XIII Redattore Sociale 1-3 dicembre 2006

Sotto il tappeto

Workshop: Tutelati e precari

Incontro con Pier Paolo Baretta e Roberto Natale. Conduce Angelo Ferracuti

Pier Paolo BARETTA

Pier Paolo BARETTA

Sottosegretario al Ministero dell'Economia e delle Finanze. Dopo l’università è entrato nel sindacato, diventando a soli 24 anni responsabile nazionale della formazione del sindacato unitario dei metalmeccanici, quindi ricoprendo numerosi incarichi nella Cisl fino a quello di segretario generale aggiunto nel 2006. Eletto deputato nel 2008 e nel 2013 con il Pd, ha ricoperto lo stesso incarico nel Governo Letta, confermato nel Governo Renzi e Gentiloni.


ultimo aggiornamento 03 novembre 2015

Roberto NATALE

Roberto NATALE

Giornalista, è responsabile della Responsabilità Sociale Rai. E’ stato prima portavoce del “Gruppo di Fiesole”, poi vicepresidente dell’Associazione Stampa Romana. Dal novembre 1996 all’ottobre 2006 è stato Segretario dell’Ussigrai (il Sindacato dei Giornalisti Rai)

 

Angelo FERRACUTI

Angelo FERRACUTI

Scrittore, ha pubblicato vari romanzi e réportage, tra cui “Le risorse umane” (Feltrinelli, 2006) e “Il costo della vita” (Einaudi, 2013) e "Gli spaesati. Reportage dalle zone del terremoto del Centro Italia" (Ediesse, 2018) con il fotografo Giovanni Marrozzini.  Tra le collaborazioni "Nuovi Argomenti", "Diario", "Il manifesto", "La lettura" del Corriere della Sera, e Rassegna Sindacale.  Dirige la collana di libri non fiction "Carta bianca" di Ediesse. Fa parte della giuria tecnica del “Premio Paolo Volponi”.

ultimo aggiornamento 30 novembre 2014

Angelo Ferracuti*

Il titolo di questo workshop che avete deciso di seguire è "Tutelati e precari";affronteremo dunque insieme ai nostri ospiti il tema del lavoro nella nostra società. Passo subito la parola a Pier Paolo Baretta che ci introdurrà al tema. 

Pier Paolo Baretta*

Credo che sia necessario fare una riflessione culturalmente più coraggiosa da parte di tutti riguardo al tema che trattiamo in questo workshop; non c'è dubbio che ci può essere la tendenza ad un uso scriteriato della flessibilità da parte delle aziende, paradossalmente più della flessibilità che non della precarietà. Le conseguenze della rapidità dell"innovazione tecnologica, l'avvento dei nuovi mercati globali a seguito della crisi dei blocchi contrapposti, sono evidenti non solo dal punto di vista di carattere generale, politico, ideologico, ma anche dal punto di vista del gioco dei mercati, con la Cina e altri paesi che escono dall'isolamento, provocando un terremoto. Anche l'imprenditore è un essere umano e di fronte al terremoto rischia il panico, c'è una risposta da panico che le imprese tendono a dare, come spesso la diamo anche noi, una forma di chiusura. La mia opinione è che non si può lasciare il singolo imprenditore da solo di fronte ad un fenomeno che è più grande di lui, come non si può lasciare il singolo lavoratore e la singola RSU. Qui c'è un ruolo delle associazioni collettive di rappresentanza di interessi come Confindustria, i Sindacati, prese come entità collettive che hanno un ruolo di responsabilità sociale clamoroso, nel senso di costruire quelle reti di riferimento che consentano di avere supporti; non penso solo alle associazioni ma anche alla visione nuova dell'aiuto che l'apporto dello Stato può dare, ad esempio l'Ufficio del Commercio Estero, un istituto grandioso 20 anni fa che non funziona più quando invece sarebbe necessario, nel senso proprio di costruire queste reti di riferimento. 

Il primo problema delicatissimo che tutte le imprese hanno è quello del mix; pensate alla contraddittorietà di Confindustria che dice tutti i giorni che bisogna aumentare l'età pensionabile e contemporaneamente tutte le volte che può, ovviamente, cerca di mandar via persone che hanno sopra i 50 anni. La posizione è contraddittoria, ma c'è una logica dal punto di vista dell'impostazione delle politiche generali. Il problema del mix è clamoroso: come faccio ad avere forze giovani, risorse fresche che costano anche meno, soprattutto, ma che comunque hanno un atteggiamento ben diverso da quello del cinquantacinquenne e contemporaneamente non perdere la professionalità acquisita che è il risultato anche di tanti anni di esperienza? In questo mix si verifica molto spesso il tilt. Ci vuole una struttura collettiva che consenta d'inserire queste ansie individuali in una rete di tutela e di rapporti, anche di tutela imprenditoriale, la tutela della fidalizzazione, ossia come ci si sente nell'azienda perché una cosa è sentirsi parte della mission che non decidi tu, una cosa è sentirti parte di un gioco collettivo del quale ti senti anche in qualche modo protagonista. Il tema della fidalizzazione è un tema importantissimo, che però ti scappa via nel momento in cui devi giocartelo tra l'aumento delle condizioni di flessibilità, precarietà ecc…  

Passiamo a parlare della persone; è un tema decisivo, non confondiamo l'individuo o la tendenza individualistica con la valorizzazione della persona che è un'entità molto più complessa, per altro non è mai disancorata da sistemi collettivi, si chiami famiglia, comunità, azienda, rete interrelazione. Dopodichè è vero che c'è già un ulteriore salto tra gli attuali quarantenni e gli attuali ventenni, è vero, però io noto anche che la domanda di relazioni è forte ed è il presupposto di una dimensione interpersonale, non solo individualistica. Forse gli strumenti tradizionali con i quali noi coniughiamo il sistema di relazione, sono da ripensare, penso ad esempio al sindacato. Che tipo di organizzazione di rappresentanza devo pensare per i giovani ventenni di oggi? Forse non quella tradizionale con le 10 ore di assemblea, la trattenuta nella busta paga e così via, bensì delle piattaforme di carattere culturale per identificare i nuovi bisogni. Io manterrei fermo il valore della dimensione comunitaria.  

