XIII Redattore Sociale 1-3 dicembre 2006

Sotto il tappeto

Workshop: Legali e illegali

Incontro con Massimo Pavarini ed Enrico Colajanni. Conduce Roberto Sgalla

Massimo PAVARINI

Massimo PAVARINI

Sociologo ed esperto in epidemiologia delle dipendenze. Dirige l'Osservatorio Epidemiologico metropolitano dipendenze patologiche dell'Azienda Usl di Bologna ed è docente di Diritto penitenziario all’Università di Bologna. E' vicepresidenza della Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione di Bologna. Ha all’attivo numerosi studi e articoli su riviste scientifiche nazionali e internazionali.

 

ultimo aggiornamento 01 dicembre 2006

Enrico COLAJANNI

Enrico COLAJANNI

E’ uno dei promotori e animatori dell’associazione “Addiopizzo” di Palermo.

ultimo aggiornamento 01 dicembre 2006

Roberto SGALLA

Roberto SGALLA

Responsabile delle relazioni esterne del Ministero dell’Interno, Dipartimento Pubblica Sicurezza.

ultimo aggiornamento 01 dicembre 2006

Roberto Sgalla*

Essendo un poliziotto, dirigente dell'ufficio relazioni esterne del dipartimento alla pubblica sicurezza, il tema legalità e illegalità per me si declina qualche volta anche in maniera eccessivamente semplificata, perché è chiaro, per noi è fondamentalmente il rispetto di un dato normativo. Prima di tutto proveremo a vedere insieme come si può declinare effettivamente legalità ed illegalità, se ci sono delle definizioni condivise, o se invece il tema, e credo che la risposta sia abbastanza implicita, è oggetto comunque di un dibattito anche abbastanza conflittuale. Vedremo poi il versante del rapporto tra legalità/illegalità e il tema della comunicazione.

Partirei da una definizione di legalità secondo il dizionario della politica redatto da Bobbio: nel linguaggio politico per legalità s"intende "un attributo e un requisito del potere, per cui si dice che un potere è legale, o agisce legalmente, o ha carattere di legalità, quando viene esercitato nell'ambito, o in conformità delle leggi stabilite o comunque accettate". Definizione del 1976. Altre definizioni, che credo che ognuno di noi può aver trovato in libri, in saggi sono ad esempio: "la legalità è una forma di educazione civile caratterizzata da uno spirito di obbedienza alla legge, dall'esercizio responsabile dei diritti" definizione che per esempio apre subito un tema estremamente importante, che è quello della responsabilità soggettiva e della responsabilità collettiva, rispetto al tema della legalità. Dunque la legalità è una forma di educazione civile, dalla responsabilità dei diritti, dall'esercizio responsabile dei diritti e dall'adempimento altrettanto responsabile dei doveri. "La legalità riconosce il primato della legge rispetto all'interesse individuale e vieta di tenere comportamenti che ledono gli interessi altrui", qui il concetto di legalità è legato strettamente a quello di comunità, rapporto comunità-legalità. La legalità comporta il rispetto per le proprie istituzioni e per il proprio paese. Sono tutte affermazioni che ho preso da esponenti del mondo politico.

Per me alcune di queste riflessioni potrebbero essere scontate, ma mi pongo un problema: ad esempio il concetto di lecito e illecito sono altrettanto ben definiti? Hanno confini altrettanto chiari? Credo che ci sia una forte differenza tra legalità e illegalità mentre la distinzione lecito ed illecito crea terreni di scontro, se non di lacerazione, soprattutto se pensiamo che oggi questi temi, specialmente di battaglia politica, sono estremamente poco unificanti. Il tema della legalità oggi a mio giudizio qualche volta è anche abusato, la si invoca spesso, ma la si rispetta poco, questa è un'impressione. Su questo credo che anche il mondo della comunicazione abbia non dico delle responsabilità, ma sicuramente delle disattenzioni. È un valore che fa comodo e quindi quando fa comodo lo si invoca e cessa quando la legge non ci piace, o quando è duro, difficile da rispettare. Alcune volte si semplifica, altre volte si strumentalizza il termine legalità. La definizione di prima potrebbe sembrare estremamente semplice, però credo che sia incompleta, non persuasiva.  

Si può parlare di legalità senza parlare di giustizia? Qui mi rivolgo in particolar modo a Colajanni: credo che sia un po' più facile declinare i termini legalità e illegalità, mentre è estremamente articolato, non dico complesso, declinare il concetto legalità e giustizia. C'è un problema di condivisione di concetti oppure è solamente una sensazione? C'è un problema in questo paese di condividere delle regole, di condividere i concetti di legalità? Il fatto che il nostro paese non ha regole condivise e quindi non ha regole accettate da tutti, permette di esercitare con più facilità "una dote" che imputiamo a noi italiani, cioè quella della furberia. Il fatto che non ci siano regole, che tutti abbiamo aiutato a definire, poi permette a una certa quota di uscire più facilmente da queste regole, violandole. C'è una dimensione esclusivamente soggettiva o c'è anche una dimensione collettiva? E' evidente che ci sono dei territori, penso a realtà tradizionalmente magari più delicate, come quelle del sud, ma non solo, dove ci sono condizionamenti culturali, dove ci sono stati di necessità oserei dire, in cui è facile dire o affermare rispettiamo le regole, ma è molto più difficile poi praticarle queste regole. Credo anche che il tema non debba diventare un alibi. Allora su questo versante qual è il discrimine tra il rispettare e il non rispettare, tra il giustificare e il non giustificare? E' chiaro che su questo versante si gioca poi una parte di quello che dicevo prima, cioè sulla responsabilità individuale e collettiva. In questi territori, la domanda che mi pongo spesso è se poi siamo, o siete, o sono condannati ad essere eroi quelli che vivono in certe aree o se invece possono essere persone "normali" come dovrebbe essere?  

C'è una frase famosissima molto stereotipata e molto banale "Bad news are good news", cattive notizie sono buone notizie. In Italia per esempio c'è pochissima analisi seria, pochi saggi sul rapporto tra il tema della sicurezza, invece così come legalità e illegalità si può declinare con lo stesso schema il tema della sicurezza e quello della comunicazione. Sappiamo tutti, ma in maniera molto empirica, che la violenza fa spettacolo, fa audience. C'è anche un fatto  positivo sicuramente che nella comunicazione rompe la segregazione del fatto; niente di quello che succede in un determinato posto, grazie alla comunicazione, diventa un fatto che succede ovunque, però c'è una tendenza, specialmente nel nostro giornalismo, di giocare molto sui termini di emergenza e di straordinarietà. I giornalisti accusano i loro direttori e i loro editori di una volontà di spettacolarizzare questo fenomeno, di caricare sempre, anche spesso di raccontare cose assolutamente non vere. Se io potessi denunciare tutte le notizie non vere, false apparse in questi anni sul piano della sicurezza, mi ci vorrebbe un bel libro, un tomo. Certo il problema della fonte è un problema serio, non disconosciamo anche le nostre responsabilità, i nostri doveri, i nostri impegni, nonostante che spesso noi smentiamo categoricamente, ma non per nascondere. Questo è un circuito  perverso che effettivamente è difficile a volte interrompere. Spesso abbiamo utilizzato sistemi di comunicazione più diretta per tentare appunto di creare un terreno più rassicurante rispetto invece alla capacità d'incrementare l'insicurezza soggettiva che spesso i mezzi di comunicazione provocano. Un dato sicuro è questo: oggi uno degli elementi incontestabili è proprio che l'insicurezza soggettiva è anche frutto spesso di campagne di comunicazione.  

