parte degli egiziani che attraversano il canale di Sicilia che poi vivono a Milano in zona Porta Genova, come in una specie di gemellaggio, ho incontrato tantissime persone con la carta di soggiorno, cioè persone che avevano i documenti in regola. Molti di questi che hanno la famiglia giù e non in Italia laddove c'è la possibilità di spostarsi e di attraversare quella frontiera senza vincoli come è oggi, vanno e vengono. Sarebbe quindi interessante studiare anche tra chi ha i documenti poi effettivamente chi vive qui e chi invece fa avanti e indietro.

Questo mi collega alla domanda che volevo fare: c'è un'altra immigrazione molto importante che è l'immigrazione dal sud al nord dell'Italia. Volevo chiedere appunto al professore se ci sono dei dati in questo senso, cioè quanti italiani dalle regioni del sud emigrano verso il nord, perché sono cifre consistenti, si parla comunque di centinaia di migliaia di persone, forse di milioni di persone e però tutto questo non crea allarme sociale o quanto meno lo creava negli anni passati prima che arrivassero gli altri da un pochino più a sud.

L'altra domanda invece è se ci sono dati sugli italiani che emigrano all'estero. Io ho letto recentemente che in questo momento ci sono 4 milioni di italiani residenti all'estero, emigrati all'estero, che sono la stessa cifra circa degli immigrati venuti in Italia, non parlo dei discendenti degli italiani del secolo scorso, quelli sono 60 milioni circa. Fra l'altro questo dei 4 milioni di italiani che emigrano è un dato interessante, perché credo sia la dimostrazione del fatto che la tesi aiutiamoli lì così non vengono qua, non ha molto senso, perché nel mondo di oggi, nel mondo della globalizzazione, della mobilità, al contrario cioè, più sono le possibilità di viaggiare e più si viaggia semplicemente per cercare delle opportunità migliori all'estero.

L'ultima questione che non ho ben capito, come mai da un punto di vista appunto didattico, demografico, scientifico, l'immigrazione dall'Africa subsahariana costituisce una minaccia per l'Italia e per l'Europa.

Giancarlo Blangiardo

Primo punto i collegamenti, il transnazionalismo: il fenomeno è sicuramente presente. Quando presenteremo il rapporto nazionale dell'Ismu vi allegheremo anche un altro volumetto che si chiama "Indice d'integrazione" che è il risultato di un'indagine fatta per misurare il grado di integrazione. Si tratta del primo tentativo in Italia sicuramente, credo anche a livello europeo, di arrivare a costruire delle misure d'integrazione. Abbiamo intervistato 12mila persone su tutto il territorio nazionale sulla base di un questionario che tiene conto di quattro componenti fondamentali: quella culturale, sociale, economica e politica. Ad ogni persona è stato attribuito un voto rispetto al proprio percorso d'integrazione e la media dei 12mila voti è servita per poter dare una valutazione complessiva dell'integrazione in Italia. Si tratta in pratica di quattro voti in quattro materie, un voto finale e poi l'analisi delle caratteristiche di chi è più avanti e più indietro rispetto all'integrazione. Questa indagine ha fornito elementi utili per analizzare il fenomeno del transnazionalismo e di quanto questo sia presente in misura maggiore o minore e quanto incida rispetto al processo d'integrazione.

Spostamenti, mobilità interna, nord, nord-sud, ecc: non siamo ai tempi del grande esodo degli anni '60-'70, c'è stata una ripresa della mobilità interna probabilmente diversa rispetto a quella di allora , anche per tipo di formazione, questa volta sono i più giovani che vanno a cercare opportunità, allora erano quelli che dall'agricoltura del sud si spostavano alla Fiat, tanto per fare un esempio balordo. Certamente è in atto questa mobilità, non credo però che abbia la stessa dimensione, i dati sono disponibili, credo che l'Istat abbia la matrice provincia di provenienza, provincia di destinazione e quindi da lì si possono fare tutta una serie di analisi.

Gli italiani che vanno all'estero: il fenomeno esiste sicuramente, la nuova emigrazione italiana non è più quella delle miniere del Belgio ovviamente, ma sono i giovani che vanno a Londra piuttosto che da un'altra parte… Io ho provato a fare dei tentativi giocando semplicemente coi numeri, cioè siccome c'è un bilancio complessivo del saldo con l'estero degli stranieri, questo lo troviamo tranquillamente sul sito Istat, allora se uno si mette lì e per differenza cerca di ricostruire qual è il saldo con l'estero degli italiani, trova dei numeri. Io ho provato a farlo e pensavo di scoprire chissà che cosa, in realtà non ho scoperto granché. Il saldo era negativo, c'erano più uscite che entrate, quindi in sostanza si c'era in apparenza un flusso, ma non era questa grande cosa. Molto spesso poi c'è quello che va all'estero però non si cancella anagraficamente, non so bene come viene gestita la cosa in termini statistici rispetto all'iscrizione anagrafica, però sicuramente il fenomeno c'è, ma è un fenomeno un po' di nicchia e come dire qualche volta anche di qualità.

L'Africa subsahariana: spero di non aver lanciato l'allarme perché non voleva essere questo . Mi chiede perché c'è motivo di preoccuparsi? Perché è l'unico continente al mondo che non ha completato la transizione demografica, un processo della serie prima si facevano otto figli, poi se ne fanno due, e che tutti hanno vissuto, la Svezia, la Francia, l'Italia, ecc. È un percorso come dire di assestamento verso la stazionarietà demografica che l'Asia, l'America Latina e il nord Africa hanno già vissuto e sono molto avanti, l'Iran è passato ad esempio da sette figli a meno di due per donna ed è un paese arabo con tutto quel che segue; l'Africa subsahariana è invece ancora indietro, è ancora un continente nel quale l'eccesso, il surplus tra nascita e morte è ancora fortemente alto e non si prevede che chiuda il circolo ancora in fretta. Io ero stato ammesso alla Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo che si è svolta a El Cairo (Egitto) nel 1994 dove è venuto fuori che la diminuzione della fecondità è stata più veloce di quanto si andava raccontando in quelle sedi, tant'è che se ci pensate conferenze mondiali della popolazione dopo questa non ce ne sono state più e il problema da quel punto di vista si è spento tranne per l'Africa.

