XIII Redattore Sociale 1-3 dicembre 2006

Sotto il tappeto

Ciò che della guerra nessuno deve (o vuole) vedere

Proiezione del film "Oh, uomo!" di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Intervento di Ferdinando Pellegrini. Conduce Flavio Lotti

Ferdinando PELLEGRINI

Ferdinando PELLEGRINI

Giornalista, è vicecaporedattore a Rainews, dove ha curato tra l’altro la trasmissione “Periferie”. E' autore de "La bisaccia del giornalista" (Dissensi, 2011).

ultimo aggiornamento 30 novembre 2012

Flavio LOTTI

Flavio LOTTI

Presidente della Tavola della pace.

ultimo aggiornamento 01 dicembre 2006

Flavio Lotti*

Se vogliamo davvero cercare di dare una mano alla pace non si può fare se non affrontiamo il tema dell'informazione. Voi direte: bella scoperta! Voglio dire voi che siete parte di questo mondo. In realtà per chi lavora per la pace molto spesso anche lontano dai riflettori, questo passaggio non è scontato. C'è ancora un ritardo molto forte nel comprendere il legame che esiste o che dovrebbe esistere in positivo tra gli operatori dell'informazione e gli operatori di pace. Oggi cercheremo di scavare un pochino dentro a questo intreccio e mi piace farlo qui nella chiave che appunto questo seminario ha adottato, che è quello di coniugare la pace in due delle sue dimensioni, perché la pace è un affare un po' poliedrico, ha mille facce. Due di queste sono certamente la dimensione interna, quella che viviamo all'interno del nostro paese e la dimensione internazionale, la dimensione esterna: la pace nel mondo e la pace dentro casa nostra. Pochi giorni fa con don Luigi Ciotti abbiamo condiviso una giornata, quella del 18 di novembre in cui appunto a Roma c'erano gli Stati Generali dell'Antimafia e a Milano si manifestava per la pace in Medio Oriente e il filo conduttore di queste due manifestazioni era appunto che la pace va costruita qui e là. Morire per mano della mafia, della camorra o di qualche altra forma di criminalità o di delinquenza più o meno organizzata, o morire sulla striscia di Gaza o in qualche altra parte di questo vulcano, di questa bomba atomica che è il Medio Oriente, per me non fa e non dovrebbe fare per nessuno, troppa differenza. Ecco perché mi piace che apriamo anche in modo nuovo una riflessione sulle responsabilità che gli operatori dell'informazione e gli operatori di pace oggi dovrebbero condividere. Lo facciamo iniziando con la proiezione di un film che s'intitola "Oh uomo!", come avete visto nel programma e che è stato realizzato, che viene adesso brevemente introdotto, da Angela Ricci Lucchi e da Yervant Gianikian. Li ho appena conosciuti anch'io e quindi come dire non sono la persona più adatta per raccontarvi effettivamente chi sono e non abbiamo nemmeno il tempo di farlo più di tanto, quindi vi invito ad approfittare della cena e del dopo cena, visto che si fermeranno con noi.

Posso comunque dirvi che sono due persone che da 30 anni lavorano sulla storia e seguono dentro la storia il filo della violenza, un filo che molto spesso è stato toccato nei seminari di Redattore Sociale, che in qualche modo ci accompagna, perché è contro la violenza, che molto spesso impostiamo qui dentro le nostre riflessioni, le nostre azioni. Il film che adesso vedremo è l'ultimo di una trilogia. Il primo dei 3 film è dedicato ai prigionieri della guerra, stiamo parlando della prima guerra mondiale, quindi andiamo indietro con il tempo per cercare di capire meglio che cosa sta accadendo oggi e che cosa può ancora succedere. Il secondo è dedicato invece ai combattimenti della guerra che c'è stata sulle Alpi, sulle montagne, sul confine, in particolare nell'Adamello. Quello che invece vedremo oggi è dedicato al dopo guerra, alle disastrose conseguenze della guerra, una di quelle cose che davvero restano sotto il tappeto.

Angela Ricci Lucchi - Regista*

Brevemente volevo dire che mi sembra che ci sia stato un po' un'esagerazione a terrorizzare il pubblico, nel senso che non è un catalogo degli orrori. È un film e naturalmente la guerra è un orrore quindi non si può fare un film sulla guerra non rappresentandolo, del resto siamo abituati, attraverso la televisione, l'assuefazione all'insostenibile, cioè gli orrori della guerra che ci vengono propinati preferibilmente all'ora di pranzo e all'ora di cena. Quindi è un film che va visto, non è che si deve terrorizzare prima di vederlo. Non è stato un film facile nel trovare i materiali, neanche lavorarli. Vi volevo dire soltanto poche cose: il film, come tutto il nostro lavoro, non ha dialoghi è un film muto, devono essere le immagini che parlano da sole. Da anni lavoriamo con i materiali d'archivio, però non siamo archeologi come tante volte ci etichettano, noi lavoriamo per il presente, purtroppo le guerre le viviamo e ci attorniano. Un'altra cosa che volevo dire è che per questo naturalmente non c'è commento, non c'è sonoro, ma noi lavorando su questo film come ispirazione del lavoro abbiamo letto moltissimi diari di guerra dei soldati. Il film finisce con un canto di Giovanna Marini, un pezzo per piano che aveva scritto un cecoslovacco per un compositore che aveva perduto la mano sinistra in guerra e le parole sono dell'unico diario che abbiamo trovato di un uomo che è stato mutilato nel volto.

Flavio Lotti*

Io vorrei aggiungere a quello che tu hai ben detto il fatto che oggi non sono più i soldati a morire, sono i civili, cioè sono le persone realmente innocenti, senza divisa alcuna, la cui sorte probabilmente non è dissimile, anzi per certi aspetti essendosi evolute le armi e quindi essendo diventate ancora più terrificanti le loro conseguenze, la sorte dei civili è ancora peggiore. L'ultima parola prima di lasciare lo spazio alle immagini a Yervant.

Yervant Gianikian - Regista*

Il titolo "Oh, uomo!" viene da Leonardo Da Vinci. Prima di fare questo film ci siamo chiesti se era lecito rappresentare la guerra in tutto il suo orrore. Leonardo diceva che gli artisti dovevano rappresentarla in tutto il suo orrore, cioè mostrare la polvere, il sangue, le ossa…; così abbiamo preso il coraggio di far vedere la prima guerra mondiale come non era mai stata vista. Noi lavoriamo sempre sugli archivi che contengono dei materiali esplosivi, nel senso che sono ancora censurati, perciò per noi è importante farli vedere. Abbiamo impiegato 12 anni a fare questa trilogia della guerra.  

Flavio Lotti*

Vorrei ricordare che questo film è stato già presentato a Cannes nel 2004 e sta girando il mondo ad una velocità molto sostenuta, mentre voi e noi siamo tra i primi a vederlo in Italia, anche questo diciamo fa parte delle cose che possiamo iscrivere nel bagaglio di questo nostro incontro. Lasciatemi in qualche modo dare un messaggio di solidarietà a Yervant, perché è di origine armena. È nato in Italia proprio perché la sua famiglia è riuscita a scappare da un genocidio. Un genocidio di almeno 2 milioni di persone che sono state trucidate… Non ricordiamo abbastanza e non parliamo abbastanza delle guerre, di quelle che ci sono state e le cui conseguenze sono tutt'altro che rimosse ancora oggi. Sotto il tappeto c'era anche questa cosa, tiriamola fuori intanto noi.

