Conduce Stefano Trasatti
Stefano TRASATTI
Responsabile comunicazione di CSVnet, ha fondato e diretto Redattore sociale da febbraio 2001 a marzo 2016 ed ha organizzato dal 1994 al 2016 gli omonimi seminari di formazione per i giornalisti. Ha coordinato i progetti “Parlare civile” (2013) e “Questione d’immagine” (2015), rispettivamente sul linguaggio e le immagini utilizzate dal giornalismo nel racconto dei temi sociali più a rischio di discriminazione.
Stefano Trasatti*
Cominciamo con il workshop intitolato "Mamadou" incentrato sui clandestini, rifugiati, nuovi ghetti, minori, stranieri, devianze… Non so quale di questi temi sia stato più dibattuto, per questo passo la parola a Gabriele Del Grande che lo ha condotto insieme a Francesco Pacchiano e Moussi Zerai.
Gabriele Del Grande*
Da una parte abbiamo cercato di dare delle informazioni per poter decostruire un certo tipo di stereotipi, certe immagini facili sull'immigrazione partendo appunto dalla narrazione della complessità del fenomeno. Abbiamo parlato di frontiere, di immigrazione regolare, dei controlli di frontiera in Libia e tutto quello che comprende. Poi vari interventi, di cui parleranno Francesco e Moussie, sulla devianza dei minori nelle nostre città e sui nuovi ghetti delle nostre città; in particolare ho parlato dell"esperienza contenuta nel libro che ho scritto sull'immigrazione clandestina "Mamadou va a morire" e sull'esperimento adesso riuscito "Fortress Europe" che è un sito internet che nasce dal niente: nasce come un blog e oggi conta dopo un anno 12.000 accessi mensili in quattordici lingue i cui dati sono stati ripresi ormai oltre a tutte le testate nazionali anche all'estero. Ho tentato di fare anche una riflessione sul perché alcune informazioni date dallo stesso sito Fortress Europe siano passate così bene e abbiano fatto il giro del mondo finendo addirittura sul New York Times su un paginone quest'estate ma anche sui giornali quelli che leggono gli Italiani veri cioè City, Metro, Leggo, e tutta la free press mentre un'altra serie di informazioni sulle violazioni dei diritti umani che vengono operate in Libia sui respingimenti in mare dei rifugiati afghani dai nostri porti sull'Adriatico e compagnia, non sia invece mai passato niente. Si pone dunque la necessità di avere un approccio con la questione in un'ottica diversa, non tanto i problemi degli immigrati in altri stati, in altri paesi, quanto in realtà la violazione dei diritti, la violazione delle convenzioni internazionali dei nostri stati di diritto dell'Italia dell'Unione Europea iniziano ad erodersi a partire dalla frontiera. Bisognerebbe fare forse una riflessione sul fatto che se certe notizie non fanno notizia a volte è perché vengono lette nella maniera sbagliata; mi sembra paradossale che non faccia notizia il fatto che 7 pescatori Tunisini rischiano fino a 15 anni di carcere per avere salvato la vita a 44 naufraghi nel canale di Sicilia quest'estate, piuttosto che non fa notizia che l'Italia ha rimpatriato in Eritrea dalla Libia almeno un centinaio di rifugiati politici, in un paese dove l'anno successivo 170 eritrei sono stati fucilati a morte per aver disertato l'esercito di un paese in guerra. Tutto questo non fa notizia, forse scavare a fondo su chi è il mandante di queste violazioni dei diritti umani e raccontarle in primo luogo come violazione dei diritti potrebbe essere uno strumento in più. Ne è partito un dibattito tra i partecipanti al workshop molto interessante, una sorta di scontro generazionale tra chi vede nella precarietà un limite anche rispetto a questo lavoro alla libertà di poter raccontare certe cose che invece dava più importanza alla volontà d'azione di ognuno di noi nelle proprie redazioni in cui lavora; in realtà, paradossalmente, la precarietà rappresenta i tre presenti a questo tavolo escluso Stefano Trasatti, per cui necessariamente non sempre è un limite.
