Marco Amagliani, Amedeo Grilli, Giovanni Rossi
Giovanni ROSSI
Presidente della Federazione nazionale della stampa italiana.
ultimo aggiornamento 30 novembre 2014
Marco AMAGLIANI
Assessore alle politiche sociali della Regione Marche.
ultimo aggiornamento 02 dicembre 2005
Amedeo GRILLI
Presidente Fondazione Carifermo.
ultimo aggiornamento 02 dicembre 2005
Marco Amagliani*
Io so, sapevo che ormai da 10 anni questo incontro è una ricorrenza fissa e mi pare di capire che andrà avanti, in modo particolare l'anno prossimo quando festeggerete i 40 anni della Comunità di Capodarco.
Non so bene se in questa sala sono più gli operatori dell'informazione o gli operatori sociali, non vi conosco, però probabilmente gli uni e gli altri. La cosa che so è che i primi, gli operatori dell'informazione, oramai da tempo sono senza voce, o comunque hanno la voce un po' più roca e i secondi una voce che non hanno mai avuto. Sono senza volto, probabilmente, non sono utili, non fanno profitto, anzi costano, la voce è ancora più fioca, per non dire assente e quindi c'è la necessità d'invertire questa tendenza e penso che un'iniziativa di questo genere punti davvero a questo scopo. Noi non dobbiamo continuare a vederci espropriati di una garanzia costituzionale quale è l'informazione, nel senso che si tende sempre più a fare "cultura", ma non è questa l'informazione, l'informazione è quella che dà la notizia e a me pare che venga sempre meno la possibilità e la volontà di dare la notizia. Questo lo vedo sia a livello nazionale, che a livello locale e potrei fare degli esempi. La guerra in Iraq credo che sia stato un evento mediatico senza eguali, per la prima volta la guerra è stata seguita da così tanti inviati e cosa ci hanno proposto? Ci hanno proposto sempre e solo le solite immagini di repertorio. Oppure potrei fare l'esempio ultimo sulla presenza di fosforo bianco a Falluja e solo Rai News 24 ci ha dato alcune immagini ma la tv di Stato non se l'è sognato proprio di farci vedere quello scandalo che è stato perpetrato nei confronti di quelle popolazioni. Allora questa non è informazione, questa è come dire un'attività piegata gli interessi di Lor Signori.
Riprendo con una provocazione, se è vero che oggi non c'è una norma che consenta alla Regione Marche di acquistare quote del servizio pubblico della Rai, non ce n'è neanche una che lo nega e quindi perché non tentare davvero di appropriarsi di un qualcosa che tra l'altro non c'è più, di un'informazione che non è più tale? Perché non dar voce invece a tutti quelli che voce non ne hanno?
Questa mancanza di attenzione si riverbera poi in atti e fatti concreti. Un atto concreto è quello che ha prodotto questo governo nazionale, probabilmente tutti sanno che è stato tagliato il 50% delle risorse del Fondo Unico sul Sociale, e per le Marche significa 13 milioni di euro in meno, che sono qualcosa come il 25% in meno delle risorse complessive; capirete bene che c'è un problema e quindi una necessità forte di far sentire la nostra voce. Credo che non possiamo rimanere impotenti di fronte a un fatto di questa natura, di questa gravità, di questa portata e quindi penso che dovremo fare qualsiasi sforzo, non solo per riottenere il maltolto. Ad esempio dovremmo portare avanti il bilancio partecipato, per far sentire la propria voce. Sentivo dire anni fa che il livello di civiltà di un popolo si misura relativamente ai litri d'acqua che consuma; io credo, come sono convinto anche voi, e lo dico senza alcuna retorica, che il livello di civiltà di un popolo si misura nel modo in cui si presta attenzione ai bisogni degli ultimi, coloro i quali non possono fare a meno di avere l'attenzione di tutti gli altri.