Proiezione del film "Oh uomo"

Flavio Lotti*

Ferdinando Pellegrini è un testimone delle guerre, del complesso di guerre che si aggrovigliano in Medio Oriente, che continuano a svilupparsi in Medio Oriente, noi abbiamo nella nostra mente l'ultima puntata, quella di quest'estate in Libano, abbiamo ancora difficoltà ad immaginare quello che sarà la prossima puntata di questo film che purtroppo è in corso di preparazione, come una soap opera, se ne vede una e nel frattempo si preparano le altre. Io vorrei iniziare questa conversazione con te ascoltando la tua reazione al film "Oh uomo" che abbiamo appena visto.

Ferdinando Pellegrini*

Io vorrei cominciare con una preghiera agli autori di questo film, che è stato una ricerca assolutamente eccezionale di materiale di repertorio incredibile, che probabilmente non ci saremo mai sognati di vedere se non l'avessero messo insieme. Vorrei fare una preghiera: credo che negli ultimi 20 anni più o meno, di guerre ce ne sono state parecchie e credo che di materiale di archivio, se non analogo, forse a volte anche peggiore di quello che ci avete fatto vedere, ce n'è un'infinità, vi pregherei di raccoglierlo, di continuare a raccoglierlo fino ad arrivare a ieri, fino ad arrivare all'altro ieri, fino ad arrivare a luglio, all'agosto scorso, senza andare troppo indietro, perché quello che abbiamo visto è forse una minima parte, non fosse altro perché allora vedevamo la crocerossina, c'era qualcuno che in qualche modo accudiva i corpi dei bambini, degli adulti, dei soldati. Il Medio Oriente è l'ultima delle mie puntate purtroppo. C'è stata l'Africa, c'è stata l'America Latina, ce ne sono state tante di guerre. Credo che negli ultimi 20 anni me le sono viste più o meno tutte. Lì vedevamo almeno qualcuno che teneva conto delle esigenze umane.  

Innanzi tutto io sono contrarissimo a quello che sta facendo la televisione per un motivo banale, perché in realtà la guerra è diventata spettacolarizzazione di un evento drammatico. Io capisco che i colleghi della televisione devono trasmettere comunque un messaggio, però molto spesso il messaggio che ci trasmette è soltanto una spettacolarizzazione, dietro purtroppo c'è molto di più e di molto peggio che non le immagini che ci vengono fatte vedere o che ci forniscono. Sentivo anche parlare di impreparazione prima, a proposito del dibattito di stamattina. Si è vero c'è un'impreparazione spesso anche da parte dei giornalisti. Questo non è un problema purtroppo dei professionisti e dei giornalisti, è che c'è un'organizzazione di lavoro oggi, l'attuale organizzazione moderna con i tempi moderni, che molto spesso non danno modo, né spazio ai colleghi di cercare di essere più precisi per approfondire i temi. Oggi si deve fare di tutto e di più e il più in fretta possibile, perché altrimenti c'è una concorrenza che potrebbe far vedere un'immagine migliore della nostra e allora probabilmente qualcuno si arrabbierebbe con noi perché non abbiamo fatto altrettanto. Qualcuno parlava di denuncia prima. Si, di denunce ne sono state fatte. Vi faccio un esempio? Noi abbiamo denunciato la scorsa estate dal Libano l'uso di materiale comunque al di fuori delle norme, contrario alle varie convenzioni di Ginevra. Bene, sapete quando è stato preso in considerazione questa cosa? Soltanto quando la comunità internazionale si è mossa, per cui i media si sono mossi, hanno portato delle prove inconfutabili che era stato usato il fosforo. Noi dichiaravamo, perché lo avevamo visto di persona, che erano state usate delle bombe a grappolo, però nessuno diceva nulla, poi alla fine quando Israele ha ammesso di usare le bombe a grappolo, allora si è vero… Allora io mi chiedo: ma il ruolo di noi giornalisti, dell'informazione, quando anche denunciamo queste cose, quando cerchiamo di far capire agli altri quello che succede, rimane un pezzettino di carta, di voce, di immagine, oppure qualcuno sta a sentire? Perché evidentemente allora le istituzioni non è che ci facciano molto caso. Vi faccio un altro esempio banale? I giornalisti sono 22 mesi circa che non hanno un contratto e le istituzioni mi sembra che fino a adesso non abbiano fatto nulla, non hanno fatto nulla perché soltanto dovremmo continuare a dare le informazioni che voi chiedete e che voi meritate e che vi spetta, perché il nostro non è un piacere, è un dovere darvi delle informazioni, nel modo più corretto possibile tra l'altro. Quando cerchi di parlare di guerra molto spesso vieni censurato.  

Flavio Lotti*

Che cosa non si deve vedere oggi delle guerre che accadono? Io ricordo l'episodio della scorsa estate quando il Tg3 e i suoi corrispondenti, erano stati presi sotto mira perché secondo alcuni del nostro mondo politico e non solo, anche di un pezzo della stampa, erano di parte perché facevano, indugiavano troppo sulle immagini della strage di Caana.

Ferdinando Pellegrini*

Noi cerchiamo di far vedere le guerre sempre, sai che cos'è che non passa di fondo? Le motivazioni delle guerre; non è vero che non ci consentono soltanto di passare immagini, quelle a volte passano, in qualche modo passano, ma sono le motivazioni che spesso non ci viene consentito di far passare. Perché quando si parla delle guerre, certo, poi bisogna raccontare un fatto, bisogna raccontare una battaglia, bisogna dire quanti morti o quanti feriti ci sono, ma quando si parla delle motivazioni spesso, lì c'è una censura ancora più forte. Far vedere l'immagine brutale mi va benissimo, io lo farei fare pure a colazione, perché così la gente impara a vedere che cos'è la guerra sul serio e no che siccome è ora di pranzo non si possono vedere immagini brutali, no le immagini brutali si devono vedere sempre e questo a volte passa anche, riusciamo a farlo passare o perché un direttore non se ne accorge o perché un caporedattore fa finta e si gira dall'altra parte… poi è ovvio che ci sono i ben pensanti comunque e continuano ad attaccare dicendo: ma all'ora di pranzo vedere queste immagini non fa bene, ci sono dei bambini… invece che imparino i bambini subito a vedere che cos'è la guerra, perché è lì che ci sono tanti bambini che la soffrono. Quindi quello che non ci viene fatto spesso sono le motivazioni reali, che è molto peggio di non far vedere immagini brutali, cruenti.

Flavio Lotti*

Però posso dirti che a me non mi convince, sono d'accordo, però noi abbiamo scoperto con la vicenda della guerra in Iraq in maniera particolare, che gli eserciti imponevano delle regole ai giornalisti. C'erano delle cose che si potevano vedere e mostrare e c'erano delle altre che non si potevano né vedere, né mostrare. C'erano alcuni giornalisti che si lasciavano arruolare e altri giornalisti che rifiutavano di arruolarsi. Poi ti aggiungo un altro elemento: la guerra non è soltanto quella dei combattimenti del campo di battaglia, della bomba o del colpo di fucile, ma c'è quella di tutti i giorni. Qui si è parlato delle vittime ma la guerra che noi vediamo è quella dell'auto che esplode per via di un missile nelle strade di Gaza oppure un pullman con kamikaze che esplode a Tel Aviv, ma il resto della violenza quand'è che passa? E perché non passa?

Ferdinando Pellegrini*

Il resto della violenza non passa non perché non si cerca di farla passare, perché non è spettacolare, prima parlavo di spettacolarizzazione della guerra, è esattamente questo. Fino a quando c'è la bomba che esplode, i morti per terra, il sangue dappertutto, quello va benissimo, passa, perché serve, è funzionale, perché è spettacolo. Quando volevo parlare dei bambini mutilati, invalidi che comunque non sanno come sopravvivere, non hanno di che sopravvivere, allora quelle cose non passano, perché sono noiose, non interessano nessuno, almeno così spesso si sente dire. In realtà non è vero. Quella è la guerra. La guerra non è soltanto il morto, la guerra non è soltanto il sangue, la guerra sono le centinaia di migliaia di persone che dietro la guerra continuano ad essere in guerra, perché è una guerra quotidiana, una guerra di sopravvivenza. La guerra non sono soltanto gli eserciti, la guerra non sono soltanto le milizie varie, la guerra non sono le bande o comunque chi controlla il territorio, la guerra è di chi la soffre, perché basterebbe andare in qualsiasi paese dell'Africa, dalla Somalia all'Eritrea, al Rwanda e vedere le popolazioni sfollate.