L'ultima considerazione che vorrei fare su questo tema riguarda la scuola perché la formazione familiare insieme a quella scolastica è fondamentale. Nonostante tutte le chiacchiere, la stragrande maggioranza dei ragazzi frequentano la scuola pubblica che deve diventare un momento di formazione e di educazione civica. Questo è un terreno su cui bisognerebbe impegnarsi, ossia valutare non il contenuto scolastico bensì il messaggio culturale prevalente che si vuole dare e secondo me si tratta di una battaglia politica e culturale; quello però che per certi versi mi preoccupa, per altri invece mi stimola, è che in molti casi la non adeguatezza è trasversale agli stessi schieramenti politici. 

Intervento

Sono un giornalista medico-scientifico e credo che l'impegno che dovremmo prendere noi giornalisti è quello di cercare di crescere culturalmente la nostra società, cioè capire che certe cose sono necessarie, c'è bisogno che succedano affinchè le cose migliorino.  

Intervento

Mi assumo questo onere di parlare un po' per bocca dei ventenni, mi sento più vicina al mondo dell'università che al mondo del lavoro e dico che la riforma Moratti ha portato un notevole cambiamento nel sistema universitario. Io sono arrivata all'università nel 2000 e in 5 anni mi sono resa conto del cambiamento epocale all'interno dell'università per quanto riguarda le relazioni umane; sicuramente si tratta di un fenomeno che è cominciato prima. L'università ha smesso di essere quel laboratorio di confronto, di produzione di idee, di dibattito politico: che cosa è successo ai ventenni di oggi? E' ovvio che nel momento in cui il sistema universitario viene pensato come una corsa al credito, come una corsa al punto, io devo scappare da un'aula ad un'altra, perché altrimenti non arrivo a fine anno con la mia lista della spesa, si perdono quei valori importanti. Quindi voglio dire, se questo sta succedendo alle università, secondo me è una cosa su cui bisognerebbe riflettere, perché poi se viene a mancare l'università come centro propulsore di riflessioni è difficile arrivare a quella consapevolezza che chiede lei. Dopodichè mi fa piacere aver sentito questa sorta di autocritica finale, perché poi un altro problema che sento io come ventiquattrenne che si sta avviando ad una professione precaria come praticante giornalista, è quello di non sentirsi minimamente rappresentata da un sindacato, nel senso che se io dovessi cercare in qualche modo una rappresentanza, una difesa, una tutela, non la verrei mai a chiedere al sindacato perché io lo trovo miope, così come trovo miopi i giornalisti che hanno cominciato a parlare di precarietà quando la precarietà li ha toccati in prima persona. 

Intervento

Io affronterei il tema del mercato dell'editoria: ci sono giornali che vivono di collaborazioni, studenti e universitari pagati a lavoro nero o che si offrono come stagisti; io credo che se tutti i ragazzi cominciassero a dire di no e pretendino come giusto di essere retribuiti, l'editore non potrebbe neanche più ricattare e dire ok tanto se te ne vai via tu, fuori ne trovo a miriadi che mi fanno lo stesso servizio.  

Roberto Natale*

Per partire dalla riflessione del collega che diceva che i giornalisti dovrebbero ragionare su certi valori culturali, vi ricordo l'intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso dicembre da De Benedetti, un esponente importante dell'imprenditoria del centro-sinistra, che alla domanda: "Cosa dovrà fare un nuovo governo?", risponde, cito testualmente, e non parlava da editore bensì da imprenditore: "Serve più flessibilità". Questo è quello che si autodefinisce tessera n.1 del Partito Democratico, uno degli imprenditori guida dello schieramento del centro-sinistra… A proposito di valori, Baretta diceva giustamente che suscita indignazione quanto siano cresciute le retribuzioni degli amministratori; la cosa paradossale è che questi predicano la flessibilità degli altri, ma per sé stessi stabiliscono una rete di protezione che è clamorosa. Questo vale anche nella mia esperienza come sindacalista Rai, abbiamo fatto anche qualche vertenza sfruttando la contraddizione clamorosa per cui chi piglia 40 mila euro all'anno lordi predichi la flessibilità, mentre il direttore generale Meocci, che lascia l'incarico, lo lascia con la garanzia di andare a ricoprire un altro incarico da 830 mila euro annui lordi. Allora è tollerabile che tu faccia la predica sulla flessibilità alle fasce basse e per te applichi una rete di regole  che non si trovavano nemmeno nell'Unione Sovietica degli anni '60? A proposito di proprietari del giornale faccio un'osservazione che è consapevolmente fuori tema, però l'ho letto stamattina e non posso fare a meno di irritarmi: "Alitalia, il controllo passerà ai privati - interessati Colaninno, De Benedetti, Della Valle". De Benedetti è il proprietario di Repubblica e Della Valle è nella proprietà del Corriere della Sera. Io non conosco davvero la situazione reale di Alitalia, non ricordo i titoli che Repubblica ha fatto negli ultimi mesi, ma dice qualcosa della qualità della nostra informazione e della nostra democrazia il fatto che chi ha fatto campagne in questi mesi per dire che l'Alitalia stava andando a picco adesso è interessato a comprarsela… 

