XVI Redattore Sociale 27-29 novembre 2009

Disorientati

Carcere: rinchiudere/recuperare

Sintesi del workshop: interventi di Ornella Favero e Patrizio Gonnella

 
Durata: 25' 03''
 
 
 
 
Ornella FAVERO

Ornella FAVERO

Responsabile di Ristretti Orizzonti e di www.ristretti.it, rivista e portale di informazione realizzati nel carcere Due Palazzi di Padova.

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

Patrizio GONNELLA

Patrizio GONNELLA

Presidente dell’associazione Antigone.

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

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LEGGI IL TESTO DELL'INTERA SESSIONE*

Ornella Favero

Dal carcere sul carcere: con un gruppo di detenuti 12 anni fa abbiamo dato vita a questo giornale che si chiama "Ristretti Orizzonti", giocando un po' sul fatto che in termini burocratici i detenuti sono i ristretti. A questa prima forma di comunicazione da alcuni anni è stato aggiunto un sito e una newsletter quotidiana, che devo dire è diventata abbastanza un punto di riferimento, anche perché, mi dispiace dirlo, il ministero non fa niente di simile; abbiamo infatti tra gli utenti tantissimi addetti ai lavori.

Perché abbiamo deciso di fare un giornale dal carcere? E perché ci lavoriamo con assiduità da 12 anni? Io credo perché su questi temi della giustizia, delle carceri, delle pene, l'informazione e la comunicazione giocano un ruolo fondamentale. Noi ci troviamo di fronte a una realtà dove l'informazione è la semplificazione di qualsiasi concetto, lavoriamo in una realtà che è la complessità per eccellenza, perché la realtà del carcere e di chi ci sta dentro è davvero complessa. Quando io mi guardo intorno in redazione dove lavoro, mi accorgo per esempio di un fatto che colpisce sempre moltissimo gli studenti ossia che ho intorno a me perlopiù persone che hanno storie come la mia, che arrivano cioè da famiglie regolari, ci sono anche quelli che hanno deciso di fare i delinquenti, un rapinatore ad esempio ha deciso di farlo, ha fatto una scelta ben precisa, ma ci sono tantissime persone che arrivano da famiglie regolari diciamo e questo pone già un primo problema. In realtà poi metà della gente che ho dentro in carcere ha commesso reati gravissimi in famiglia come omicidi e che questi abbiano superato quelli di tipo di mafia, di 'ndrangheta, ecc., la dice lunga sul fatto che il problema delle carceri ci riguarda tutti. L'altra metà sono persone che arrivano dentro per reati legati alla droga e anche questo ci dice che il problema riguarda tutte le famiglie.

Partiamo dal concetto di base di questo seminario: rinchiudere o recuperare. Vorrei dire che purtroppo oggi nella stragrande maggioranza dei casi, nelle 206 carceri d'Italia si rinchiude e si recupera poco, molto poco. Voglio dire anche un'altra cosa riguardo alle soluzioni che vengono proposte oggi e che vengono anche richieste a gran voce, relativamente ai detenuti e alle carcerazioni: le soluzioni sembrano andare verso il rinchiudere, cioè costruire nuove carceri, si parla infatti di un piano carceri. Io personalmente ritengo che costruire nuove carceri nel nostro paese sia una follia. Le tre nuove carceri di Rieti, Bergamo e un padiglione di Bollate, rimangono chiuse perché manca il personale. Allora davvero ci servono nuove carceri o bisogna ragionare in modo diverso sul senso da dare alla pena e forse non pensare che la galera risolve tutto e quindi cacciamoli dentro per qualsiasi tipo di reato e per qualsiasi periodo di tempo? Abbiamo quasi 20mila detenuti sotto i tre anni di pena, forse bisognerebbe fare un ragionamento, come se davvero serve tenerli in carcere fino all'ultimo giorno. Abbiamo più di metà della popolazione detenuta in attesa di giudizio, che a volte entra per pochissimo tempo. Qualche giorno fa si è suicidato nel minorile di Firenze un ragazzino marocchino di 17 anni che era in attesa del processo per tentato furto. Su questo forse qualche domanda dovremmo farcela.

Io credo che il tema dell'informazione sia oggi vitale. Non so dove si fermi il ruolo dell'informazione rispetto al formare anche l'opinione pubblica, ma ho il sospetto che sui temi della pena del carcere, l'informazione conti tantissimo. Vi porto due esempi a partire dall'indulto: qualcuno di voi sa, ha un'idea vaga del numero delle recidive ossia di quante persone sono rientrate in carcere per aver commesso reati dopo l'indulto? Abbiamo fatto questo esperimento facendo questa domanda a persone che non si occupano di carcere e ne è venuto fuori che tra gli ottimisti si pensa ad un 70% circa di recidiva fino ad arrivare al 90%; ho sentito politici dire che sono rientrati tutti dall'indulto, in realtà la recidiva è stata sotto il 30%. C'è una ricerca molto interessante su questo tema di un ricercatore dell'università di Torino, Giovanni Torrente, sui rientri dall'indulto. L'obiezione tipica che viene fatta a tal proposito è che sono passati solo tre anni, però vi faccio notare che la recidiva si presenta nei primi due anni, ossia le persone che tornano a commettere reati di solito lo fanno nei primi due anni dall'uscita dal carcere. Questo dato dunque è già stabile. Altro esempio: vi ricordate il caso di Pietro Maso, il ragazzo che ha ucciso i genitori quando aveva 19 anni? Quando gli è stata concessa la semilibertà, alcuni titoli di giornale dicevano "Dopo soli 17 anni è già libero". Allora questo titolo porta già due concetti errati: il primo che 17 anni di carcere non siano niente ma guardate che fanno diventar matta una persona; ci sono paesi che stabiliscono che la pena massima deve arrivare fino a 15 anni, in altri come in Germania, se una persona è al primo reato e viene condannata all'ergastolo questo viene trasformato in una pena di 15 o massimo 20 anni, il cosiddetto piccolo ergastolo. Il secondo concetto falso è quello che viene dato usando il termine libertà, perché una persona in semilibertà è un soldatino che esce la mattina con un programma scritto rigidissimo, non può usare il cellulare, non può parlare con persone che non abbiano a che fare con il suo posto di lavoro, deve usare quel mezzo, deve mangiare nel posto indicato, deve rientrare a una data ora, in qualsiasi momento è controllabile, quindi non si tratta di libertà, è un'altra cosa. Con un titolo così quindi l'opinione pubblica è ovviamente influenzata in modo pesante.

Quando parlo d'informazione non parlo di qualcosa di poco importante, molto spesso per esempio il volontariato non si rende conto di quanto è vitale la questione dell'informazione e lo ritiene un di più. L'idea comune è che noi siamo quelli del fare poi se abbiamo tempo informiamo un po', invece no, io credo che le due cose siano strettamente legate e importantissime, perché qualsiasi proposta che abbia a che fare col carcere viaggia sul fatto che l'opinione pubblica non è preparata ad accogliere chi esce dal carcere. Questa mitica idea che se una persona sta in carcere fino all'ultimo giorno, sarà meglio per la società, sarà un investimento sulla sicurezza, e quindi che stiano in carcere fino all'ultimo giorno, deriva molto appunto dall'informazione. Invece non è così. Quando noi andiamo ad incontrare i ragazzi nelle scuole cerchiamo di spiegare i dati che risultano da una ricerca molto seria durata sette anni promossa dal ministero: la ricerca ha analizzato migliaia di persone che sono uscite dal carcere a fine pena senza aver fatto un percorso graduale e altrettante uscite prima dal carcere, ma prima nel senso che hanno avuto una misura alternativa, cioè la parte finale della pena l'hanno fatta ad esempio lavorando. Ne risulta che chi fa il carcere fino all'ultimo giorno ha una recidiva del 69% circa e invece nei casi in cui si inizia ad uscire prima in un percorso graduale, la percentuale di recidiva scende al 19%. Anche in una regione come la mia che non è particolarmente avanzata, i ragazzi capiscono che se una persona esce dal carcere alla fine della pena in stato di abbandono, senza un lavoro, magari avendo rotto i rapporti con la famiglia, è più pericolosa di una che è uscita un po' prima in un percorso graduale, accompagnata; in questo caso non c'è l'ubriacatura da libertà di fine pena, quella persona si abitua ad avere dei ritmi di lavoro normale che il carcere non gli dà, si abitua ad avere delle relazioni, riallaccia i rapporti con la famiglia e forse alla fine della pena non sarà quella bomba ad orologeria che è il detenuto che viene buttato fuori totalmente libero tutto in una volta.

Su questo noi abbiamo costruito tutto il nostro lavoro e faccio solo tre esempi di iniziative che riguardano strettamente l'informazione, perché forse sono quelle più interessanti , dato appunto che noi pensiamo che l'informazione rispetto al carcere ha questo ruolo pesantissimo. Anzitutto abbiamo fatto un esperimento, che ripeteremo, con l'ordine dei giornalisti: abbiamo deciso che i detenuti e il carcere potevano fare formazione a chi si occupa d'informazione, perché l'esecuzione della pena è un tema su cui non sa niente nessuno o quasi, salvo delle eccezioni. Abbiamo fatto un primo seminario nella mia redazione che è fatta di detenuti e volontari a cui hanno partecipato, con le loro testimonianze, molti detenuti naturalmente, i magistrati di sorveglianza e degli avvocati, quindi interessante perché è venuto fuori un quadro preciso; è stato ad esempio spiegato che le misure alternative non sono automatiche come si fa Porta a Porta. Sentire un ragionamento che viene dall'esperienza diretta delle persone che vivono queste situazioni, ma poi anche dei magistrati che dicono quanto è complessa la decisione di mettere fuori una persona e quanti elementi loro valutano, credo sia stato un momento molto interessante. Son comunque tutti materiali che poi se a qualcuno interessa glieli posso mandare.