Francesco Vacchiano*
Aggiungo solo alcuni aspetti sui quali ho cercato di concentrarmi ovvero sul fatto che, come diceva Barbagli ieri, il livello di insicurezza non è particolarmente toccato dai mezzi di informazione ed è certamente la qualità di questa insicurezza ad essere influenzato; non è tanto quindi un dato quantitativo ad essere importante che influisce su quello che voi fate come lavoro, ma è certamente il dato qualitativo, ovvero che tipo di reati vengono percepiti, che tipo di visioni vengono rappresentate e a motivare lo stato di insicurezza e che tipo di soggetti incarnano la devianza e quel degrado che genera insicurezza. In questo senso il lavoro dei giornalisti, a mio avviso, è estremamente importante nel creare, nell'educare lo sguardo, ovvero nel costruire delle prospettive e dei punti di vista attraverso i quali la realtà si interpreta. Questo è estremamente importante perché contribuisce alla costruzione di un immagine dello straniero che è un'immagine estremamente perniciosa, pericolosa, perché nel momento in cui lo straniero diventa il capro espiatorio, questa condizione poi si ripercuote sugli autoctoni, diventa una sorta di "cavallo di Troia" per introdurre una serie di pratiche e di procedure che poi ledono la riproduzione sociale di una collettività. Ho cercato di fornire degli esempi su come viene trattato il tema minori- stranieri, in particolare i ragazzini marocchini, negli articoli di cronaca di un'importante giornale torinese, laddove l'immaginario che viene veicolato è un po' un immaginario connesso a quest'idea pervasiva di moltitudini che popolano l'ambiente sotterraneo e che in qualche modo sono invisibili ma che costituiscono un pericolo costante, nascosto, invisibile agli occhi ma che, un po' diceva la Fallaci, si riproducono come i topi e si nascondono sotto gli spazi delle nostre città. Abbiamo cercato di ragionare su come questo tipo di informazione costituisce una costruzione naturalistica dell'ovvio quindi a naturalizzare quello che fa parte delle strutture di sentimento della popolazione in senso generale, confortare queste strutture di dissentimento. Io che non sono giornalista mi chiedevo perché è così difficile fare un giornalismo che interroga queste strutture di risentimento che le problematizza, che và dietro l'ovvio e abbiamo visto che questi articoli enfatizzano l'odio, la violenza, la guerra, tutte dimensioni che in qualche modo vanno decostruite, smontate. Un giornalismo sociale deve porsi quest'obiettivo, deve impegnarsi in qualche modo a denutrire il pensiero convergente; abbiamo molto insistito su questo e ci siamo anche confrontati sulle possibilità che questa cosa possa accadere. Abbiamo ragionato anche sulle metafore con le quali si parla degli altri, quanto siano delle metafore appropriate, quanto a volte le stesse metafore che ci servono per dire le cose in modo efficace le dobbiamo poi anche un po' criticare molto spesso ci sfuggono di mano e diventano degli ulteriori strumenti che tendono a costruire l'esotizzazione dell'altro.
Abbiamo letto delle testimonianze di alcuni stranieri, soprattutto di minorenni, per dimostrare che hanno un vissuto importante; abbiamo letto i racconti di un profugo della Repubblica del Congo per cercare di capire cosa c'è dietro alla storia di queste persone e come loro stessi si vivono in rapporto al loro passato, in rapporto alla loro condizione di stranieri stigmatizzati, isolati in Italia.