Ecco allora questi due versanti: da una parte un ragionamento più a tutto tondo, più di carattere strategico su questi termini e su come si possano declinare nella nostra realtà, nel nostro territorio, come si possono calare nei nostri contesti. Viviamo in Italia, viviamo in una realtà anche articolata, un conto è vivere a Palermo, un conto è vivere a Bologna, tutte e due realtà che hanno problemi, però sicuramente di natura molto ben diversa e quindi un conto è far giornalismo a Bologna e un conto è far giornalismo a Palermo, un conto è trattare certi argomenti o trattarne altri. Dall'altro versante invece una riflessione su quale ruolo oggi può avere il giornalismo sul tema legalità e illegalità. C'è un decalogo in cui appunto la curiosità è uno degli elementi per cui la notizia viene raccontata, ma non per il suo valore, ma per rispondere all'elemento della curiosità; dopodichè, finito il tema della curiosità, torna ad essere una notizia di poco conto, da trafiletto; ecco, quindi questi due aspetti io direi di affrontare insieme. 

Massimo Pavarini*

Mi sono occupato anche in passato del tema della rappresentazione massmediologica della criminalità e quindi credo di avere solo alcune competenze molto limitate nel cercare di sintetizzare un certo tipo di discorso che da noi è poco sviluppato, mentre lo è molto nei paesi anglosassoni. È vero quello che diceva Sgalla, questo lo sapete ed è una banalità riassunta nella frase "bad are news good news", cioè sotto il tappeto non ci va mai il fenomeno criminale, anzi al contrario c'è un consumo elevatissimo massmediologico di tutto ciò che riguarda la criminalità. Diciamo che è un tema classico quello di mass media e criminalità. Da noi no, ma in America ci sono delle cattedre universitarie di mass media e criminalità; se guardate le topiche degli articoli che scrivono in criminologia, c'è proprio un settore soltanto dedicato alla rappresentazione sociale della devianza. Il passaggio ulteriore è che sotto l'angolatura della rappresentazione massmediologica possiamo dire che legale-illegale adempie ad una funzione molto importante del fare informazione. Qui ad esempio vi posso, in maniera molto sintetica, dire cose che la maggior parte delle dottrine degli scienziati condivide.  

Primo punto: la rappresentazione dei cosiddetti segni di Caino, perché poi evidentemente sono segni di Caino quelli che vengono rappresentati, adempiono ad una funzione che per analogia potremmo confrontare con quello che fa l'antropologia culturale dicendo che i bambini consumano favole che devono fare paura. Sappiamo, l'abbiamo studiato, ci hanno insegnato che è molto importante raccontare le favole che fanno paura ai bambini, perché se le favole non fanno paura non piacciono e non le vogliono ascoltare. Questa non è semplicemente una cosa originale o curiosa, ma risponde, come alcuni antropologi russi ce lo insegnavano tanto tempo fa, a delle esigenze molto importanti: così come i bambini hanno bisogno di fiabe che fanno paura, gli adulti hanno bisogno, necessità, di rappresentazioni dei segni di Caino. La rappresentazione dei segni di Caino è la rappresentazione dell'uomo deviante o dell'azione deviante, ma soprattutto la rappresentazione del giudizio sull'uomo deviante, il processo ad esempio, finanche poi alla punizione dell'uomo criminale.

La rappresentazione dei segni di Caino ha una funzione molto importante perché tende a consolidare sentimenti radicati, profondi che devono appartenere alla collettività. In altre parole la collettività deve produrre al suo interno coesione sociale e sembra che una delle cose migliori per produrre coesione sociale è quella che risponde a quella dimensione del capro espiatorio; il capro espiatorio, il cattivo, il deviante, il segno di Caino, la punizione ovviamente del cattivo che produce inevitabilmente sentimenti fondamentale di coesione sociale, la classica distinzione tra buoni e cattivi. Dal punto di vista semplicistico, chi fa professionalmente il mestiere di dare informazione, percepisce questo a livello intuitivo, non ha bisogno fare grandi studi, se vogliamo lo percepisce in senso mercantile della logica di mercato. La gente, i consumatori desiderano notizie sulla criminalità, sull'azione di polizia, sulla punizione e noi produttori gli forniamo questa merce simbolica, punto, e siamo tutti tranquilli; ma appunto in quanto merce simbolica, questa dell'informazione su Caino, è molto appetita e quindi anche abbondantemente offerta nello scambio tra i consumatori e i produttori. Affinchè questa merce possa esser venduta sul mercato in cui c'è una domanda radicale di consumo d'informazione di questo tipo, l'informazione, cioè lo stigma di Caino che viene trasmesso ha bisogno di essere prodotto e confezionato secondo alcuni criteri o alcuni canoni che sono appunto capaci di valorizzare la qualità dell'oggetto di scambio stesso. Come la devi confezionare? Con l'aumentare o diminuire la capacità di scambio della merce stessa. Certo voi mi dite che chi fa cronaca nera potrebbe anche non essere consapevole di tutto questo, però se è un buon professionista, quindi uno che sa capire la logica di mercato, istintivamente sarà portato a confezionare il prodotto in una determinata maniera.  

Uno dei punti salienti è il modo in cui deve essere confezionato di fatto il prodotto che include la dimensione simbolica del segno stigmatizzante di Caino che è quello di valorizzare nel pubblico i sentimenti patibolari. Se io non stimolo, valorizzo, enfatizzo il sentimento patibolare del consumatore, produco una cattiva informazione dal punto di vista professionale sul tema della criminalità. Affinché io possa valorizzare al massimo il sentimento patibolare che il consumatore ha, quindi stimolare il suo appetito a consumare informazioni, io devo avere delle accortezze nel confezionare il prodotto. L'azione deviante o l'azione criminale, deve essere o riconducibile solo ad un'azione individuale e quindi in qualche modo, viene esaltata, oppure quello che noi diciamo il paradigma della malvagità dell'attore ossia si deve dare esattamente l'ipotesi contraria. Il soggetto viene rappresentato come soggetto assolutamente determinato, non libero e quindi non posso costruire una figura di mostro etico, ma assolutamente pericoloso e quindi è la rappresentazione della mostruosità naturale. Questi sono esempi di due canoni fondamentali della presentazione di Caino: Caino come il malvagio o come il soggetto assolutamente determinato dalle condizioni ambientali, psicologiche, psichiatriche, il mostro naturale o il mostro etico. Al contrario la vittima o le vittime reali o potenziali, debbono in qualche modo essere rappresentate in una logica di compatimento dove si va a determinare una pietas e quindi debbono in primo luogo essere soggetti deboli e comunque raffigurare il chiunque anche per valorizzare al massimo la percezione del rischio diffuso della criminalità. Al finale il racconto, perché è un racconto quello che si fa quando viene rappresentato Caino, deve indurre il consumatore ad una pretesa forte e collettiva di penalità. Il fatto e l'autore invocano quindi una meritevolezza di castigo, ovvero una necessità insopprimibile di difesa sociale.  