Per chiudere, se lei prende dal sito Nazioni Unite per esempio semplicemente la distribuzione per età della popolazione di alcuni paesi africani e dell'Africa subsahariana nel suo insieme e con un esercizio semplice , prende le persone da 15-19 anni e quelle dai 60 ai 64 anni, in una certa data, oggi, cioè 1 gennaio 2005, tanto per dare una data, e poi prende le stesse informazioni dal 1 gennaio 2010 e fa il rapporto tra i 15-19enni che entreranno nel mercato del lavoro e i 60-64enni che ne usciranno nei prossimi cinque anni, mettiamola così alla buona, si può fare anche in maniera più fine, e fa la differenza fra le due grandezze, ne risulta che l'Africa subsahariana ha uno sbilancio, se ricordo bene, di 30 milioni. Cosa vuol dire? Che ogni anno in Africa subsahariana bisognava creare almeno una quindicina di milioni di nuovi posti di lavoro. Ecco questo è un dato inconfutabile, dopodiché uno legge questo dato e si chiede come si fa ad andare avanti così… o questi 15 milioni di persone che si aggiungono s'immettono nel mercato del lavoro in più si arrangiano in qualche modo e va bene, oppure nel momento in cui c'è un legame, c'è un ponte e quindi c'è qualcuno che identifica una via di uscita, è chiaro che sono 15 milioni di candidati all'emigrazione, perché sono giovani e consapevoli. Ora questa operazione è nei dati e non è una previsione di nascite che verranno, è gente già viva, già presente e se lei ripete questo gioco e va avanti nel tempo, quindi prende il 2005, il 2010, il 2020, ecc. e ogni cinque anni va a vedere il surplus tra entrate e uscite potenziali, scopre che i valori sono stati e restano ancora estremamente elevati. Ecco per questo quando si dice attenzione all'Africa, il problema c'è perché si creano queste sacche di eccesso di forza lavoro. L'Africa ha anche quello che in demografia si chiama il dividendo demografico che non riscuote, cioè avrebbe una grande opportunità l'Africa se fosse aiutata, perché vive una fase in cui non ha ancora l'invecchiamento che prima o poi arriva. L'Africa non ha ancora il carico degli anziani e ha un grosso potenziale di soggetti giovani che entreranno nel mercato del lavoro. Nei prossimi anni l'Africa subsahariana avrà questo dividendo, è chiaro che però se non c'è l'utile non può riscuoterlo e quindi se non avrà la condizione della parte capitale per valorizzare la disponibilità di forza lavoro in loco, allora alla fine niente, poi passerà il tempo e questi diventeranno tanti anziani e sarà il delirio. Ecco questa è un'altra delle grandi scommesse nell'ambito del discorso dell'investimento della cooperazione in Africa.

Corrado Giustiniani

Una piccola chiosa a conferma di quello che ha detto il professore : il rapporto a cui si è fatto cenno è il "Rapporto italiani nel mondo" che è stato presentato 15 giorni fa dalla Caritas e da Migrantes dove praticamente si dice che gli italiani nel mondo sono 3 milioni e 900mila e quindi pari agli stranieri residenti regolarmente nel nostro paese, però molti non s'iscrivono all'Aire ossia l'Anagrafe Italiana dei Residenti all'Estero, come molti non si cancellano.

L'emigrazione interna non era in tema e come ha detto il professore, siamo nell'ordine delle migliaia, se ricordo bene per esempio i ragazzi italiani che fanno l'Erasmus dovrebbero essere 17mila l'anno. Per quanto riguarda la Conferenza della Popolazione a El Cairo, io c'ero come inviato del mio giornale, è fallita sostanzialmente.

Intervento

Più che una domanda, una curiosità. Volevo chiedere a tutti e tre cosa pensate anzitutto del voto degli italiani quindi emigranti all'estero che nelle ultime elezioni hanno comunque votato e hanno deciso la composizione del Parlamento, e poi del fenomeno inverso ossia della possibilità di dare il voto agli stranieri qui in Italia, visto che 5 milioni di stranieri comunque sono parecchi, sono una forza che potrebbe esserlo anche in quell'ottica.

Giancarlo Blangiardo

Secondo la mia opinione ci sono due tipi di voto: il voto amministrativo che è quello del come vivere in una comunità, come dire, ristretta e quindi io partecipo alla comunità, se la fontana mi piace o non mi piace, voglio essere in condizione di esprimere la mia idea di fare o non fare la fontana; c'è poi un voto di carattere più, come dire politico, che è quello del decidere se introdurre l'interruzione di gravidanza piuttosto che il divorzio per legge dello stato, quindi quelle tematiche che hanno un contenuto come dire, anche di tipo ideologico, culturale, cioè una posizione sulla società che nel suo insieme viene vista in un certo modo. Io credo che tutti abbiano diritto di esprimersi quando fanno parte di una collettività, se io sono nella collettività locale, italiano o straniero non importa, partecipo a pagare la fontana, è bene anche che esprima se mi piace col putto piuttosto che con altro e va benissimo. Se invece devo discutere del sistema generale, del come organizzare la società anche dal punto di vista dei principi fondamentali che la regolano, allora devo essere e sentirmi membro della società. È il famoso discorso dell'integrazione, opinione mia personale, non avrei nulla in contrario sul voto agli immigrati, però il voto a degli immigrati che siano integrati in un sistema. L'elemento fondamentale per essere membri e quindi anche elettori che definiscono i principi generali è far parte della collettività condividendo quelle che sono le regole attuali, i comportamenti attuali e via discorrendo. Non è facilissimo, non è neanche una roba che si acquisisce dopo uno, due, tre, cinque o dieci anni, è probabilmente qualcosa di un pochino più delicato, è difficile anche da misurare, è un'altra di quelle cose in cui le soluzioni non sono così immediate, però l'elemento di fondo da cui partire per riflettere a mio parere dovrebbe essere questo.

Marco Carsetti

Il voto agli immigrati come anche la cittadinanza, io credo che siano due questioni assolutamente chiave rispetto alla convivenza nelle città con le comunità straniere in questo paese. Faccio soltanto un esempio di un caso che probabilmente conoscerete, che è quello della scuola Carlo Pisacane a Roma nel quartiere di Tor Pignattara che ha subìto attacchi dalla politica e dai mass media per essere la scuola che ha la più alta percentuale di bambini, loro dicono immigrati, ma in realtà la scuola ha un'altissima percentuale di bambini di origine straniera nati in Italia. Quello che ha soggiogato in quel quartiere nella politica romana, tra assessori, deputati, ecc., è una partita che non ci sarebbe stata se fosse già garantita la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia dopo la quinta elementare, come nella proposta di Sarubbi e Fini. Ciò cambierebbe radicalmente i rapporti di forza all'interno dei territori, cambierebbe tutto radicalmente ed è chiaro che la politica non è matura, la società non è matura, ci vorranno ancora molti anni ma a questo arriveremo, arriveremo alla cittadinanza e arriveremo al voto agli immigrati e avremo un altro paese, quello che dovrebbe essere.

Corrado Giustiniani

Voto degli italiani all'estero per l'Italia : è un voto assolutamente imperfetto, è un voto di persone che non conoscono la realtà in cui vivono, è un voto di persone che sono lontane, che hanno nostalgia, è un voto che dobbiamo assolutamente mantenere nella sua imperfezione perché sono cittadini italiani.

Per quanto riguarda invece il voto amministrativo , credo che chi da anni è nel nostro paese regolare e paga le imposte dovrebbe poter votare alle elezioni comunali, però voglio ricordare perché molti non lo sanno, che dal 1996 i comunitari possono votare alle elezioni comunali, quindi ad esempio i romeni e i bulgari votano, cosa che credo i politici non abbiano ancora ben chiara.

Marco Carsetti

Per entrare nel tema del rapporto noi e gli altri in particolar modo dell'importanza dell'ascolto nella relazione con l'altro , vorrei leggervi una piccola trascrizione di un'intervista che feci nel '98 ad Aziz, un richiedente asilo siriano, cristiano che ho conosciuto nel '98 in un centro di accoglienza a Piazza Vittorio. Dice Aziz: " Non ho mai pensato che fosse una grande sofferenza per gli stranieri stare in Europa. Una cosa terribile, qui non siamo niente che esiste, non ci vogliono vedere, ora c'è internet ma prima la comunicazione era l'uomo. Adesso che il mondo è così piccolo grazie alla comunicazione, la vita è peggiore, non c'è rispetto. Noi abbiamo sofferto a causa della storia, ma questo non significa che l'uomo che ha inventato la radio è migliore di un uomo che racconta una storia, perché quando c'è un uomo che racconta una storia nessuno può parlare, tutti siedono e stanno zitti. L'uomo è più importante di internet, della radio, l'uomo è importante, dopo vengono tutte le altre cose. Come puoi far addormentare il tuo bambino senza raccontargli delle storie? Accendi internet per addormentare il tuo bambino? Alzi l'amplificatore? Gli racconti una storia che comincia in un paese lontano e che è arrivata a te attraverso un uomo. Il fatto è che prima quando un uomo raccontava una storia in mezzo a 100 altri uomini, tutti volevano e sapevano ascoltare quella storia, volevano sentire ogni respiro, sapevano aspettare; qualcuno sta raccontando una storia e gli altri dovrebbero ascoltare, ma alla maggior parte degli uomini non interessa. Questo è quello che penso della mia esperienza come straniero, mi trovo in grande difficoltà, nel mio paese ero così stupido, ma ora ho capito cosa mi fa stare male: è meglio non avere niente nel proprio paese, che essere re nel paese degli altri ".