La seconda iniziativa nel campo dell'informazione è questa con le scuole: andiamo nelle scuole in varie tappe, con dei detenuti, a volte vengono i magistrati e gli agenti di polizia penitenziaria e poi a gruppi di due i ragazzi vengono in carcere ad incontrare la redazione. Ma attenzione non è una visita allo zoo, è un lavoro in cui il carcere fa prevenzione, perché sentirsi raccontare come si finisce in carcere a partire magari dalla piccola trasgressione credo sia una lezione più interessante che il tecnico che spiega la differenza tra le droghe. E' quindi un progetto faticosissimo.

La terza è il dossier "Morire di carcere", non in carcere, di carcere, perché nelle carceri, soprattutto in quelle sovraffollate di oggi c'è un problema molto serio di vita e di morte, di qualità della vita, di assenza di ogni speranza . Noi siamo partiti raccogliendo dalla cronaca nera dei giornali la storia delle persone che morivano in carcere, perché queste tre righe dedicate a loro ci fanno pensare che è possibile ridare almeno nella morte un po' di dignità. Questa cosa è molto cresciuta oggi e le segnalazioni ci arrivano un po' da tutte le parti, soprattutto dai familiari. La cosa più drammatica non è neanche la poca chiarezza su come avvengono queste morti, è il modo in cui i familiari vengono avvisati di questo, è la desolazione di una mancanza di umanità e di una burocrazia che spesso tratta i parenti, non come le vittime che sono, perché i parenti sono spesso vittime delle scelte dei loro cari, ma come a loro volta i colpevoli, quelli che stanno dall'altra parte. Quindi questo dossier è un altro pezzo di informazione che cerchiamo di dare. 

Spesso l'informazione dei grandi media usa le vittime, e trovo ciò terribile; trovo orribile andare ad intervistare un genitore che magari ha perso un figlio perché c'è stato un incidente dove magari chi guidava era in stato di ebbrezza, un reato molto grave non lo sottovaluto, però quel genitore è ovvio che al momento in cui succede ciò non può che desiderare il peggio per chi è colpevole della morte del figlio. Noi abbiamo fatto un percorso con molte vittime di reati, per esempio sono venute nella nostra redazione Olga D'Antona, Benedetta Tobagi e altri e abbiamo ragionato su questo, sull'uso delle vittime, sul fatto che forse le vittime non è che hanno sempre questo desiderio di vendetta, forse le vittime hanno, come ha detto Benedetta Tobagi, il desiderio di spezzare la catena dell'odio. Ecco, io credo che su questi temi che riguardano strettamente l'informazione, ci sia molto da discutere.

AdesSo passo la parola al dottor Cascini che invece rappresenta l'amministrazione penitenziaria e quindi fornirà l'altra faccia del problema.

Francesco Cascini

Buongiorno a tutti, innanzi tutto mi presento, mi chiamo Francesco Cascini, faccio il magistrato, non so se rappresento l'amministrazione penitenziaria, sicuramente ci lavoro, dirigo il servizio ispettivo del Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia da tre anni ; ho una precedente esperienza come pubblico ministero durata circa tredici anni. Da tre anni mi occupo quindi di andare in giro per le strutture penitenziarie, il mio compito è soprattutto quello di verificarne il corretto funzionamento, le condizioni complessive di rispetto delle varie norme. Devo dire innanzitutto che mi fa molto piacere aver sentito questo intervento, io conosco il lavoro di Ornella, sono stato a Padova anche più di una volta e credo sia un lavoro molto importante, come è molto importante il lavoro in generale dei volontari all'interno del carcere, credo veramente che siano una risorsa irrinunciabile. Devo dire però che a volte ho la sensazione, seppure non ho partecipato a tanti dibattiti, che le discussioni siano un po' frammentate. Proverò a darvi qualche numero, ma giusto per costruire una base per poi fare un ragionamento insieme. Se guardassimo quello che c'è nel carcere, ci renderemo conto qual è la scelta che questo paese fa in materia di repressione. E' l'unico strumento forse, il principale, per capire come funziona la forma più grande di repressione penale ossia il carcere che è poi lo specchio del funzionamento della società, rappresenta quindi, forse, gli aspetti più importanti per misurare il tasso di democrazia di un paese. In effetti il livello di democrazia di un paese probabilmente si può leggere attraverso il meccanismo di funzionamento della repressione penale, tanto quanto si capisce come funziona la società guardando il carcere. Ecco perché è una realtà molto complessa, anche perché questo non è un paese uguale dappertutto, c'è una grande differenza tra le realtà del sud e quelle del nord, c'è una grande differenza culturale, per la presenza della criminalità organizzata in alcune regioni, e tutto questo ha una fortissima ripercussione sul carcere.

65.719 sono i detenuti presenti negli istituti di pena. Ora come diceva prima Ornella Favero i detenuti sono arrivati a questo numero partendo dall'indulto che c'è stato nel luglio 2006 quando i detenuti presenti erano poco meno di 62mila; ne sono usciti con l'indulto circa 26mila, in poco più di tre anni siamo tornati a circa 3.500 detenuti in più rispetto a quelli che erano presenti al momento dell'indulto. Come si vede è una misura che è stata come dire, perlomeno da questo punto di vista, totalmente riassorbita e quindi bisognerebbe chiedersi se gli indulti sono una soluzione, forse una soluzione temporanea di qualche anno.

La capienza: ci stanno stretti questi detenuti nelle strutture penitenziarie, sono troppi?Si sente parlare di sovraffollamento molto spesso, qual è la capacità degli istituti di ricevere i detenuti? Guardate vi sembrerà strano, ma non esiste una norma che dica quanto spazio deve avere un detenuto nella sua camera detentiva. Esiste un decreto ministeriale del ministero della salute del 1975, dedicato alle abitazioni nel quale si dice che una stanza da letto, la stanza dove si dorme, non può essere inferiore ai 9 metri quadri per 2,70 di altezza. Questo decreto ministeriale è stato preso già da molti anni come parametro per individuare la capienza regolamentare degli istituti penitenziaria: a partire da questa capienza regolamentare vengono calcolati i posti disponibili nelle celle penitenziarie di pernottamento che in Italia risultano essere 43mila. Secondo questo parametro che a me personalmente non convince, vi dico la verità, siamo sopra di circa 22mila unità, cioè un sovraffollamento di circa 22mila detenuti rispetto a questo dato. Di recente, invece, la corte di Strasburgo ha condannato l'Italia al pagamento di un indennizzo in favore del detenuto che ha avuto all'interno della camera di detenzione uno spazio inferiore ai 3 metri quadri in un ambiente detentivo grande, il cosiddetto camerone: secondo la Corte di Strasburgo quando un detenuto ha uno spazio inferiore ai 3 metri quadri, si ritiene sia vittima di una tortura, di un trattamento degradante. Non c'è quindi nessuna norma di legge che dice quanto deve essere grande una cella e quanti detenuti ci possono stare dentro. Questo guardate crea una gran confusione anche perché io non penso che si possa usare un parametro al di sotto del quale si è nell'ambito della tortura, non so se il parametro della Corte di Strasburgo può essere un parametro da noi preso come punto di riferimento. Vi faccio un esempio. La gran parte delle celle sono grandi 9 metri quadri, secondo la Corte di Strasburgo ce ne possono andare 3 di detenuti: secondo questo parametro noi abbiamo più posti disponibili rispetto a quanti ne abbiamo secondo il parametro del decreto ministeriale.

Lo diceva prima Ornella Favero: i detenuti presenti in carcere, questa è una distinzione molto importante, si dividono tra detenuti in attesa di giudizio e detenuti invece che sono condannati definitivamente. I 31.136 detenuti in Italia in attesa di giudizio rappresentano il 47,3% della popolazione detenuta. Per darvi un'idea di che cosa significa questo dato, in tutti i paesi dell'Unione Europea, i detenuti presenti sono 500mila di cui 130mila in attesa di giudizio. L'Italia contribuisce a questo dato nella misura di 131.136 detenuti, è di gran lunga il paese col più alto numero di detenuti in attesa di giudizio. Il secondo paese è la Grecia con poco meno di 10mila detenuti. Questo significa che noi in carcere abbiamo per metà persone che sono ancora in attesa del processo, non si sa ancora se sono colpevoli o innocenti e questo crea non pochi problemi nella composizione complessiva del panorama carcerario. Ornella Favero citava un dato, circa 20mila detenuti mi sembra, devono scontare una pena inferiore ai tre anni. Questo è un grafico che riguarda la pena inflitta, non la pena residua e qui stiamo parlando della condanna, cioè a quanto viene condannata una persona che sconta in carcere la pena: come vedete il numero di queste persone, a me impressiona questo dato, è sempre crescente, ci sono 3.278 persone che prendono condanne fino a un anno; se scomponiamo questo dato troviamo persone che prendono condanne fino a tre giorni, dieci giorni, un dato sempre più crescente. Secondo me questo grafico è importante perché ci dà un po' la misura di cosa c'è nel carcere: due sono i grossi blocchi. Come vedete noi abbiamo anche un certo numero di persone che hanno pene alte. I detenuti che sono ristretti per reati di criminalità organizzata in Italia sono circa 10mila persone condannate o imputate per i reati di cui all'art. 416 bis, quindi mafiosi, una grossa fetta della popolazione viene da quel tipo di repressione penale, cioè contro la criminalità organizzata.