Certi temi sono scomparsi: il lavoro, la centralità del lavoro di cui parlava Ferracuti all'inizio, è scomparsa dall'informazione, è scomparsa dalla televisione, avete visto qualche fiction sui problemi del lavoro? Le fiction sono utilissime per mettere al centro del dibattito temi come l'esempio di quella con Banfi, padre di una figlia omosessuale: abbiamo mai visto negli ultimi anni qualche fiction sul lavoro? Nel lavoro culturale che ai giornalisti ed ai comunicatori culturali tocca, qualcosa c'è da fare; segnalo da questo punto di vista lo spot promozionale che sta facendo il sito di Articolo 21, riprendendo anche gli appelli ripetuti negli ultimi mesi dal Presidente della Repubblica sul tema degli incidenti sul lavoro: si tratta di riportare il lavoro al centro della discussione pubblica. L'Italia, scusatemi la banalità della citazione, l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro ma a guardare la comunicazione non sembrerebbe proprio. A partire da questo, a partire dagli incidenti, si tratta di riportare il tema lavoro nella discussione. Venendo a quello che riguarda specificamente la categoria dei giornalisti, la precarizzazione è il nodo di questo contratto. Diceva Serena prima: i giornalisti se ne sono accorti tardi. Sarà vero che ce ne siamo accorti tardi, è ancor più vero quello che tu dici, i giornalisti scoprono la precarizzazione solo quando li tocca, ed è verissimo. Solo che parlare di giornalisti è indistinto quanto parlare di cittadini italiani: ci sono italiani che la pensano in un modo e italiani che la pensano in un altro, così è all'interno della categoria. Vi assicuro che c'era chi si vergognava quando facevamo la predica alle altre categorie sul contenimento dei salari e poi quegli stessi colleghi che scrivono pezzi di economica, erano quelli che nella discussione sulle nostre vertenze dicevano: e mica staremo a farci imporre dei tetti! Tutte le posizioni sono legittime, solo che bisogna essere coerenti, quindi se non vuoi tetti per la tua categoria e può essere legittimo, non puoi far prediche sulle compatibilità agli altri.  

Adesso, pur tardivamente, la massa della categoria dei giornalisti sta prendendo coscienza e questo significa, lo rivendico come un elemento di ricchezza di una categoria pur affetta ancora da pesanti vizi di corporativismo, aver messo il tema del no alla precarizzazione al centro del contratto. Guardate che è un elemento importante e non scontato. La scelta è stata solidaristica, in una categoria che pure nella pancia ha robusti germi di corporativismo; forse perché si è cominciato a capire, lo diceva Ferracuti all'inizio, che il colpo al precario dato di sponda è un colpo che arriva anche al garantito, e se il garantito non è proprio cretino capisce che lì si gioca anche parte del suo futuro. Quindi c'è un elemento anche d'interesse in questo apparente solidarismo. Non mi soffermo per motivi di tempo sul fatto che all'interno del panorama del precariato italiano c'è una differenza tra quelli che stanno con la partita Iva e quelli che fanno il lavoro a tempo determinato. Il precariato Rai, da questo punto di vista, ha qualche garanzia in più, ma al momento non è la cosa essenziale, quello che m'interessa sottolineare in chiusura è ciò cui faceva riferimento Serena: lo stage. Si sta creando, all'interno della categoria dei giornalisti, un rischio, che forse non riguarda solo i giornalisti, ma una contrapposizione tra i disoccupati e chi sta arrivando dalle scuole, tra il titolo costituito da anni di lavoro e il titolo costituito dal merito formativo. Una contrapposizione che per i numeri che si sono creati negli ultimi 10 anni all'interno del giornalismo italiano, sta creando quella guerra tra poveri per cui l'estate, appunto lo o la stagista vengono guardati con occhi furibondi dal precario che sta lì. E' una contrapposizione che ovviamente richiama alle responsabilità di chi la categoria la gestisce, sia sul versante del sindacato che sul versante dell'ordine dei giornalisti. È una contrapposizione dalla quale bisogna cercar di uscire, senza consentire, ma questa è una posizione che all'interno del giornalismo italiano non è ancora per nulla scontata, che monti quella marea che pure sta gonfiandosi, sta alzandosi, all'insegna del "basta con le scuole di giornalismo, basta con la professione alla quale si accede per formazione, abbiamo tanti di quei disoccupati, che ce ne frega della formazione?". Questo è un rischio pesante. L'idea che il giornalismo sia professione per la quale c'è bisogno di formazione è una cosa che non solo non è presente nella pancia della categoria, ma talvolta non è presente nemmeno tra i grandi nomi della professione. Quando stava per arrivare a maturazione quel decreto legislativo al quale accennavo che avrebbe riformato l'accesso alla professione, la Fieg ha fatto forte opposizione; la scelta che gli organismi di categoria hanno fatto invece per fortuna, dopo un lungo dibattito, è di tipo diverso. La formazione serve, certo serve disciplinare il numero delle scuole, serve evitare che ci sia questa proliferazione incontrollata, adesso siamo arrivati credo a 19 forse 20 scuole di giornalismo riconosciute dall'ordine, bisogna porre un freno e fare in modo che non ci sia più quella guerra tra poveri della quale tu parlavi. Questo è compito nostro, questo è anche uno dei temi sui quali si giocherà la riforma dell'ordine della quale stiamo parlando, la riforma delle professioni che è sui giornali tutti i giorni. La domanda finale a Baretta; la democrazia economica può valere anche per il sistema dell'editoria e dell'informazione? Lo chiedo a lui perché è uno dei non molti che in Italia si occupa di democrazia economica. 