Dopo aver perso di vista Aziz per anni, l'ho rincontrato telefonicamente soltanto l'anno scorso quando mi chiamò dalla Svizzera dove si era trasferito a vivere e a lavorare; ha sposato una donna tedesca e ha cominciato a lavorare all'interno di un laboratorio di costruzione di insegne luminose al neon, questa era la sua specialità, era quello che quando c'incontrammo a Roma nel '98 voleva fare; in pratica in Svizzera aveva in qualche modo risolto la sua vita. Mi ha chiamato perché quando era a Roma ed era malato di febbre mediterranea, nel centro era ospite insieme a lui anche un bielorusso, Pavel, un apolide per il quale non c'era nessuna soluzione rispetto ai documenti in Italia e che viveva il grande dramma di essersi separato dalla famiglia che invece era in Austria. Pavel era un infermiere, tra loro due non c'era una lingua comune, non so come, ma se la intendevano perfettamente, si era creata questa amicizia stranissima, ma bellissima, profondissima, tra un siriano cristiano e un bielorusso. Aziz che aveva un italiano un po' più avanzato di Pavel si era fatto suo mediatore e ci aveva chiesto dei soldi per permettere al suo amico di trasferirsi clandestinamente in Austria, per provare a regolarizzarsi e ricongiungersi con la moglie. Dopo 10 anni, nel 2008, l'anno scorso, Aziz mi chiama per dirmi che Pavel, che all'epoca aveva ricevuto da noi 600mila lire, si era sistemato, lavorava con la moglie in ospedale, aveva avuto dei figli in Austria e mi stava cercando, era venuto anche a Roma per cercarmi e per restituirmi quelle 600mila lire che a distanza di 10 anni erano diventati 300euro… Questo per dire insomma quanto sia importante costruire con queste persone dei legami, delle relazioni a partire da un ascolto vero.

Io mi occupo di coordinare le attività dell'associazione Asinitas onlus che lavora coi migranti e richiedenti asilo a Roma e che principalmente opera all'interno di due contesti educativi di accoglienza: una è all'interno della scuola comunale per l'infanzia Carlo Pisacane con donne e bambini stranieri, un'altra invece coi richiedenti asilo e rifugiati. All'interno di questa scuola abbiamo costruito insieme a Sandro Triulzi, un professore di storia dell'Africa all'Università Orientale di Napoli, un progetto nato nel 2003 che si chiama Archivio delle Memorie Emigranti, con il duplice obiettivo di lasciare traccia delle storie, delle narrazioni, degli avvenimenti, degli eventi legati alla migrazione e all'espatrio forzato e di costruire un immaginario comune sull'emigrazione e sull'esilio insieme ai migranti. Questo progetto, questo lavoro ha portato poi alla produzione e alla realizzazione di un documentario importante in Italia dal titolo "Come un uomo sulla terra", che in qualche modo ha svelato gli accordi tra Italia e Libia e tutto ciò che avviene nelle carceri libiche anche su mandato europeo e italiano, gettando una luce oscura e terribile su quello che accade alle persone respinte nel canale di Sicilia nel momento in cui ritornano non a casa loro, come i giornali dicono, bensì in Libia e nelle carceri.

Cercheremo anche di capire perché una scuola italiana è un luogo importante di narrazione, di auto-rappresentazione, d'incontro e anche di costruzione di discorsi pubblici intorno all'immigrazione. L'ascolto è anche una ginnastica, è qualcosa che si apprende, per cui molto spesso queste persone ci dicono tante cose ma noi non riusciamo immediatamente a capire e a identificare bene che cosa ci vogliono dire. C'era una parola che circolava a scuola e che tutti ripetevano ed era tiburtina , ma noi non riuscivamo a capire perché ripetevano tiburtina, tiburtina, noi la identificavamo semplicemente con la stazione dei treni di Roma-Tiburtina, in realtà invece che cosa stava succedendo? Stava esplodendo a Roma il fenomeno dei richiedenti asilo e dei rifugiati e a Tiburtina nello spazio ferroviario c'erano degli enormi hangar abbandonati dove vivevano oltre 600 persone del Sudan, all'epoca c'erano tantissimi rifugiati dal Darfur, etiopi ed eritrei. Accompagnandoli in questo posto abbiamo scoperto questa straordinaria realtà che poi è andata sulla cronaca nei giornali con un brutto articolo che si intitolava "Benvenuti a Roma, avete prenotato all'Hotel Africa", che loro rigettarono violentemente in quanto dicevano non si tratta di hotel Africa, quella non è l'Africa e quello non è un hotel… L'articolo inoltre era accompagnato da delle fotografie classiche, tipiche che si usano in questi casi, ovvero un emigrante col carrello pieno di vestiti, la fontanella, l'immondizia, quindi l'identificazione tra i loro volti, l'immondizia, la fontanella, questi hangar e l'Africa… Ciò aveva in qualche modo degradato al rango di oggetti qualcosa che invece aveva una soggettività straordinaria e importantissima all'interno della città. In qualche modo ci fecero capire che nella migrazione, nel percorso migratorio c'è un qui e un lì tutto non percepito e sconosciuto alla maggior parte che in qualche modo andava scoperto insieme a loro e soprattutto andava fatto dialogare. Quel nome aveva una potenza evocativa che appunto ci instradò e ci accompagnò poi nel percorso di raccolta di storia e di lavoro con loro.

La scuola è la creazione di un contesto di condivisione : tra noi e gli emigranti quello che manca è la creazione di contesti di condivisione e d'incontro con gli altri. La scuola, a partire dall'apprendimento dell'italiano, è la costruzione di questo contesto dove si costruiscono relazioni e legami, dove si costruisce un interno intimo e affettivo con i migranti, dove si costruisce un linguaggio comune e un discorso pubblico. Ci tengo molto a sottolineare questo: senza un luogo, uno spazio condiviso affettivamente, un interno, un'intimità di relazione con le persone e la costruzione di un linguaggio, non si può, dal mio punto di vista, costruire un discorso pubblico. Questa è stata l'esperienza appunto del film "Come un uomo sulla terra".

"Noi difendiamo l'Europa" è un altro straordinario lavoro di raccolta di testimonianza di voci interne alle carceri libiche appunto dei detenuti e dei poliziotti. Questo per dire che dal mio punto di vista, lavorando ormai da più di 10 anni con i migranti e con i rifugiati, quello che veramente viene a mancare nelle televisioni e nei giornali, è la condivisione di un immaginario comune con i migranti. In qualche modo le nostre sensazioni e i nostri pensieri sono costruiti deliberatamente altrove dalle organizzazioni umanitarie, dall'assistenzialismo, dalla politica e non ritroviamo quella soggettività, quella che invece incontriamo quotidianamente.