Questo è il modo in cui si confeziona una notizia e si veicola, tanto in via di carta stampata quanto via etere; se riflettete un momento sul modo come confeziono o cerco di spiegare logicamente l'autore, la vittima e la finalità teleologica dell'informazione, e cerco di suscitare un sentimento di meritevolezza di castigo o di necessità di difesa, voi capite che il prodotto finale tende a suscitare reazioni da parte degli spettatori, a valorizzare il sentimento che io chiamo patibolare, del patibolo. Questa è la forza del meccanismo comunicativo. Se io faccio questo consapevolmente o meno attraverso una professionalità che è quella della comunicazione, inevitabilmente finisco per selezionare le informazioni della criminalità, non tutte le informazioni che la cronaca mi può dare rispondono a questo canone, non c'è l'elemento doloso nel rifiutarne alcune ed accettarne altre, c'è, passatemi l'espressione, una necessità professionale. Alcune delle informazioni non rientrerebbero mai nei canoni che vi ho detto e come tali non sono comunicabili, e quindi nasce il primo problema, perché e in che misura si determina, si viene a determinare un significativo modo di selezionare a monte la notizia e quindi l'informazione, più o meno adattabile al canone informativo. Ora molte informazioni dei fatti, ammesso che esistano fatti, avrebbero tutti gli elementi per cui Sgalla o un criminologo direbbero "accidentaccio che bella informazione!". Ci sono fatti di estrema  pericolosità soprattutto per i beni collettivi, che hanno una definizione di criminalità, sanciti dai codici penali, tra l'altro iperpunita dai codici penali, e non è che la stampa o la televisione non se ne occupino, ma se ne occupano sotto altri registri. Faccio l'esempio della grande truffa della Parmalat: non c'è dubbio che si è di fronte a fenomeni criminali di altissima pericolosità dal punto di vista di criteri oggettivi, la dannosità sociale colpisce decine di migliaia di persone, mette a rischio un'economia, siamo di fronte a fatti in cui tutte le rapine commesse da Adamo ed Eva non fanno la pericolosità di un Parmalat. Certo che si parla di Parmalat, ci sono tanti interessi in ballo, ma non occupa mai lo spazio delle informazioni criminale, ne occupa un altro che può essere lo spazio dell'economia, della politica, della mediazione, è un altro luogo in cui viene vincolata l'informazione e quindi non adempie a quella funzione appunto di sentimento patibolare che deve suscitare e continuamente alimentare perché il tuo pubblico entri in una logica bulimica irresistibile, perché più mangia e più vorrebbe mangiare questo tipo d'informazione. Il caso Parmalat non adempie la funzione di suscitare, alimentare un appetito patibolare nel pubblico, riguarda un'altra esigenza che è quella del dibattito politico, i riguardi dell'economia. Fondamentalmente anche il modo in cui viene data l'informazione è molto più rispondente a dei canoni di razionalità, nel senso che ci si chiede ad esempio come mai sia potuto succedere, dove sono mancati i controlli, come ne possiamo venire fuori… Sulla comunicazione dei segni di Caino, questi due obiettivi non vengono mai perseguiti, non ci si pongono queste domande che invece sarebbero fondamentali. Un altro fenomeno che non sia così distante come la criminalità del colletto bianco, è l'esempio dello stupro, fatto che spesso compare ovviamente in quella rubrica appunto del sentimento patibolare: se lo stupro è fatto da un estraneo, cioè dal bruto che ti aggredisce nel parco, rientra in pieno nel pacchetto formativo nel suscitare sentimenti patibolari, perché ha tutti gli elementi esaltati dell'elemento. Noi sappiamo come criminologi invece che gli stupri che vengono commessi nei parchi dai bruti che saltano fuori dalla siepe sono si e no lo 0,2% degli stupri di cui si è a conoscenza, che sono pochissimi perché la maggior parte degli stupri avviene in famiglia, negli ambienti protetti. Questo è il dato sociologico che è molto più difficile da veicolare. 

Allora cerchiamo di arrivare a una prima sintesi ovviamente correndo i rischi di ogni semplificazione: diciamo che la rappresentazione massmediologica della criminalità o dell'illegalità opera necessariamente secondo una selezione dei fatti e veicola l'informazione in una prospettiva volta alla conservazione culturale della realtà sociale. Vuol dire che questo tipo d'informazione è non dico reazionaria, conservatrice, ma sempre di riconferma dei valori realtà sociale, ovviamente sul piano culturale. D'altra parte voi giornalisti agite sul piano culturale, poi certo, astrattamente questa rappresentazione può essere diversa a seconda del target dei fruitori della testata giornalistica o radiotelevisiva, quindi anche secondo il presunto grado di ricezione del messaggio e quindi degli stereotipi da riconfermare.

Abbiamo un'omogeneità informativa sul piano dell'informazione intorno all'illegalità che desta molto sospetto, che ci sia tanta diversità su come si comunicano fatti politici, eppure sulla criminalità tendenzialmente si ruota sempre su un modello stereotipato, fondamentalmente simile.

L'informazione in tal modo adempie alla funzione di gogna virtuale, così come la gogna è stata nella premodernità una delle forme della penalità più usate. La gogna era una forma di penalità di cui nei secoli ne è rimasta un'appendice legata proprio al vostro mestiere, l'obbligo di pubblicare le sentenze sui giornali, è il vecchio principio della gogna virtuale, quindi ha una memoria lunga che arriva fino alla comunicazione di massa: allora era la piazza, il luogo attraversato da tutti, adesso è virtuale e questa gogna virtuale non può essere altro che orientata a veicolare, incrementare una cultura patibolare, quindi legittimare il castigo, la meritevolezza della pena, rinforzare i sentimenti di consenso sociale e quant'altro. Questo mi sembra un primo approccio che può trovare in voi dissenso, ma vi posso assicurare che nel dibattito internazionale ha un consenso abbastanza elevato. Certo per i produttori d'informazione, potreste essere voi o la testata in cui lavorate, tutto questo si traduce ovviamente nella logica di mercato, in audience.

Il mio tentativo è quello di lavorare insieme a voi per far vedere che è molto più complessa di quanto potrebbe sembrare la funzione in cui si colloca l'informazione sulla criminalità; a finire sotto il tappeto dell'informazione massmediologica non sono le illegalità e le criminalità toutcourt, questa è una bugia, ma solo o prevalentemente alcune illegalità e alcune criminalità.  

Abbiamo visto dunque che alcune informazioni sulla criminalità non rispondono al canone comunicativo e alla funzione materiale che la comunicazione ha nella vendita di quel prodotto simbolico che è l'informazione. Allora uno dice: perché non tutte le informazioni sulla criminalità vengono recepite e veicolate? Ci sono alcune letture che probabilmente in questo contesto, nel dibattito di oggi, potrebbero essere anche interessanti. Certo ci sono alcune informazioni sulla criminalità che sono informazioni pericolose per i produttori dell'informazione, nulla di scandaloso. Pericolose perché gli attori che dovrei rappresentare come delinquenti sono forti, fortissimi e possono reagire sia legalmente, diciamo così, preferirei pensare sempre a questa logica, ma in alcuni territori, anche reagire illegalmente a un certo tipo di rappresentazione. Esiste sicuramente un'intimidazione sul diffondere, comunicare certi tipi d'informazione e qui si crea evidentemente il profilo del giornalista coraggioso, però penso anche che altre volte non è questione tanto del coraggio che viene meno, semplicemente è che il giornalista intuitivamente sa, perché qualche volta è un professionista, che alcuni fatti e notizie non fanno notizia, non possono fare notizia, e non perché non siano illegali, criminali, pericolose, ma appunto perché non rispondono a quei canoni che abbiamo detto prima; quindi quell'informazione viene dislocata ad altre modalità comunicative, che non sono quelle che adempie alla funzione patibolare. Questo può determinare, se è vera questa ipotesi, una regola che è molto difficile da contestare e invertire se trova un consenso.  

La prima regola si potrebbe così affermare: i segni di Caino sono veicolati, rappresentati in una logica prevalentemente, se non esclusivamente, aliena da una dimensione esplicativa. Questo è il punto secondo me più delicato che mi fa più soffrire, ma se il giornalista, o chi fa comunicazione e che affronta un tema di devianza, si mette in una logica esplicativa, non fa informazione e non veicola questa immagine. Io non credo che capire un fenomeno sia un po' giustificarlo, però c'è un modo di farlo che non è quello della comunicazione massmediologica sulla criminalità che adempie a quella di gogna morale e quindi ad incrementare il sentimento patibolare della gente, di conservazione della realtà sociale.

La regola paradossale è che, tanto più il giornalista tenta di capire il fenomeno e riduce il potenziale di censura morale dell'informazione, tanto più non adempie a quella funzione di cui a monte: ergo se ne occupano le riviste scientifiche oppure si facciano quelle trasmissioni di approfondimento culturale, anche quelle viste da pochi in orari proibitivi. È possibile invertire queste regole? È in altre parole possibile produrre indignazione morale? È possibile quindi soddisfare una gogna virtuale necessaria alla produzione di consensi di coesione sociale, rappresentando, mettendo in scena altre illegalità? Questo è il problema, questo è il punto. La funzione pedagogica che svolge il docente, lo svolge anche il giornalista, tutti siamo dentro nella funzione pedagogica.  