Intervento

Lavoro alla Rai, faccio la trasmissione "La radio ne parla", che va in onda su Radio 1, nella quale ci occupiamo spesso dei temi legati al lavoro, occupandoci dei temi sociali; negli ultimi giorni ci siamo occupati spessissimo di precariato e di lavoro. E' stata fatta una ricerca secondo me molto interessante dallo staf Bocconi che ha analizzato gli annunci che vengono messi sui giornali sui quali si cerca lavoro e circa nel 43-44% viene fissata un'età limite e questo va contro la legge, perché c'è una legge contro la discriminazione e questa è una discriminazione: perché si può fare questo? Prima domanda banale. Poi: il precariato, la flessibilità, a parte che è vero, non possiamo generalizzare, dobbiamo stare attenti, però tutti usano indiscriminatamente un termine o l'altro, atipici, a tempo determinato, precari, flessibili… cioè su questo non c'è un ordine, non c'è una regola. Nei titoli dei giornali trovi tutto e il contrario di tutto, perché dipende dalle battute. Roberto prima diceva quella contrapposizione che c'è tra chi è diventato precario lavorando e chi è diventato precario dalla scuola; il mondo della scuola lo fa da anni, questo è il grossissimo conflitto che è all'interno dei precari della scuola, cioè c'è chi lo è diventato cambiando contratto da un anno all'altro entrando nelle graduatorie e chi ha acquisito i titoli di merito con queste scuole di specializzazione. L'altro estremo di questi esempi di precariato è una ragazza che lavora in un call center, che ha un contratto non ricordo se co.co.co o co.co.pro di 3 anni. Allora io dico: lì dov'è il sindacato? Non è forse giunto il momento veramente di costringere le politiche sociali ad essere più proiettate nel futuro e non guardare a quello che è successo negli ultimi 2 anni? I dibattiti che stiamo facendo sui 70 mila euro di reddito, sul ceto medio, sui precari, sono cose che sono già accadute, le politiche sociali devono guardare avanti, non possono guardare indietro. 

Pier Paolo Baretta*

Se c'è da riflettere sugli errori di oggi, la storia l'abbiamo fatta bene, abbiamo centrato il grande problema della rappresentanza sociale prevalente. Oggi il primo e l'ultimo miglio sono almeno paritari alla parte centrale, si è allungato il primo periodo, non a caso 25-30 anni, 30-60, 60-90. Ora non c'è dubbio che questo comporta il fatto che la tradizionale divisione tra età di studio, età di lavoro ed età di riposo non sta più in piedi. E' chiaro che messa così, i giovani, oppure coloro che stanno nel primo miglio e coloro che stanno nell'ultimo miglio, diventano oggettivamente delle priorità, se volete anche dal punto di vista del consenso sociale, delle politiche d'intervento, delle masse di pressione, come volete chiamarle, dal punto di vista etico, politico. Dobbiamo assumere le 3 condizioni: la condizione del giovane, la condizione del mediano e la condizione degli anziani, da affrontare con priorità di carattere diverso, rispetto a quelle attuali. Questo fa rileggere completamente il tema tutelati e garantiti, però non c'è dubbio che non bisogna dare le stesse risposte per tutto. Ricordiamoci Don Milani "Non risposte uguali a diseguali". Il limite delle leggi fatte con il modo tradizionale è proprio quello di dare la stessa risposta a diversi bisogni. Il problema del primo miglio ad esempio è come stabilire un percorso verso la stabilità; nel caso degli anziani il tema più importante è quello della sostenibilità della solitudine, più importante del reddito, perché al reddito si può sopperire con un'assistenza sanitaria e sociale, insomma intelligente e adeguata, ma al tema della solitudine si sopperisce con una politica d'integrazione vera. Il tema dei mediani riguarda le transizioni del cambiamento strutturale del lavoro.

E' chiaro che siamo di fronte a un salto di qualità, culturale, strategico e informativo necessario, prendo ad esempio la previdenza: sulla previdenza non c'è dubbio che bisogna omogeneizzare i contributi previdenziali. Scendo velocemente nel concreto altrimenti non si capisce: come previsto da questa finanziaria, si possono avere contributi previdenziali al 20% per tutto il mondo degli autonomi e al 32% per tutto il mondo degli assunti a tempo indeterminato, fatto che determina uno squilibrio sulla pensione futura, ma anche sul mercato del lavoro, perché non c'è nessun imprenditore cattolico, del partito democratico, ecc. che ti assume al 32% se può assumerti al 20%, quindi ridurre la forbice ha un effetto benefico sul mercato del lavoro e un effetto benefico sulla previdenza e sul futuro.

Bisogna rivalutare le pensioni in essere di quelli che oggi sono in pensione, con formule non automatiche, negoziate, questo è un problema tecnico, però in ogni caso sulla previdenza ci vuole un intervento, probabilmente anche un intervento che renda flessibile la gestione dell'età di uscita, perché se si vive fino a 90 non è la stessa cosa che vivere fino a 78. Sul mercato del lavoro bisogna invece tirar fuori dai cassetti il tema dello Statuto dei Lavoratori e farlo diventare un tema. Il mio approccio è per le tutele di base: non c'è nessuna ragione che sulla malattia o sulla maternità ci siano tutele differenti a seconda dei contratti che hai, perché quelli sono diritti, non sono solo tutele. Ad esempio oggi il parasubordinato non ha tutele nel caso del ricovero ospedaliero, abbiamo chiesto d'introdurla con questa finanziaria, ma non mi pare che ci sentano. La maternità a rischio non è tutelata. Questo apre il problema dei buchi nel lavoro flessibile e bisogna fare delle saldature.