Vi volevo leggere un breve racconto che fa parte di un lavoro-documentario su un centro di accoglienza che stiamo portando avanti con Assan e Abu Baker: è una piccola stesura stenografica del loro viaggio e che ci serviva semplicemente come punto di riferimento per il nostro documentario, ma che secondo me è una traccia che ci può far riflettere su alcune cose: "12 gennaio 2008: partenza da Mogadiscio di sera in pullman, ultimo saluto alla famiglia, inizia il viaggio Abu Baker. 8 febbraio 2008: partenza da Mogadiscio di pomeriggio in pullman, ultimo saluto alla famiglia, inizia il viaggio di Assan. 28 luglio 2008: partenza da Tripoli per l'Italia in barca, ore 9 della sera, dopo aver mandato un messaggio a mia sorella - subito dopo doveva buttare il cellulare che non poteva salire con lui sulla barca e dice - cara, sono sulla spiaggia, sto per partire, arrivo, muoio o ritorno, sii fiduciosa nella volontà di Dio. Nella barca c'erano 44 persone, 40 somali e 4 ghanesi, c'erano solo 2 donne somale. 30 luglio 2008 mercoledì: arrivo a Lampedusa 3 e 35 di notte, 31 ore di viaggio in mare, trasferimento al centro, richiesta d'asilo, impronte digitali, foto segnaletiche con un numero: il mio (Assan) era l'11; 30 luglio 2008: il mio (Abu Baker) era il 10. 30 luglio 2008: da Lampedusa telefono a mia sorella e le dico: sorella sono arrivato in Italia. Cosa, cosa, dove stai? Cosa? Sono arrivato! Grazie a Dio! Facevo il digiuno da quando sei partito, allora mi dai il numero che ti chiamo? No, non ho il numero però ti chiamerò quando ne avrò uno. Va bene lo dirò a tutti che sei arrivato. Non avevo detto nulla alla mamma che ero entrato nel mare, appena avrai un numero fammi uno squillo. 6 agosto 2008 mercoledì mattina: chiamano l'adunata al centro di Lampedusa, ognuno prende le sue cose, gridano n. 10 è Abu Baker dalla Somalia; n. 11 Assan dalla Somalia, partenza in aereo, non conosciamo la destinazione. 6 agosto 2008: arrivo a Roma, trasferimento alla questura su pullman della polizia, impronte digitali di nuovo e trasferimento al centro di Castelnuovo Di Porto gestito dalla Croce Rossa, 40 km da Roma. Ore 11 della sera: scesi dal pullman a Castelnuovo: il n. 10 è cambiato in 1159, il n. 11 è cambiato in 1160. La prima sera abbiamo dormito in 110 persone nella hall del centro. 16 ottobre 2008 giovedì pomeriggio: primo giorno di scuola. 14 gennaio 2009: audizione alla commissione territoriale per la richiesta di asilo, durata dell'intervista 50 minuti (Abu Baker), durata dell'intervista 40 minuti (Assan). 27 marzo 2009: ritiriamo a Castelnuovo Di Porto il permesso di soggiorno e alle 5 di pomeriggio siamo obbligati a lasciare il centro ". E qui finisce la storia del tempo dell'arrivo, l'uscita dal centro di prima accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati e poi un nuovo percorso e una nuova avventura.

Rispetto al titolo di questo workshop respingere e convivere, volevo dire che i respingimenti sono molteplici nella vita di queste persone. I respingimenti non sono solo quelli che si stanno attuando nel Canale di Sicilia, che io considero una delle cose più orribili della storia di questa repubblica, per quello che siamo costretti a far vivere a queste persone; dal mio punto di vista anche una brutta scuola d'italiano è una forma di respingimento e intendo per brutta scuola quella non curata, in cui non si rispetta lo studente, che è improvvisata, perché non so perché nei confronti dei migranti e dei rifugiati tutto può essere a bassa soglia, non c'è mai cura, non c'è mai attenzione. È una forma di respingimento anche la questura con le lunghe file notturne per sentirsi dire poi torna domani… È una forma di respingimento anche il trasferimento di una donna somala appena arrivata con la sua vulnerabilità in un centro di accoglienza su un altopiano in una landa desolata a un'ora e mezza da Roma, dove l'Arciconfraternita del Sacratissimo Cuore, i nomi ci dicono qualcosa, ha affittato un albergo che ricorda molto l'albergo di Shining e ci ha messo lì dentro 200 tra somali, eritrei, etiopi, direttamente trasferiti dal centro di Lampedusa. Anche i centri per l'emergenza freddo dove si stanno inserendo oggi i richiedenti asilo e rifugiati, perché stanno dismettendo tutti i centri di seconda accoglienza a Roma, è una forma di respingimento. Una forma di respingimento è un cattivo articolo di giornale in cui appunto le persone vengono impacchettate e degradate al rango di oggetti. Rispetto a questo Abu Baker mi diceva: ormai non si vergognano più in Italia, il razzismo è diventato una cosa normale, riferendosi ad esempio alla white Christmas del nord Italia. Insomma sono infinite le forme di respingimento che si potrebbero sintetizzare dicendo che il respingimento nasce quando viene a mancare la dignità della persona in quanto tale, ovvero quando non ci sentiamo di condividere con quest'uomo e questa donna un destino comune che è la nostra comune umanità, quando non c'è ascolto della persona. La condizione dell'esilio è una delle condizioni più dolorose di sradicamento.

Vi voglio leggere una piccola poesia per cercare di capire un po' di che cosa stiamo parlando, perché forse come avete capito, a noi interessano più i sentimenti delle persone che non gli eventi per capire come, in qualche modo, la migrazione cambia la vita. Questa breve poesia non è stata scritta da un curdo, da un afghano, da un somalo o da un eritreo, bensì da un italiano istriano, il poeta dialettale Biagio Marin, durante la seconda guerra mondiale e che visse appunto l'espatrio forzato per i fatti noti che conoscete: " Adesso siamo come paglia al vento e non possiamo più mettere radici, con il cuore in continuo lamento e la bocca che non sa quel che dice". Questa poesia dice molto della condizione dei rifugiati e dei richiedenti, c'è questo sentirsi paglia al vento, ovvero degli sradicati, c'è l'impossibilità di mettere nuove radici, che è il bisogno di radicamento. Simone Weil ci dice che il bisogno di radicamento è uno dei bisogni fondamentali dell'anima umana, ma anche uno dei bisogni più misconosciuti del genere umano. C'è il dolore del cuore a causa della perdita della propria casa e del proprio paese. In un'altra poesia Biagio Marin scriverà: "mai più vedremo le porte di casa che nascere ci hanno visto". Dal punto di vista di un maestro di scuola, la frase che a me ha sempre colpito più di tutti, è quella della bocca balbettante che non sa quel che dice e che possiamo appunto riferire allo spaesamento culturale ed identitario dovuto appunto proprio allo sradicamento. La fuga, l'espatrio forzato, la migrazione, ha delle leggi che valgono per tutti e sempre. Ce lo dice Abdolah Kader in un piccolo libro molto bello dal titolo "Il viaggio delle bottiglie vuote", dove si parla proprio delle leggi della fuga e una di queste leggi senz'altro è la crisi della presenza, la presenza come la intendeva De Martino quando diceva " una persona dotata di senso all'interno di un contesto di senso ". La migrazione in qualche modo determina questa crisi della presenza e dipende da dei fattori che sono la perdita della casa, il disorientamento nostalgico e quello che Abdelmalek Sayad ha chiamato la doppia assenza. La perdita della casa è il tratto caratterizzante per ciascun migrante e ciascun rifugiato. Prima ancora che il trauma della guerra, del viaggio, c'è la perdita della casa, però la casa non intesa come bene immobile. In inglese infatti abbiamo due termini per casa ossia house e home: la casa house è la costruzione, l'abitazione, invece home rappresenta quel fascio di sentimenti ad essa connessi in termini individuali, familiari e sociali la cui perdita crea il disorientamento nostalgico. Il disorientamento nostalgico di un rifugiato non è tanto l'impossibilità di tornare a quella casa, perché per molti di loro l'Africa si configura come una porta del non ritorno, ma il fatto di aver perso qui e ora nel nostro paese, quella dimensione affettiva familiare, quella membrana protettiva costituita dalla casa. C'era un anarchico inglese che diceva: abbiamo un house e la dobbiamo rendere home e questo è verissimo anche per loro. C'è poi la doppia assenza, cioè essere solo parzialmente assenti là dove si è assenti - assenti dalla famiglia, dal villaggio, dal paese - e, nello stesso tempo, non essere totalmente presenti là dove si è presenti - per le molte forme di esclusione di cui si è vittime nel paese di arrivo.