Mussie Zerai Yosief*
Dato che la platea è composta da tanti giornalisti vi dico che se volete scrivere qualcosa che riguarda gli immigrati vi chiedo di venire prima a conoscerli, di non scrivere o raccontate per sentito dire ma venite in piazza, venite nelle loro baracche, venite nelle loro abitazioni seppure siano le fogne ma venite a conoscerli a incontrarli e fatevi dire da loro cosa ne pensano su quello che si dice di loro. Io in quanto emigrante, in quanto rifugiato, in quanto vivo insieme a tanti altri connazionali, vi posso dire che quando noi pensiamo al giornalista lo vediamo come quello che cerca la verità, la verità dei fatti, la verità delle cronache, la verità del vissuto quotidiano; ebbene noi ci aspettiamo da un giornalista che dica la verità, la verità anche sulle cause perché queste persone si trovano in una certa condizione piuttosto che in un'altra. Quando l'Europa oggi fa fare il lavoro più sporco agli altri, ai cosiddetti "paesi terzi" esternalizzando i propri confini fuori fino ai paesi del Nord Africa, con la conseguenza che le violazioni dei diritti umani le fanno gli altri, l'Europa non si sporca più le mani, però di responsabilità ne hanno eccome! Il muro che sta costruendo l'Europa intorno a sé, ciò che succede aldilà del muro non è vero che non riguarda più l'Europa, la riguarda eccome! È complice di quelle violazioni che avvengono in Libia, in Tunisia, in Algeria, in Marocco. Se si facesse un processo su queste cose l'Europa verrebbe condannata in quanto mandante, come complice dato che l'ha finanziato, come ad esempio la costruzione di 21 carceri in Libia. Il giornalista queste cose le dovrebbe denunciare, perché il suo compito è proprio quello di cercare le verità. Perché i silenzi? Perché non si parla di cose così impopolari come lo sono diventate oggi il parlare dell'immigrazione e dei diritti degli immigrati. Se il giornalista, come atto di civiltà, si batte per me che sono venuto da fuori, sta battagliando per i suoi cittadini e per la democrazia del proprio paese; la democrazia si garantisce non soltanto guardando il proprio ombellico ma anche ciò che succede intorno. Se l'Europa vuole la garanzia di democrazia di diritto, deve tenere conto anche di quello che succede fuori da sé, ciò che produce anche lei stessa con la sua politica estera, con i suoi rapporti di cooperazione, con i suoi tentativi di egemonia politica. Queste cose i giornalisti le devono dire con chiarezza, con obbiettività, senza schieramenti, senza essere schiacciati dai cosiddetti poteri forti di turno.
Stefano Trasatti*
Fatemi dire due parole su Gabriele, un giovane di 25 anni molto bravo, e di sicuro lo diventerà ancora di più. Molti sono bravi, ma lui ha in più che investe sul suo talento. Il suo libro, arrivato già alla prima ristampa, lo ha scritto partendo con pochissimi soldi, facendo un giro in vari stati dell'Africa, fino in Turchia e in Grecia, senza avere nessuna certezza su come questo libro sarebbe andato e di che cosa sarebbe successo dopo, ma con la grande forza e consapevolezza di stare facendo una cosa bella come effettivamente è stato. Poco tempo prima aveva dormito in mezzo alla strada a Roma insieme ai barboni per scrivere un reportage molto bello su quel mondo e la cosa particolare è che l'ha fatto senza mascherarsi, contrariamente a come và molto di moda adesso; è andato lì come Gabriele del Grande giornalista ed è riuscito a fare lo stesso un reportage bello. Essendo Gabriele un nostro collaboratore ne siamo anche un po' orgogliosi.Cediamo adesso la parola a Paola Monzini e Wendy Uba che insieme a Marco Bufo hanno animato il workshop intitolato "Wendy", anche se non è il vero nome di questa ragazza che vive in un regime seminascosto per problemi che potete immaginare. L'abbiamo invitata dopo aver letto questo libro.
Paola Monzini*
E' stato un workshop a mio parere molto interessante perché noi tre relatori siamo partiti da tre punti di vista diversi. Io sono una ricercatrice quindi ho dato una panoramica della crescita del mercato del sesso in questi ultimi venti anni, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, le dinamiche di mercificazione del corpo che hanno accompagnato tutta la diffusione dell'economia di mercato in diverse aree del mondo e dopo una panoramica generale che ha tenuto conto anche dei processi di emigrazione delle donne e delle difficoltà crescenti che incontrano. Abbiamo poi avuto la fortuna di ascoltare i racconti in prima persona di Wendy che è una voce abbastanza rara da ascoltare. Le ragazze, le donne che hanno subito questo genere di esperienza preferiscono chiudere, voltare pagina e non esporsi più al pensiero di quello che è stato e di quello che non è stato, invece la sua voce ci da dal didentro una visione proprio diversa perché attraverso i suoi racconti penso che molti di voi abbiano potuto avvertire come è vissuta in prima persona un'esperienza di questo tipo, attraverso l'immediatezza della realtà e le domande che sono state rivolte. Marco Bufo ci ha spiegato, invece, il punto di vista degli operatori di strada, delle risposte che sono date sul sociale su questo fenomeno e le domande hanno permesso di portare alla luce anche alcune dinamiche che sono poco esplorate, ad esempio il rapporto tra alcune donne che stanno sulla strada e alcune donne italiane che è un rapporto inesistente. Abbiamo inoltre parlato del rapporto tra loro e i clienti.