Formazione permanente è la seconda condizione di diritto a prescinderepoi gli ammortizzatori sociali per gestire tutte le fasi di transizione. Introduco anche una riflessione su un tema collaterale che è quello delle regole del gioco della democrazia economica: c'è il problema dell'accesso al credito, della mutualità per il fatto che anche se sei in condizioni di flessibilità o di precarietà, contemporaneamente ti viene chiesto di sentirti parte della mission aziendale, cioè per dirla con una battuta demagogica, ti si chiede di lavorare come un socio e vieni trattato, se ti va bene, come un salariato, se non addirittura come un precario. Questa è una contraddizione rispetto alla quale si possono dare anche risposte diverse, la mia risposta è: accettiamo la sfida. Altri possono dire di no, ma non c'è dubbio che questa contraddizione pone un problema di nuove regole del gioco nei rapporti, nei rapporti sociali. Per concludere, io penso che ci sia un problema di reti, cioè la cosa che noi dovremmo immaginare di fare è lanciare reti a maglie sufficientemente strette, ma non reti che imbriglino, come il tentativo in parte riuscito della condizione contemporanea, ma reti che unifichino, che consentano reti di riconoscimento, di solidarietà, ma anche di una capacità di reidentificare rappresentanze in funzione di trovare nuove forme di equilibrio.  

Angelo Ferracuti*

Un bellissimo contributo pieno di spunti interessanti, quasi un bombardamento. Abbiamo messo sul tappeto tantissimi temi, appunto quello dei processi strutturali. E' vero, molti incidenti sul lavoro accadono proprio per l'esternalizzazione, per i passaggi di mano; è stato detto poi che questo cambiamento è irreversibile e anch'io condivido, la mancanza di studi, indagini sulla condizione reale delle persone, l'importante ruolo dell'informazione, ecc. Io rilancio su una questione: secondo me la precarizzazione del mondo del lavoro non è sempre necessaria, non sono d'accordo che la necessità è sempre indotta da un cambiamento di stato della società, quindi dell'economia e della produzione. Secondo me c'è anche il rapporto minore costo del lavoro-maggiori profitti, c'è il problema dell'evasione fiscale, che non è secondario, in quanto se non c'è una giustizia fiscale, ovviamente non si può far fronte a tutte le emergenze, a tutte le questioni che sono state elencate prima. 

Pier Paolo Baretta*

Forse mi sono spiegato male nel senso che io penso che la precarietà, o meglio la flessibilità, sia una condizione che deriva dall'organizzazione del lavoro, ma non che ci sia un automatismo per cui tutta la flessibilità e tutta la precarietà siano necessarie. Io guardo il punto di approccio: se noi non guardiamo la causa, non riusciamo ad avere degli interventi efficaci per limitarla, controllarla, indirizzarla; non c'è dubbio che c'è un utilizzo spregiudicato che approfitta, come la speculazione sull'euro, di una condizione oggettiva per fare invece man bassa, su questo non c'è ombra di dubbio, ed è un tema irrisolto. Quando si considerano a progetto i lavorati che nei supermercati sistemano gli scaffali, questo è un abuso. Da dove deriva l'abuso? Una delle ragioni che io ho introdotto è dal differenziale di costo, può sembrare banale, ma è fondamentale: se il differenziale di costo è troppo elevato, la tentazione all'abuso c'è, ovviamente a quel punto c'è una legittimazione contrattuale che lo rende possibile e la distinzione diventa sofisticata e quindi a quel punto hai l'abuso vero e proprio. In Italia ormai si sta per fortuna affermando tra le persone serie la tesi bipartisan che il problema della quantità della flessibilità non è più tutto, come il problema non è il costo del lavoro, bensì l'utilizzo, le regole, il rapporto produttività che dipende non solo da quanto uno lavora, ma dalla struttura organizzativa nella quale lavora, ecc. Seconda questione quella dell'evasione fiscale che in Italia ha cifre incredibili: vale quanto la spesa sanitaria, ossia si evade quanto si spende per sostenere la sanità. E' talmente un caso italiano che vi è questa curiosa regola europea per la quale non è previsto che venga considerato tra il rientro dal deficit la lotta all'evasione fiscale. Io considero la lotta all'evasione fiscale fondamentale, perché tra l'altro dietro c'è una condizione sulla precarietà che è il lavoro nero cioè la parte più rilevante, si varia dal 15 al 25% del Pil e ciò significa che noi abbiamo ricchezza occulta, povertà palese. Anche l'intervento sulle transazioni finanziarie e sulle rendite finanziarie e averle portate al 20% è un segnale molto importante, significa rientrare nella media europea; nelle ultime estati la cronaca rosa non è stata quella delle attrici, ma quella dei mariti delle attrici, che facevano le transazioni finanziarie e che non pagavano le tasse e coi soldi facevano i soldi, neanche col lavoro precario, coi soldi facevano i soldi.  