L'arrivo degli emigranti e dei rifugiati impone un continuo confronto con l'altro e secondo Kapuscinski l'incontro con l'altro è un'esperienza fondamentale e universale della nostra specie. Kapuscinski diceva che nei confronti dell'altro ci si deve mettere su un piano di eguaglianza e mantenere un dialogo, ma anche sentirsi responsabile dell'altro. La parola dialogo è una di quelle parole che insieme a tante altre come accoglienza, ospitalità, secondo me rischiano di diventare delle parole ameba, cioè con lo stesso effetto di un sasso lanciato nello stagno che produce delle onde che però non vanno a colpire nulla, e che dunque in qualche modo hanno perso il loro significato. Per me la parola dialogo è una parola estremamente importante, ma nella costruzione di un dialogo con l'altro è necessario che la voce, la testimonianza, la storia, la narrazione, i sentimenti dell'altro coincidano con qualcosa che è dentro di noi, nella nostra anima, che coincidano con un nostro intimo punto di vista sulle cose e sul mondo, che sia guidato da una sorta di pietas che riguarda la tragedia della storia nel suo insieme, con la sua infinita capacità dell'uomo di soffrire e di far soffrire.

Volevo soffermarmi sul ruolo dei giornalisti e di chi lavora con i migranti rispetto all'incontro con l'altro, sull'importanza dell'altro nella conoscenza : sempre Kapuscinskidiceva " per chi lavora con gli altri loro sono la fonte principale della nostra conoscenza, gli altri sono coloro che ci dividono, che ci danno le loro opinioni, interpretano per noi il mondo che tentiamo di capire e descrivere, non c'è giornalismo possibile fuori dalla relazione con gli altri esseri umani ". Dunque Kapuscinski diceva che la relazione con gli altri è l'elemento imprescindibile del nostro lavoro così come altri noti personaggi hanno detto qui in precedenti edizioni. Cito a proposito un passo di un libro importante di Ellison Ralph "Uomo invisibile" che parla appunto dello sguardo deformante nell'incontro con l'altro: " io sono un uomo invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi, capito? Come le teste prive di corpo che qualche volta si vedono nei baracconi da fiera. Io mi trovo circondato da specchi deformanti di durissimo vetro. Quando gli altri si avvicinano vedono solo quello che mi sta intorno, se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa insomma tranne me ". Questa è assolutamente una percezione condivisa come sentimento da molti migranti e rifugiati.

Per concludere, l'etichetta: è un problema l'etichetta, è un problema vedere le persone soltanto per come noi le etichettiamo cioè rifugiati, clandestini, richiedenti asilo, vittime, profughi, ecc. Miguel Benasayag Gerard Schmit in "L'epoca delle passioni tristi" dice: " il miracolo dell'etichetta produce l'impressione che l'essenza dell'altro sia visibile. A quel punto l'altro non è più una molteplicità contraddittoria che esiste in un gioco di luci ed ombre, rivelato e svelato, ma diventa immediatamente visibile e riconoscibile. Si è convinti grazie all'etichetta di sapere tutto sull'altro, chi è, cosa desidera e come è strutturata la sua vita, perché l'etichetta non si limita a classificare, ma stabilisce una sorta di ordine nella vita di chi la porta. I rifugiati richiedenti asilo, come tutte le persone, i gruppi sociali che vengono riconosciuti all'interno di certe etichette, si ritrovano vittime di una forma di determinismo sociale e individuale. I nostri desideri, il nostro divenire, ciò che possiamo sperare costruire nella nostra vita, tutto entra a far parte di un sapere, di una statistica prestabilita, che ci esiliano dalla nostra incertezza, che è la condizione della libertà di ogni essere umano, gruppo sociale. L'etichetta è qualcosa che purtroppo viene introiettata dalla persona che è resa visibile e conosciuta in base a quell'etichetta, ovvero l'etichetta viene condivisa e accettata dalla persona che la subisce, anche perché questa persona crede di non poter essere aiutata, se non riconosciuta appunto in questa etichetta".

Corrado Giustiniani

Questa relazione ci ha veramente toccato. Volevo dire soltanto che non è totalmente vero che nessun giornalista si occupa di queste cose , vorrei ricordare l'esperienza dello straordinario Fabrizio Gatti di quando, ancora al Corriere della Sera, andò in Africa e fece lo stesso viaggio di questi poveretti. Usiamo definirli disperati, però mi hanno fatto notare che non soni disperati, hanno invece una grande speranza se fanno un viaggio di quel genere. Gatti ha fatto altre due cose molto importanti, visto che ha delle fattezze che gli permettono di mascherarsi bene: due anni fa è andato sui barconi e si è fatto trattare appunto come quei rifugiati richiedenti asilo amici di Marco. E' andato poi in Puglia, nel foggiano, a raccogliere i pomodori per vedere le condizioni di questi poveretti e questa è un'altra bella storia, però le raccontiamo poco, questo è vero. Trovo molto bella la poesia dal titolo "Ovunque vivere altrove", di Claudio Nereo Pellegrini, prete operaio tra i minatori italiani in Belgio.

Giancarlo Blangiardo

Ho ascoltato con molto interesse l'appassionata esposizione, in certi punti lirica, mi chiedevo però quanto sia utile questo tipo di approccio, cioè mi spiego : c'è un mondo di diritti e un mondo di regole. Adesso il diario che hai raccontato è molto affascinante, però se ho capito bene è finito col permesso di soggiorno, e non si tratta di una fine drammatica. C'è una prassi, c'è una procedura come impronte digitali ecc. e lo stesso ho dovuto fare io a 10 anni quando con la mia famiglia sono andato migrante in Australia, sono dovuto andare a Genova dove ho dovuto parlare con dei signori, abbiamo seguito tutta una procedura, e devo dire che conservo un ricordo tranquillo, non è stato oppressivo; ho rispettato una procedura burocratica, perché le regole dell'emigrazione in Australia richiedevano quel tipo di cosa, dopodiché l'operazione si è completata. Lo stesso può valere per certe prassi odierne. C'è una mia collega che ha fatto tutta una polemica mi sembra su l'Espresso sul dramma del rilasciare l'impronta digitale… pensate che l'altro giorno all'aeroporto di Bruxelles mi sono dovuto togliere le scarpe… Ci sono delle cose che giustificate adeguatamente, potrebbero avere un senso. Allora io non credo che lamentarsi di certe procedure porti un contributo serio, vedrei molto più utile denunciare la mancanza dei diritti, cioè il non rispetto delle situazioni.