Flavio Lotti*

Sui giornalisti embedded sul campo di battaglia che ci dici?

Ferdinando Pellegrini*

Sul campo di battaglia gli embedded ci sono sempre stati, è una storia che si ripete, durante le guerre "ufficiali", quelle con tanto di dichiarazione, ci sono sempre stati gli embedded, dalla prima guerra mondiale, alla seconda, ricordate il Vietnam quanti embedded ci sono stati tra i giornalisti americani? L'embedded si poteva fare in due modi, adesso no, adesso non c'è più neanche lo spazio, prima anche tra i giornalisti americani c'era chi in qualche modo faceva vedere delle cose che non erano bene accette né al governo americano, né a chi stava facendo la guerra. Oggi no, non si può più neanche quello, perché le grandi catene televisive, i grossi network non consentono neanche che si facciano vedere le immagini delle bare che dall'Iraq e dall'Afghanistan tornano a casa. Oggi è proibito e non è una parola che uso fuori luogo, è proibito far vedere quelle immagini. I grandi network non possono far vedere le immagini delle bare che tornano a casa, non possono far vedere le immagini dei feriti che vengono curati e che tornano a casa, invalidi. Forse tutti avete visto Forrest Gump suppongo, c'era un signore sulla sedia a rotelle che a un certo punto era praticamente impazzito, ebbene di quelle cose non si può parlare neanche negli Stati Uniti. Non solo non ne parliamo noi, ma non ne possono parlare neanche loro.

Flavio Lotti*

Proviamo a passare alla seconda delle questioniperché non si possono far vedere queste cose? Abbiamo detto le armi, i teatri di guerra, tutto ciò che c'è prima, attorno, dopo, tutto ciò che è di umano diciamo, ha difficoltà di passare, perché?

Ferdinando Pellegrini*

Perché la guerra prima cosa non è umana; secondo perché chi ha interesse a fare le guerre non ha un interesse umano, umanitario, gli interessi sono altri. Quando si parla di umanità in queste cose non c'è spazio.

Flavio Lotti*

Parliamo dell'Italiadel perché non passano queste informazioni e immagini nel sistema d'informazione pubblico e privato italiano.

Ferdinando Pellegrini*

Scusate, quando qualcuno ha deciso che noi dovessimo andare in Iraq, a coprire altre situazioni di emergenza, io vorrei ricordarvi che ci sono state manifestazioni di piazza di notevole entità e peso. Allora quando un governo decide comunque di seguire una determinata linea, è ovvio che poi non si parla del resto, perché dell'Iraq non si è più parlato. Io ricordo che gli ultimi italiani, almeno sto parlando della Rai, Radiotelevisione italiana, servizio pubblico, vi sono stati fino al sequestro di Giuliana Sgrena. Bene, dopo c'è stato tanto di documento del ministero degli esteri, che suggeriva in modo piuttosto massiccio mi pare, di evitare di andare a coprire gli avvenimenti, quindi non è che non si vuole, si vorrebbe, vorremmo farlo, potremmo farlo se avessimo gli spazi per poterlo fare, molto spesso però se non coincide con un interesse politico, ci viene impedito di farlo.

Flavio Lotti*

Quindi tu sostieni innanzi tutto che il problema è fondamentalmente politico, ossia che c'è un controllo come di una subordinazione del sistema informativo agli interessi prevalenti della politica.

Ferdinando Pellegrini*

Più o meno direttamente si. Io ricordo che il nostro ex direttore che si chiamava Bruno Vespa, quando ad un certo punto gli vennero contestate alcune cose lui disse: io ho un editore di riferimento della Dc, adesso non si chiamerà Dc, si chiamerà in un altro modo, comunque, in ogni caso, c'è un editore di riferimento. Quello purtroppo non è che lo scardini con molta facilità, è sempre difficile, ci vuole molto coraggio per farlo, soprattutto dalla parte dei direttori. Per la carta stampata è la stessa cosa, non è che cambia. Non c'è differenza tra il servizio pubblico e la carta stampata che sono privati. Il servizio pubblico dovrebbe per dovere farlo di più, la carta stampata fa altrettanto, anche perché a volte c'è un interesse, a volte ce n'è un altro. Guardiamo al Corriere della Sera, La Repubblica, guardiamo questi altri giornali: come coprono questi avvenimenti? Una volta si coprivano comunque diversamente, mentre oggi o vengono coperti male oppure non vengono coperti per niente, perché non c'è interesse a mandare gli inviati, a raccontare che cosa c'è dietro quelle guerre, perché molto spesso gli stessi editori, non dico che sono coinvolti direttamente, ma comunque sono a sostegno o sono sostenuti da un potere politico-economico che quelle guerre ha interesse a farle, non a non farle.