Vinicio Albanesi*

Io, Pierpaolo, ti faccio una proposta: io sono un datore di lavoro medio, 500 dipendenti e tra questi ho tanti precari perché molte delle convenzioni vengono fatte a tempo breve, e questa storia dura ormai da 10 anni. Per noi lavorano degli assistenti nei campi zingari che sono laureati psicologi e si ritrovano con questa miseria di stipendio senza avere garanzie, e se una ragazza vuol fare un figlio, quando lo fa? Il problema è che se io voglio introdurre il contratto a tempo determinato, perché almeno tutela per quel periodo i diritti di base del lavoratore, dopo due contratti scatta il contratto a tempo indeterminato. Il problema grosso è che io non ho la sicurezza, soprattutto col cambio delle amministrazioni, di poter riconquistare la convenzione. La domanda che ti faccio è questa: è possibile inventarci, metto il nome della Comunità di Capodarco, un contratto che tuteli prima di tutto i diritti, quelli che tu hai chiamato le precondizioni, cioè se tu vieni a lavorare da me hai i diritti di base? Il problema è trovare una via d'uscita perché io non voglio fare nemmeno come fa Mc Donald's che ti assume due volte per tre mesi dopodichè ti manda a farti un panino…senza pietà, ma comunque è perfettamente in regola con la legge oggi in Italia. Io avendo dei servizi non è che mi posso permettere questo turn over di persone, di rapporti, di relazioni, ecc. La domanda è: possiamo inventarci contro tutto o contro tutti un meccanismo che tuteli da una parte la sicurezza del lavoratore e dall'altra dia a me garanzie? 

Pier Paolo Baretta*

In effetti ci sono delle contraddizioni; prima di arrivare a cosa possiamo fare nell'azienda di 500 dipendenti, c'è un problema generale che riguarda tutta la legislazione sugli appalti e sulle regole del massimo ribasso, che bisogna discutere; tutta la legislazione di tipo tradizionale non affronta questa struttura del lavoro. Io penso che ci sono 3 percorsi sui quali lavorare. Il primo riguarda il rapporto turn over perché qualcuno andrà anche in pensione per raggiunti limiti di età e questo apre un posto di lavoro. Secondo: bisogna fare forme di mutualità integrativa, risposte tecniche, ma io credo che questa sarà una cosa che si diffonderà moltissimo perché lo stato sociale da solo non ci riuscirà, quindi ci devi mettere un po' di soldini e si costruiscono formule di mutualità integrativa che consentano in alcune situazioni delle tutele superiori a quelle che la legge dà. Terzo: fare un contratto aziendale specifico, si tratta perciò di sapere qual è il punto, ad esempio, della quota tra fissi e mobili. Queste mi sembrano le 3 strade del ragionamento. Io penso che accanto ai cambiamenti legislativi generali, alcune esperienze pilota bisognerebbe farle, ma bisogna integrare più aspetti per costruire una specie di menù o di mosaico dentro il quale provare a dare delle risposte, dopodichè quando vuoi cominciamo il negoziato. 

Intervento

Mi è piaciuto quando è stata evidenziata la necessità di tutele di base da cui partire che devono valere per tutti i lavoratori, quelli garantiti e anche quelli precari. Sarebbe possibile pensare anche a delle tutele, come dire, a tetti massimi delle tutele da non superare? La mia esperienza finora è quella di una difficoltà oggettiva di controllo e di sanzione eventualmente quando poi i diritti vengono utilizzati in maniera abusiva. Questo secondo me è uno dei motivi per cui spesso chi è tutelato è sempre più tutelato e chi è precario è sempre più precario, perché poi la bilancia delle tutele va tutta da una parte. Poi però quando ho sentito dire che dove i sindacati sono più forti, magari si riesce ad ottenere di più, ho pensato che forse è necessario un cambio culturale su questo tema… 

Pier Paolo Baretta*

Dove i sindacati sono più forti si ottiene di più non è detto che sia una cosa negativa, semmai il problema è diffondere i sindacati ovunque. Il vero problema è che non riusciamo a interpretare, a cogliere, dare tutele adeguate a tutto e a tutti i componenti del mondo del lavoro. Il problema non è togliere i sindacati dalle poste, è metterli anche nelle aree dove la flessibilità del lavoro produce una riduzione di rappresentanza. 