Sembra proprio che le due cose si colleghino, il diritto all'informazione e il diritto a vivere una vita come tutti gli altri, a vivere i diritti che tutti vivono, in modo particolare coloro i quali sono stati così sfortunati da non poter avere le stesse condizioni. Ripeto e chiudo, è necessario un vostro aiuto fondamentale sia come operatori dell'informazione, ma anche come cittadini, far sentire alta e forte la voce che ridia a questo settore importantissimo della nostra società tutta l'attenzione che merita.
Amedeo Grilli*
Ringrazio don Vinicio per l'opportunità che ci dà di essere qui insieme a riflettere su questi temi , per fare anche chiarezza su alcuni aspetti che spesso vengono confusi dall'opinione pubblica.
Con gli utili che provengono dalla nostra attività noi operiamo nei settori ammessi dalla legge. Tra i settori ammessi, ne abbiamo scelti tre in particolar modo e sono la sanità, l'istruzione e i beni culturali, ma ci sono anche altri settori dove vogliamo avere una presenza forte, come quello del mondo del volontariato e quello dell'assistenza delle categorie sociali più deboli. La nostra storia comincia 150 anni fa quando questa banca è stata fondata: raccoglieva l'esperienza dei Monti di Pietà che nascevano in questo territorio nel 1470 circa; erano i francescani allora che predicavano questo modo di essere presenti e a fianco dell'"imprenditoria", quella che poteva essere nel XV secolo, con gli utili poi si doveva fare la cosiddetta beneficenza, tradotto in aiuto e assistenza alle categorie sociali più deboli.
Con la casa Papa Giovanni abbiamo una storia di vicinanza, di percorsi fatti insieme. Percorrendo queste vie ci siamo incontrati anche l'anno scorso in occasione della festa estiva della Comunità di Capodarco, dove vengono presentate tante esperienze, tra le tante una mi ha colpito in modo particolare, ossia quella dell' "Anello Debole". Ho visto questi filmati, ho assistito al dibattito che è venuto fuori dopo la proiezione, ho visto l'effetto che ha prodotto nel pubblico.
Ieri è uscita sulla stampa una indagine, presentata il 30 novembre a Roma sulle Fondazioni Casse di Risparmio, da cui risulta una percezione pubblica, una visibilità che non sempre corrisponde a quello che effettivamente è la realtà. La ricerca, che si rivolgeva ad un campione abbastanza vasto e distribuito in tutta Italia, voleva conoscere quali erano le fondazioni che facevano un'attività molto utile per la comunità. La percezione diffusa in Italia è che la fondazione che fa un'attività molto utile è Telethon, poi viene Fai, la Fondazione Agnelli, la Fondazione Olivetti, seguono i Rotary e i Lions e infine le Fondazioni bancarie. Perché così poco considerate quest'ultime nonostante siano presenti ed investano fondi significativi in attività utili per la collettività? Questo perché si occupano di bisogni emergenti che ancora non si sono imposti all'attenzione dei servizi, cioè affrontano dei bisogni che nessuno prende in considerazione. E qui, se don Vinicio me lo consente, alle 5 categorie su cui lui ha voluto fondare l'impalcatura del nuovo welfare, io proporrei un'ulteriore divisione, non solo ricchi e poveri, giovani e vecchi, ma anche "problemi conosciuti e problemi ignorati", perché uno può essere solo e non lo sa nessuno, un problema esiste e nessuno lo conosce. Le fondazioni attualmente si occupano dunque dei bisogni emergenti che ancora non si sono imposti all'attenzione dei servizi. E che vuol dire questo? Vuol dire che non hanno visibilità, vuol dire che fanno un'azione di sostegno, ma da sola non basta. Aderire all' "Anello debole" vuol dire mettersi a fianco di una grande realtà di volontariato, che sa fare comunicazione, che riesce a trasferire i problemi dalla situazione vissuta del singolo, portandoli in un palcoscenico, aprendoli ad una partecipazione pubblica più ampia. Vuol dire porre il problema all'attenzione dei servizi pubblici, accendere il riflettore su una problematica che è latente, che non è visibile, che è vissuta nel dramma della persona che si trova ad affrontarla. Insieme vogliamo fare in modo che questo "anello debole" non si spezzi, fare in modo che possa raggiungere una visibilità forte, condivisa, perché poi possa significare veramente un aiuto a persone che hanno voglia di vivere, che hanno diritto di vivere, cui noi dobbiamo la nostra vicinanza.