Flavio Lotti*

Ferdinando ci ha dato parecchi spunti per il confronto con tutti voi. Lasciatemi prima soltanto puntualizzare un'altra dimensione del problema che stiamo affrontando oggi pomeriggio, prima tu l'hai appena toccato, ma io ne sono stato scottato da poco, scusa ce l'ho proprio sullo stomaco, è la prima occasione, mi scuserete anche voi, ma lo devo fare; mi riferisco alla vicenda del 18 di novembre e quindi il modo in cui vengono trattati coloro che cercano di lavorare per la pace, perché fin qui abbiamo trattato il tema dell'informazione con la realtà della guerra e penso che valga la pena di allargare un momentino lo sguardo anche a questa dimensione. Voi tutti sapete quello che è successo il 18 di novembre: due manifestazioni, a Milano e Roma, in questo caso non cito quella di Libera degli Stati generali dell'Antimafia, penso alle due manifestazioni che si occupavano di Medio Oriente. Voglio soltanto raccontare, citare alcuni piccoli fatti che io penso dovrebbero essere oggetto della nostra riflessione. Noi abbiamo organizzato la manifestazione per la pace in Medio Oriente a Milano praticamente in 20 giorni per un problema, perché i mezzi d'informazione non si occupavano più della vicenda del Medio Oriente. Abbiamo fatto una manifestazione il 26 di agosto ad Assisi, l'abbiamo fatta organizzandola durante il periodo di Ferragosto, l'abbiamo fatta e mantenuta nonostante fosse intervenuta la risoluzione delle Nazioni Unite che dichiarava il cessate il fuoco e riusciva ad inviare per la prima volta una forza d'interposizione ai confini tra Israele e il Libano, poi c'è stato l'invio dei nostri soldati, l'arrivo di tanti altri contingenti, per la prima volta si va in un paese non per continuare a sparare, ma per mettere fine alle sparatorie, ai bombardamenti, ecc.; questo è accaduto e dal quel momento i riflettori del mondo dell'informazione si spengono e del Medio Oriente non si parla più, ad eccezione di 1, 5 o 6 morti ammazzati ogni giorno a Gaza, naturalmente non si può raccontare tutti i giorni perché sennò diventa troppo noioso, lo si racconta soltanto quando, come dire, è un pochino più sorprendente, fa un pochino più notizia, in realtà non passa giorno che non ci siano dei morti ammazzati in quei territori. Non parliamo poi di tutta la vicenda irachena, adesso rimango nel Medio Oriente più ristretto. Quale è la riflessione che abbiamo fatto? Dobbiamo trovare un modo per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica e della politica italiana rispetto a quello che sta accadendo in Medio Oriente. Lanciamo, Tavolo della Pace e Art. 21 un appello: "Non parlate di noi, non parlate della nostra manifestazione,  parlate di loro, tornate ad occuparvi del Medio Oriente". Risposta: censura di quasi tutti i quotidiani italiani. L'unico quotidiano che ha dato un po' di spazio in più a tutta la preparazione della manifestazione di Milano, è stato Liberazione. Il Manifesto, L'Unità, Avvenire, La Repubblica, non uno di questi giornali si è degnato o anzi, ha scelto di pubblicare qualcuno dei comunicati delle iniziative; si è deciso scientificamente di far passare sotto silenzio tutta la fase di preparazione. Ci sono state alcune eccezioni in Rai, UnoMattina una volta, il Tg3, Cominciamo bene, qualche altra cosa alla radio, ma ancora molto, molto, molto meno di quello che sarebbe stato necessario. Eppure ancora una volta non si è risposto al nostro appello "non parlate di noi, parlate di loro", parlando un pochino di noi. E ancora una volta, di loro non si è parlato. Fino ad arrivare poi al giorno della manifestazione, lì dobbiamo ringraziare Il Corriere della Sera che ha scatenato tutto quel putiferio, l'unico giornale che veramente si è occupato della nostra manifestazione, naturalmente per sputare veleni e alimentare la contrapposizione tra quella di Milano e quella di Roma, creando ovviamente il terreno per il momento dell'esplosione di piazza che poi puntualmente c'è stato. Se non fosse stato per le polemiche innescate dal Corriere della Sera, soltanto il Venerdì di Repubblica poteva brillare per il suo interesse. Peccato che quell'interesse, due pagine sul Venerdì di Repubblica di un paio di settimane prima, fossero dedicate a questo interrogativo: come mai i pacifisti quest'anno non fanno la Perugia-Assisi, ma vanno invece a Milano a manifestare? Non è che forse siccome c'è un governo amico di centro-sinistra vogliono fare la marcia più piccola, perché quella Perugia-Assisi sarebbe un po' troppo aggressiva nei confronti del governo amico? Questo è stato il massimo di interesse. Poi arriviamo al 18 e naturalmente è successo tutto quello che è successo… noi l'avevamo già previsto una decina di giorni prima insieme a Roberto Natale, insieme a diversi altri amici, come Giulietti, ecc., ci siamo fatti in quattro per parlare con tutti i direttori dei tg delle varie testate giornalistiche dicendo: guardate che è molto probabile che succeda qualche cosa, che ci sia qualcuno che brucia una bandiera israeliana, qualcuno che fa qualche altra…. Proviamo a prevedere quello che accade e a organizzare una risposta che sia differente. Il risultato è che tranne il Tg3 e Sky che ha fatto un pezzo in diretta, Radio Popolare e Radio Vaticana, tutti quanti gli altri si sono contraddistinti nell'oscurare quasi completamente Milano, incentrare per 2-3 giorni i riflettori sulla manifestazione di Roma, con però le immagini di Milano, perché le immagini di Roma erano troppo poche, erano sempre quelle, addirittura la Rai è dovuta andarsele a recuperare dopo che la giornalista era tornata a casa, perché sono accadute quando la manifestazione era già finita, le hanno recuperate però poi non bastavano a riempire gli spazi, quindi si mescolavano con le bandiere della pace di Milano; peccato che così facendo, ancora una volta, si è data una descrizione di chi lavora  per la pace del tipo che voi avete visto e naturalmente conosciuto.

Di fronte a queste cose e qui vi lancio una domanda e la rilancio anche a Roberto, a Marino e a tutti gli altri giornalisti e operatori dell'informazione che siete qui: ma che strumenti abbiamo per poterci difendere da questi attacchi, da queste deformazioni? La prossima volta quelli che hanno dato fuoco a quei manichini sanno già che se lo rifanno avranno tutte le televisioni davanti a loro, ma noi che invece faremo ancora una volta di tutto perché non accada e la nostra naturalmente andrà naturalmente bene, ma che strumenti abbiamo per far passare il messaggio che volevamo dare? E alla fine di tutto questo rimane ancora il punto interrogativo: si sono occupati di noi forse, ma non si sono ancora occupati di loro. La vicenda del Medio Oriente è rimasta ancora dov'era prima e quindi ci troviamo ancora una volta con il problema. Questa informazione, e qui ti rilancio la palla Ferdinando, è uno strumento di pace o di guerra?

Ferdinando Pellegrini*

Vi faccio un esempio banalissimo: tutti quanti avrete seguito, suppongo sappiate quello che sta succedendo in Libano, ci sono problemi seri, c'è un confronto politico estremamente duro. Sapete a cosa si è ridotta tutta questa vicenda libanese che premetto, non è un problema che riguardi un paese ma che riguarda anche noi che siamo nel Mediterraneo? A problemi di politica interna: dobbiamo far ritirare o dobbiamo non far ritirare i soldati che sono là? Un grande problema che coinvolge una regione e coinvolge il Mar Mediterraneo, si è ridotto all'interrogativo sul ritirare o no i soldati… Tutto ridotto ad un problema di politica interna e nessuno si è posto il problema del ruolo che dovrebbe avere una forza multinazionale. Si discute sul fatto se la sinistra è una sinistra di pace anziché di guerra, perché i soldati in Libano si, ma in Iraq no, in Afghanistan si e via discorrendo…

Intervento

La domanda che faccio io è da cittadino, non solo da informatore, ma da cittadino cosa posso fare? Cosa si può fare di veramente pratico per cercare di fermare questa situazione che sembrerebbe senza soluzione?

Ferdinando Pellegrini*

L'unica cosa che si può fare è continuare ad esserci, perché non vedo altro in questo momento; visto che la gente comunque c'è in qualche modo, perché poi protesta, si arrabbia, è presente, l'unica cosa che si può fare è continuare ad esserci. Forse prima o poi qualcuno aprirà le orecchie.

Intervento

Oltre al problema che dicevi della censura, della difficoltà di far passare le notizie, la spettacolarizzazione, c'è un altro elemento che mi pare dalla Prima Guerra del Golfo in avanti è diventato determinante ed è che l'informazione, la comunicazione, soprattutto quella internazionale, quella che viene gestita dalle grandi agenzie, è diventato il vero campo di battaglia, o meglio, è diventato uno dei campi di battaglia, ma non di secondaria importanza, perché oggi le guerre vengono combattute attraverso soprattutto la televisione, i mezzi di comunicazione di massa e questo lo fa Osama Bin Laden quando manda i suoi messaggi attraverso internet o attraverso Al Jazeera, lo ha fatto la Nato quando a Belgrado ha bombardato la televisione e lo fa la comunità internazionale, lo fa l'Occidente quando usa per tenere sotto controllo il consenso, per cercare di non destabilizzare troppo, di riuscire ad avere quello che serve. Mi viene in mente l'inchiesta di Sigfrido Ranucci su Fallujia: è stata fatta perché c'era una volontà che nasceva dall'arrivare a farci capire che ci sono anche delle cose diverse da quelle che ci vengono raccontate; però c'è una presa di posizione che è quella di parte e noi non possiamo che essere di parte su questo perché siamo dentro.

