Interventi di Milena Magnani, Andrea Lupo e David Sarnelli
Milena MAGNANI
Laureata in scienze politiche e sociali, lavora come educatrice e ha svolto varie ricerche collaborando con l'Università di Urbino. Ha scritto tre romanzi tra cui "Il circo capovolto" (Feltrinelli, 2008).
ultimo aggiornamento 26 novembre 2010
Andrea LUPO
Diplomato in recitazione alla Scuola di Teatro di Bologna "Alessandra Galante Garrone". Segnalato come miglior attore emergente al premio Ubu 2000.
ultimo aggiornamento 28 novembre 2008
David SARNELLI
Fisarmonicista, insegna alla scuola di musica Ivan Illich di Bologna.
ultimo aggiornamento 28 novembre 2008
SCARICA IL PROGRAMMA COMPLETO (PDF)
TESTO DELL'INTERA SESSIONE*
Il mulé
Una cosa che mi viene chiesta spesso è il perché di questa decisione di far parlare il protagonista dalla sua condizione di morto. In realtà è dovuto a due motivi, il primo è perché volevo dare proprio voce ad una realtà morta, nel senso che poi girando nei campi e fermandomi a parlare in particolare con le donne dentro alcune baracche o nelle campine, sono venuti fuori dei racconti che non hanno più nessuna corrispondenza con la realtà di oggi, per cui mi sembrava che mi venisse proprio offerto su un vassoio qualche cosa che non c'è più e il secondo è perché ho scoperto che c'è una tradizione che riguarda le famiglie sinte, ma anche alcuni ceppi rom, una tradizione che concerne il culto dei defunti per cui si dice che dopo la morte l'anima del defunto continua a vagare per un periodo più o meno di 40 giorni per il campo, per l'accampamento, sottoforma di anima che loro chiamano mulé.
E il mulé questi 40 giorni gira per il campo e cerca in qualche modo di capire che vita ha condotto, rivede le sue cose, quello che lascia, tant'è vero che legato a questa tradizione c'è il fatto che spesso dopo la morte di qualcuno, bruciano tutti i suoi oggetti, proprio perché vogliono eliminargli ogni motivo di attaccamento al campo, oppure alcune famiglie sgomberano il campo e se ne vanno, lasciano il mulé a riflettere da solo prima di partire per questo viaggio.
A me piaceva l'idea che anche Branko il protagonista, essendo di tradizione rom, potesse avere questi 40 giorni per ripensare alla sua vita, per ripensare come mai fosse arrivato da muratore ungherese che aveva sempre fatto una vita normale a Budapest, a morire in una baraccopoli alla periferia di un'anonima città. Rispetto a questo suo ripensare, lui si immagina a ritornare nel campo il giorno in cui vi è arrivato per la prima volta.
La volontà di intendersi sulle cose essenziali
C'è un discorso che volevo fare sulle lingue che ho usato nel romanzo e del perché ho inserito gli idiomi di cinque lingue senza mettere la traduzione a fondo pagina. Nella realtà dei campi che volevo descrivere, nella realtà delle baraccopoli che avevo incontrato, ma anche in quei piccoli assembramenti di case, in quelle piccole accozzaglie di realtà ho sentito sempre parlare le più svariate lingue e non c'erano i traduttori con me e questo da un lato all'inizio mi faceva venire voglia di scappare. In certi campi come ad esempio al Casilino 900 di Roma ci sono tipo cinque o sei gruppi etnici e sembra davvero una piccola babele e senti parlare lingue che non conosci e capisci e man mano che vai per i sentieri cambia la sonorità, c'è proprio un habitat musicale diverso.
Delle volte, soprattutto quando ho provavo ad andare da sola un po' timidamente, sentivo come una sorta di timore non capivo che cosa stessero dicendo, mi sentivo un po' presa in giro, pensavo che non si fidassero o che facessero commenti critici come poi sono soliti fare, un po' scherzosi, un po' di sfottò e delle volte mi era anche venuta voglia di andare via.