La teoria di Caino è molto più comprensibile come fenomeno di rappresentazione massmediologica che come esercizio del potere giudiziario; ha funzionato come gogna morale, certamente, pensiamo a Mani Pulite che è stata una grande gogna virtuale, come tutte le gogne ogni tanto ci finiva in mezzo anche qualcuno che non c'entrava, sono i rischi delle gogne…  

Enrico Colajanni*

Sostanzialmente il nostro movimento è nato da un gruppo di ragazzi che finiti gli studi si sono affacciati con le loro consapevolezze, le loro competenze, le loro sensibilità, al mondo del lavoro e si sono posti il problema di trovarsi davanti uno scenario abbastanza impressionante che è quello che vede appunto alcuni organi dello stato in linea di massima arrampicarsi sugli specchi, comunque svolgere il loro ruolo, poi una quantità di istituzioni, particolarmente quelle locali e anche le istituzioni rappresentative delle categorie, che sono molto compromesse, fino ad arrivare ad esempio al controllo del voto… Non c'è confine tra criminalità e politica, non si sa quanto i ruoli siano criminali o politici insomma… Caino lì la fa da padrone. Ad esempio in una trasmissione televisiva hanno parlato delle elezioni di Catania, quando c'era una scheda lunga un metro e si parlava della quantità di partiti che si presentavano alle elezioni, si parlava di questo dicendo che c'era un problema del costo della politica, per cui siccome la politica era appetibile allora molte persone si candidavano; il problema, secondo me, è completamente diverso, è che c'è un sistema di controllo del voto, cioè c'è un metodo del controllo del voto sistematico, per cui vi posso preannunciare con certezza che a Palermo alle prossime elezioni comunali ci saranno 2000 candidati, mentre alle ultime elezioni ce ne sono stati 1000, che già sono un'enormità… A Caltanissetta che è un paese piccolo quanto un quartiere di Palermo ce n'erano 600 nelle ultime elezioni ed è una cosa che si sta moltiplicando. C'è appunto questo sistema di controllo sistematico del voto, col sistema della preferenza unica, quindi moltiplicando il numero dei candidati, poiché lo scrutinio avviene per esempio a Palermo in 600 sezioni, un consigliere molto votato ha 2000 voti prende 2-3 preferenze per seggio, quindi questa è la ragione perché in tasca un mafioso si ritrova un biglietto dove c'è scritto il candidato tizio tot voti in una sezione, tot voti in un'altra. Siccome in questi posti il voto non è segreto il gioco è fatto, cioè io so che tu mi prometti il voto, io sono in grado in qualche modo di ricattarti, anche perché ti do da lavorare, ecc., e so dove abiti, so dove voti, in quella sezione devono uscire 2 voti di preferenza per quella persona, se tu non l'hai fatto io vado lì e ti dico perché non l'hai fatto, oppure tu vai a votare poi vieni da me e mi dici vai a controllare per chi ho votato, troverai quei voti di preferenza… Così nei processi di mafia si scopre che i mafiosi vendevano voti, offrivano voti; i mafiosi non hanno un vero e proprio consenso, è chiaro che hanno la capacità di ricatto e la capacità poi di controllarli i voti. In questo scenario, dove anche questo diritto è violato, dei ragazzi si affacciano al mondo del lavoro e scoprono che fare impresa a Palermo è difficilissimo, se non impossibile. In questo scenario questi ragazzi dicono: ma come è possibile? Il tema del pizzo è un tema chiave insomma, perché non è forse il business più importante della mafia, però coinvolge tutti, coinvolge una quantità di cittadini che vogliono fare impresa e che rischiano di essere taglieggiati, coinvolgono i cittadini che vanno a pagare per i prodotti in un mercato non libero e rischiano di dare i soldi a Provenzano… 

Cosa ha fatto questo gruppo di ragazzi? Ha fatto una provocazione sapiente scrivendo una semplice frase su un muro, UN INTERO POPOLO CHE PAGA IL PIZZO E' SENZA DIGNITA' e succede un putiferio spaventoso. Da lì nasce un percorso abbastanza semplice, perché poi naturalmente i ragazzi non sono stati più anonimi, sono aumentati di numero, hanno continuato ad affiggere questi volantini ed hanno dovuto, hanno sentito il dovere di fare una proposta: l'idea del consumo critico, cioè organizzare i cittadini che non vogliono più pagare il pizzo e vogliono anche essere solidali verso coloro che decidono di dichiararsi estranei al pizzo e di non volerlo più pagare, creando un clima favorevole per coloro che appunto denunciando non si trovano da soli. L'idea è di una società civile che dice non possiamo star fermi, non possiamo avere una politica inerme. E' stato un percorso molto in salita, siamo riusciti a mettere insieme 8 mila cittadini, abbiamo cominciato a contattare da soli gli imprenditori, abbiamo da soli cominciato a mettere insieme degli imprenditori disposti a dichiarare pubblicamente di non voler pagare il pizzo, in una realtà dove, ripeto, non c'è un'associazione anti racket, non c'è collaborazione da parte delle istituzioni locali o delle associazioni di categoria.  

Devo dire che nei giornali locali noi abbiamo avuto una risonanza spaventosa, straordinaria, hanno scritto di noi, hanno parlato di noi, forse anche grazie a Provenzano, i telegiornali di mezzo mondo; siamo stati tempestati dai giornalisti, è stato molto enfatizzato, forse anche sopravvalutato questo movimento. Poi alcuni ragazzi con le magliette sono andati all'arresto di Provenzano, a proposito di gogna, e lì è passata la notizia di questi ragazzi che esultavano dicendo "La nuova Sicilia siamo noi". Rispetto ai giornali locali io non sono in grado di dare, di esprimere giudizi, ma è veramente una situazione un po' impressionante, perché per una serie di ragioni noi siamo in parte sponsorizzati dal giornale a più grande diffusione, che è il giornale di Sicilia, che è sempre stato molto generoso con noi, ha pubblicato l'elenco dei 3 mila consumatori che noi abbiamo reso pubblico, ha sempre dato una grande attenzione, un grande spazio alle nostre iniziative. Dall'altro lato c'è un giornale come Repubblica che come movimento ci ignora: a me dispiace che non sia venuto al posto mio uno dei nostri addetti stampa, vostri colleghi, 3 o 4 ragazzi che hanno costruito questo ufficio stampa per noi e che proprio in questi giorni sono andati a Repubblica a cercare di capire se c'era qualche problema.  

Il grosso del nostro lavoro è rivolto prevalentemente alle scuole dove facciamo un lavoro sistematico e lì è interessantissimo vedere i risultati che si ottengono. A proposito di paura di cui si parlava ieri: il coraggio è stato definito appunto come termine scivoloso, io credo che il coraggio sia un po' indefinibile, il problema è la dignità di una persona. A un certo punto la paura deve fare i conti con la dignità di una persona. Quando un padre si trova di fronte il figlio che lo sprona, a noi ci è capitato che poi alla fine questi adulti hanno ceduto alle pressioni dei figli non potendoli deludere. 

Riassumendo: è la storia di una situazione estrema, una situazione di illegalità diffusa, di ragazzi che hanno avuto un'infanzia o comunque una vita un po' più semplice rispetto alle precedenti generazioni,  però quando poi si sono affacciati al mondo del lavoro ed hanno capito che fare impresa è diventato difficilissimo, che ogni cosa non sfugge alle regole distorte della politica, del clientelismo, ecc., a questo punto hanno sentito un bisogno irrefrenabile di partecipare, di ribellarsi e hanno tirato fuori appunto questo movimento che è abbastanza atipico, abbastanza nuovo. Il grande sforzo di questo movimento è quello di costruire una rete stabile, in una terra in cui le fiammate sono la cosa più classica, le proteste più terribili e spaventose che durano appunto l'arco di poco tempo, di alcune settimane mentre questo vuole essere una cosa tutta anomala che non ha molti precedenti, una cosa che dura negli anni, dura nel tempo, a prescindere poi dalla storia, dalla partecipazione delle singole persone. Questa è una scommessa difficilissima, perché così probabilmente potrebbe lasciare un segno anche molto profondo. 