24.386 sono i detenuti stranieri, il 37,1% della popolazione carceraria. Questo è un dato che negli ultimi 10 anni ha avuto un'impennata mostruosa, noi passiamo dal 10-15% di 15 anni fa al 37% di oggi. Da tener presente che questi numeri sono distribuiti su tutto il territorio nazionale. Nelle carceri del sud la presenza dei detenuti stranieri è si attesta tra il 10 e il 20%, al nord ci sono strutture penitenziarie con un numero di stranieri superiore anche al 70%, in alcuni casi l'80%. Ci sono carceri dove il flusso dei detenuti che vedremo fra un po' è quasi esclusivamente costituito da detenuti stranieri, poi se volete su questo proviamo a fare un ragionamento, adesso finisco di darvi i dati.

Altro dato molto importante, le misure alternative alla detenzione, cerchiamo di capire cosa cambia. Queste sono le misure alternative principali, non ce le ho messe tutte per cercare di rendere un po' più semplice il ragionamento : precedentemente alla concessione dell'indulto avevamo 62mila detenuti con 22.816 misure alternative in corso, oggi i detenuti sono 65mila e le misure alternative sono meno della metà. Attenzione abbiamo più o meno lo stesso numero di detenuti definitivi, quindi mentre all'inizio della concessione dell'indulto si disse che le misure alternative non ci sono, perché non ci sono più detenuti definitivi ovviamente, oggi a distanza di tre anni e mezzo avremmo dovuto riassorbire più o meno quell'effetto e invece siamo fermi a meno della metà delle misure alternative. I detenuti tossicodipendenti si attestano intorno al 25%, attenzione però che questo è un dato ufficiale perché tu dichiari di essere tossicodipendente oppure vieni preso in carico come tossicodipendente, quindi è un dato che io prenderei diciamo per difetto, è mia opinione che sia in realtà un po' più alto.

Adesso saltiamo a una cosa secondo me molto importante anche sul piano dell'informazione e spesso poco nota, che riguarda il flusso. Noi oggi in carcere abbiamo 65mila detenuti, questo non è un concetto che passa così facilmente, domani ne avremo duecento in più, ma non sono più gli stessi, le persone cambiano continuamente, il carcere è un continuo cambiamento di persone, ogni anno entrano in carcere una media di 90mila persone, questo è un dato del 2007, sono entrati in carcere 94mila e ne sono usciti più o meno altrettanti. Per farvi capire che cosa intendo, vi faccio questo esempio: se andiamo a Milano San Vittore in matricola, vediamo che ogni giorno la matricola carica sessanta persone e ne scarica altrettante, entrano ed escono detenuti, quindi la popolazione detenuta è in continuo cambiamento in Italia in particolare. Di questi 94mila, 84mila entrano in custodia cautelare, cioè entrano non per scontare una pena, ma perché sono in attesa di giudizio o perché vengono arrestati; entro l'anno di queste persone che fanno ingresso ne escono almeno 70mila, e di questi 70mila 35mila non stanno più di dieci giorni in carcere. Questo serve per far capire come il carcere sia in continuo movimento, la gente entra ed esce, non è tanto il numero che noi vediamo oggi che costituisce il problema, ma quanti entrano in carcere e dopo una settimana non ci stanno più e sono 30mila l'anno. Se noi pensiamo a scorporare questo dato in un anno, circa 15mila detenuti stranieri, persone straniere, extracomunitari, entrano per la violazione della Bossi-Fini, entrano solo per quello, cioè perché hanno avuto il foglio che gli intima di lasciare il territorio dello stato e non lo fanno: il reato di immigrazione clandestina produce tra i 10 e i 13mila arresti l'anno, gente che sta due o tre giorni in carcere per poi uscire e tornarci dopo un po'. I dati del 2008 e del 2009 sono sostanzialmente analoghi.

Sul fenomeno degli incidenti e delle morti in carcere noi abbiamo dati che non corrisponderanno sicuramente a quelli di Ristretti Orizzonti, e proverò anche a dire perché . Semplificando c'è l'auto aggressività e l'etero aggressività: nel 2008 ci sono stati 42 suicidi in carcere, 605 i tentati suicidi e altre forme di autolesionismo, questo per quanto riguarda l'auto aggressività. Per quello che riguarda invece le aggressioni al personale, parliamo di colluttazioni tra personale e detenuti, 231 sono aggressioni a seguito delle quali ci sono state lesioni, non ci sono però tutti i dati relativi a contatti tra persone che non producono lesioni; le aggressioni fra detenuti si attestano invece a 1.078. Guardate come questo dato aumenta pur non essendo finito il 2009, anno in cui aumentano i suicidi, aumentano i tentati suicidi, aumenta tutto. I dati di Ristretti Orizzonti, di Antigone sono diversi, soprattutto con riferimento ai suicidi, perché c'è un fenomeno nel carcere molto frequente che non consente di classificare bene alcune morti; ad esempio i detenuti hanno a disposizione nelle loro camere detentive i fornellini per cucinare, riscaldare, cucinare pasti caldi e spesso molte morti, alcune morti sono determinate dall'inalazione del gas. Questo accade a volte perché i detenuti lo fanno per stordirsi, perché sono tossicodipendenti e quello è un modo diciamo per stordirsi, altre volte lo fanno per suicidarsi. Questa particolare causa della morte porta spesso l'amministrazione penitenziaria, quando non ci sono elementi di chiarezza, a classificare quella morte non come suicidio, ma determinata appunto dall'uso improprio di quel mezzo; a volte è chiaro che si tratta di suicidio, a volte no.

Le strutture sul territorio dello stato sono 206 , il 60% hanno più di 100 anni, il 20% sono collocabili tra il 1200 e il 1500. Complessivamente le strutture penitenziarie sono tantissime, sono circa 50 in più dei tribunali che sono 165.

Finisce qui la presentazione dei dati e adesso provo rapidamente a fare qualche piccolo ragionamento partendo proprio dalle strutture. In un paese normale, prendiamo come dire la Spagna o la Germania, la repressione penale funziona in questo modo: il 15% dei detenuti sono in attesa di giudizio, l'85% sono detenuti definitivi e devono scontare una pena superiore ai quattro anni. Questo è un sistema sano dal punto di vista penitenziario, che può svolgere un'opera di rieducazione per detenuti che hanno commesso fatti gravi e sono ristretti per un certo periodo di tempo per consentire la costruzione di un percorso. In Spagna hanno più o meno il nostro numero di detenuti, un po' di più, compresa la Catalogna sono circa 70mila, a fronte di 65 istituti penitenziari. Il nostro è un sistema disgregato sul territorio, molto frammentato in cui ogni realtà ha le sue particolarità, dalle fortezze del 1200 alle più recenti, tutte costruite in realtà senza una identità, senza un'idea su che cosa in quelle carceri si debba fare. Questo dipende in gran parte dai detenuti che noi abbiamo, perché se per metà sono in attesa di giudizio, una parte viene dalla criminalità organizzata, quasi il 40% sono stranieri ed extracomunitari, il 25% sono tossicodipendenti, moltissimi stanno in carcere per periodi brevissimi. Insomma vi renderete conto che orientarsi in un panorama così composito non è proprio semplicissimo. Il che non vuol dire che non si faccia nulla nel carcere, qualcosa di buono anche di molto buono nel carcere si fa, però dobbiamo renderci conto di quello che è il panorama.

La prima domanda che ci dovremmo porre riguarda la repressione penale: partendo per esempio dagli extracomunitari il primo problema è che la repressione penale tende a colpire l'emarginazione sociale. Tutto ciò che costituisce un problema per la società va a finire in carcere: l'extracomunitario come il tossicodipendente, ed è l'espressione più chiara per capire che cosa va a finire in carcere in termini di recidiva. Voi sapete che una delle leggi che ha portato a quei dati per esempio sulle misure alternative o all'aumento così consistente è la legge cosiddetta ex Cirielli? Che cosa ha fatto questa legge? Da un verso ha diminuito i termini di prescrizione da un altro verso però colpisce i recidivi e dice, quando la pena è inferiore ai tre anni gli ordini di carcerazione si sospendono, il detenuto non va in carcere, si sospende e può fare istanza di accesso alle misure alternative senza entrare in carcere. Questo aveva portato a quei numeri di misure alternative, impediva l'impatto con la carcerazione, dicevano, se non è una pena tanto lunga proviamo a fargli fare qualcos'altro. La Cirielli dice però attenzione, se sei recidivo, per qualunque fatto vai a finire in carcere, quindi c'è la modifica dell'ordine della sospensione di carcerazione e l'impossibilità di accedere alle misure alternative. Che cosa si colpisce quindi? Il recidivo e non lo si colpisce per particolari reati. Questo principio è stato preso dal sistema americano e non si è forse tenuto conto delle particolari condizioni italiane.