Wendy Uba*
Questa è la mia seconda volta che appaio davanti ad un pubblico a parlare di questo libro, un po' perché come ha spiegato Stefano ho sempre scelto di rimanere seminascosta dato che purtroppo in questa società dove viviamo ci sono dei pregiudizi e ciò non mi ha frenato nel raccontare questo libro.Come ho spiegato ai presenti al workshop, ho sentito il dovere di raccontare nel libro la mia storia perché sto vedendo in giro che ci sono alcune ragazze che stanno quasi rinunciando di vivere la vita, che tentano di chiudersi in questo mondo di sfruttamento della prostituzione perché si stanno quasi rassegnando, perché pensano che tanto non ci sia modo di vivere la vita diversamente. Ho dovuto, dopo tanti anni in silenzio, rimuovere una cosa che avevo già comunque immagazzinato dentro di me, come ho spiegato stamattina è una cosa irreversibile anche se ho cercato di non tirarlo mai fuori; ho dovuto raccontare questa storia, scrivere questo libro insieme alla Monzini per dare una speranza a queste ragazze che devono farcela, devono avere coraggio, devono tirare fuori le unghie, devono combattere fino alla fine, non devono rinunciare a quello che le aspetta cioè una vita migliore, per capire che non c'è solo la prostituzione, non devono avere paura di "riti vodoo" perché molte sono soggiogate e segregate in casa per colpa di questo rito vodoo e non devono temere di quello che succederà alla loro famiglia. Mi è piaciuto come si sono interessati molti giornalisti perché hanno fatto molte domande e hanno cercato di capire alcune cose che per loro erano un po' strane e quindi abbiamo cercato di dare una spiegazione abbastanza ampia di questo fenomeno. Sono contenta che molti media si stanno occupando del tema della prostituzione e della tratta, come ho visto fare anche a Santoro pochi giorni fa nella sua trasmissione. Dobbiamo ricordarci però che non ne dobbiamo soltanto parlare, bisogna anche attivare dei meccanismi per fare qualcosa di più per combattere questo fenomeno, dare un po' più di appoggio a queste ragazze, un po' più di sicurezza ragazze per andare avanti. Ci sono delle ragazze che vorrebbero denunciare il loro sfruttatore o sfruttatrice ma non lo fanno perché temono per la vita dei loro cari nel paese d'origine per questo io proporrei come modo per evitare questa vendetta, che la Polizia o la Procura si occupasse di mettersi in contatto con la Polizia locale per dare una specie di protezione nel paese d'origine che tuteli le famiglie. Infine volevo soltanto dire che mi è piaciuto come è stato organizzato questo seminario e vi ringrazio anche per la chance che mi avete dato di esprimere quello che pensavo, per l'opportunità che mi avete dato di conoscere tanta gente e parlare con gente nuova. Grazie!