Poi però sono capitati dei piccoli episodi. Tipo quando al massimo dello sconforto perché non capivo cosa dicessero tra loro, magari usciva una donna dalla baracca e diceva "ehi tu signora, scusa vieni qua, come lo curi il bambino quando ha la febbre?". Allora mi veniva da pensare che al di là delle differenze linguistiche c'è la volontà di intendersi sulle cose essenziali e ci si può riuscire. Prima sentivo parlare della parola vera, della parola giusta, io non ho questa opinione, in verità, penso che davvero si possa cercare fino ad un certo punto di interpretare la realtà poi però c'è anche un fronte oltre al quale possiamo sospendere la nostra interpretazione e accettare che non possiamo capire tutto dell'altro, non possiamo essere sicuri solo se capiamo tutto dell'altro fino in fondo, per questo ho voluto lasciare delle frasi che fossero in altri idiomi, proprio perché anche il lettore potesse avere un assaggio di quello che può essere confrontarsi con una realtà che non si possiede in termini di possibilità di decodifica ma che però può permettere questo gioco di alleanze proprio sulle cose fondamentali.
E questo è quello che è successo a Branko quando entra nel campo e sente parlare queste persone con lingue diverse e in particolare il capo del campo che era di origine albanese e lui prova ad immaginare quel giorno e se lo "ri-racconta" e se lo "ri-racconta" partendo più che altro da una domanda che si fa "chi è lui?", non avendo più delle appartenenze, come succede poi a molti migranti, a molte persone che vivono qua e che vengono da paesi lontani. Quando ho cercato di capire che cosa sentissero alla fine la cosa che ti dicono è il loro nome e cognome, come se la loro patria si risolvesse nella loro persona, ed e una cosa, secondo me, straordinaria…
La libertà di chi scrive narrativa
Penso che la trasposizione artistica come può essere un romanzo di certe realtà, consente una grande libertà , mentre chi fa giornalismo probabilmente è sempre ai confini della denuncia sociale, ed è una posizione molto più difficile, molto più scomoda. Vi faccio un esempio, recentemente sono andata a trovare i sitni di un campo, di quei campi riconosciuti dal Comune quindi moderni, con le casette ricostruite e i servizi igienici, Tatiana una ragazza che mi ha fatto entrare nella sua campina e mamma di tre bimbi mi racconta che al quinto mese di gravidanza le è successo che è andata all'ospedale per un controllo e le hanno detto che il bambino era morto, però non c'era posto alla maternità all'ospedale maggiore di Bologna e l'hanno rimandata a casa per due giorni.
Dice che in questi due giorni è vissuta in un incubo, febbre alta, febbre a 40, dopodiché il terzo giorno è rientrata e con le punture e i farmaci l'hanno fatta partorire questo bambino morto.
Allora io continuavo a dirle "ma Tatiana è vero?" rispondeva "è andata proprio così".
Capisco la differenza tra il mio ruolo e il ruolo di chi fa giornalismo perché io gli ho detto ''Tatiana chiamiamo qualcuno, questa cosa va denunciata" e lei "ma scherzi, ma no, poi alla fine ci rimetto sempre io. Dopo parla il medico e poi sappiamo come vanno queste cose".
Si fa tesoro di tutta una serie di vicende di questo genere avvicinando queste persone e sono davvero tante e a volte si ha anche il dubbio che non siano raccontate in modo veritiero, che magari siano ingigantite, però basterebbe andare a controllare le cartelle cliniche, bisognerebbe averne voglia. Ma sono talmente tanti questi casi, così come il caso del ragazzino sinto che dice di essere stato picchiato senza motivo dai carabinieri, di aver provato a fare la denuncia e poi ad un certo punto anche l'avvocato di strada gli ha detto "però forse è meglio che lasci perdere" allora è chiaro che - vediamo anche come è andata con il G8 ecc. - tu dici, un povero sinto, un ragazzino di 17 anni, ma chi se lo "fuma" se anche altre realtà molto più consistenti non sono riuscite ad avere la giustizia che meritavano. E' chiaro che scrivere narrativa mette in una posizione privilegiata perché si può rielaborare questa realtà facendo una denuncia che però è astratta, che non mette in gioco direttamente nomi e cognomi, delle realtà, dei luoghi e delle date.
"come se fossero nati in queste realtà dal nulla..."