Tra la criminalità organizzata che è molto presente all'interno del carcere e l'emarginazione sociale non c'è niente. In mezzo ci sono 2 o 3mila detenuti per reati sessuali, in mezzo c'è questo, oltre a quello non c'è nient'altro, perché questo è un paese in cui, per farvi un esempio una persona che vende delle borse per strada può avere una pena fino a cinque anni di carcere, se lo fa di nuovo, questa pena per effetto delle norme della ex Cirielli, può arrivare anche a sette-otto anni. È reato nel nostro paese la guida senza patente o la costruzione di una veranda senza permesso, è reato, sono reato moltissime cose che obiettivamente non rappresentano nessun pericolo per la sicurezza. Anche la permanenza nel territorio dello stato, che di per sé non è un elemento di pericolo nonostante qualcuno dica il contrario, è considerato un reato pericoloso, anche se passi col rosso è pericoloso però non è reato, se passi col rosso e va a 180 km orari nel centro abitato non è reato. Ma sapete qual è il problema? Il problema è la risposta. Il carcere è una risposta idonea? Per la guida senza patente o per la vendita di cd o borse per strada la risposta è il carcere? Se il carcere deve difendere la società dall'allarme sociale, non dico che non è pericoloso guidare senza patente, non è pericoloso passare col rosso, è chiaro che è pericoloso, o non fermarsi quando qualcuno attraversa sulle strisce, è evidente che è pericoloso, mi chiedo però se questo tipo di violazioni possano essere punite esclusivamente con il carcere, tutto qui. Il problema qual è quindi? Che tutta la recente legislazione si sposta prevalentemente sui recidivi e questo ha comportato nel corso del tempo unacarcerizzazione di una fetta di popolazione che certamente è più incline alla reiterazione di reati, anche poco gravi. Ecco perché noi in carcere troviamo quelle percentuali di detenuti extracomunitari e di detenuti tossicodipendenti. Guardate per farvi capire cosa intendo e quali storture queste norme stanno comportando, vi dico che quindici giorni fa si è suicidato a Firenze un ragazzo marocchino in attesa di giudizio per tentato furto, fatto risalente al 3 agosto.

Patrizio Gonnella

Con questo sistema carcerario la rieducazione è un mito così come il sistema penale è selettivo vuoi per motivi di censo, di appartenenza etnica, di appartenenza sociale, per status ed è ovvio che questo produce un sistema che a sua volta non riesce a rispondere a quella che è la prospettiva rieducativa o di reintegrazione sociale. Se queste sono le premesse allora dobbiamo capire che fare e ovviamente per chi è impegnato come noi, un'associazione che nasce con l'utopia del garantismo penale, della minimizzazione dell'impatto penale e la riduzione dell'area delle sanzioni e del reato, ovviamente c'è da riflettere su quello che non può che essere un enorme e lunghissimo lavoro culturale. Siamo d'accordo che il sistema è questo e allora dobbiamo prenderne atto e così la battaglia della umanizzazione della pena e della equità della giustizia sembra oggi non dico definitivamente persa, ma comunque in via di sonorissima sconfitta; e gli eventi degli ultimi anni purtroppo sono stati tragicamente decisivi, pensiamo al ruolo dell'informazione negli ultimi tre anni. Il compito è quello di lavorare sulla ricostruzione di un pensiero più consono ad una tradizione giuridica come quella italiana.

Secondo me La Repubblica ha la grossissima responsabilità nella tracimazione del pensiero democratico verso un pensiero fortemente liberale e vi porto l'esempio di quando, in carica il governo di centro sinistra, questo giornale, per chi si riconosce in un'area democratica, ha dato enfasi ad una lettera di nessun valore culturale ma messa in prima pagina, dove un signore diceva di essere razzista e di sinistra; e a seguire una paginata del candidato premier del centro sinistra dicendo tutte le ragioni ragionevoli per cui si può essere di sinistra e si può essere razzista, si può richiedere una giustizia molto dura nei confronti degli immigrati. Abbiamo visto quello che è successo in questi anni, parole durissime, e le leggiamo anche nei giornali locali, nei confronti degli immigrati, delle interviste terribili ad esponenti democratici ed ad esponenti di destra, parole durissime che hanno rotto quella che era una tradizione italiana che si fondava sulle tre anime: liberale, cattolica e comunista. L'art. 26 con tutta la fatica dei costituenti per metterlo in piedi, era una perfetta sintesi di tutto questo mentre noi oggi diciamo che è l'utopia costituente. Questo ci porta a quello che diceva prima Francesco Cascini, per cui oggi la giustizia penale è altamente selettiva. Io sono convinto che il compito che abbiamo noi oggi come associazioni è quello di lavorare sulla ricostruzione di un pensiero più consono ad una tradizione giuridica come quella italiana. Ricordo una intervista che fece nel 2006 Giannini, giornalista de La Repubblica, a Giuliano Amato quando era ministro degli interni e si parlava della questione, cara a noi che lavoriamo nel sociale, della persecuzione della pena, grande tema per cui per mesi il mondo politico ci ha portato a ragionare su come trovare una forma per la soppressione del lavoro nero mal retribuito, dopo che le procure avevano spiegato che producevano organizzazioni criminali; bene, nella sua domanda rivolta a Giuliano Amato c'era questa espressione "Noi la dobbiamo smettere di scimmiottare Cesare Beccaria", e lì c'è quella che io intendo la tracimazione di cui dicevo prima.

La parola chiave oramai nella giustizia purtroppo è consenso, sia nella questione della giustizia che nella questione carceraria è di rimedio, non si ha più un punto di riferimento, una norma costituzionale oppure sentenze o norma ordinaria, no, l'unico punto di riferimento è il consenso. E' un qualcosa che non riguarda solo il politico, sta riguardando anche la magistratura. La legge Fini-Giovanardi, che noi insieme ad altre associazioni abbiamo fortemente contestato, è una delle tre leggi che ha portato verso l'alto il numero dei detenuti e che nella sua enfasi proibizionista e repressiva, aveva un punto che era la filosofia terapeutico- proibizionista di Giovanardi da cui se avevi sotto i sei anni di pena potevi accedere direttamente all'affidamento terapeutico ad una comunità. Questa legge di fatto non ha trovato nessuna applicazione, sicuramente ci sarà una questione di risorse che le regioni non hanno, ci saranno anche altri problemi, ma c'è soprattutto un problema di fondo che è questo del consenso, di una politica con sopravvivenza a breve termine. Questo fa si che tutto il sistema converga verso una repressione selettiva ossia verso la situazione attuale.

Tutto questo sistema, vedi i numeri di cui parlava Cascini, ci sta portando ovviamente verso una situazione di impossibile riconoscimento e tutela dei diritti fondamentali delle persone che stanno in carcere. Qui devo dire però che la recente vicenda di Stefano Cucchi ha aperto uno squarcio, non lo so se cambierà il senso comune, forse no, però per la prima volta girando a Roma in un autobus, di fronte ad una persona ammazzata di botte, io ho sentito la gente essere dalla parte di questa. In questo caso ha colpito probabilmente perché dietro Stefano Cucchi c'era una famiglia che non era la solita tradizionale famiglia degli emarginati che generalmente si incontra in carcere, in questo caso possiamo dirlo, il sistema repressivo ha sbagliato bersaglio, una famiglia della piccola borghesia romana che ha avuto il coraggio in modo diciamo fuori dal comune, non solo denunciare come è giusto che facciano tutte le famiglie in un caso del genere, ma anche superare il rischio che gli venisse detto che Stefano era un drogato sieropositivo; infatti come ci ricordava un po' di tempo fa Saviano in una trasmissione televisiva di Fazio, uno dei migliori modi per infangare l'immagine di una persona è quella di iniziare a raccontare episodi della vita privata totalmente irrilevanti rispetto al fatto avvenuto e molte volte addirittura episodi falsi o comunque totalmente irrilevanti. Questo caso ha avuto enfasi probabilmente perché quella sorella aveva una faccia normale, perché il papà non parlava in stretto romano, perché la madre non era extracomunitaria, perché il suo precedente avvocato era addirittura di destra, un consigliere comunale del PDL, sono questi i motivi per cui la cosa ha sfondato, quindi si è creato un movimento di questo genere che ha fatto si che l'inchiesta a differenza di altri casi, ha proceduto più rapidamente; a questo punto aspettiamo solo gli esiti dell'inchiesta giudiziaria.

Quando insieme a Luigi Manconi abbiamo sollevato per la prima volta il caso all'indomani della morte di Stefano Cucchi, si diceva cosa c'entrasse con la questione carceraria; vi dico invece che sta dentro tutta la questione carceraria, perché questo è l'episodio più tremendo, è parte della catena di persone cieche, e questo è un prodotto di quella opinione pubblica vincente di cui abbiamo parlato prima, ma è anche il prodotto di un cinismo determinato dal sovraffollamento, per cui tutti i casi alla fine non sono qualificati dall'identità umana della persona. Può capitare che nessun medico del Pertini di Roma si ponga il problema della testa rotta, dell'occhio rovinato, delle bruciature, che nessuno segnala dentro quella cartella clinica tutte le anomalie e ci si limita a scrivere "è caduto dalle scale"? Può un medico accontentarsi di una cosa di questo genere nel suo ruolo di pubblico ufficiale? Be' no, lì ne sono passati diversi di medici, è passato l'avvocato di ufficio, il giudice, forse non si ricordano, io non c'ero però insomma tantissima gente c'è passata… Io dico che probabilmente dobbiamo provare ad entrare nel cuneo di questa vicenda. Nel 1983 mi sono specializzato a Padova con il professor Papisca che utilizzava una dottrina interessante, quella dell'incuneamento interstiziale: chi si occupa di diritti umani sa che oggi il sistema del diritto ma anche quello dell'opinione pubblica non mette al centro i diritti, però esiste la falsa coscienza di non rimuoverli per cui i diritti umani stanno in un pezzettino e noi dobbiamo andare in quel piccolo nucleo nell'interstizio e allargarlo, allargarlo e allargarlo per farlo diventare coscienza diffusa. La vicenda Cucchi non so per quanto tempo manterrà l'attenzione però va utilizzata per allargare il buonsenso collettivo per fare quel lavoro culturale che oggi è molto difficile portare avanti.