Stefano Trasatti*
Grazie e adesso si cambia scena di nuovo invito a salire sul palco Paolo Andruccioli, Salvo di Maggio, Enrico Serpieri. Durante il workshop sulla prostituzione è stato presentato questo libro curato da Vincenzo Castelli che si intitola "Ragionare con i piedi" dove si cerca un po' di sistematizzare le conoscenze, anche scientifiche, fatte negli anni da chi lavora sulla strada. Dei rom noi ce ne occupiamo moltissimo in quanto Redattore Sociale e con tigna, perché è un tema che non importa a nessuno, o meglio non importava a nessuno fino ad un po' di tempo fa, finchè il tema è tornato un po' all'ordine del giorno nell'agenda, e questo, bisogna dirlo, grazie al cambio di governo e inoltre ben prima che succedessero gli ultimi fatti di cronaca che poi succedono continuamente. Abbiamo avuto difficoltà ad organizzare un workshop su questo perché i punti di attacco sono moltissimi, perché l'associazionismo sui rom è molto poco strutturato, molto variegato, alla fine siamo andati sul sicuro e intanto abbiamo scelto un contesto: Roma e Salvo di Maggio che è il responsabile di Capodarco a Roma per quanto riguarda l'area rom; tra l'altro Capodarco a Roma è la realtà leader per quanto riguarda la scolarizzazione dei Rom insieme ad altre realtà. Enrico Serpieri è il responsabile dell'area rom per il comune di Roma dove c'è il numero più alto di presenze di rom in Italia. Abbiamo poi invitato Giovanni Zoppoli dato che ha una importante esperienza di lavoro nei campi a Napoli, a Bolzano e in altri luoghi, ma soprattutto perché ha scritto questo libro molto bello intitolato "Gago". Giovanni è stato vittima dello sciopero odierno dei treni e non ci ha potuto raggiungere quindi sarà Paolo Andruccioli a parlarcene.
Paolo Andruccioli*
Rispetto al nostro workshop è mia intenzione dire solo due o tre cose che mi sono appuntato per cercare di dare dei messaggi,delle indicazioni di lavoro, dato che è proprio questo che dovrebbe fare un seminario, senza proporre ricette o sintesi esaustive. Da quello che ho percepito io questa mattina e dai giri che ho fatto in questi mesi per i campi, soprattutto per quanto riguarda la scolarizzazione sono emerse questi dati: primo, i rom, gli zingari come vengono identificati dalla popolazione, sono i più diversi tra i diversi, cioè noi affrontiamo il problema dell'immigrazione e siamo un paese giovane dal punto di vista dell'immigrazione, però abbiamo un atteggiamento diversificato come opinione pubblica rispetto all'immigrazione, ovvero andiamo da chi gira con il maialino per strada per dare un messaggio ai musulmani a chi invece fa un discorso di integrazione rispetto alle forme di acculturazione. Abbiamo incominciato, secondo me, ad accettare come opinione pubblica un tema che fino a qualche anno fa era rimosso ossia questo qui dei rom, un tema rimosso tra i rimossi, un tema diverso tra i diversi, è la gente che a noi ci da proprio fastidio, e non solo, è anche la gente che quando parli di loro, come ha detto un'amministratrice Rho, perdi le elezioni…I giovani giornalisti devono sapere che, seppure si tratti di un tema che dà fastidio, si devono informare come sempre per fare bene il proprio lavoro, se scriviamo delle cose devono essere documentate, devono avere delle pezze d'appoggio, non puoi raccontare delle banalità, e trattandosi nello specifico di un tema veramente delicato, qualsiasi cosa dici rischi di essere fraintesa, i pregiudizi sono antichi come antico è il problema. Stamattina ad esempio abbiamo scoperto da Salvo, che i primi zingari sono arrivati a Fermo nel 1430, sono arrivati dall'India dopo un lungo giro… Abbiamo cercato quindi di affrontare il tema dal punto di vista storico culturale, ma si è cercato anche di far mettere in evidenza degli elementi che ci fanno capire quanto anche noi siamo vittime dei pregiudizi; ad esempio gli Zingari sono per definizione "il popolo del vento" e quindi siamo convinti che siano nomadi, ma questo non è vero perché il 50% dei rom sono italiani e sono stanziali. Poi si è fatta anche la distinzione tra rom e sinti, sono cose diverse, ovviamente queste sono informazioni per specialisti che non interessa all'opinione pubblica, però neanche puoi dire che tutti i rom sono nomadi infatti quelli che vengono dalla Romania abitavano in case, non hanno mai abitato in baracche, invece vengono qui e abitano nelle baracche e questo perché sono poveri. Il problema che si pone è quello di andare un po' a fondo, andare oltre questi stereotipi, questi pregiudizi. Si è discusso molto della scuola che è un tema fondamentale, e anche in questo caso il discorso dell'integrazione è venuto fuori in maniera articolata. Integrazione significa che portiamo questi bambini e li aggiungiamo nelle classi? E poi si integrano veramente dal punto di vista scolastico? Apprendono come gli italiani? Sono venuti fuori i numeri: 200mila i rom su tutto il territorio nazionale italiano, su 58 milioni di abitanti, e pure qui c'è un gap straordinario tra l'immaginazione che abbiamo del rom e il numero, io stesso a pensarli sembrano molti di più e questo perché? Forse perché li vediamo, sono visibili, vanno in giro, le donne vanno in giro vestite in un certo modo ecc. Infine vorrei dire l'ultima cosa che da quello che ho percepito io stamattina è che non c'è un modello unico di intervento, cioè non possiamo dire c'è il modello Roma, il modello Pisa, il modello Milano; sui rom non c'è un modello, ci sono invece varie situazioni che andrebbero di volta in volta esaminate, quindi questo ovviamente dal punto di vista di chi fa politica complica anche l'approccio.