Daniela De Robert - Tg2*

Io volevo ripartire dal filmato e dal tema del chi ha coraggio. Secondo me bisogna avere il coraggio di guardare, molte persone sono uscite dalla sala, anch'io in diversi momenti ho distolto lo sguardo dal filmato, però bisogna avere il coraggio di guardare e raccontare l'orrore fino in fondo. Quindi questa era solo una prima annotazione sul coraggio e sul filmato. Noi in televisione scegliamo di non far vedere alcune cose, selezioniamo le immagini quotidianamente e quotidianamente arriva l'orrore nelle agenzie video. Io credo che alcune volte vada fatto. Ricordo una pagina di Libero terribile, con le foto dei decapitati. Non credo che basta far vedere l'orrore per essere efficaci, a volte non serve, non sempre serve far vedere fino in fondo, non sempre basta il guardonismo, perché poi c'è anche il rischio dell'assuefazione. Noi scegliamo di non raccontare la guerra che ci è stata raccontata con questo film, noi scegliamo di raccontare la guerra come se fosse solo una questione di battaglie tra eserciti, di scontri, la guerra cade sui cittadini. Io ricordo un servizio molto bello di Giovanna Botteri dall'Iraq per il Tg2 che raccontò un bombardamento attraverso il silenzio di una bambina: era una bambina che dal giorno in cui gli erano cadute le bombe in casa non parlava più, non piangeva più, non emetteva più un suono. Quello era un racconto di un bombardamento, io ancora mi emoziono perché era formidabile ed era spaventoso. Questo è anche un modo di raccontare la guerra e di raccontare la guerra per chi la vive, per chi la soffre. I bambini li abbiamo visti lì, ma li abbiamo visti anche in questo servizio. Non raccontiamo cos'è la guerra per chi sta nei territori di guerra, come non raccontiamo le altre cose. Io ricordo qui a Redattore Sociale, quando venne Svetlana Aleksievic, una giornalista e scrittrice bielorussa una scrittrice che ha raccontato Chernobyl nel suo libro "Preghiera per Chernobyl" e non aveva raccontato l'esplosione, ma aveva raccontato cos'è Chernobyl per chi lì viveva. Ha raccontato non solo i bambini che nascono e muoiono, che si ammalano, ma tutto quello che è stato, chi li viveva e chi lì adesso vive e non era l'esplosione del reattore. Noi adesso non li facciamo più questi racconti. Sugli embedded, io ricordo un collega del Tg2 che ha tentato disperatamente di raccontare una versione diversa di quello che sembrava essere, ma è finito sotto inchiesta: si tratta di quell'episodio di un attacco dei soldati italiani a un'ambulanza nella quale morirono una donna incinta e 7 persone che erano a bordo, è stato interrogato nella notte, ha subito pressioni, c'è stata un'inchiesta parlamentare, cioè è difficile non essere embedded in questi posti. Ci sono grandi difficoltà. La pace non si racconta. La pace per i nostri direttori è una cosa un po' da boy scouts commettendo con ciò due errori ossia sottovalutare cos'è il movimento per la pace e le grandi manifestazioni e due, non sanno cos'è lo scoutismo, un movimento altrettanto importante. La pace, come il movimento "Addio pizzo", ne parlavamo oggi, come i ragazzi di Locri, vanno bene finché è folklore, poi non interessano più, solo se è folklore. La sensazione è che ci sia una linea editoriale che vuole queste scelte ed è come se in fondo ci fosse un'unica linea editoriale, come se ci fosse un tam tam tra gli editori, per cui ad un certo punto si decide che per una settimana l'emergenza criminalità a Napoli è la notizia dell'Italia e le morti bianche sul lavoro non lo diventano mai. È come se ci fosse proprio un tam tam, una scelta delle notizie, per cui alcune diventano immediatamente notizie fondamentali per un lasso di tempo, altre non lo diventeranno mai.

Ferdinando Pellegrini*

A proposito del tam tam: vi ricordate a un certo punto quando l'Italia era piena di cani che mordevano tutti, ammazzavano tutti? Subito dopo è passata una legge per cui c'è un'assicurazione obbligatoria e all'improvviso o tutti i cani sono morti o sono diventati buoni, avrete fatto caso che nessuno ha più parlato di cani che aggrediscono? Allora questa forma di tam tam che dicevi non è casuale, è un tam tam che serve, è funzionale ad un certo tipo d'informazione, perché non ne passino altri, altrimenti non ci sarebbe bisogno.

Roberto Morrione*

La seconda guerra in Iraq ha costituito la più grande bugia mediatica della storia moderna. Rai News 24 negli anni ha fatto tantissime dirette. Uno dei modi diciamo che la tecnologia mette a disposizione oggi dello strumento televisivo, è quello di poter seguire in diretta, superando i famosi limiti del tempo e dello spazio. La diretta è certamente uno dei modi per seguire questo. Noi mandammo in onda tutto il dibattito alle Nazioni Unite, dagli interventi degli americani, i quali sostenevano che esistevano armi di distruzione di massa, che poi si è rivelato parecchi anni dopo non esserci da parte di Saddam Hussein, seguimmo gli interventi contrari, il rappresentante francese il quale tentò invano di opporsi a quel tipo d'intervento e così via. Intervistammo addirittura in diretta Azizi ministro degli esteri dell'Iraq, nella nostra trasmissione quotidiana e tentammo di dare tutto ciò di cui noi disponevamo, che era molto nella quantità di materiale, poi arrivò comunque la guerra. La guerra fu una contrapposizione di demagogia e propaganda da parte del governo di Saddam con quell'improbabile ministro dell'informazione, anche simpatico, il quale usciva fuori e parlava di vittorie inesistenti, ne parlò fino al giorno in cui i carri armati americani erano davanti alla porta del suo ministero e poi scomparve. Anche nella parte americana la linea di demarcazione tra l'informazione e la propaganda era sparita. Allora in casi di questo tipo l'unica possibilità che vedo, faccio alle volte una metafora che è quella del mosaico: il mosaico è composto da migliaia di pezzetti, ma se questi migliaia di pezzetti cadono, voi la figura non potrete più riconoscerla. Allora in questo momento noi abbiamo, con le tecnologie, con i satelliti, abbiamo visto in tempo reale grazie e Giovanna Botteri e al suo telecineoperatore l'esplosione a Bagdad di un missile a 300 metri di distanza, girò il mondo quell'immagine….una quantità di materiali giganteschi, ma non c'è l'ordine, non c'è la figura e non c'è il contesto di questi materiali. Questo è un punto che deve veramente far pensare.

Come se la cavò Rai News 24? A distanza di tempo abbiamo ricevuto un premio, era uno dei pochi premi satellitari di valore europeo, per avere, dice la motivazione "con completezza quello che i telegiornali e le televisioni generaliste non hanno dato e cioè tutto quello di cui disponevamo"; infatti noi a Rai News 24 prendevamo il materiale di Al Jazeera, il materiale di Al Alarabya, li contrapponevamo ai materiali della Cnn e non parliamo di Fox, del signor Rupert Murdoch…

I giornalisti non sono più quelli del Vietnam, perché all'epoca non avevano firmato contratti e gli inviati delle televisioni americane e dei giornali americani furono decisivi con la loro autonomia, con il loro modo libero di fare informazione, per cambiare l'esito di quella guerra e costringere il governo americano alle trattative di pace e di fatto segnando la vittoria del Vietnam del nord, perché questo storicamente è quello che è accaduto. Oggi i giornalisti embedded ce ne sono, ce ne sono stati, non più adesso, perché in Iraq adesso c'è la guerra civile e nessun occidentale mette fuori neanche il naso dalla green zone di Bagdad, dove per altro ci sono fatti di terrorismo gravissimo che non è più neanche al sicuro, tanto che gli americani non sanno più come uscire da quella palude, ma allora c'erano centinaia di giornalisti embedded. Ognuno di loro ha firmato un contratto, un contratto che lo lega al  reparto in cui viene inquadrato ed è ovvio che con una militarizzazione di questo tipo, informazioni su quello che significa realmente la guerra, non possono uscire. Quel cameraman di una televisione americana che filmò il marine che entrando a Fallujia nella battaglia del novembre del 2004 sparò a freddo a un iracheno ferito che stava per terra, è stato espulso dal corpo, è dovuto andar via, perché il contratto non prevedeva che lui potesse liberamente dare quelle immagini.