Francesco Cascini

Non posso parlare della vicenda di Cucchi perché in parte me ne occupo. Ritengo molto importante parlare della violenza in carcere ma faccio una brevissima premessa. Io ho lavorato a Napoli nei primi anni Duemila e nel 2003 ho seguito un processo per alcune violenze che ci furono durante il G8 e questo lo dico per farvi capire che sono entrato nell'amministrazione penitenziaria come dire, classificato come giudice, pubblico ministero che aveva arrestato due poliziotti che avevano usato violenza nei confronti dei manifestanti; per dire che mi hanno già dato una certa connotazione.

Io ho un po' paura delle semplificazioni, l'amministrazione penitenziaria e il carcere sono cose molto complicate, al di là del rispetto di chi subisce ingiustizie, è addirittura banale e scontato ricordarlo, non è che ci possiamo nascondere che esista questo. Nel mio ufficio ho una griglia per cercare di capire, ogni volta che si parla di aggressione a personale di polizia penitenziaria, se c'è stato un pestaggio e indago su questo. Nessuno dice che questo non esiste, però attenzione, io nelle carceri ci vado, leggete ad esempio il dato sui tentati suicidi, chi taglia la corda al detenuto che s'impicca è la polizia penitenziaria, non è superfluo, perché sennò rischiamo di equiparare tutto e di dire sono tutti così ed è molto pericoloso, rischiamo di trovare subito dei colpevoli. Attenzione quando un quotidiano descrive una scena, la disegna, per l'opinione pubblica è la verità, cioè ancora non sappiamo come sono andate le cose eppure quella è la verità. Proviamo a vedere le cose da tutti i punti di vista. Chi lavora nel carcere a contatto con i detenuti e continua a farlo e appare in quel modo, credo che si trova in una situazione non semplicissima per sé stesso, per i familiari, passa come aguzzino ancora prima di avere degli elementi seri e certi. Guardiamo sempre le garanzie da tutti i punti di vista ed evitiamo le semplificazioni che sono una cosa pericolosa da tutti i punti di vista. Ripeto, io ho fatto quella premessa per dire che tutta la mia attività è orientata contro l'odioso atteggiamento, l'odiosa faccia del potere, questo lo do per scontato, però a me le semplificazioni fanno paura e temo che spesso in queste vicende si rischia una semplificazione dall'altro lato, che comporta dei pericoli enormi per la gestione di una situazione così difficile come quella che vi ho rappresentato.

Dei singoli episodi noi potremmo discuterne all'infinito, ce ne sono centinaia, andiamo però al punto. Vi facevo prima l'esempio della Spagna dove l'autolesionismo non esiste, hanno avuto negli ultimi tre anni un solo suicidio in carcere. Noi abbiamo il dovere di chiederci perché e dobbiamo imparare dagli altri paesi, dobbiamo chiederci come mai in quel sistema il carcere funziona, come mai non si verificano questi episodi. Lì il carcere funziona perché il carcere è un luogo in cui le persone hanno il tempo per crescere, per misurare un'alternativa, perché non sono tenuti in cattività, in cella ci vanno solo a dormire, tutti i detenuti senza distinzione, tutto il giorno sono fuori dalle camere detentive. La cattività è uno dei motivi che produce ad esempio i suicidi, quando si sta 22 ore al giorno in cella, con 2-3 metri quadri a disposizione, si produce questa roba qui, inoltre aumenta la tensione fra chi sta chiuso dentro e chi sta fuori ad aprire e chiudere la cella ossia la polizia penitenziaria. Quindi noi dobbiamo chiederci quali sono le condizioni di vita che producono questa roba. Io nel mio ufficio ricevo 15 casi al giorno di gente che si taglia, che si ingoia lamette, che si cuce la bocca, 300 aggressioni non sono un numero basso, sono numeri enormi, vi posso assicurare che una parte consistente è reale, ho assistito io al personale che entra nella cella quando il detenuto sieropositivo si taglia, entrano in cella e li vanno ad aiutare. Io ho paura quando si parla della polizia penitenziaria soltanto come di vili aguzzini. Non dico che è tutto in un modo, non pensiamo che tutto funziona esclusivamente in un modo, è molto pericoloso e può provocare un aumento di questo tipo di cultura, dobbiamo avere la capacità di distinguere e di non semplificare. Ecco perché ho chiesto di riprendere la parola, perché mi fa paura la semplificazione, da qualunque parte la si veda.

Ornella Favero

Io credo che si siano delineati alcuni temi. Vorrei dire una cosa su quest'ultima questione della semplificazione: noi facciamo un giornale dove a lavorare sono prevalentemente detenuti volontari. Io credo che noi non facciamo mai, o quasi mai, semplificazione; a me la situazione attuale, l'interesse che c'è per la vicenda di Stefano Cucchi fa molta paura perché l'informazione si è gettata su questa storia perché colpisce e quindi fa notizia. Quello che emerge in modo sbagliato secondo me, è che anche in carcere il problema è il modo in cui le persone nel complesso vivono, non sto sottovalutando il problema di questa violenza, però in realtà quello che dovrebbe colpire è il modo in cui 66mila persone vivono, in particolare senza far nulla. Quando si dice celle di pernottamento, in quelle celle le persone non dovrebbero stare più di tanto. In carcere, ragionando sul sovraffollamento ognuno diceva la sua e in particolare un detenuto ha detto che a lui dei metri in cui vive non gliene fregherebbe niente se ci potesse stare poco in quella cella, se potesse cioè stare fuori a fare delle cose, se avesse una speranza di fare un percorso. Anch'io quindi sono convinta che oggi insomma anche quest'interesse dell'informazione ha un lato molto pericoloso. Io penso che dobbiamo entrarci dentro cercando di far vedere la complessità perché purtroppo viviamo in un mondo dell'informazione, nel nostro paese più che in altri, che semplifica, quindi se c'è una vicenda che tira come quella di Stefano Cucchi purtroppo su quello ci si butta.

Ieri ero a un convegno dei commissari di polizia penitenziaria e ho ragionato sull'uso delle parole in particolare sull'uso della parola guardia, invece che agente; questo sottintende anche una concezione del tutto sbagliata, cioè che queste persone devono custodire, rinchiudere e basta, fare la guardia, punto, e questo influisce pesantemente in modo negativo anche sulla stessa polizia penitenziaria, perché anche al suo interno c'è un conflitto molto forte. Quando ieri ho parlato del nostro progetto con le scuole c'è stato un grandissimo interesse e sono venuti alcuni poliziotti penitenziari a chiedermi informazioni perché hanno detto che rappresenta un modo per raccontare anche sé stessi al di fuori.

DIBATTITO

Intervento

Il caso Cucchi secondo me ha funzionato per tre motivi, tutti e tre necessari. 1: c'è stata dietro una forte pressione per portare avanti questa storia; 2: la telegenicità dei protagonisti, la sorella e la madre, soprattutto, che funzionano molto in televisione e sulla stampa, sono belli e quindi si fanno parlare volentieri; 3: un elemento di pruriginosità ossia le fotografie. Tutto questo ha fatto si in qualche modo che questa storia uscisse un po' dal silenzio rispetto a tante altre. Mi ricordo che qualche giorno dopo il caso Cucchi, al Tg2 intervistammo una donna di Napoli, il cui figlio era morto ed è finita lì, mai più sentita e lo dico perché secondo me bisogna stare attenti. Credo sia molto interessante a tal proposito la teoria della comunicazione cosiddetta interstiziale.

Secondo punto: la preoccupazione del magistrato di non fare di tutta un'erba un fascio con gli agenti. Io in carcere ho imparato dagli agenti l'uso del verbo spiccare, che è l'azione che loro compiono quando uno s'impicca, ossia lo spiccano, lo tirano giù. Il fatto che ci sia una parola vuol dire che è ordinaria amministrazione, che è nella cultura normale, credo che nessun agente possa dire di non aver mai in qualche modo partecipato a un evento di questo tipo. C'è un'altra parola che ho imparato in carcere, che conoscono tutti, che è squadretta, le squadre di agenti che si organizzano per fare i pestaggi; dai detenuti si può avere la mappa dei carceri dove ci sono le squadrette. Quindi è un mondo complesso e con degli estremi, dove in mezzo c'è tutto. La preoccupazione, secondo me legittima, che gli agenti non siano tutti considerati dei torturatori e degli assassini, è reale e credo che l'attenzione che c'è adesso ci debba essere sempre; quando si titola "marocchino uccide", la stessa attenzione va posta perché non tutti i marocchini uccidono, anzi qualche marocchino salva.

Credo fosse Patrizio, che ha detto: se volete essere credibili come agenti, fate una battaglia perché sia riconosciuto il reato di tortura. Allora secondo me la storia di Cucchi è un'occasione per tutti per riuscire a cambiare un po' il carcere, cambiare un po' gli agenti, ci crediamo ancora, credo, sennò non saremmo qui.

L'uso delle parole, ad esempio "guardia": è un termine diffusissimo e in televisione spesso è accompagnata da un'immagine di guardia nel senso di poliziotti pre-riforma ancora con la divisa, facendo un grande errore. L'uso della parola guardia si può paragonare all'uso della parola clandestino: la guardia è quello che fa la guardia, l'agente è quello che fa un'altra cosa, il clandestino è un criminale, l'immigrato è un'altra cosa. Allora io credo che noi dovremmo fermarci sulle parole e qui mi collego a quello che ha detto Saskia Sassen ieri rispetto ad esempio alle parole sequestrate: alcune parole diceva sono state sequestrate dalla destra, la parola libertà, la parola famiglia, carcere, ma soprattutto giustizia. Fino a qualche decennio fa se uno parlava di giustizia pensava alla libertà, penso ai nostri genitori, al dopoguerra, oggi quando si parla di giustizia si pensa al carcere, dunque è una parola che ci è stata sequestrata. Allora forse su questo dovremmo ragionare un po' di più.