Enrico Serpieri*
Io mi ricordo uno studio di due anni fa ma che temo sia tuttora fortemente valido su un campione di cittadini italiani il cui scopo era quello di capire cosa volesse dire clandestino e ne risultò che la maggior parte degli italiani pensava che essere clandestino dipendesse da una scelta, cioè che il clandestino come nelle storie e nei fumetti di una volta fosse appositamente l'immigrato che entrava di nascosto e si teneva nascosto in modo da non farsi beccare e di poter fare i suoi traffici; nessuno evidentemente era riuscito a far passare che il termine clandestino è una condanna per l'immigrato che tutto vorrebbe meno che essere clandestino. Se ancora in Italia non riusciamo a far passare questi concetti, in realtà abbastanza chiari, rispetto al tema dell'immigrazione generale figuratevi quanto ci può essere di vero di quello che esce sui rom e di quello che uscirà sui di loro in questo periodo. Più della metà di quei 200mila che stanno in Italia sono italiani e lo sono da sempre mentre la maggior parte della gente non solo pensa che siano milioni ma oltretutto che siano tutti stranieri extracomunitari. La realtà è che quando parliamo di rom, noi pensiamo a quelli che vivono nelle baracche, ovvero i rom che vivono in uno stato di emarginazione totale e in uno stato di assoluta indigenza e povertà; va bene parlarne perché rappresenta un problema, ma bisognerebbe sottolinerae che non vivono in quelle baracche e in quelle situazioni per una pseudo cultura o per una strana scelta o tradizione, anche se qualche volta capita di leggere questo sui giornali e ovviamente non è così; queste persone vivevano in case precarie in Serbia, in Bosnia, in Macedonia, in Romania, in Ungheria, vivono nelle stesse condizioni di assoluta povertà in Italia però spesso incastonati in metropoli che rendono questa vita ancora più disperata, perché un conto è vivere in abitazioni di fortuna nella campagna magari romena dove la povertà c'è comunque, un conto è vivere ovviamente sotto la collina Fleming a Roma dove stride molto di più e di sicuro sono molto visibili. Il problema è appunto questa totale emarginazione e povertà non solo in termini economici, ma anche in termini di strumenti culturali di apprendimento, proviene già dalle loro condizioni emarginati dalla povertà e anche dalla vita sociale e culturale già nel loro paese.Ecco perché abbiamo ripetuto che ci dovrebbe essere questa regola: se dovete scrivere degli immigrati, andate a conoscere gli immigrati, bisogna affrontare tutti gli aspetti del problema e bisogna cercare di capirlo e poi di raccontarlo con onestà. Un'altra cosa emersa è che non soltanto ci sono modelli differenti nei vari enti locali, nelle varie città, ma la realtà è che le istituzioni non sanno bene che pesci prendere. La realtà è che una strada chiara ancora non è stata individuata neanche negli altri paesi, Spagna e Francia, vivono assolutamente le stesse difficoltà e su questo si cerca di confrontarci.