L'etichetta, anche l'etichetta è una bella cosa, è un'esigenza, come dire, di tipo statistico, siamo naturalmente portati a sintetizzare i fenomeni variabili con delle medie e una delle medie si chiama moda ed è la modalità più frequente; inizialmente quindi tutti gli immigrati erano marocchini solo perché erano i più frequenti. C'è questo semplificare che viene in via naturale, ma è chiaro che poi ciascuno, se è intelligente, differenzia anche. Io credo che sia molto importante segnalare laddove esistono i problemi, le diseguaglianze, il mancato rispetto dei diritti, ma diventa un gravame eccessivo, poi controproducente, quello di voler insistere anche su quegli aspetti che non sono così problematici che poi fan dire all'italiano normale: si insomma la solita lamentela, la solita cosa… e non porti a casa niente. Non so se è una domanda, chiedo scusa, è più una considerazione…

Marco Carsetti

Ma il problema è di diverso tipo, il problema è che in qualche modo a me colpiva la freddezza burocratica dei numeri rispetto diciamo all'emozione , a quello che succede all'interno della persona rispetto alla famiglia, al fatto che quello in qualche modo ci ricorda che si tratta di esseri umani e non di numeri. E' vero che non è questo il problema, ad un certo punto quella è una prassi, potrebbe essere migliorata ecc. però il problema è che non esiste nient'altro. Questo è un problema serissimo finché persone come Assan e Abu Baker saranno semplicemente persone che non incontrano altro che i numeri di Lampedusa e di Castelnuovo di Porto. Io inviterei chiunque di voi a vedere cos'è quel posto e capire dunque come queste situazioni producono disagio individuale e sociale. Se ci limitassimo al numero però poi trovassimo un luogo veramente accogliente dove la persona venga accolta, rispettata e aiutata in qualche modo a fare un percorso, ecc., bene; non va bene se la persona viene trasformata in un numero e quel numero deve servirci per percepirla in quel modo, per poterla buttare a 40 km da Roma in degli hangar sulla Roma-Firenze vicino al casello autostradale in una landa desolata dove la Croce Rossa e il ministero degli interni non forniscono nessun biglietto per andarsi a curare o per andare a scuola a Roma. E quando un operatore della Croce Rossa domanda a loro: ma dove sei stato oggi tutto il giorno? Sono andato a imparare l'italiano a Roma, e quello gli dice: ma che impari l'italiano a fare? Lì è un cane che si morde la coda, cioè è un produrre disagio individuale e sociale. Le persone non vivono soltanto di lavoro, di permesso di soggiorno, di commissione, non sono soltanto delle persone bisognose a cui bisogna rispondere meccanicamente con un'assistenza di scarsa qualità, sono persone che hanno dei desideri, dei sogni, una soggettività, una psicologia, hanno il bisogno di essere viste in quanto persone. Tutto ciò non accade, non accade nella comunicazione sociale da parte dell'opinione pubblica, dei giornali, non accade nell'incontro con queste persone, non accade nell'assistenza. Lei dice che non è utile, io le dico che uno dei problemi più gravi che noi riscontriamo oggi nelle città, che è quello prodotto da un cattivo assistenzialismo, da cattive procedure che costruiscono disagio sociale che si riverbera poi in possibilità o meno di convivere nelle città. Questo è il problema, perché fin tanto che la persona è accolta in quanto persona può sopportare di tutto, può sopportare le file in questura, può sopportare di tutto perché comunque ha quel radicamento lì, quella relazione, è quella base sicura come lo è la famiglia per noi; di quello le persone hanno bisogno per poter essere anche dei cittadini rispetto alle nostre città.

 

Intervento

Mi sarei aspettata oggi dei dati, noi abbiamo bisogno di dati, di numeri. Per esempio da me, io sono di Brindisi, accanto ad un centro CIE (Centro Identificazione Espulsione) c'è un centro di accoglienza nello stesso edificio e succede di tutto e di più, scavalcano muri… Io vorrei un aiuto in questo senso, avere più contezza di quello che accade, di quello che fa il volontariato, di quello che non dice e che non fa il governo, perché per carità quello che lei ci ha appena detto ci ha preso tutti, però queste storie le conosciamo, le viviamo sulla nostra pelle, di immigrati ne abbiamo tanti intorno, quindi li vediamo questi ragazzi…

Marco Carsetti

Se cambiasse la percezione nei confronti dell'altro non esisterebbe mai più un CIE (Centro Identificazione Espulsione) accanto ad un centro di accoglienza ; il fatto che scavalcano, certi comportamenti, una certa aggressività o violenza non è determinata dall'individuo-persona bensì da noi, dalle condizioni che noi creiamo a queste persone. Questo non è banale. Vorrei entrare nella mente di Veltroni e del ministro degli interni per cercare di capire che cosa hanno pensato quando hanno immaginato di mettere 600 persone nel centro di Castelnuovo di Porto. Glielo dico io qual è la logica: è quella di portare fuori città, lontano dagli occhi gente che non si conosce, che non si vuole che stiano in città, che siano relegati lì, quella è la logica politica che viene da una percezione della persona umana che non è riconosciuta in quanto tale. Vi assicuro inoltre che il costo economico mensile di Castelnuovo di Porto è spaventoso. Si potrebbero creare soluzioni di diversissimo tipo e questo andrebbe nella direzione nostra e loro.

Intervento

Parliamo anche di integrazione: lei parlava della scuola, m'interesserebbe molto capire di questa scuola. Parliamo cioè anche di quello che è possibile fare…

Marco Carsetti

Quello che è possibile fare dipende dal metodo, non dipende dai contenuti, i contenuti non contano in qualche modo . Dire cioè che l'integrazione è importante, dire che la scuola per i bambini stranieri è importante, dire che imparare l'italiano per uno straniero è importante, è una banalità. Il problema delle pratiche e della bontà di quello che si fa, sta nel metodo, nel come lo si fa. Da questo dipende il fatto che poi quelle pratiche funzionano e hanno un senso, oppure non funzionano e quindi non hanno nessun senso. Non ci dobbiamo tanto interrogare sui contenuti e su quello che bisognerebbe fare, ma sul come farlo. Come si fa accoglienza? Che cosa deve succedere all'interno dell'accoglienza? L'Italia ha una sterminata produzione letteraria pedagogica, psicologica che ci potrebbe aiutare in questo. Perché niente viene applicato? Perché fare accoglienza ha bisogno di un metodo, di un pensiero. Di che cosa ha bisogno questa persona? Che cosa significa convivere in un certo gruppo di persone all'interno di un luogo? Possiamo parlare di fare comunità? Possiamo parlare di autonomia degli spazi? Le assicuro che poi le cose cambiano, cambiano all'interno degli spazi a seconda di un metodo, non a seconda dei contenuti. Se lei sente parlare i gestori di quei centri si renderebbe conto che sono persone terribili, sarebbe d'accordo con me.