C'è un secondo livello di fortissima deviazione dell'informazione sulla guerra ed è quello di cui indirettamente, devo dire sempre facendo benissimo il suo lavoro, è stato protagonista più fortunato di altri, Ferdinando, il quale divideva la sua stanza con uno straordinario giovane cameraman spagnolo: un giorno stavano prendendo il tè, il cameraman uscì per andare a prendere qualcosa, in quel momento il marine americano piazzato davanti all'hotel Palestine, dopo un minuto di silenzio, brandeggiò il suo cannone e sparò una cannonata che ha ucciso questo ragazzo spagnolo. Bene, quella sera a Porta a Porta, era riunito un gruppo di cosiddetti esperti con Bruno Vespa, che devo dire quella sera non si comportò senza dignità, voglio essere preciso, giornalisticamente. Dall'altra parte c'era Lilli Gruber che insieme a Ferdinado e a Giovanna era in quel periodo a Bagdad. Lilli Gruber, facendo il suo dovere, descrisse quello che aveva visto, cioè il carro armato che arrivava, si fermava, aspettava un minuto, chiaramente chiedeva disposizioni, perchè i carristi in quei casi non lavorano con la fantasia, puntava e sparava. Bene, i generali in studio con Bruno Vespa come se fossero in una partita di Risiko, hanno contestato quello che un inviato dalla linea del fuoco, aveva raccontato nei dettagli avendolo visto. Allora voglio dire che certamente ci sono degli interessi giganteschi che utilizzano la televisione come strumento di guerra esattamente come hanno utilizzato l'intelligence, come hanno costruito operazioni di altro tipo. Come è possibile difendersi? Evidentemente ci vuole una linea editoriale che faccia delle scelte, ma è possibile cercando di ricreare la figura del mosaico, cioè la contestualizzazione delle notizie, cercando un pluralismo di fonti, perché non è vero che il pluralismo deve essere solo il gioco dei partiti, ciascuno dei quali ha diritto ad un certo tipo di spazio, c'è il pluralismo delle fonti, degli eventi, delle testimonianze e questo è possibile praticarlo. Rai News 24 l'ha praticato. Noi abbiamo fatto delle inchieste sulla guerra in Iraq prima e dopo, anche adesso, recentemente abbiamo fatto inchieste sulle nuove generazioni di armi, che sono armi ad energia devastanti che sono già operative, che vengono sperimentate in Iraq, in parte in Afghanistan e in Libano.

Un merito dei colleghi Maurizio Torrealta, Flaviano Masella e altri, che costituiscono un gruppo investigativo di inchieste giornalistiche, che io ho costituito e che continua a macinare dei lavori  straordinari: sono stati 3 settimane fa nel Libano ed hanno testimoniato, hanno attestato, anche utilizzando laboratori internazionali, uno a Londra ed uno in Italia, che nel Libano le truppe israeliane, quasi con matematica certezza, hanno utilizzato in alcuni casi ordigni nucleari tattici, cioè bombe a fissione nucleare, di portata evidentemente molto limitata, non sono le bombe di Hiroshima, ma comunque emanano radiazioni pericolosissime, non sappiamo con precisione gli effetti, ma anche dagli ospedali libanesi sono venute conferme importanti di tutto questo. Allora è possibile cercare di andare sul campo, utilizzare il giornalismo come diciamo on the road, che è sempre più raro, cercare col pluralismo delle fonti dei materiali da capovolgere la situazione, cercare di testimoniare quello che questo splendido terribile documentario che abbiamo visto ha testimoniato… Questi documentari devono essere dati, sono d'accordo con Ferdinando, non c'è ora di pranzo che tenga. Quando c'è un documento unico che attesta con motivazioni corrette e con spirito giusto un fatto, quel fatto lo si dà a tutti i costi, costi quel che costi. Questo è ancora possibile, ci sono spazi, io ritengo che la Rai in particolare abbia dei doveri di fondo ineliminabili, ed è gravissimo se non porrà in essere uno sviluppo d'inchieste, di un tipo di giornalismo che trova un pubblico straordinario. Non è vero neanche la grande balla che la gente non vuole questo tipo d'informazione, ogni volta che viene fatta, viene accolta, viene seguita con un aumento di pubblico e con  eccezionale interesse. Nel mondo oggi le tecnologie consentono molte cose. Io credo che unendo con intelligenza la multimedialità, il web e la televisione, possa esserci un terreno straordinario, si tratta di premere sul servizio pubblico in particolare e di fare ciascuno il proprio dovere, come quello che Ferdinando, lo voglio dire e sottolineare, ha fatto e continua a fare insieme a tanti altri colleghi della Rai che sarebbero disposti ancora ad impegnarsi.

Ferdinando Pellegrini*

Il rapporto che c'è tra l'Occidente e il mondo islamico in generale, comunque l'Oriente in generale, è un rapporto estremamente complesso, che riguarda soprattutto il controllo di quelle che sono le materie prime da qui a media scadenza. Tempo fa qualcuno parlava della nascita di un nuovo elemento che si chiama "diamante" ed è questa specie di "associazione", chiamiamola così, tra Cina, India e Russia, cioè un polo di controllo economico delle risorse diverso da quello che c'è stato finora. È ovvio che tutto quello che sta succedendo qui intorno, le varie guerre al di là delle scuse ecologiche o religiose, delle non c'entra assolutamente nulla. Io ritengo, così come le crociate che sono state fatte in nome di Dio, ritengo lo stesso che le guerre sante da parte di Osama Bin Laden vengono fatte in nome di un dio che non è certamente un dio minore. Quindi lasciamo stare tutti i fronzoli che ci vengono comminati. Il problema appunto dicevo è di carattere geo-economico e geo-politico. Una decina di anni fa ci fu uno studio proprio al Dipartimento di Stato in cui si parlava dello sviluppo dei rapporti nei 15 anni successivi, adesso sono già passati una decina di anni: si parlava per esempio dello scontro e del confronto comunque che ci sarebbe stato tra Occidente e Cina, visto che è un paese che continua a crescere tra il 9 e l'11% l'anno. Questo sviluppo dal punto di vista politico è chiaro che avrebbe per forza di cose consentito agli Stati Uniti di escogitare una serie di mosse tattiche anche attraverso le guerre. Che l'11 settembre sia stato un dramma, su questo credo che nessuno debba o voglia discutere, sul fatto che poi tutte le conseguenze che sono state pagate, vuoi per una fantomatica guerra al terrorismo, vuoi anche invece per un altrettanto fantomatica guerra preventiva, ma dico anche questo è un dato di fatto. Io credo che si stia facendo un confronto socio-economico-politico con un altro mondo. C'è, è nata questa novità che è questo accordo più o meno velato, più o meno pubblico tra Cina, India e Russia ed è chiaro che a questo punto il rapporto di forze tra mondo occidentale e mondo orientale, che controlla tra l'altro gran parte delle materie prime, porta evidentemente ad uno scontro che si concretizza guarda caso qui nel Mediterraneo. Tutto quello che sta accadendo in Medio Oriente non è altro che il risultato di uno scontro che c'è tra un Occidente capitanato dagli Stati Uniti, un Oriente capitanato da interessi politici-economici, certamente non religiosi che si scontrano in ogni caso con gli Stati Uniti. Quando finirà? Probabilmente il giorno in cui questa globalizzazione economica verrà intesa nel senso giusto e non nel senso di dominio economico del resto del mondo.