Il tentativo di denuncia che ho fatto io rispetto al romanzo è quello di mettere a fuoco la situazione dei bambini nelle baraccopoli, nei campi, ed è un argomento che mi sta particolarmente a cuore e per farlo mi sono ispirata a certe figure che secondo me sono un po' gli eroi della nostra epoca, uno è Miloud Oukili che conoscete tutti, il clown di Bucarest che ha fatto questo enorme lavoro con l'Associazione Parada con i bambini di strada di Bucarest e l'altro personaggio che ho scoperto un po' per caso girando intorno a Casilino 900 è don Roberto Sardelli che è il prete che ha fatto scuola ai baraccati dell'acquedotto romano negli anni sessanta con una visione molto simile a don Milani però diciamo che lui è proprio un prete d'assalto ed ha un punto di vista molto critico anche rispetto alla realtà dei campi. Mi ha fatto riflettere anche su certe chiacchierate che ho fatto con i bambini nei campi e mi sono resa conto che questi bambini, è veramente come se fossero nati in queste realtà dal nulla. Non so, vi faccio un esempio dei dialoghi che delle volte mi è capitato di fare tipo con un bambino "ma tu sei del Kosovo, no?" e lui "sì sì io sono kosovaro, sono di Pristina" dico allora "davvero, dimmi com'è Pristina non la conosco, ho visto solo le immagini dei bombardamenti" e dice "no, sono di Pristina ma io sono nato qua, in questo campo, mia mamma è di Pristina, mio papà è di Pristina, io sono nato qua" allora tu rimani un po' così, poi guardi il campo e dici l"ui è nato qui al Casilino 900" pensi all'impatto con la realtà e se è vero che c'è un imprinting negli occhi dei bambini, pensi quali sono gli occhiali con cui guarderà il mondo.
Dopo però provi a rilanciare e dici "d'accordo tu sei nato qua però qualche cosa della guerra, del perché siete arrivati qua, la tua famiglia te l'ha raccontata?" e la risposta "ma si qualche cosa mio zio delle volte dice, ma io non è che sono interessato granché". Allora tu hai proprio l'impressione che quei bimbi sono nati lì, dal nulla, che dietro non hanno nulla e davanti vediamo quello che è, una sorta di deserto di nulla, e allora dici bisognerebbe che qualcuno gli spiegasse, un po' come intendeva fare don Milani con la sua Scuola di Barbiana, perché cavolo sono nati qua, perché devono giocare in mezzo al fango, perché il comune di Roma invece di mettere anche soltanto un bel limite dignitoso, ha messo dei ferri arrugginiti a delimitare il campo come ha fatto nei canili comunali. Ti viene questo pensiero. Allora abitando tante volte questo pensiero ho voluto far sì che Branko provasse a fare questo con i bambini anche nel setting - diciamo così - artificioso del romanzo. Ho voluto far sì che Branko li mettesse tutti in fila sui bidoni, su quello che c'è poi nei campi, di solito i sedili sono vecchi televisori, frigoriferi rovesciati (quello che chi ha girato nei campi conosce meglio di me) e cominciasse a raccontare ai bambini e a se stesso la storia di questo Kék Cirkuszche era il circo di suo nonno e attraverso questo racconto provare ad allacciare un po' i fili tra il passato sano di un nomadismo sano al come mai da lì si è arrivati a vivere in queste baraccopoli alla periferia delle nostre città.
Andare in posti dove "non"
"Bene, non importa più chi di noi ha sangue rom e chi no, io dico che andiamo tutti insieme a Tokaj dal mio amico Lásló, andiamo da lui che è stato un grande mago e sa indicarci come scappare in posti dove non fanno gli arresti alle persone" (da 'il circo capovolto' di Milena Magnani)
Questa frase 'in posti dove non fanno gli arresti alle persone" è una frase che mi sta particolarmente a cuore perché quando ho riguardato tutti i miei taccuini di appunti delle chiacchierate che avevo fatto con le persone, uomini e donne dei campi e delle baraccopoli e delle realtà più strampalate - perché poi girando si trovano contesti veramente strani di abitazione - una frase che ricorreva spesso è "siamo andati via, per andare in posti dove non" ciascuno aveva una sua declinazione di questo "non" di questo "andare in posti dove "non bruciavano più le nostre case", dove "non trattavano male le nostre donne", dove "non ci dicevano che eravamo dei ladri", dove "non dicevano che rubavamo i bambini" ecc. ecc." Ho avuto l'impressione che quello che viene chiamato il buon cammino il lacio drom dei rom non fosse altro che un continuo esodo alla fuga da queste persecuzioni verso un tipo di speranza x.