Corrado Giustiniani

Vorrei ricordare che noi qui stiamo parlando non di emigranti economici, ma di richiedenti asilo, dei rifugiati che sono protetti da convenzioni internazionali . In realtà però per quanto riguarda invece i figli di immigrati, io credo che la scuola italiana stia facendo delle buone cose, magari con l'impegno dei singoli professori, ma la scuola è integra. Ogni tanto si sentono delle proposte balzane, che sono secondo me effetto di sbronze da weekend in bar padani, tipo per esempio quella delle classi parallele, l'avete sentita? L'idea è difatti naufragata però l'abbiamo sentita in televisione, non solo, ma la rappresentazione televisiva che noi abbiamo dell'immigrazione, è quella dei barconi, che non funziona neanche statisticamente. Il professor Blangiardo ci ha detto che entrano in Italia 450-500 mila persone l'anno, con i barconi l'anno scorso ne sono arrivati 30mila, eppure ogni italiano pensa che arrivano tantissimi clandestini dal mare. Io dico che in realtà la scuola sta funzionando, l'apprendimento dell'italiano è una cosa fondamentale, se tu togli un bambino dal suo gruppo dei pari, questo non impara l'italiano. Quella era una proposta scema però lo abbiamo scritto in prima pagina, perché noi giornalisti non abbiamo il coraggio di dire che si tratta di una proposta scema. Bisognerebbe comunque distinguere tra i figli degli immigrati che sono nati in Italia, che sono italiani e magari sanno bene l'italiano e forse anche meglio di qualche bergamasco. Adesso c'è un'altra proposta del ministro dell'istruzione Maria Stella Gelmini, quella di porre un tetto del 30% di alunni stranieri nelle scuole; va bene distinguiamo però, perché i bambini stranieri che sono nati in Italia li vuoi mettere in questo 30%? Sanno bene l'italiano, tifano per il Milan, per la Juve… Sarebbe più importante modificare la legge sulla cittadinanza, bisogna accelerare il percorso per dare la cittadinanza italiana ai bambini stranieri nati in Italia.

Intervento

In che modo avviene più che l'inclusione, l'accettazione dei minori con il vostro lavoro? Fanno cioè l'iter degli adulti per cui vengono respinti anche loro, oppure c'è un minimo d'integrazione oppure c'è qualcosa di diverso?

Marco Carsetti

Lei parla dei minori stranieri non accompagnati? Bene, essendo minori in età scolastica il discorso è diverso. Noi lavoriamo con adulti, con adulti stranieri, le mamme della scuola Carlo Pisacane di Roma e poi con adulti rifugiati richiedenti asilo o migranti, per cui non intercettiamo l'area minori, se ne occupa la scuola oppure il tribunale dei minori. Quella dei bambini stranieri nelle scuole è una grossissima sfida perché non è facile accogliere, integrare all'interno di una classe gli stranieri, con gli strumenti che le scuole oggi hanno. Questi ragazzi rischiano di perdersi molto velocemente e le scuole e gli insegnanti hanno un grandissimo bisogno di aiuto esterno, perché con le sole loro forze non ce la fanno.

Corrado Giustiniani

Comunque se posso dire, l'arrivo di minori stranieri, d'altra parte chi si occupa di questo lo saprà, è in forte aumento . Il comune di Roma ha fatto qualcosa con delle cooperative e funziona abbastanza bene per cercare di integrarli, insomma non guardiamolo malissimo questo paese, qualcosa la facciamo pure.

Intervento

Volevo ringraziare Carsetti sia per il tono che ha utilizzato che per la passione che ci ha messo, perché credo ci faccia assolutamente bene, ma soprattutto per i contenuti che ha trasmesso. In qualche modo non sono d'accordo con l'osservazione che faceva il professore: mi richiamo anche all'introduzione di Giustiniani quando diceva che forse il riferire a un disorientamento generale la nostra incertezza, l'incertezza dei giornalisti, ma vorrei aggiungere l'incertezza di molte professioni, non ci aiuta o meglio rischia di non sottolineare quel quid di responsabilità individuale, professionale, collettiva, sindacale, politica. Sono molto d'accordo in questo e rivedo questa osservazione di Giustiniani nel ragionamento che ha fatto Carsetti perché il buono del suo discorso che condivido assolutamente, è stata l'evidenziazione della questione delle soggettività cui si contrappone quella dello stereotipo dell'etichetta. Quando Carsetti ci dice che noi abbiamo a che fare con dei soggetti che hanno una storia che dobbiamo imparare a conoscere, che dobbiamo guardare l'altro come soggetto portatore di diritti, di problemi, di bisogni, di memoria di quel che è, ci invita a fare meglio il nostro mestiere, innanzitutto quello di giornalista, ma credo anche per esempio il mio, quello di psichiatra. Se noi l'altro lo guardiamo come soggetto e quindi come portatore di bisogni, di diritti e di doveri, io credo che riusciamo in qualche modo a fare un'operazione informativa e culturale sicuramente più appropriata. Credo anche, e anche in questo non sono d'accordo con la sua risposta, che non è paragonabile l'iter che possiamo fare noi quando andiamo in un paese straniero a quello che subiscono queste persone, come lesione dei loro diritti, come violenza e come oggettivazione, delle loro storie e delle loro individualità… Non c'è paragone tra i percorsi che subiscono queste persone e alcune cose spiacevoli che posso subire io quando mi chiedono di spogliarmi quando entro a New York, ecc. Anche questo dobbiamo tenere presente.

Faccio un parallelo con la questione dei manicomi. La violenza che c'era nei manicomi di decenni fa, la lesione di ogni diritto e di ogni cittadinanza incarnato poi anche nella legge, non esiste, non esiste oggi, per quanto le condizioni di vita di alcune persone portatrici di disagio psichico possano essere pessime, quello che ha incarnato come portato di violenza, di oggettivazione in manicomio, non è assolutamente confrontabile. Quindi io traggo dalla relazione di Carsetti questo insegnamento, questo monito, questa indicazione nel nostro mestiere, nei nostri mestieri, di approcciare questi ragionamenti attraverso la lente d'ingrandimento del soggetto, del soggetto con i suoi diritti e certamente con i suoi doveri.

Maria Nadotti

Io invece vorrei intervenire per eliminare una strana contraddizione inventata, perché i due discorsi sono funzionali l'uno all'altro : il professore stava dicendo una cosa che è l'unica che ci difenderà, l'unica, il resto è generosa, intelligente sensibilità. Il professore ci ricordava una cosa semplice: il diritto, il diritto nazionale, internazionale, il resto è buona volontà, intelligente buona volontà. Senza un discorso di diritto non arriviamo da nessuna parte. Il diritto però è una cosa complessa come lei sa molto meglio di me. Lei diceva che il discorso di Carsetti è un piagnisteo, una lamentela, ha detto smettiamocela di lamentarci, in fondo queste persone prima o poi ci arrivano ad essere cittadini italiani, come gli italiani di fine Ottocento che son diventati i nuovi potenti americani; lei professore dice che è solo questione di tempo. Si è dimenticato però un particolare che per me è molto importante che ha a che vedere col diritto dei cittadini di serie A, di serie B e di serie C: se noi ci abituiamo troppo a queste procedure che ci portano ad essere cittadini di serie A, può succedere che lungo la strada perdiamo dei pezzi, per cui non ci sarà più il tema della cittadinanza. Se noi ci abituiamo troppo, per esempio, a pensare che le impronte digitali sono una cosetta da niente e che anche togliersi le scarpe come a lei è successo recentemente all'aeroporto di Bruxelles è una cosetta da niente, ci abituiamo a una serie di cose che hanno poco a vedere con la democrazia, ci abituiamo ad esempio ad essere umiliati, ad essere considerati a priori dei potenziali criminali. Ma la cosa più grave è che ci abituiamo a pensare che questo sistema di controllo e di classificazione degli individui, ci difende e ci garantisce la nostra sicurezza. Questo è un problema serio, io mi riferisco a un'ipotesi di democrazia, non di sistema totale. Stanno succedendo delle cose gravi proprio sul piano dell'idea di democrazia. Il discorso del diritto in questo senso è fondamentale, ma che cos'è il diritto? Che cosa fa del diritto e del rispetto del diritto, una cosa seria e non una barzelletta? Lei ha raccontato la sua storia di migrazione infantile, ma sono cambiate alcune cose, innanzitutto lei non è andato con un barcone, non ha mandato credo a sua sorella un messaggio dicendo o arrivo o muoio, lei sapeva che arrivava per esempio, comunque questo è secondario. Io ci tengo invece a mettere in risonanza le due cose, perché io rispondo con più simpatia al pathos di Carsetti, ma so che ho bisogno del discorso che fa lei e quindi vi pregherei, pregherei tutti e due e anche il vostro moderatore, di rimettervi in sintonia, perché sennò ci portate su due strade che non s'incontreranno più e che ci fregano.