L'occasione di Cucchi ci fa pensare a una catena di omertà. Il carcere è un luogo d'illegalità, ce l'ha detto anche il Ministro, perché la catena di omertà è stata spaventosa; io la chiamo proprio omertà, che poi a volte è semplicemente abitudine, perché è talmente normale forse vedere un detenuto pestato che i medici neanche lo segnalano più. Ieri leggevo su un giornale che gli infermieri hanno detto che Cucchi aveva la coda, perché gli usciva l'osso da dietro, però questo non è stato detto. Secondo me noi dobbiamo interrogarci anzitutto sulle parole, poi farci furbi e usare la storia di Cucchi per raccontare tutti gli altri che non funzionano in tv, che non sanno parlare e che non sono belli.

Intervento

Io credo che sia importante il discorso del consenso. Adesso la maggior parte delle persone, al di là di quelle che lavorano in questi campi e che sono sensibili a questi temi, sono molto più favorevoli, molto più facilmente propensi a dire che è giusto che in fase di recidiva si debba restare dentro; questo è il sentimento comune e che viene maggiormente cavalcato dalla politica e non solo, anche dall'informazione.

Vi chiedo se contribuiscono a questo sentimento anche tutti i difetti, i problemi del sistema giudiziario e in questo senso anche il discorso del processo breve diventa altrettanto demagogico: il fatto cioè di dare una semplificazione in qualche modo e offrire una soluzione facile al problema della giustizia lenta, per cui alla fine il cittadino medio non ha più assolutamente fiducia nella giustizia. Mi chiedo se questo possa contribuire ad acuire maggiormente questo sentimento di richiesta di punizione rispetto alla rieducazione.

Un'altra cosa: vorrei sapere se c'è anche un discorso di responsabilità della magistratura nel caso Cucchi, per non essere stata in grado di far uscire il ragazzo di prigione, per non avere adottato un percorso alternativo.

Patrizio Gonnella

La prima domanda è abbastanza complessa, provo a rispondere in modo semplice perché ovviamente mi occupo di carcere ma sono anche un magistrato. Secondo me il problema è più complesso, provo a spiegarlo rapidamente. Per esempio ho lavorato a Napoli dove ci sono 110 sostituti pubblici ministeri, di cui 26 si occupano solo di abusi edilizi. Un processo per abuso edilizio dura molto e finisce quasi sempre per prescrizione, una macchina che gira completamente a vuoto, diciamo che l'80% gira a vuoto, quindi di conseguenza una grandissima parte del sistema giudiziario penale gira completamente a vuoto. La mia opinione è che tutto ciò dipende dal fatto che il nostro è un paese in cui tutto è scaricato sulla giustizia penale, mentre in qualunque altro paese normale se si mette una pietra senza concessione edilizia dopo 5 minuti arriva chi gliela fa togliere; in Italia invece il palazzo lo finiscono, poi si fa un processo penale che dura anni e poi arriva il condono. Parlo dell'abuso edilizio per fare un esempio banale, il problema è che passa tutto per la giustizia penale, perché tutte le licenze del sistema politico, ma soprattutto dell'amministrazione, sono interamente scaricate sulla magistratura, dandole una responsabilità che non ha, perché la magistratura interviene in un sistema fatto di regole in cui esiste una piccola violazione che va depressa, il sistema non può girare tutto intorno al funzionamento della magistratura.
L'esempio dell'immigrazione è il più chiaro di tutti. Quando si parla delle ragioni per le quali è stato introdotto il reato d'immigrazione clandestina, sentite dire che quello è finalizzato all'espulsione, quando sono anni che esiste l'espulsione amministrativa. Che senso ha rendere reato, se non in senso puramente simbolico, l'immigrazione clandestina? E' chiaro che questo è un problema che non ha niente a che vedere con la giustizia, producendo solo questi 15mila detenuti l'anno e volendo fare anche un discorso civico, questo ci costa 200 euro a detenuto al giorno. Tutto questo perché non si ha la capacità sul piano politico e amministrativo di scegliere come affrontare questo problema, può essere l'immigrazione, come l'abuso edilizio, come l'ambiente; si scarica tutto sulla magistratura, tutto è riconducibile al penale, non c'è nulla che non passi per il penale e sul quale non è possibile dare un giudizio. Questo secondo me produce esattamente quella mentalità della punizione. Dal mio punto di vista questo è un paese che ha perso la bussola su ciò che è grave, costituisce un disvalore per la società, si mischia tutto creando una forte confusione. Inoltre, secondo me quando qualcuno si uccide in carcere è sempre una sconfitta qualunque sia la causa, per chi poteva fare qualcosa ma non l'ha fatto.

Intervento

Mi piacerebbe che tornasse un attimo sulle detenzioni brevi, di pochi giorni o pochi mesi: in realtà questa forma di detenzione quanto costa al ministero rispetto alla possibilità di attivare delle misure alternative?

Patrizio Gonnella

Anche questo è un tema interessante. Visto che si parla d'informazione vi porto un esempio di come si discute di certezza della pena: mi ricordo di una trasmissione televisiva dove persone importanti discutevano della certezza della pena e il caso era di uno stupratore che era andato agli arresti domiciliari dopo 4 giorni di detenzione; un tema del genere con la certezza della pena non ha niente a che vedere, eppure per una serata intera persone anche di una certa preparazione giuridica, ne hanno discusso in questi termini. Dunque si discute della certezza della pena senza capire bene che cos'è. Certamente questo tema non ha niente a che vedere con la certezza della pena e neppure col carcere, perché le misure alternative sono delle pene e sono di per sé stesse certe. Spesso si confonde un po' il concetto di certezza della pena con la fissità della pena. Le carcerazioni brevi sono un problema devastante, ogni volta che entra qualcuno in carcere bisogna immatricolarlo, sono 30mila i detenuti che ogni anno entrano in carcere e ne escono nel giro di una settimana, sono 50mila quelli che escono nel giro di un mese; rispetto a queste persone bisogna chiedersi se il carcere serve a qualcosa e quanto costa.

Ornella Favero

Io vorrei un attimo tornare sul caso del cosiddetto stupratore di Capodanno, che è stato un concentrato del disastro della nostra informazione: viene deciso di metterlo agli arresti domiciliari, è un ragazzo molto giovane, incensurato, famiglia regolare, ecc., evidentemente sotto effetto di sostanze. Escono i titoli "stupratore agli arresti domiciliari" poi "stupratore è già fuori" e da lì si scatena l'opinione pubblica. Questo ragazzo poi è già stato processato? Perché quando si dice è già fuori, non si parla della seconda tappa, perché se poi la persona viene processata e risulta colpevole come in qualsiasi sistema entra in carcere, anche in America, basta vedersi un buon telefilm americano, Law & Order o simili, dove si vede la persona che paga la cauzione, sta fuori, poi dopo magari va in carcere. Il problema vero non è appunto che non c'è certezza della pena, è che i tempi della giustizia sono lunghi, e quindi ci sono persone che scontano una pena per reati commessi 15 anni fa. In definitiva comunque questo ragazzo è stato processato e condannato a qualcosa come 2 anni, ma è stato condannato a una pena relativamente breve perché è risultato non essere lo stupratore, cioè dagli esami del dna, ecc. non è risultato aver stuprato; questo ragazzo ha avuto senz'altro dei comportamenti violenti nei confronti di questa ragazza però non l'ha violentata. Il paradosso è che la notizia è stata presentata come "soltanto 2 anni di pena allo stupratore", e questo ragazzo in definitiva è rimasto lo stupratore, così di nuovo a conclusione del processo quello che conta è di nuovo dire "soltanto 2 anni allo stupratore".

In un quotidiano di quelli gratuiti ho visto che si poneva ai lettori questo interrogativo: "secondo voi è giusto che chi ha subìto uno stupro si faccia giustizia da solo?". Il 78% se non di più dei lettori ha detto si, e questo è stato fatto anche in televisione. A proposito di chi dice che l'informazione non condiziona la politica, sull'onda di questa cosa è stata cambiata la legge e adesso per quel tipo di reati non è più possibile usare né gli arresti domiciliari e neppure le misure alternative. Che cosa ha significato questo in termini di sicurezza sociale? Faccio un piccolo esempio. Noi abbiamo intervistato un criminologo che lavora nel carcere di Bollate il quale ha detto che questa cosa taglia le gambe a qualsiasi percorso di cura e di reintegrazione di queste persone e le fa uscire in stato di totale abbandono. Siccome per uno stupro o per un tentato stupro non puoi dare la galera a vita, non potendo queste persone fare un percorso graduale di uscita andando ai servizi, facendosi curare, accettando un percorso riabilitativo di cura, di terapia accertata, usciranno dalla galera che saranno assolutamente ancora più pericolose per la società. Ecco questo è un esempio di corto circuito tra informazione e politica, che porta danni enormi sul piano proprio della sicurezza del paese.