Io non sono favorevole a questa tesi delle tutele sui tetti. Laddove ci sono problemi, come quelli che tu ricordavi, quasi sempre è al di fuori della rappresentanza diciamo sindacale in senso lato. Faccio un esempio, la tutela che dice: se tu l'ultimo giorno di lavoro vieni promosso generale e quindi tutta la pensione ti viene ricalcolata per tutti i 35 anni precedenti con la qualifica di generale, questa è una tutela esagerata, dalla quale bisognerebbe uscire, però non è all'interno delle regole diciamo dei contratti di lavoro. Nel caso specifico le regole dei contratti di lavoro sono sostanzialmente tutte tra una media degli ultimi 10 anni e una media degli ultimi 7 nel pubblico impiego che non ha più le stesse regole di molti anni fa che erano più vantaggiose. Quindi voglio dire che spesso queste tutele esasperate riguardano settori non contrattualizzati, riguardano alte fasce della pubblica amministrazione, o come nel caso delle alte fasce dirigenziali, fuori dalle regole del gioco contrattuale. In questi ultimi tempi sta uscendo molto anche nei giornali la classifica delle retribuzioni, del differenziale retributivo che in Italia è elevatissimo tra le fasce minime e le fasce altissime…  Lavoriamo sulle tutele di base che è il punto vero, più che lavorare su dei blocchi sui tetti, perché francamente non mi pare questo il problema, anche perché se in alcune condizioni si riescono ad avere delle condizioni di miglioramento, questo ben venga. Il vero problema sono gli squilibri tra le aree. La vera novità anche del gioco negoziabile potrebbe essere quella di fare dei menù e dopodichè all'interno dei menù avere la possibilità di scelta, questo anche per dare spazio alla dimensione individuale. Secondo me la negoziazione futura, oltre le tutele di base, dovrebbe lavorare molto sulla costruzione di menù, perché io non sono in grado di rispondere a tutte le condizioni individuali con l'azione collettiva, questa è l'altra novità vera del sindacato, del contrattualismo. Tutto ciò darebbe la possibilità di scegliere la convenienza della flessibilità non solo per l'imprenditore ma anche per il lavoratore: la possibilità per il lavoratore di usufruire di margini di flessibilità nella gestione dei suoi tempi, dei suoi orari, delle sue modalità, che è un percorso molto lento e spesso tra l'altro affidato a interventi legislativi, più che a interventi negoziali. Uno dei grandi limiti della legge sul mercato del lavoro riguardo i part-time è l'irreversibilità, cioè il fatto che se decidi da tempo pieno di passare a part-time non puoi più tornare indietro. La vera scommessa, tenendo conto della società contemporanea, dovrebbe essere non quella di assecondare in maniera regolata il processo della libertà di scelta, il messaggio che viene utilizzato dai liberisti, della libertà, che il mercato ti consente libertà, che poi non è vero nella traduzione, bensì il come potremmo garantire delle libertà sociali all'interno di un processo regolato, che consenta anche all'individuo, al singolo, alla persona di poter avere dei margini di scelta. Questo inciderebbe moltissimo sulla condizione giovanile. 

Intervento

Io scrivo di questi temi su Il Sole 24 Ore. Volevo ringraziare anzitutto Baretta per aver riportato il discorso alla complessità, perché molto spesso mi sembra che se noi giornalisti facciamo le domande di tipo calcistico, è perché è il quadro di come il mondo del lavoro viene presentato è posto in termini calcistici. Fatta questa riflessione ho due domande. Uno: non è che anche le imprese stanno facendo un uso assolutamente folle e scriteriato in previsione del tempo medio-lungo degli strumenti di flessibilità? Lo stanno usando in modo non sistematico, ma forse attento al costo, oppure perché questi strumenti ci sono e allora li usiamo per qualunque tipo di figura? La seconda domanda invece riguarda le persone: è vero che il sindacato fa fatica ad andare a pescare le persone nei call center che lavorano in turni diversi, i lavoratori sparsi sul territorio, nelle aziende di appalto, ecc.. però a me sembra che ci sia anche molta poca volontà a prendere coscienza dei propri diritti da parte di questi lavoratori, soprattutto di creare uno sforzo solidale, cioè di farsi in qualche modo categorie e di non pensare alla propria situazione solamente. Io ho più di 40 anni, mi sento molto diversa quando parlo con i ventenni di oggi e penso alla base di solidarietà che noi avevamo forse nel Dna, dato il tempo in cui siamo vissuti.   

Angelo Ferracuti*

Ci sono delle aziende che hanno fatto un uso selvaggio delle forme di precarizzazione del lavoro, però ci sono anche aziende che hanno investito, come sempre dovrebbe essere, sulle risorse umane, perché appunto non sono risorse come dire, a tempo, sono risorse che poi si possono spendere lungo un arco di tempo ampio. Io per esempio lavoro in un'azienda dove sono stati spesi tantissimi soldi in formazione, parlo di Poste Italiane, è stata cambiata proprio l'identità dell'azienda nel giro di 3 anni, anche attraverso la formazione. Conosco formatori che lavorano anche per aziende private, per esempio la Merloni spende molto in formazione.

Sulla questione dei giovani, sulla percezione del lavoro, dei diritti del lavoro diversa magari da quella della nostra generazione, è vero, ma insomma, c'è stato un ventennio, lo ricordava Baretta, dove appunto le culture dell'individualismo e della competizione hanno fatto breccia e si sono radicate nelle persone, quindi si vive un po' per corpi separati dentro sé stessi, non si riesce più a concepire anche il luogo di lavoro come un luogo collettivo di scambio di esperienze. 

Pier Paolo Baretta*

Io penso che c'è un ruolo molto importante del giornalista, del giornalismo dal punto di vista della capacità di creare cultura e informazione, perché è il filtro decisivo del rapporto con l'opinione pubblica. Penso che il punto di fondo sia un approccio non ideologico nel sistema di comunicazione. Il dibattito sulle leggi rischia di essere un dibattito ideologico, perché la realtà è che abbiamo una giungla e la vera critica semmai è se le leggi sono state in grado di ridurre la giungla o meno, ma non è che sia stata creata dalla legge. Il sindacato ha delle miopie, è vero l'abbiamo detto e questa è la condizione un po' di tutti i soggetti collettivi. Il punto è non cadere nell'illusione ottica che sia possibile immaginare che poiché il sindacato, la politica, sono miopi, si possa fare senza: quello che avverrà è che può non essere il sindacato, può non chiamarsi CGIL, CISL, UIL, può non chiamarsi sindacato, ma ci saranno comunque delle forme di rappresentanza e se non ci fossero preoccupiamoci. Se uno mi dice che si organizza in modo diverso a quello tipicamente sindacale non mi straccio le vesti, l'importante è che ci sia l'idea, non è immaginabile una soluzione nella quale c'è il singolo individuo, il singolo lavoratore, il singolo cittadino, e poi c'è l'entità complessiva dell'interlocuzione dall'altra parte, questo è fondamentale. La vera domanda è quali sono le forme di associazione collettiva di rappresentanza nell'attuale società contemporanea. Io penso un sindacato che cambia sé stesso, ma questo è un altro discorso. Uno mi può dire: no, non è il sindacato. Vediamo che cos'è, però non cadiamo nell'illusione ottica che sia possibile immaginare l'idea del rapporto individuale. Il mediatore collettivo ci sarà, altrimenti le imprese se lo fanno da sole. Il tema dell'autoreferenzialità dell'impresa diventa un tema delicatissimo, perché non ce la faranno a farsela da soli, perché non è possibile, non fa parte delle regole sociali. In America ad esempio si sta verificando un fenomeno interessantissimo: il sindacalismo si sta spaccando, si è organizzato il sindacato dei lavoratori dei servizi, che è nato dalla rappresentanza dei pony express, diventando poi il sindacato complessivo dei servizi in alternativa al sindacalismo industriale, fino ad avere qualche milione di aderenti. 