FILMATO….


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.

Roberto Sgalla*

Essendo un poliziotto, dirigente dell'ufficio relazioni esterne del dipartimento alla pubblica sicurezza, il tema legalità e illegalità per me si declina qualche volta anche in maniera eccessivamente semplificata, perché è chiaro, per noi è fondamentalmente il rispetto di un dato normativo. Prima di tutto proveremo a vedere insieme come si può declinare effettivamente legalità ed illegalità, se ci sono delle definizioni condivise, o se invece il tema, e credo che la risposta sia abbastanza implicita, è oggetto comunque di un dibattito anche abbastanza conflittuale. Vedremo poi il versante del rapporto tra legalità/illegalità e il tema della comunicazione.

Partirei da una definizione di legalità secondo il dizionario della politica redatto da Bobbio: nel linguaggio politico per legalità s"intende "un attributo e un requisito del potere, per cui si dice che un potere è legale, o agisce legalmente, o ha carattere di legalità, quando viene esercitato nell'ambito, o in conformità delle leggi stabilite o comunque accettate". Definizione del 1976. Altre definizioni, che credo che ognuno di noi può aver trovato in libri, in saggi sono ad esempio: "la legalità è una forma di educazione civile caratterizzata da uno spirito di obbedienza alla legge, dall'esercizio responsabile dei diritti" definizione che per esempio apre subito un tema estremamente importante, che è quello della responsabilità soggettiva e della responsabilità collettiva, rispetto al tema della legalità. Dunque la legalità è una forma di educazione civile, dalla responsabilità dei diritti, dall'esercizio responsabile dei diritti e dall'adempimento altrettanto responsabile dei doveri. "La legalità riconosce il primato della legge rispetto all'interesse individuale e vieta di tenere comportamenti che ledono gli interessi altrui", qui il concetto di legalità è legato strettamente a quello di comunità, rapporto comunità-legalità. La legalità comporta il rispetto per le proprie istituzioni e per il proprio paese. Sono tutte affermazioni che ho preso da esponenti del mondo politico.

Per me alcune di queste riflessioni potrebbero essere scontate, ma mi pongo un problema: ad esempio il concetto di lecito e illecito sono altrettanto ben definiti? Hanno confini altrettanto chiari? Credo che ci sia una forte differenza tra legalità e illegalità mentre la distinzione lecito ed illecito crea terreni di scontro, se non di lacerazione, soprattutto se pensiamo che oggi questi temi, specialmente di battaglia politica, sono estremamente poco unificanti. Il tema della legalità oggi a mio giudizio qualche volta è anche abusato, la si invoca spesso, ma la si rispetta poco, questa è un'impressione. Su questo credo che anche il mondo della comunicazione abbia non dico delle responsabilità, ma sicuramente delle disattenzioni. È un valore che fa comodo e quindi quando fa comodo lo si invoca e cessa quando la legge non ci piace, o quando è duro, difficile da rispettare. Alcune volte si semplifica, altre volte si strumentalizza il termine legalità. La definizione di prima potrebbe sembrare estremamente semplice, però credo che sia incompleta, non persuasiva.  

Si può parlare di legalità senza parlare di giustizia? Qui mi rivolgo in particolar modo a Colajanni: credo che sia un po' più facile declinare i termini legalità e illegalità, mentre è estremamente articolato, non dico complesso, declinare il concetto legalità e giustizia. C'è un problema di condivisione di concetti oppure è solamente una sensazione? C'è un problema in questo paese di condividere delle regole, di condividere i concetti di legalità? Il fatto che il nostro paese non ha regole condivise e quindi non ha regole accettate da tutti, permette di esercitare con più facilità "una dote" che imputiamo a noi italiani, cioè quella della furberia. Il fatto che non ci siano regole, che tutti abbiamo aiutato a definire, poi permette a una certa quota di uscire più facilmente da queste regole, violandole. C'è una dimensione esclusivamente soggettiva o c'è anche una dimensione collettiva? E' evidente che ci sono dei territori, penso a realtà tradizionalmente magari più delicate, come quelle del sud, ma non solo, dove ci sono condizionamenti culturali, dove ci sono stati di necessità oserei dire, in cui è facile dire o affermare rispettiamo le regole, ma è molto più difficile poi praticarle queste regole. Credo anche che il tema non debba diventare un alibi. Allora su questo versante qual è il discrimine tra il rispettare e il non rispettare, tra il giustificare e il non giustificare? E' chiaro che su questo versante si gioca poi una parte di quello che dicevo prima, cioè sulla responsabilità individuale e collettiva. In questi territori, la domanda che mi pongo spesso è se poi siamo, o siete, o sono condannati ad essere eroi quelli che vivono in certe aree o se invece possono essere persone "normali" come dovrebbe essere?  

C'è una frase famosissima molto stereotipata e molto banale "Bad news are good news", cattive notizie sono buone notizie. In Italia per esempio c'è pochissima analisi seria, pochi saggi sul rapporto tra il tema della sicurezza, invece così come legalità e illegalità si può declinare con lo stesso schema il tema della sicurezza e quello della comunicazione. Sappiamo tutti, ma in maniera molto empirica, che la violenza fa spettacolo, fa audience. C'è anche un fatto  positivo sicuramente che nella comunicazione rompe la segregazione del fatto; niente di quello che succede in un determinato posto, grazie alla comunicazione, diventa un fatto che succede ovunque, però c'è una tendenza, specialmente nel nostro giornalismo, di giocare molto sui termini di emergenza e di straordinarietà. I giornalisti accusano i loro direttori e i loro editori di una volontà di spettacolarizzare questo fenomeno, di caricare sempre, anche spesso di raccontare cose assolutamente non vere. Se io potessi denunciare tutte le notizie non vere, false apparse in questi anni sul piano della sicurezza, mi ci vorrebbe un bel libro, un tomo. Certo il problema della fonte è un problema serio, non disconosciamo anche le nostre responsabilità, i nostri doveri, i nostri impegni, nonostante che spesso noi smentiamo categoricamente, ma non per nascondere. Questo è un circuito  perverso che effettivamente è difficile a volte interrompere. Spesso abbiamo utilizzato sistemi di comunicazione più diretta per tentare appunto di creare un terreno più rassicurante rispetto invece alla capacità d'incrementare l'insicurezza soggettiva che spesso i mezzi di comunicazione provocano. Un dato sicuro è questo: oggi uno degli elementi incontestabili è proprio che l'insicurezza soggettiva è anche frutto spesso di campagne di comunicazione.  

Ecco allora questi due versanti: da una parte un ragionamento più a tutto tondo, più di carattere strategico su questi termini e su come si possano declinare nella nostra realtà, nel nostro territorio, come si possono calare nei nostri contesti. Viviamo in Italia, viviamo in una realtà anche articolata, un conto è vivere a Palermo, un conto è vivere a Bologna, tutte e due realtà che hanno problemi, però sicuramente di natura molto ben diversa e quindi un conto è far giornalismo a Bologna e un conto è far giornalismo a Palermo, un conto è trattare certi argomenti o trattarne altri. Dall'altro versante invece una riflessione su quale ruolo oggi può avere il giornalismo sul tema legalità e illegalità. C'è un decalogo in cui appunto la curiosità è uno degli elementi per cui la notizia viene raccontata, ma non per il suo valore, ma per rispondere all'elemento della curiosità; dopodichè, finito il tema della curiosità, torna ad essere una notizia di poco conto, da trafiletto; ecco, quindi questi due aspetti io direi di affrontare insieme. 