Marco Carsetti

Io sono assolutamente d'accordo e non mi sento in non sintonia con loro ; però non sono assolutamente d'accordo sull'etichettare l'approccio da me seguito nella mia relazione come generosa volontà, buona volontà, sai di quello pacca sulla spalla amico mio andiamo a bere… non è questo… Io parlo dal un punto di un educatore. Il mio compito all'interno dei contesti educativi con bambini e adulti è quello di aiutare le persone a trovare le risorse e le energie autonome per diventare dei soggetti all'interno di questa società. Io credo che l'Italia abbia uno straordinario bisogno di soggettività delle comunità migranti e quindi è anche un lavoro che va al di là della relazione educativa con le persone. Io mi rendo perfettamente conto che dei paletti fondamentali in questi discorsi sono i diritti, dopodiché forse mi sto abituando a vivere in un mondo in cui i diritti stanno saltando e che in qualche modo io devo rispondere a questo. Che me ne faccio io di un diritto internazionale nel momento in cui una maggioranza parlamentare e una maggioranza di opinione pubblica nel mio paese non riconosce a somali, eritrei, etiopi, sudanesi, tutte popolazioni in fuga da dittature, guerre civili, addirittura paesi ex colonie dell'Italia come la Libia, il diritto di chiedere asiloin Italia? Perché questo è il problema. Simone Weil diceva che il diritto in qualche modo è qualcosa che sta tra due parti contraenti: nel momento in cui qualcuno viene meno nel riconoscimento di quel diritto, il diritto salta. Durante la seconda guerra mondiale, tra il '42 e il '43 quando era esule a Londra, la Weil recuperava il concetto di obbligo: " l'obbligo è quella cosa che è al di sopra del mondo ". Nei confronti di queste persone non è bonarietà, è tragedia di sguardo nei loro confronti non sapere niente di loro, non sapere chi sono queste persone che stanno su queste barche, da dove vengono e che non sono dei numeri, non sono dei clandestini etichetta, non sono dei rifugiati etichetta, ma sono delle persone che si chiamano Assan, Abu, che hanno una madre, che hanno dei figli… Non credo di essere buono, di essere melenso, di essere piagnucoloso, il problema è che non c'è più quell'empatia con l'essere umano, non lo rintraccio più questo. Noi invece abbiamo un obbligo, dobbiamo ricominciare a sentire l'obbligo.

Giancarlo Blangiardo

Quello che cerco di dire è semplicemente che le procedure devono essere seguite. La procedura è quella di capire chi è, vedere, parlare, fare, discutere, ecc. Questo credo che sia doveroso da parte di un paese che in qualche modo difende i diritti. Dopodiché possiamo discutere se all'interno di questa procedura ci sono dei passaggi dove il soggetto viene identificato con un numero oppure con un nome, non ha rilevanza dal punto di vista dell'iter burocratico; quello che invece contesto è se nel corso del percorso c'è un passaggio nel quale non si riconosce al soggetto il fatto di essere comunque una persona. Mi va bene anche di combattere fortemente se ci sono dei soprusi strada facendo, però mi sento di continuare a difendere l'esistenza e la necessità di una procedura burocratica anche se col linguaggio della burocrazia.

Corrado Giustiniani

Quando fu approvata la legge Bossi-Fini i giornali del centro sinistra la chiamarono la legge delle impronte digitali . Io non condividevo questa impostazione: la legge Bossi-Fini ha una quantità di difetti enorme, quella di precarizzare, di abbassare i contratti a durata, ma le impronte digitali ci sono dall'11 settembre 2001; purtroppo viviamo in un mondo di attentati…

Intervento

Chi lavora a diretto contatto con queste persone può farsi promotore di una raccolta di buone pratiche in questo senso?

Marco Carsetti

E' fondamentale secondo me lavorare nelle città, lavorare nel paese creando cooperazione tra gruppi rispetto ai vari temi che siano la scuola, l'accoglienza, l'orientamento , questo è centrale secondo me, però non si fa tanto, i gruppi non sono moltissimi.

Iintervento

La procedura, sono d'accordo, bisogna vedere com'è e come è eseguita. Io sono una giornalista e per testimonianze dirette di amici e colleghi che lavorano nei centri di accoglienza so che parliamo di vermi nel cibo… Ora io mi domando: questa è una procedura? Parliamo di scarafaggi nelle coperte, Marco è stato fin troppo gentile a non denunciare queste cose che non sempre, credo, possiamo scrivere o dire…

Intervento

Ritornando un attimo al titolo e visto che il pubblico più che altro è di giornalisti, la mia domanda la rivolgo proprio a loro: ma siamo sicuri che il problema è il soggetto, il contenuto, l'emigrazione in Italia, o piuttosto è anche un certo modo in cui si fa giornalismo? Prima è stato citato Gatti, ora vorrei tranquillizzare tutti, nel senso che non c'è bisogno di andare a tuffarsi da uno scoglio a Lampedusa per vedere il Centro… Io spesso così un po' per scherzo prendo in giro Marco per l'eccezionale lavoro che hanno fatto con "Come un uomo sulla terra", dicendo che hanno avuto un successo immeritato, nel senso che hanno fatto un lavoro estremamente banale, hanno parlato, intervistato, incontrato, ascoltato delle persone arrivate in Italia dalla Libia. Sono 10 anni che ci sono gli sbarchi, che succede tutto questo in Libia, non si capisce perché nessun giornalista in questi 10 anni abbia mai messo un microfono davanti a una persona sbarcata via mare per farsi raccontare quello che succede lì. Probabilmente si è perso un certo modo di lavorare sul terreno, di andare semplicemente a cercarsi le storie, semplicemente incontrando le persone, ragionando e parlandoci.

Corrado Giustiniani

Sono in totale sintonia con questo ultimo intervento, sul modo purtroppo superficiale con cui spesso facciamo il nostro lavoro. Io volevo dare un esempio finale. Voi sapete che in Italia vengono denunciati 4mila stupri all'anno? Non è un dato drammatico rispetto agli altri paesi d'Europa, anzi, ci sono paesi con molte più denunce; inoltre secondo l'Istat il 69% degli stupri non viene denunciato perché fatto in famiglia oppure la vittima conosce, diciamo, i suoi violentatori e per questo non denuncia. Non è dunque un affare drammaticamente straniero come invece si sente dire. Ci sono però degli stupri di serie A e altri di serie B: è stato trattato da serie B ad esempio lo stupro subìto sempre a Roma da una donna africana, una studentessa del Lesotho da parte di un violentatore romeno. Questo stupro con due stranieri come protagonisti non ha avuto, rispetto ad altri di serie A, lo stesso valore sui giornali.

* Testo non rivisto dagli autori.