C'è un altro aspetto che non affrontiamo adeguatamente ossia quello delle innovazioni tecnologiche che, rendendo spesso più semplici molti lavori, diminuisce il bisogno di professionalità specifiche. Oggi c'è il rischio che ci possa essere un utilizzo di manovalanza non specifica, perché l'innovazione tecnologica consente degli approcci, magari non raffinati; dopodichè va vista la qualità delle produzioni, ma questo è un altro discorso. Ancora una volta insisto sugli aspetti di struttura che stanno dietro ai fenomeni, può essere importante per provare poi a dare delle risposte anche sul piano delle regole del mercato del lavoro.

L'osservazione sull'Alitalia mi sembra interessante, si svela velocemente l'arcano: è chiarissimo il disegno del governo che ha in mente una cordata di italiani, esattamente quelli lì, che sono anche alleati politici, il che di per se a me, come sindacalista, non mi spaventa per niente, ma mi interessa sapere qual è il piano industriale che l'Air France da un lato e Colaninno dall'altro tirano fuori. E' chiaro che l'intervento della finanza in economia, negli ultimi 20 anni, ha cambiato la natura del capitalismo, ha cambiato la natura dell'imprenditore. Facciamo 2 esempi. La Parmalat è fallita perché produceva latte cattivo o yogurt scaduti? Assolutamente no, è fallita per un intreccio tra finanza ed economia. Il caso della Fiat che esce dalla crisi utilizzando la finanza. La Telecom: scorpora la Tim dopo 2 anni che l'ha incorporata, per nessuna ragione di mercato finanziario, di logiche finanziarie. Allora che cosa premia il mercato? Quale mercato? Il mercato di chi compra i prodotti o il mercato di chi investe in borsa? Non c'è dubbio che andiamo verso una struttura di tipo finanziario e sociale nella quale il gioco vero si fa nell'altro mercato, cioè nel mercato della regolazione dei capitali e dell'accumulo dei capitali che determinano poi le grandi operazioni finanziarie. Colaninno è un esempio interessante perché è un mix tra imprenditore e finanziere, non è un finanziere che fa impresa o un imprenditore che fa finanza, è tutte e due le cose. C'è una trasformazione della struttura del capitalismo e del capitalista. Al tempo stesso se guardiamo tutti i processi di fusione societari che ci sono nel mondo e quindi anche in Italia e se voi confrontate le pagine economiche e finanziarie dei vostri giornali e dei giornali con quelle di 7 anni fa, il peso delle fusioni societarie nell'occupazione dello spazio è duplicato. Tutte le fusioni si concludono all'ultima ora sulla base di come si schierano i fondi internazionali d'investimento, fondi internazionali tendenzialmente anonimi, non anonimo il fondo, anonimo chi ci sta dietro. E' possibile continuare a star fuori da tutte queste grandi operazioni finanziarie? E' possibile non avere un'idea diciamo sociale e trasparente di tutti questi fenomeni? Per esempio i fondi pensione, oltre che garantire la pensione, visto che se parte questo meccanismo nel giro di 6-7 anni ci sarà un giro di liquidità clamorosa, vogliamo sapere che indirizzo avranno in termini di trasparenza? Per esempio la responsabilità sociale delle imprese è o non è un tema sul quale piantare il chiodo? Leggevo in questi giorni che c'è un'organizzazione di suore americane che comprano azioni delle aziende quelle più esposte, vanno in assemblea con lo schema dialogo o mozione, cioè se discuti e troviamo un punto di equilibrio, di mediazione, bene, sennò ti faccio la mozione.  

Ultima osservazione: sono molto d'accordo sul fatto che bisogna avere un'ottica sul futuro, bisogna guardare al futuro, probabilmente la ragione per la quale non ci si mette d'accordo sugli strumenti è legata non solo alla rappresentanza d'interessi, ma al fatto che tutti hanno chiaro gli argomenti. C'è una frase di un politico inglese che dice: "Tutti sappiamo quello che dobbiamo fare, ma non sappiamo come fare a vincere le elezioni dopo che lo abbiamo fatto". C'è quindi un nodo legato al gioco del consenso sociale che va portato avanti. Allora per esempio l'intervento sulla demografia, oltre a quello dell'organizzazione del lavoro, ti porta avanti per forza, non puoi guardare indietro sulla demografia, ti porta davanti per forza. C'è una frase che Delors ha pronunciato qualche anno fa al congresso europeo dei sindacati: "Abbiamo bisogno di un mercato che stimoli", quindi una visione non negativa bensì un mercato stimolatore.


* Testo non rivisto dall'autore.