Massimo Pavarini*

Mi sono occupato anche in passato del tema della rappresentazione massmediologica della criminalità e quindi credo di avere solo alcune competenze molto limitate nel cercare di sintetizzare un certo tipo di discorso che da noi è poco sviluppato, mentre lo è molto nei paesi anglosassoni. È vero quello che diceva Sgalla, questo lo sapete ed è una banalità riassunta nella frase "bad are news good news", cioè sotto il tappeto non ci va mai il fenomeno criminale, anzi al contrario c'è un consumo elevatissimo massmediologico di tutto ciò che riguarda la criminalità. Diciamo che è un tema classico quello di mass media e criminalità. Da noi no, ma in America ci sono delle cattedre universitarie di mass media e criminalità; se guardate le topiche degli articoli che scrivono in criminologia, c'è proprio un settore soltanto dedicato alla rappresentazione sociale della devianza. Il passaggio ulteriore è che sotto l'angolatura della rappresentazione massmediologica possiamo dire che legale-illegale adempie ad una funzione molto importante del fare informazione. Qui ad esempio vi posso, in maniera molto sintetica, dire cose che la maggior parte delle dottrine degli scienziati condivide.  

Primo punto: la rappresentazione dei cosiddetti segni di Caino, perché poi evidentemente sono segni di Caino quelli che vengono rappresentati, adempiono ad una funzione che per analogia potremmo confrontare con quello che fa l'antropologia culturale dicendo che i bambini consumano favole che devono fare paura. Sappiamo, l'abbiamo studiato, ci hanno insegnato che è molto importante raccontare le favole che fanno paura ai bambini, perché se le favole non fanno paura non piacciono e non le vogliono ascoltare. Questa non è semplicemente una cosa originale o curiosa, ma risponde, come alcuni antropologi russi ce lo insegnavano tanto tempo fa, a delle esigenze molto importanti: così come i bambini hanno bisogno di fiabe che fanno paura, gli adulti hanno bisogno, necessità, di rappresentazioni dei segni di Caino. La rappresentazione dei segni di Caino è la rappresentazione dell'uomo deviante o dell'azione deviante, ma soprattutto la rappresentazione del giudizio sull'uomo deviante, il processo ad esempio, finanche poi alla punizione dell'uomo criminale.

La rappresentazione dei segni di Caino ha una funzione molto importante perché tende a consolidare sentimenti radicati, profondi che devono appartenere alla collettività. In altre parole la collettività deve produrre al suo interno coesione sociale e sembra che una delle cose migliori per produrre coesione sociale è quella che risponde a quella dimensione del capro espiatorio; il capro espiatorio, il cattivo, il deviante, il segno di Caino, la punizione ovviamente del cattivo che produce inevitabilmente sentimenti fondamentale di coesione sociale, la classica distinzione tra buoni e cattivi. Dal punto di vista semplicistico, chi fa professionalmente il mestiere di dare informazione, percepisce questo a livello intuitivo, non ha bisogno fare grandi studi, se vogliamo lo percepisce in senso mercantile della logica di mercato. La gente, i consumatori desiderano notizie sulla criminalità, sull'azione di polizia, sulla punizione e noi produttori gli forniamo questa merce simbolica, punto, e siamo tutti tranquilli; ma appunto in quanto merce simbolica, questa dell'informazione su Caino, è molto appetita e quindi anche abbondantemente offerta nello scambio tra i consumatori e i produttori. Affinchè questa merce possa esser venduta sul mercato in cui c'è una domanda radicale di consumo d'informazione di questo tipo, l'informazione, cioè lo stigma di Caino che viene trasmesso ha bisogno di essere prodotto e confezionato secondo alcuni criteri o alcuni canoni che sono appunto capaci di valorizzare la qualità dell'oggetto di scambio stesso. Come la devi confezionare? Con l'aumentare o diminuire la capacità di scambio della merce stessa. Certo voi mi dite che chi fa cronaca nera potrebbe anche non essere consapevole di tutto questo, però se è un buon professionista, quindi uno che sa capire la logica di mercato, istintivamente sarà portato a confezionare il prodotto in una determinata maniera.  

Uno dei punti salienti è il modo in cui deve essere confezionato di fatto il prodotto che include la dimensione simbolica del segno stigmatizzante di Caino che è quello di valorizzare nel pubblico i sentimenti patibolari. Se io non stimolo, valorizzo, enfatizzo il sentimento patibolare del consumatore, produco una cattiva informazione dal punto di vista professionale sul tema della criminalità. Affinché io possa valorizzare al massimo il sentimento patibolare che il consumatore ha, quindi stimolare il suo appetito a consumare informazioni, io devo avere delle accortezze nel confezionare il prodotto. L'azione deviante o l'azione criminale, deve essere o riconducibile solo ad un'azione individuale e quindi in qualche modo, viene esaltata, oppure quello che noi diciamo il paradigma della malvagità dell'attore ossia si deve dare esattamente l'ipotesi contraria. Il soggetto viene rappresentato come soggetto assolutamente determinato, non libero e quindi non posso costruire una figura di mostro etico, ma assolutamente pericoloso e quindi è la rappresentazione della mostruosità naturale. Questi sono esempi di due canoni fondamentali della presentazione di Caino: Caino come il malvagio o come il soggetto assolutamente determinato dalle condizioni ambientali, psicologiche, psichiatriche, il mostro naturale o il mostro etico. Al contrario la vittima o le vittime reali o potenziali, debbono in qualche modo essere rappresentate in una logica di compatimento dove si va a determinare una pietas e quindi debbono in primo luogo essere soggetti deboli e comunque raffigurare il chiunque anche per valorizzare al massimo la percezione del rischio diffuso della criminalità. Al finale il racconto, perché è un racconto quello che si fa quando viene rappresentato Caino, deve indurre il consumatore ad una pretesa forte e collettiva di penalità. Il fatto e l'autore invocano quindi una meritevolezza di castigo, ovvero una necessità insopprimibile di difesa sociale.  