Mi colpisce particolarmente quando si parla di "razzismo sdoganato" e mi piace moltissimo il titolo che don Nicolini ha dato al suo intervento, l'idea, la visione del razzismo che si ha dall'interno di un campo nomade. Se oggi qualcuno va in un campo e dice "allarme", "razzismo sdoganato", "persecuzione" loro ti dicono "ma veramente non è cambiato niente, cioè è sempre stato così". L'esempio di Roma con Alemanno (ma anche con Veltroni non girava mica tanto diversamente) e prima, prima, prima, se cerchi di ripercorrere a ritroso la vita di queste persone, non hanno avuto momenti nei quali ci fosse una reale accoglienza, per cui la visione è veramente un po' rovesciata. Io capisco quello che si intende quando si parla di questo momento politico e del razzismo che in qualche modo è diventato una forma di arroganza e di ostentare una intolleranza che forse prima era tanto più nascosta, più subdola, in qualche modo, più governata in termini di comunicazione, però mi rendo conto che stando accanto a queste realtà marginali, accanto a queste persone, si stempera, si relativizza un po' l'allarme e si grida un allarme più grande che è di vecchia data, che è trasversale e che bisognerebbe guardare in maniera molto seria.
La "città uguale"
Un'altra cosa che mi è sembrato di cogliere in tutto questo peregrinare che ho fatto è quella di non ambientare il romanzo in un città, perché alla fine, girando per le baraccopoli, mi è sembrato di fare l'esperienza di una categoria di città che per me esiste, una città nuova che io chiamo la "città uguale" e che è quel fronte oltre il quale partendo dal centro di una città, di tutte le città, si comincia a vedere lo stesso scenario, che è fatto dalle superstrade, dai supermercati, i carrefour, i raccordi autostradali, le discariche, dove veramente piazzandoti lì dal cielo tu potresti dire di essere in qualsiasi luogo. Questa è un po' la geografia della nostra, come dire, politica verso i migranti, verso le persone che arrivano, che crea questo allarme secondo me ingigantito, una geografia che corrisponde alla grande ondata migratoria, una "città uguale" dove guardando bene, in questa città che dovrebbe apparire bonificata, tutta ripulita perché si deve essere bravi consumatori e si consuma bene in un luogo asettico e pulito, ci sono invece queste sacche dietro, sotto i raccordi, ci sono queste baraccopoli, una campina, una baracchina, come se ci fosse un'umanità resistente a questa bonifica, a questo tentativo di pulire lo scenario, per questo grande progetto del consumismo, del capitalismo allo sbando.
E cosa succede? Che in questa situazione, in questo contesto, il romanzo ambientata questa baraccopoli e in questa baraccopoli succede una cosa che per Branko è un po' una raccolta di tutto quello che ha cercato di seminare con questi bambini.
Mi è capitato spesso in queste situazioni marginali, di vedere degli educatori che nell'anonimato facevano progetti di teatro, lavori straordinari, di vedere persone come un giornalista ad esempio che andava lì per un fatto e poi si prendeva a cura una persona, si prodigava dal punto di vista politico mettendo in ballo avvocati, di vedere queste risorse di una umanità che non è solo quella che grida all'allarme straniero, di vedere che esiste un'altra Italia, l'ho visto bene dalla realtà di questi campi e delle volte questa Italia si esprime in piccole feste.
E quello che succede in questo campo, in questa baraccopoli, è proprio che i bambini ad un certo punto fanno a Branko una sorpresa, lui gli ha raccontato che cosa è stato il circo, l'esperienza sana del circo per la sua famiglia, ha messo in mano a questi bambini degli attrezzi e tutto sommato di colpo ha la sua rivalsa sociale e gli viene restituita una dignità, un progetto, che poi è un indizio di speranza per il futuro, come penso che siano tante realtà sociali che nel piccolo lavorano.
"A turno si esibirono i più piccoli, tra cui Nasir che, per uno strano moto di entusiasmo, si era tolto la benda dall'occhio leso e faceva passare un gatto su una trave postata tra due sedie. E anche i gemelli Hajdini si esibirono. Loro fecero un numero che presentarono come "i diavoli rossi", che consisteva nel pedalare su una bicicletta rossa con indosso pantaloni rossi, in equilibrio su un'asse verniciata di rosso. E tutto quel rosso ci fece così ridere che continuammo a ridere anche dopo, quando certi bambini, che in verità non avevo mai visto, fecero un gioco di prestigio aprendo a ventaglio le carte da ramino. Ricordo che guardai il tutto con il mio sguardo migliore. Che non è lo sguardo di chi osserva. Ma di chi assorbe. Assorbe cose che forse sono cose da niente e che però si ricorderanno per sempre". (da 'il circo capovolto' di Milena Magnani)
* Testo non rivisto dall'autore.