Flavio Lotti*

Vorrei  provare in quest'ultima parte del nostro confronto a rispondere a 3 domande di fondo: vorrei provare a dire anche la mia e naturalmente poi se ci sono anche altri che vogliono dare il proprio contributo siete tutti benvenuti. Io vorrei innanzi tutto introdurre l'altra metà del discorso, perché consapevolemente in questo seminario di Redattore Sociale noi abbiamo affrontato la dimensione, il rapporto tra informazione e guerra, non vorrei che confondessimo questo con il discorso sulla pace, perché si fa molto spesso, si cade nell'errore di considerare anche noi la pace come esattamente il contrario della guerra e quindi tutte le volte che vogliamo parlare di pace finiamo per parlare di guerra; in questo modo, come abbiamo fatto anche oggi, noi cerchiamo di spiegarci che cos'è la guerra, come si fa la guerra, con che cosa si fa la guerra, con quali armi, quali sono gli interessi, le motivazioni, ecc., dimenticando di occuparci della pace. In realtà se limitassimo a questo 50% il nostro discorso sulla pace, commetteremmo anche noi un grande, grandissimo errore, un errore che è tra l'altro frutto della cultura in cui noi siamo immersi. Noi, bene o male, sappiamo che cos'è la guerra, se invece io oggi chiedessi a ciascuno di voi di dire, di scrivere in un articolo, un servizio radiofonico o televisivo, che cos'è la pace? Io vi sfido a trovare una definizione che possa essere abbastanza assimilabile. Noi continuiamo ad essere immersi in una cultura della pace negativa in cui la pace, lo dice benissimo Bobbio nelle sue riflessioni viene sempre definita come il contrario della guerra. L'assenza della guerra è la pace. Il soggetto è la guerra, la pace è il suo contrario, non è l'opposto. Noi abbiamo il dovere, la responsabilità di domandarci se non debba invece esistere una cultura della pace positiva e che cosa sia la pace positiva e che cosa bisogna fare per passare da una cultura della pace negativa ad una cultura della pace positiva. Prima Daniela diceva appunto: i nostri direttori non sanno che cos'è la pace e non lo sappiamo forse nemmeno noi. Io lavoro molto nelle scuole, ho appena fatto un programma proprio qui nelle Marche, sono 3 anni che lavoriamo con tutte le scuole di ogni ordine e grado, 279 scuole elementari e superiori. Vi posso dire che abbiamo fatti diversi seminari con gli insegnanti proprio per cercare di partire diciamo da una riflessione su che cosa fare a scuola per la pace, per educare alla pace, e abbiamo cercato di analizzare questi 2 termini: che cos'è la guerra e che cos'è la pace. La definizione di pace non la conosciamo, non la riusciamo a dare, non la sono riuscita a dare e soltanto attraverso un percorso di riflessione, di rielaborazione collettiva si è riusciti a riconoscere che la pace può essere non soltanto una bella utopia irrealizzabile come pensiamo tutti quanti che sia, ma un qualche cosa che insieme è obiettivo e anche  mezzo per raggiungerlo. Proviamo a pensare se oggi noi definiamo la pace, come la definisce l'art. 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, una definizione giuridica, e lo fa pensate, senza nemmeno nominarla: "Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati". Provate quindi a pensare alla pace come a quella condizione in cui tutti i diritti umani sono rispettati per tutti e poi a quel punto potremmo domandarci se c'è la pace per esempio, o quando c'è la pace, o che cosa si può fare per la pace…

Prima ci domandavamo cosa si può fare? Se la pace è il rispetto di tutti i diritti umani per tutti dobbiamo far in modo di far rispettare il diritto alla vita, al cibo, alla salute, all'istruzione, al lavoro, all'ambiente, il alle pari opportunità, all'educazione… La denuncia di quest'anno dell'ultimo rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo è impressionante: voi sapete che ogni anno muoiono 1 milione e 800 mila bambini perché non hanno un gabinetto dove poter andare con l'acqua corrente, dove poter andare a fare i propri bisogni? Se soltanto noi fornissimo loro questi gabinetti ci sarebbe un terzo, un quarto di questa somma che potrebbe essere immediatamente salvata. Se noi pensiamo alla pace come il gabinetto che diamo a quel bambino che oggi muore perché non ce l'ha e pensiamo a questo come un passo verso la pace, allora noi immediatamente individuiamo anche 1000 cose che possiamo fare per raggiungere quell'obiettivo. Se la pace è garantire il cibo a tutti, come un diritto che hanno tutte le persone a prescindere da dove sono nate, allora noi immediatamente capiamo che cosa si può fare per la pace.

Questo veramente è un capitolo enorme da costruire, ma vi posso anche dire per esempio che per la prossima marcia Perugia-Assisi che si farà nell'autunno del prossimo anno, sarà proprio centrata su questo slogan: "Tutti i diritti umani per tutti" e per essere ancora più concreti, il tema sarà quale agenda politica è necessaria per promuovere tutti i diritti umani per tutti. C'è un grande lavoro per un prossimo seminario naturalmente di Redattore Sociale, ma anche di tanto altro, però badate, se noi includiamo questa seconda metà del discorso sulla pace e sulla guerra all'interno del nostro ragionamento sull'informazione, allora l'orizzonte dentro al quale ci muoviamo comincia a rischiararsi. Quello che prima sembrava una situazione difficile da aggredire, da affrontare, comincia in qualche modo ad aprirsi ad alcune possibilità. Vorrei già indicare 3 cose rapidamente. La prima. Innanzi tutto è necessario che gli operatori dell'informazione lavorino di più insieme con gli operatori di pace e ovviamente viceversa. Lavorare insieme non vuol dire diciamo, farsi i favori, vuol dire cominciare a riconoscere ad ascoltarsi, a capire quali sono le problematiche degli uni e degli altri e a capire che abbiamo un "ruolo in comune" con delle funzioni, con delle pratiche diverse. Abbiamo, se siamo sinceramente interessati all'obiettivo e se non lo facciamo invece con altre intenzioni strumentali, i mezzi per poter camminare insieme. Secondo. Noi società civile abbiamo la responsabilità di sostenere i giornalisti e quei responsabili dell'informazione che già oggi lavorano e praticano con coraggio questo tipo di obiettivi. Abbiamo la responsabilità di farlo, non di lasciarli soli perché magari sono delle mosche bianche ed in qualche modo li diamo per scontati. C'è bisogno di dare un sostegno chiaro, forte, concreto. Terzo. Lavorando insieme, ascoltandoci e riconoscendo di più i ruoli, si possono ottenere dei risultati. Per esempio la Tavola della Pace, il coordinamento degli enti locali per la pace, insieme con il sindacato dei giornalisti della Rai l'UsigRai e con la federazione nazionale della stampa, è riuscito ad aprire una sede di corrispondenza Rai al di sotto de Il Cairo dove fino a qualche tempo fa non c'era nulla. In Africa, nell'Africa nera, c'è soltanto l'Ansa che ha una sua sede di corrispondenza. Da settembre la Rai invece ha un nuovo corrispondente, un inviato stabile che è Enzo Nucci, che darà vita alla sede di corrispondenza della Rai. È un primo risultato, piccolo se volete, perché noi sappiamo che il vero problema non è mandare l'inviato e basta, ma è fare i conti con gli spazi che ci sono all'interno del palinsesto; per questo motivo per esempio il prossimo 14 dicembre a Roma faremo un incontro in cui convocheremo ancora una volta il direttore generale della Rai, ma anche Petruccioli, i membri del consiglio di amministrazione, i direttori delle diverse testate pubbliche e private, perché non è solo un problema della Rai, anche se come servizio pubblico ha una responsabilità in più. Chiederemo quale spazio, quali iniziative concrete vorranno assumersi per dare uno spazio in più all'Africa, dare voce all'Africa, per esempio a partire dal forum sociale mondiale che si terrà a Nairobi dal 20 al 25 di gennaio prossimo a cui noi stiamo lavorando per portare circa 200 italiani. Non saranno 200 italiani così, ci saranno dagli studenti delle scuole, agli amministratori locali, dai responsabili di tante associazioni, missionari e laici, religiosi, organizzazioni. Fra pochi giorni si aprirà un sito www.nairobi2007.it che diventerà una sorta di giornale on line. Stiamo lavorando, anche pagando noi i biglietti di due operatori televisivi, un corrispondente radiofonico, due o tre giornalisti di carta stampata pubblica, privata, ecc., per venire giù e dare voce agli africani che stanno organizzando questo forum. Di nuovo torna il dare voce a loro non a noi. Tutto ciò può sembrare poca cosa, ma io credo che solo attraverso questi passaggi sia possibile cercare di far avanzare ciò che auspichiamo e che abbiamo auspicato anche oggi. Non è una risposta, una medicina, diciamo un'aspirina che risolve e toglie il dolore, è una strada da percorrere e dobbiamo sempre ricordarci che, appunto, soprattutto quando parliamo di pace, è il percorso che conta, che fa la differenza, non è l'obiettivo. È la strada che decidiamo di percorrere insieme che è in grado di modificare la direzione, non è il riproporre costantemente l'obiettivo. Ecco perché ciascuno di noi ha la possibilità, come ci hanno ben testimoniato Roberto Morrione e Ferdinando Pellegrini e tanti altri che sono o non oggi qui con noi, si può giorno per giorno aggiungere uno spazio in più, allargare di uno spazio in più quella prospettiva di cambiamento reale dell'atteggiamento dell'informazione su questi temi.