Questo è il modo in cui si confeziona una notizia e si veicola, tanto in via di carta stampata quanto via etere; se riflettete un momento sul modo come confeziono o cerco di spiegare logicamente l'autore, la vittima e la finalità teleologica dell'informazione, e cerco di suscitare un sentimento di meritevolezza di castigo o di necessità di difesa, voi capite che il prodotto finale tende a suscitare reazioni da parte degli spettatori, a valorizzare il sentimento che io chiamo patibolare, del patibolo. Questa è la forza del meccanismo comunicativo. Se io faccio questo consapevolmente o meno attraverso una professionalità che è quella della comunicazione, inevitabilmente finisco per selezionare le informazioni della criminalità, non tutte le informazioni che la cronaca mi può dare rispondono a questo canone, non c'è l'elemento doloso nel rifiutarne alcune ed accettarne altre, c'è, passatemi l'espressione, una necessità professionale. Alcune delle informazioni non rientrerebbero mai nei canoni che vi ho detto e come tali non sono comunicabili, e quindi nasce il primo problema, perché e in che misura si determina, si viene a determinare un significativo modo di selezionare a monte la notizia e quindi l'informazione, più o meno adattabile al canone informativo. Ora molte informazioni dei fatti, ammesso che esistano fatti, avrebbero tutti gli elementi per cui Sgalla o un criminologo direbbero "accidentaccio che bella informazione!". Ci sono fatti di estrema  pericolosità soprattutto per i beni collettivi, che hanno una definizione di criminalità, sanciti dai codici penali, tra l'altro iperpunita dai codici penali, e non è che la stampa o la televisione non se ne occupino, ma se ne occupano sotto altri registri. Faccio l'esempio della grande truffa della Parmalat: non c'è dubbio che si è di fronte a fenomeni criminali di altissima pericolosità dal punto di vista di criteri oggettivi, la dannosità sociale colpisce decine di migliaia di persone, mette a rischio un'economia, siamo di fronte a fatti in cui tutte le rapine commesse da Adamo ed Eva non fanno la pericolosità di un Parmalat. Certo che si parla di Parmalat, ci sono tanti interessi in ballo, ma non occupa mai lo spazio delle informazioni criminale, ne occupa un altro che può essere lo spazio dell'economia, della politica, della mediazione, è un altro luogo in cui viene vincolata l'informazione e quindi non adempie a quella funzione appunto di sentimento patibolare che deve suscitare e continuamente alimentare perché il tuo pubblico entri in una logica bulimica irresistibile, perché più mangia e più vorrebbe mangiare questo tipo d'informazione. Il caso Parmalat non adempie la funzione di suscitare, alimentare un appetito patibolare nel pubblico, riguarda un'altra esigenza che è quella del dibattito politico, i riguardi dell'economia. Fondamentalmente anche il modo in cui viene data l'informazione è molto più rispondente a dei canoni di razionalità, nel senso che ci si chiede ad esempio come mai sia potuto succedere, dove sono mancati i controlli, come ne possiamo venire fuori… Sulla comunicazione dei segni di Caino, questi due obiettivi non vengono mai perseguiti, non ci si pongono queste domande che invece sarebbero fondamentali. Un altro fenomeno che non sia così distante come la criminalità del colletto bianco, è l'esempio dello stupro, fatto che spesso compare ovviamente in quella rubrica appunto del sentimento patibolare: se lo stupro è fatto da un estraneo, cioè dal bruto che ti aggredisce nel parco, rientra in pieno nel pacchetto formativo nel suscitare sentimenti patibolari, perché ha tutti gli elementi esaltati dell'elemento. Noi sappiamo come criminologi invece che gli stupri che vengono commessi nei parchi dai bruti che saltano fuori dalla siepe sono si e no lo 0,2% degli stupri di cui si è a conoscenza, che sono pochissimi perché la maggior parte degli stupri avviene in famiglia, negli ambienti protetti. Questo è il dato sociologico che è molto più difficile da veicolare. 

Allora cerchiamo di arrivare a una prima sintesi ovviamente correndo i rischi di ogni semplificazione: diciamo che la rappresentazione massmediologica della criminalità o dell'illegalità opera necessariamente secondo una selezione dei fatti e veicola l'informazione in una prospettiva volta alla conservazione culturale della realtà sociale. Vuol dire che questo tipo d'informazione è non dico reazionaria, conservatrice, ma sempre di riconferma dei valori realtà sociale, ovviamente sul piano culturale. D'altra parte voi giornalisti agite sul piano culturale, poi certo, astrattamente questa rappresentazione può essere diversa a seconda del target dei fruitori della testata giornalistica o radiotelevisiva, quindi anche secondo il presunto grado di ricezione del messaggio e quindi degli stereotipi da riconfermare.

Abbiamo un'omogeneità informativa sul piano dell'informazione intorno all'illegalità che desta molto sospetto, che ci sia tanta diversità su come si comunicano fatti politici, eppure sulla criminalità tendenzialmente si ruota sempre su un modello stereotipato, fondamentalmente simile.

L'informazione in tal modo adempie alla funzione di gogna virtuale, così come la gogna è stata nella premodernità una delle forme della penalità più usate. La gogna era una forma di penalità di cui nei secoli ne è rimasta un'appendice legata proprio al vostro mestiere, l'obbligo di pubblicare le sentenze sui giornali, è il vecchio principio della gogna virtuale, quindi ha una memoria lunga che arriva fino alla comunicazione di massa: allora era la piazza, il luogo attraversato da tutti, adesso è virtuale e questa gogna virtuale non può essere altro che orientata a veicolare, incrementare una cultura patibolare, quindi legittimare il castigo, la meritevolezza della pena, rinforzare i sentimenti di consenso sociale e quant'altro. Questo mi sembra un primo approccio che può trovare in voi dissenso, ma vi posso assicurare che nel dibattito internazionale ha un consenso abbastanza elevato. Certo per i produttori d'informazione, potreste essere voi o la testata in cui lavorate, tutto questo si traduce ovviamente nella logica di mercato, in audience.

Il mio tentativo è quello di lavorare insieme a voi per far vedere che è molto più complessa di quanto potrebbe sembrare la funzione in cui si colloca l'informazione sulla criminalità; a finire sotto il tappeto dell'informazione massmediologica non sono le illegalità e le criminalità toutcourt, questa è una bugia, ma solo o prevalentemente alcune illegalità e alcune criminalità.  

Abbiamo visto dunque che alcune informazioni sulla criminalità non rispondono al canone comunicativo e alla funzione materiale che la comunicazione ha nella vendita di quel prodotto simbolico che è l'informazione. Allora uno dice: perché non tutte le informazioni sulla criminalità vengono recepite e veicolate? Ci sono alcune letture che probabilmente in questo contesto, nel dibattito di oggi, potrebbero essere anche interessanti. Certo ci sono alcune informazioni sulla criminalità che sono informazioni pericolose per i produttori dell'informazione, nulla di scandaloso. Pericolose perché gli attori che dovrei rappresentare come delinquenti sono forti, fortissimi e possono reagire sia legalmente, diciamo così, preferirei pensare sempre a questa logica, ma in alcuni territori, anche reagire illegalmente a un certo tipo di rappresentazione. Esiste sicuramente un'intimidazione sul diffondere, comunicare certi tipi d'informazione e qui si crea evidentemente il profilo del giornalista coraggioso, però penso anche che altre volte non è questione tanto del coraggio che viene meno, semplicemente è che il giornalista intuitivamente sa, perché qualche volta è un professionista, che alcuni fatti e notizie non fanno notizia, non possono fare notizia, e non perché non siano illegali, criminali, pericolose, ma appunto perché non rispondono a quei canoni che abbiamo detto prima; quindi quell'informazione viene dislocata ad altre modalità comunicative, che non sono quelle che adempie alla funzione patibolare. Questo può determinare, se è vera questa ipotesi, una regola che è molto difficile da contestare e invertire se trova un consenso.  

La prima regola si potrebbe così affermare: i segni di Caino sono veicolati, rappresentati in una logica prevalentemente, se non esclusivamente, aliena da una dimensione esplicativa. Questo è il punto secondo me più delicato che mi fa più soffrire, ma se il giornalista, o chi fa comunicazione e che affronta un tema di devianza, si mette in una logica esplicativa, non fa informazione e non veicola questa immagine. Io non credo che capire un fenomeno sia un po' giustificarlo, però c'è un modo di farlo che non è quello della comunicazione massmediologica sulla criminalità che adempie a quella di gogna morale e quindi ad incrementare il sentimento patibolare della gente, di conservazione della realtà sociale.

La regola paradossale è che, tanto più il giornalista tenta di capire il fenomeno e riduce il potenziale di censura morale dell'informazione, tanto più non adempie a quella funzione di cui a monte: ergo se ne occupano le riviste scientifiche oppure si facciano quelle trasmissioni di approfondimento culturale, anche quelle viste da pochi in orari proibitivi. È possibile invertire queste regole? È in altre parole possibile produrre indignazione morale? È possibile quindi soddisfare una gogna virtuale necessaria alla produzione di consensi di coesione sociale, rappresentando, mettendo in scena altre illegalità? Questo è il problema, questo è il punto. La funzione pedagogica che svolge il docente, lo svolge anche il giornalista, tutti siamo dentro nella funzione pedagogica.  