Mi piacerebbe poi ragionare col magistrato su cosa sono i reati da allarme sociale. L'altro giorno ero al processo per aggiotaggio di Tanzi dove c'erano 40mila parti civili, cioè 40mila vittime. Uno scippatore quante vittime riesce ad avere nell'arco di tutta la vita? Il paradosso è che appunto Tanzi, con tutte queste vittime, non rappresenta un allarme sociale. Allora bisognerebbe ragionare su cosa vuol dire fare il pacchetto sicurezza sui reati di allarme sociale, quali sono, e cosa vuol dire… Quello che mette sul lastrico un sacco di persone così, non tocca da vicino più di tanto e così non lo vivi come un allarme sociale. Questa è una cosa interessante dei nostri tempi, ragionare su cosa sono in termini giuridici i reati di allarme sociale.

Intervento

Rispetto al piano carcere di cui avete parlato, secondo me forse ha senso allargare un po' lo sguardo e parlare in generale del neoliberismo, nel senso che in fondo questo potrebbe essere non tanto un fine, ma uno dei tanti mezzi, dei tanti strumenti che vengono utilizzati per privatizzare e rendere business quello che dovrebbe essere servizio pubblico. Se il carcere diventa business ecco che ha molto più senso il piano carcere che non un dibattito serio su che idea di società abbiamo e a che cosa deve servire anche la pena. A Firenze dove io abito, il garante dei detenuti Corleone fece un'interessante inchiesta sul costo dei pasti dei detenuti, una cosa vergognosa, perché anche lì c'è tutto un sistema di appalto che invece che garantire la qualità del pasto garantisce il prezzo minimo, cioè c'è un prezzo sotto il quale poi si fa l'asta, tanto che i detenuti che se lo possono permettere si cucinano da soli anziché mangiare a mensa.

Sull'idea dei diritti la situazione è spaventosa, come ignoranza generale e qui mi rivolgo a voi giornalisti, perché su questo bisognerebbe davvero fare un lavoro serio. Lo slittamento è quello di unire diritti e doveri e non sto parlando solo delle persone comuni ma anche di quelle intellettualmente apprezzate. Ormai non si riesce più a parlare di diritti universali.

Volevo chiedere poi se esiste un'inchiesta e magari se mi potevate dare una fonte che faccia una carrellata di quelle che potrebbero essere le alternative alla pena carceraria, cioè se esiste una fotografia di quello che offre non solo l'Italia, ma anche gli altri paesi europei in tal senso. Per esempio Ornella faceva questa interessante proposta del far il volontario per il pronto soccorso, questo è molto interessante.

Poi volevo chiedere a che punto sono le fonti sul crimine: sulla criminalità si dice di tutto, si sparano dei numeri e si fanno dei raffronti assurdi, tra l'altro nel sito del Ministero c'era tempo fa una serie di statistiche su base etnica, per cui risultava che il romeno avesse la propensione allo stupro, il tedesco avesse la propensione alla rapina a mano armata in banca, probabilmente perché in un periodo preso in esame c'erano stati dei tedeschi che avevano fatto delle rapine in banca, dei romeni che avevano commesso stupri…. Quindi a che punto stiamo anche sul dibattito rispetto alle fonti? I giornalisti devono usare delle fonti, ma quali sono quelle attendibili sulla criminalità? A me sembra che di fonti attendibili sulla criminalità non ce ne siano anche perché c'è il problema della denuncia che è sempre relativa, si fa sempre meno. Poi dipende anche dalle vittime perché ad esempio gli irregolari non possono denunciare, sono in difficoltà a denunciare, però subiscono spesso dei reati.

A che punto è in Italia il discorso della giustizia restaurativa o riparatrice? Avevo sentito dire che c'erano dei progetti, ma non so a che punto sono.

Francesco Cascini

C'è un nesso di casualità tra la giustizia lenta e la custodia cautelare: quella cautelare è utilizzata proprio perché diciamo si ha la consapevolezza di una giustizia lenta e quindi diventa di fatto la pena anticipata interamente e scontata fuori dalla possibilità di accedere a quelli che sono gli ipotetici diritti riservati ai condannati. Molte volte quando arriva la sentenza, la persona che è stata condannata si è già trasportata tutta la pena anni prima in custodia cautelare. Questo si ricollega al discorso che si faceva prima sui sindacati di polizia.

Il processo breve è una battaglia che fa seguito ad altre che noi per esempio abbiamo sempre sostenuto; l'art. 58 e l'art. 111 della costituzione rappresentano una riforma fortemente condivisa e fortemente voluta da magistrati e parlamento e da autorevoli esponenti della magistratura che espressero quelle norme, solo che non possiamo più dire la nostra opinione, perché se sei per il processo breve sei per la destra, se sei contro il processo breve sei contro Berlusconi. Di molti argomenti quindi si parla in maniera molto condizionata. Anche sulla tortura si è molto condizionati, e non è che la tortura sia una cosa nuova di cui si sta parlando solo recentemente, infatti il primo disegno di legge risale a 20 anni fa. Il reato di tortura noi dobbiamo prevederlo nel nostro codice penale, c'è una convenzione dell'87, e questo progetto è stato affossato tanto dalla sinistra con il magistrato Polipo parlamentare dell'allora DS, quanto dalla destra. Non c'è un dibattito sereno sulla giustizia, non si dice mai quello che si vuole. In realtà quello che dici è troppo raffinato rispetto a quello che si intende fare, nel senso che non c'è né una politica neoliberista né il contrario della politica neoliberista, non c'è niente, non c'è nulla.

Patrizio Gonnella

Io credo che l'edilizia penitenziaria sia importantissima, le nostre carceri hanno un'impostazione di tipo verticale, i padiglioni presuppongono per loro natura una difficoltà di spazio e di movimento. Un sistema moderno di detenzione deve avere un indirizzo penitenziario dove lo spazio ha una sua destinazione naturale rispetto al tempo che i detenuti devono trascorrere dentro.

Sulle fonti della criminalità, io posso dire che le fonti sui processi sono attendibili, se poi pretendiamo di avere la misura di cos'è il crimine nel nostro paese, è chiaro che non lo sa nessuno, sono molte le cose che non vanno a processo, che non si conoscono. I dati che conosco io sono quelli che provengono dal processo penale, non riesco a vedere altre fonti.

Ornella Favero

Qualcuno ha accennato al fatto che salta fuori spesso il discorso riguardo alla propensione a commettere certi tipi di reati da determinati gruppi di persone, vedi l'esempio dei romeni che sarebbero i violentatori. Vi leggo due righe come facciamo spesso nelle scuole perché è troppo carino: " Dicono che siano dediti al furto e se ostacolati violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro ". Chi sono questi? Gli italiani. Il testo è tratto da una relazione dell'ispettorato per l'immigrazione del congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, ottobre 1912.

Intervento

Volevo lanciare una provocazione: noi creiamo dei mostri anche perché non diamo il giusto peso alle parole. E' un'autocritica che faccio ai miei colleghi e a me stessa, anche io faccio questo lavoro, e mi rendo conto che usiamo in maniera impropria le parole che sottintendono una presa in carico del processo penale di una persona. Per noi l'indagato è uguale all'inquisito, l'avviso di garanzia è già un indizio di colpevolezza e creiamo confusione in chi non ha gli strumenti per capire. Anche sulla sicurezza noi abbiamo secondo me non espresso a pieno la nostra funzione, non abbiamo spiegato ai cittadini che cos'è il pacchetto sicurezza, non abbiamo spiegato ad esempio che questo ha allargato così tanto il ventaglio dei reati che siamo tutti dei potenziali criminali, quando ad esempio occupiamo una casa perché non abbiamo le risorse per pagarla, quando beviamo troppo e facciamo un incidente stradale, magari senza provocare morti, ma passando per alcolizzati e drogati, quando non riusciamo a capire alcuni atteggiamenti giovanili, adesso anche il graffito è diventato un reato quindi rischiamo che quindicenni, sedicenni vengano trattenuti senza magari neanche sapere che quello è reato, perché non c'è scritto su nessun giornale.

Noi di Redattore Sociale trattiamo nello specifico questi temi, quindi siamo magari più fortunati di altri nell'approfondimento di alcune materie. Mi chiedo, allora siamo noi giornalisti a non capire le cose, perché potrei anche assumermi questa responsabilità, uno non sa, approfondisce, colma la lacuna, oppure c'è dall'altra parte una volontà di spiegare male le cose, di generare confusione e di non arrabbiarsi quando questa confusione viene riportata sui giornali? Prima voi parlavate de La Repubblica, allora una provocazione: se viene un giornalista de La Repubblica o vengo io di Redattore Sociale, lei l'intervista a chi la rilascia? E' chiaro che l'autorevolezza della testata penalizza anche noi giornalisti magari più impegnati, che abbiamo fatto una scelta anche professionale, perché pure noi potevamo scegliere di lavorare in una testata o in un'altra; mi chiedo allora quanta responsabilità abbiamo noi. Su questo ci possiamo lavorare perché siamo dei professionisti, ma a volte quanta incoscienza c'è anche dall'altra parte, dalla parte di chi queste notizie le dà, le nostri fonti? La provocazione sta qui: siamo noi a non capire o siete voi che sbagliate interlocutori?

Patrizio Gonnella

Rispetto a quando facevo il pubblico ministero sinceramente ritengo che le uniche cose che dovevo nascondere fossero le indagini. Tutti vorremmo, io per primo, che quello che succede nel carcere fosse più trasparente. Devo dire però che io non ho un rapporto diretto con la stampa.

Intervento

Il punto è non tanto fra me e l'organo informativo, perché l'intervento c'è, il punto è tra l'organo informativo e il suo referente politico, ormai è questo il punto, nel senso che è lì che c'è il nodo della scelta editoriale e a volte questo lo si capisce non dai contenuti ma dai titoli.