Devo dire che forse per la prima volta dopo anni c'è anche un'attenzione nazionale, aldilà di questa isteria degli ultimi mesi, cioè dopo tanti anni per la prima volta si sono svolti dei Tavoli al Ministero perché gli enti locali non possono essere lasciati da soli ad affrontare o a non affrontare per scelta, questi problemi.
Salvo di Maggio*
Quando ci siamo sentiti con Paolo e con Stefano rispetto a questa iniziativa parecchi mesi fa, quindi non sull'onda dell'emergenza, il che secondo me è un fatto da sottolineare, nello scegliere il titolo abbiamo deciso di dedicarlo a Sasha e Lilli. Sasha e Lilli erano due ragazzi, due adolescenti che avevano rispettivamente 15 e 16anni, che vivevano in un campo rom di Roma, sono nati e vissuti sempre a Roma, hanno frequentato le scuole e stavano cercando la loro strada per l'integrazione; erano due adolescenti e si erano sposati perché purtroppo nell'universo rom accade anche questo, che ci si sposa anche a quindici anni e purtroppo, quasi un anno fa il due dicembre 2006, il loro insediamento prese fuoco e morirono in un incendio nella propria unità abitativa. Questo per dire che ci sono delle questioni che pongono la presenza dei rom nelle nostre città e nei nostri territori che sono estremamente urgenti e che non possiamo non affrontare in termini di protezione sociale immediata. In questo sicuramente non c'è un modello, come diceva bene Paolo, ci sono approcci differenti e che devono essere anche rispettosi dei vari percorsi che sono stati intrapresi dai rom e da coloro che li hanno affiancati in questi anni, che non sono risolutivi laddove non si tenga conto della specificità di ciascun gruppo, di ciascuna comunità, di ciascuna persona. E' stata la standardizzazione che ha fatto si che non ci sia un modello di intervento relativamente ai rom. Per ridurre il problema non bisogna mantenere queste persone nello stato di separazione rispetto alla società maggioritaria, cioè creare una sacca all'interno della nostra società nella quale i rom restano inamovibili e incapaci di qualsiasi cambiamento; questa è una delle false notizie che viaggiano attraverso la stampa e i media e che invece mantengono una situazione di assistenzialismo da parte non solo degli enti pubblici che devono intervenire ma anche delle associazioni che perpetuano comunque una mancanza di protagonismo e di prospettive che siano di cambiamento non imposto dall'esterno quindi non etno-centrico, bensì un cambiamento frutto di una maturazione all'interno della società stessa e dei rom. Questo può avvenire attraverso l'acquisizione di strumenti laddove il nostro sistema educativo, la nostra scuola non sia un sistema per l'assimilazione ma sia invece un'opportunità che viene offerta ai bimbi rom e alle loro famiglie per dialogare con il resto della società perché la scuola sicuramente è uno dei luoghi dove si incontrano tutti quanti, ci passiamo come allievi, come genitori, come insegnanti. Sicuramente la scuola può essere un elemento che può trasmettere strumenti per dare possibilità di integrazione responsabile e con la responsabilizzazione delle famiglie nel loro percorso. Quello che permane, come diceva Enrico, è un'esclusione che non è dettata soltanto da fattori economici ma da questa visione dei rom come un elemento che è staccato dal contesto sociale e che quando viene visto positivamente, quindi non come nell'ultimo periodo che ci sono stati dei fatti eclatanti per cui si è fatto sensazionalismo dai media rispetto ai rom, vengono ridotti a elemento folkloristico quindi la donna rom con le gonne lunghe e gli uomini che suonano i violini. E' semplicemente la capacità della nostra società di entrare in contatto con una diversità che riteniamo talmente irriducibile ai nostri canoni da non potere avere un confronto che sia paritario e rispettoso; in realtà è un problema della nostra società maggioritaria, in quanto la nostra mancanza di identità ci mette in crisi, laddove dall'altra parte individuiamo invece un'identità che si è mantenuta nei secoli su un veicolo che a noi sembra adesso inusuale, però sulla lingua la comunità dei rom esiste in quanto comunità linguistica, una comunità transnazionale che non ha un territorio.
* Testo non rivisto dall'autore.