La teoria di Caino è molto più comprensibile come fenomeno di rappresentazione massmediologica che come esercizio del potere giudiziario; ha funzionato come gogna morale, certamente, pensiamo a Mani Pulite che è stata una grande gogna virtuale, come tutte le gogne ogni tanto ci finiva in mezzo anche qualcuno che non c'entrava, sono i rischi delle gogne…  

Enrico Colajanni*

Sostanzialmente il nostro movimento è nato da un gruppo di ragazzi che finiti gli studi si sono affacciati con le loro consapevolezze, le loro competenze, le loro sensibilità, al mondo del lavoro e si sono posti il problema di trovarsi davanti uno scenario abbastanza impressionante che è quello che vede appunto alcuni organi dello stato in linea di massima arrampicarsi sugli specchi, comunque svolgere il loro ruolo, poi una quantità di istituzioni, particolarmente quelle locali e anche le istituzioni rappresentative delle categorie, che sono molto compromesse, fino ad arrivare ad esempio al controllo del voto… Non c'è confine tra criminalità e politica, non si sa quanto i ruoli siano criminali o politici insomma… Caino lì la fa da padrone. Ad esempio in una trasmissione televisiva hanno parlato delle elezioni di Catania, quando c'era una scheda lunga un metro e si parlava della quantità di partiti che si presentavano alle elezioni, si parlava di questo dicendo che c'era un problema del costo della politica, per cui siccome la politica era appetibile allora molte persone si candidavano; il problema, secondo me, è completamente diverso, è che c'è un sistema di controllo del voto, cioè c'è un metodo del controllo del voto sistematico, per cui vi posso preannunciare con certezza che a Palermo alle prossime elezioni comunali ci saranno 2000 candidati, mentre alle ultime elezioni ce ne sono stati 1000, che già sono un'enormità… A Caltanissetta che è un paese piccolo quanto un quartiere di Palermo ce n'erano 600 nelle ultime elezioni ed è una cosa che si sta moltiplicando. C'è appunto questo sistema di controllo sistematico del voto, col sistema della preferenza unica, quindi moltiplicando il numero dei candidati, poiché lo scrutinio avviene per esempio a Palermo in 600 sezioni, un consigliere molto votato ha 2000 voti prende 2-3 preferenze per seggio, quindi questa è la ragione perché in tasca un mafioso si ritrova un biglietto dove c'è scritto il candidato tizio tot voti in una sezione, tot voti in un'altra. Siccome in questi posti il voto non è segreto il gioco è fatto, cioè io so che tu mi prometti il voto, io sono in grado in qualche modo di ricattarti, anche perché ti do da lavorare, ecc., e so dove abiti, so dove voti, in quella sezione devono uscire 2 voti di preferenza per quella persona, se tu non l'hai fatto io vado lì e ti dico perché non l'hai fatto, oppure tu vai a votare poi vieni da me e mi dici vai a controllare per chi ho votato, troverai quei voti di preferenza… Così nei processi di mafia si scopre che i mafiosi vendevano voti, offrivano voti; i mafiosi non hanno un vero e proprio consenso, è chiaro che hanno la capacità di ricatto e la capacità poi di controllarli i voti. In questo scenario, dove anche questo diritto è violato, dei ragazzi si affacciano al mondo del lavoro e scoprono che fare impresa a Palermo è difficilissimo, se non impossibile. In questo scenario questi ragazzi dicono: ma come è possibile? Il tema del pizzo è un tema chiave insomma, perché non è forse il business più importante della mafia, però coinvolge tutti, coinvolge una quantità di cittadini che vogliono fare impresa e che rischiano di essere taglieggiati, coinvolgono i cittadini che vanno a pagare per i prodotti in un mercato non libero e rischiano di dare i soldi a Provenzano… 

Cosa ha fatto questo gruppo di ragazzi? Ha fatto una provocazione sapiente scrivendo una semplice frase su un muro, UN INTERO POPOLO CHE PAGA IL PIZZO E' SENZA DIGNITA' e succede un putiferio spaventoso. Da lì nasce un percorso abbastanza semplice, perché poi naturalmente i ragazzi non sono stati più anonimi, sono aumentati di numero, hanno continuato ad affiggere questi volantini ed hanno dovuto, hanno sentito il dovere di fare una proposta: l'idea del consumo critico, cioè organizzare i cittadini che non vogliono più pagare il pizzo e vogliono anche essere solidali verso coloro che decidono di dichiararsi estranei al pizzo e di non volerlo più pagare, creando un clima favorevole per coloro che appunto denunciando non si trovano da soli. L'idea è di una società civile che dice non possiamo star fermi, non possiamo avere una politica inerme. E' stato un percorso molto in salita, siamo riusciti a mettere insieme 8 mila cittadini, abbiamo cominciato a contattare da soli gli imprenditori, abbiamo da soli cominciato a mettere insieme degli imprenditori disposti a dichiarare pubblicamente di non voler pagare il pizzo, in una realtà dove, ripeto, non c'è un'associazione anti racket, non c'è collaborazione da parte delle istituzioni locali o delle associazioni di categoria.  

Devo dire che nei giornali locali noi abbiamo avuto una risonanza spaventosa, straordinaria, hanno scritto di noi, hanno parlato di noi, forse anche grazie a Provenzano, i telegiornali di mezzo mondo; siamo stati tempestati dai giornalisti, è stato molto enfatizzato, forse anche sopravvalutato questo movimento. Poi alcuni ragazzi con le magliette sono andati all'arresto di Provenzano, a proposito di gogna, e lì è passata la notizia di questi ragazzi che esultavano dicendo "La nuova Sicilia siamo noi". Rispetto ai giornali locali io non sono in grado di dare, di esprimere giudizi, ma è veramente una situazione un po' impressionante, perché per una serie di ragioni noi siamo in parte sponsorizzati dal giornale a più grande diffusione, che è il giornale di Sicilia, che è sempre stato molto generoso con noi, ha pubblicato l'elenco dei 3 mila consumatori che noi abbiamo reso pubblico, ha sempre dato una grande attenzione, un grande spazio alle nostre iniziative. Dall'altro lato c'è un giornale come Repubblica che come movimento ci ignora: a me dispiace che non sia venuto al posto mio uno dei nostri addetti stampa, vostri colleghi, 3 o 4 ragazzi che hanno costruito questo ufficio stampa per noi e che proprio in questi giorni sono andati a Repubblica a cercare di capire se c'era qualche problema.  

Il grosso del nostro lavoro è rivolto prevalentemente alle scuole dove facciamo un lavoro sistematico e lì è interessantissimo vedere i risultati che si ottengono. A proposito di paura di cui si parlava ieri: il coraggio è stato definito appunto come termine scivoloso, io credo che il coraggio sia un po' indefinibile, il problema è la dignità di una persona. A un certo punto la paura deve fare i conti con la dignità di una persona. Quando un padre si trova di fronte il figlio che lo sprona, a noi ci è capitato che poi alla fine questi adulti hanno ceduto alle pressioni dei figli non potendoli deludere. 

Riassumendo: è la storia di una situazione estrema, una situazione di illegalità diffusa, di ragazzi che hanno avuto un'infanzia o comunque una vita un po' più semplice rispetto alle precedenti generazioni,  però quando poi si sono affacciati al mondo del lavoro ed hanno capito che fare impresa è diventato difficilissimo, che ogni cosa non sfugge alle regole distorte della politica, del clientelismo, ecc., a questo punto hanno sentito un bisogno irrefrenabile di partecipare, di ribellarsi e hanno tirato fuori appunto questo movimento che è abbastanza atipico, abbastanza nuovo. Il grande sforzo di questo movimento è quello di costruire una rete stabile, in una terra in cui le fiammate sono la cosa più classica, le proteste più terribili e spaventose che durano appunto l'arco di poco tempo, di alcune settimane mentre questo vuole essere una cosa tutta anomala che non ha molti precedenti, una cosa che dura negli anni, dura nel tempo, a prescindere poi dalla storia, dalla partecipazione delle singole persone. Questa è una scommessa difficilissima, perché così probabilmente potrebbe lasciare un segno anche molto profondo. 

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* Testo non rivisto dall'autore.