Ornella Favero

Anch'io vorrei dire una cosa perché qui ci sono due questioni in ballo, uno è la responsabilità dei giornalisti e poi l'amministrazione. Io penso che ci sono delle responsabilità dovute anche, secondo me, a un giornalismo pigro e che ha una fiducia o comunque un rapporto talmente stretto con la politica che i primi referenti su qualsiasi tema sono i politici. Secondo me c'è una grande pigrizia. Ricordo di quando era uscita una timida ipotesi di permettere come in tanti altri paesi civili e meno, come Russia, Spagna, Svizzera e Albania, colloqui intimi, la possibilità per una famiglia di incontrarsi in carcere un fine settimana fuori dai controlli visivi degli agenti, da noi uscirono titoli come "Celle a luci rosse…". Tutti si sono buttati su quello, da lì poi la cosa è naufragata, per dire che molto spesso non c'è neanche la voglia di andare a vedere un po' oltre le banalità. Secondo me c'è un giornalismo impigrito.

Sono d'accordo sulla televisione: io i miei detenuti redattori li costringo a guardare la tv il pomeriggio, masochismo dell'informazione, perché secondo me quando si dice quanto pesa l'informazione e la televisione sull'opinione pubblica, non è l'informazione, non sono i tg, l'opinione pubblica si forma nelle mattine e pomeriggi televisivi in cui si discute di tutto, senza la minima cognizione, andando proprio a prendere la pancia. Guardate la modifica del pacchetto sicurezza sugli omicidi colposi per chi guida, nasce da lì, dai programmi televisivi del pomeriggio che puntano tutto a questo, intervistando la famiglia che ha appena avuto un figlio ucciso da un incidente stradale, e non ad esempio l'associazione Vittime della strada che ha certamente un altro approccio. C'è un genitore di una di queste vittime che noi abbiamo chiamato in carcere, il quale ogni giorno pazientemente va nelle scuole a fare informazione dando un'altra realtà anche delle vittime.

L'amministrazione sul tema vitale dell'informazione secondo me non ha capito niente o quasi, basta vedere la rivista dell'amministrazione penitenziaria che giace a montagne nelle carceri e che non viene letta da nessuno o quasi dell'amministrazione. Bisogna avere il coraggio di andare a fondo di questi temi, la trasparenza vuol dire avere anche un approccio coraggioso su questi temi e senza paura di niente. Quando c'è stato l'indulto, fine luglio del 2006, per un mese il sito del ministero è andato in vacanza e noi che stavamo fuori a fare questa piccola informazione con una fatica immane, ci occupavamo anche con dei comunicati dell'accoglienza ai detenuti, del problema di chi usciva così di punto in bianco. Secondo me l'amministrazione dovrebbe porsi il problema dell'informazione, oggi la partita si gioca anche molto sull'informazione e credo che l'amministrazione potrebbe affrontare questo tema per rinnovarsi, per avere più coraggio, per fare un'informazione diversa. Penso inoltre che ci sarebbero delle possibilità per esempio sulle misure alternative e forse sarebbe necessario informare su questo.

Intervento

Una questione molto importante, e non si può fare finta di non sapere e di non vedere, è quella della connotazione politica molto forte dell'amministrazione penitenziaria, il capo del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria è nominato dal ministro così come i direttori generali.

Intervento

Quando si parla di carcere è molto difficile che ci sia qualcuno che il carcere lo fa o lo amministra, manca quella voce. Il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria è un dipartimento pubblico e non si occupa principalmente dei rapporti con la stampa.

Francesco Cascini

Posso dire che in parte è vero e in parte no.

Intervento

Il potere dell'informazione non sta nel comunicare, perché diciamoci la verità se si suicida il marocchino è un miracolo il fatto che se ne parli. Se anche noi facessimo il comunicato stampa, senza neanche parlare dei suicidi, ma ad esempio su un detenuto gravemente malato e morto in ospedale come ne muoiono tantissimi, ma voi veramente pensate che queste notizie interesserebbero qualcuno? Ho la sensazione che vengano sovrapposte varie questioni, la violenza degli agenti, l'omertà del carcere, tutta una serie di questioni che viaggiano come se non ci fosse l'organismo terzo ossia la magistratura che ha il compito di fare chiarezza su quello che è accaduto. Questo vale per il carcere come per qualsiasi altri tema.

Ornella Favero

Mi chiedo perché tante notizie devono essere date così; bisognerebbe fare un comunicato così da ridare dignità a quella persona che non è il detenuto marocchino che si è suicidato, è una persona con un nome e cognome che è morta in carcere. Il dossier che facciamo noi sui morti in carcere è pieno di storie verificate di cui poi molti ci chiedono perché non se ne era saputo nulla prima. Si dice è morta questa persona, si sospetta che, cioè potrebbe essersi suicidata però sono in corso un'inchiesta… Io dico ma almeno date un nome, un cognome, una storia a questa persona! Queste notizie di morti in carcere poi spesso vengono fuori dopo mesi magari perché sono i familiari a parlarne.

Dove vengono computate, calcolate le morti? Stefano Cucchi dove finirà? E' morto in ospedale, cioè è un morto di carcere o no? Entra nelle statistiche? Pur essendo il nostro un giornale dal carcere, io predico e lotto dentro a questa redazione sul verificare tutto, non far uscire una virgola che non sia stata controllata, faccio cioè un giornale con dei delinquenti che non hanno mai rispettato le regole a cui però impongo un lavoro serio sulle regole sull'onestà. E' un po' un paradosso, l'onestà dei giornalisti delinquenti, è una bella sfido no? Mi domando: queste persone che muoiono in ambulanza, muoiono fuori, muoiono in ospedale, in che calcolo rientrano per esempio? Che numeri sono?

Intervento

Qui secondo me ci dobbiamo intendere, chiedo scusa, però non è più importante provare a capire perché, piuttosto che fare discussioni sui numeri dei morti in carcere? Io adesso non sto assolutamente rispondendo a Ristretti Orizzonti, io apprezzo moltissimo il lavoro che fate, ma mi chiedo se non sia più importante dire perché qualcuno muore. Noi possiamo anche decidere che Cucchi è morto in carcere, inserirlo nei tantissimi numeri che affollano queste statistiche sui decessi, credo però che l'interesse della società sia quello di capire che cosa è accaduto. Posso dirle che io spingo, dove vengo coinvolto, a mettere a disposizione dell'autorità giudiziaria le salme di coloro che muoiono in carcere, perché non sempre l'autorità giudiziaria fa l'autopsia. Noi possiamo sapere se Stefano Cucchi è morto per lesioni o per altro dalle autopsie, ma io non dispongo del medico legale che mi può dire come è morto; certo poi che non lo diranno finché sono coperti da segreto e talvolta non lo diranno neppure dopo. Io posso dirvi che non bisogna fidarsi di quello che si vede, questa forse è una mia deformazione professionale, in molti casi è necessaria l'autopsia; mi è capitato infatti di occuparmi di un detenuto morto in cella, il viso completamente deturpato e l'agente di sezione per una serie di motivi ha rischiato di essere arrestato per omicidio volontario perché sembrava così da quello che si vedeva ed io ero il primo ad esserne convinto; l'autopsia poi ha detto altro.

 

Abbiamo il dovere di capire queste cose come sono accadute, perché altrimenti parlare di morti sospette aumenta l'oscurità, non fa luce, aumenta l'oscurità, i dubbi e le semplificazioni. Per fare informazione bisogna stare addosso a chi le inchieste le fa, ossia i pubblici ministeri. Tiriamo fuori i risultati dell'autopsia di queste morti sospette e vediamo come sono morti, perché altrimenti di che discutiamo? Della mia opinione? L'opinione dovrebbe formarsi sulla base del risultato dell'inchiesta fatta, è così che si forma l'opinione, non dicendo quella morte è sospetta. Eppure ho l'impressione che questi dati non ci sono e nessuno mai lo dice. Anche per Cucchi onestamente, non voglio parlare di questo, ma si sa che cosa ha detto l'autopsia? E' stata fatta già un'autopsia, possibile che nessuno parla di questo? Io lo so che cosa ha detto l'autopsia, ma voi lo sapete? Quell'autopsia i giornalisti la conoscono tutti ma forse sarebbe troppo difficile andare a dire adesso che Cucchi non è morto per le lesioni. Ci si deve anche chiedere chi abbia alimentato questa cultura del sospetto. Questo ha un senso per formarsi un'opinione oppure è più bello dire che è oscuro, che si tratta di un caso sospetto e che questi qua sono stati tutti cattivi, che si tratta di omicidio di stato? Io ho la sensazione che è più bello. In un paese normale la prima cosa che si farebbe è prendere i risultati dell'autopsia e dire a tutti come è morta questa persona.

Ornella Favero

Noi non diciamo che queste sono tutte morti violenti però sarebbe necessario avere maggiore chiarezza e trasparenza su questi temi perché si potrebbe ragionare non semplicemente sulla responsabilità del carcere ma anche di come funziona il sistema. Non è accettabile che i familiari molto spesso vengano avvertiti con la telefonata in cui si dice semplicemente "suo figlio è morto" senza spiegarne le cause. Il problema non è semplicemente un discorso di demonizzare. Si deve informare anche sulle responsabilità della polizia penitenziaria. Io credo che il dipartimento dovrebbe fare di più perché adesso la polizia penitenziaria sta vivendo una situazione molto brutta a causa di questa vicenda che ha portato con sè grosse accuse. Nel difendere il bisogno di trasparenza bisognerebbe avere più coraggio perché se su queste vicende ci fosse più trasparenza, secondo me ne guadagnerebbe anche la polizia penitenziaria.

* Testo non rivisto dagli autori.