Ferdinando Pellegrini*

Io però ho una grossa preoccupazione in più: la prossima guerra sarà una guerra per la sete, coinvolgerà tutti, sarà una guerra per l'acqua, quindi per la sopravvivenza. Ora tutte le iniziative politiche vanno bene, qualsiasi tipo d'iniziativa comunque porta acqua verso il mulino della pace, ma proprio perché parliamo di acqua io inviterei un po' tutti, un po' tutte le associazioni, un po' tutte le organizzazioni, sia le associazioni umanitarie che qualsiasi tipo di organizzazione, ad occuparsi di questo che sarà il problema di dopodomani, che sta dietro l'angolo. Questo vuol dire forse anche andare verso la pace, perché se non ci si organizza in modo pacifico sarà la tragedia dell'umanità.

Marco Magheri*

Come definizione di pace a me basta e soddisfa l'art. 28 della dichiarazione universale, anche perché le raffinatezze nella ricerca semantica a volte creano più danni che altro, o rischiano di far finire sotto il tappeto questioni anche scottanti. Per parlare di definizioni e campi semantici ricordo l'organizzazione mondiale della sanità che ha cancellato nella concezione dell'occidente quello che è il concetto di malattia, stravolgendo il concetto di salute, non più assenza di malattia, ma condizione generale di benessere psicofisico sociale e relazionale,. Da quel giorno si continua a morire in tutto il mondo mentre nell'occidente ricco e annoiato c'è un nuovo mercato che è quello del benessere, degli psicofarmaci, degli antidepressivi, ecc..

Il film "Oh uomo!" mi ha lasciato un po' perplesso sulle prime e non riuscivo a dare un senso a questo mio smarrimento iniziale, dopodiché mi sono reso conto che si tratta di un'operazione brillante e vi ringrazio perché il più grande dramma che ci possa essere è la cancellazione della memoria.

Simone Casetta*

Io dissento in modo completo da una definizione di pace che parte da un concetto di diritto e non è un fatto semantico, ma proprio un fatto logico, in quanto il diritto porta alla guerra per una tendenza tipicamente umana ad arrogarsi una quantità ed una qualità di diritti sempre crescente, mentre la pace si può avere molto semplicemente con quello che dovrebbe essere il nostro dovere e la nostra capacità di smettere di pensare esclusivamente ai casi propri. Noi tra l'altro siamo qui ospiti in un posto dove questo è testimoniato quotidianamente con l'aiuto di persone meno fortunate e con la dedizione di persone che smettendo di pensare a una parte della propria vita, a sé stessi, si dedica agli altri. Questa è testimonianza di pace in assoluto, ma partendo dal diritto non si arriverà mai alla pace, partendo dal concetto di diritto si camminerà sempre verso il conflitto, perché ci sarà chi si arrogherà sempre più diritti e il conflitto andrà avanti in continuazione.

Nicola Villa - Giornalista Redattore Sociale Roma*

Io credo che noi dovremmo avere il coraggio di dire in che epoca viviamo, cioè di denunciare il nostro reale, perché noi non viviamo nell'epoca della democrazia, non viviamo nell'epoca della libertà, bensì nell'epoca di un totalitarismo nascosto, sotto il tappeto appunto. Questa cosa del totalitarismo secondo me salta fuori proprio quando nei media si nota un'uniformità, una sorta di pensiero unico. Penso che non ci accorgeremo della guerraneanche quando cadranno le bombe qua…

Gianluca Orsini - Peacereporter*

Peacereporter sta provando a vendere un articolo su altre bombe usate da Israele: oltre all'opera meritoria di Rai News 24, ci sono delle evidenze anche su bombe, si suppone al metano, per dei cadaveri anneriti, ma che non sono bruciati, non hanno i capelli bruciati ma che hanno tutti gli organi interni squassati e hanno colato tutto il loro sangue. Da un mese proviamo a vendere questi articoli, interessano molto, io ho delle foto che non ho portato perché prima di aver visto il film pensavo fossero troppo crude, ci sentiamo sempre dire che interessano, poi all'improvviso quest'interesse cade.

Yervant Gianikian*

Ci sarebbero un sacco di cose da dire sulla parola pace. Noi abbiamo fatto un film che si intitola "Su tutte le vette è pace" e abbiamo scelto quello che diceva Musi nei suoi diari ossia che pace vuol dire dormire in un letto e non in un fosso, vuol dire abbracciare donne nella realtà e non nei sogni, oppure vuol dire mangiare e dormire in una casa e non fare la guardia alla casa. Per noi il passato si ripresenta continuamente. Abbiamo fatto un film sui prigionieri di guerra che ci è venuto in mente quando abbiamo visto le immagini di come erano trattati i prigionieri in Iraq, perciò la presenza del passato è da studiare. A partire da dopo la Prima Guerra Mondiale il controllo del materiale di guerra girato è entrato a far parte dell'esercito italiano ed è stato seguito da tutti gli altri eserciti, tutti i grandi archivi appartengono agli eserciti e ne fanno quello che vogliono. C'è una grande censura sul materiale d'archivio, perché è un materiale pericoloso, esplosivo come quello di oggi.

Flavio Lotti*

Io ti dico veramente grazie perché abbiamo bisogno di ricostruire la memoria e abbiamo bisogno naturalmente di agganciarla al presente in una maniera più chiara, più lineare, più forte. Quindi grazie davvero per quello che avete fatto e che continuerete a fare, speriamo forse anche insieme, magari. Ci sono diverse domande che sono rimaste appese alla nostra discussione, adesso però dobbiamo concludere, non voglio evitarle naturalmente, quindi sono disponibile a darvi risposte. Io proporrei di chiudere questo nostro incontro con mezzo minuto di silenzio da dedicare a tutti i giornalisti e a tutti gli operatori della comunicazione, dell'informazione e a tutti gli operatori di pace, che hanno perso la vita per cercare di aiutarci a capire meglio come stanno le cose e ancora oggi lo rischiano. Io lo vorrei fare perché proprio oggi è rientrato l'ultimo soldato dall'Iraq, hanno onorato la bandiera come si dice, hanno ricordato ancora una volta i nostri morti, come è giusto che sia, peccato che non si ricordino anche tutti quanti gli altri. Quindi per questo io proporrei di chiudere ringraziando noi stessi innanzi tutto per il lavoro che abbiamo fatto riportando a domani tutti gli interrogativi che restano aperti e concludere però con questo mezzo minuto di silenzio magari in piedi.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.