Giovanni Rossi*
Porto il saluto del segretario generale Paolo Serventi Longhi . Nelle edizioni precedenti era intervenuto direttamente mentre quest'anno non è qui semplicemente perché non è in Italia. Anch'io aggiungo qualcosa all'elenco delle variabili del nuovo welfare, è una cosa che m'interessa particolarmente ossia la dicotomia precari e non precari, che mi pare fondamentale nell'analizzare la società italiana oggi e il mondo del giornalismo in particolare. Vorrei cominciare subito con lo stare attento alle parole che uso, nel senso che ho detto precari e non precari, non ho detto precari e garantiti , come qualcuno molto spesso anche nella nostra categoria tende ad usare e tende a contrapporre. La contrapposizione precari e garantiti che io non uso, ma che è molto diffusa, è la dimostrazione anche lessicale del decadimento del valore del lavoro e della stabilità del lavoro nel nostro paese. In genere si fa l'affermazione "garantiti" con un po' di disprezzo, un po' di sospetto, oltre che l'ovvia invidia, umanamente comprensibile, come se l'avere condizioni normali di lavoro, di stabilità nel lavoro, poter progettare il proprio futuro, organizzarsi una famiglia, pensare quindi ad una vita del tutto normale, fosse una cosa irraggiungibile ormai in questo paese, in questa società. Tanto è vero che si usa un'espressione e si sottolinea un valore negativo, il "garantito", il fortunato, colui che magari anche un po' ad onta delle sue qualità si trova in quella condizione. È l'esempio concreto di come sia degenerato il meccanismo del mondo del lavoro nella società italiana, ribadisco non solo in quella italiana, ma in quella italiana secondo me in particolare, perché qui la flessibilità si è sposata con l'illegalità, che è un tipico fenomeno del nostro paese e dimostra come questo meccanismo sia oggi uno dei problemi principali che ha di fronte il giornalismo italiano.
Cito, quando mi capita di parlare di queste cose, una cosa che ho letto sui muri della città nella quale abito , che trovo sia una delle analisi più azzeccate della condizione sociale e istituzionale italiana di oggi e delle tendenze che la caratterizzano. La frase è "Il lavoratore precario ha un permesso di soggiorno nella democrazia ". E' una frase che sintetizza il problema che abbiamo di fronte, il precariato, le conseguenze che questo ha sul mondo del lavoro ovviamente, ma anche sul funzionamento delle istituzioni democratiche e sul livello di democrazia reale che effettivamente caratterizza la società.
Faccio fatica a vedere un lavoratore precario che si conquista un ruolo. E allora su questo noi dobbiamo intervenire e come possiamo intervenire? È una bella domanda a cui è difficile rispondere. Nel nostro piccolo di sindacato dei giornalisti, cerchiamo di dare una risposta. Pochi se ne sono accorti delle ragioni profonde di questo conflitto che è più acuto rispetto al passato. Noi stiamo portando avanti tre vertenze contrattuali, non una sola come qualcuno pensa, abbiamo costruito le piattaforme contrattuali esattamente su questo. I motivi su cui rompiamo con la nostra controparte e su cui non arriviamo a un'intesa sono esattamente, uso questa parola perché è corretta in questo caso, le garanzie da dare al lavoro autonomo e indipendente, quindi ai giornalisti che sono sempre in numero crescente che lavorano senza avere un rapporto di lavoro dipendente, quindi sottoposti ai venti di un mercato che è tra i più disastrati a livello mondiale, per dare garanzie a questi lavoratori, per dare dignità al loro lavoro. La legge 30 per esempio contribuisce a precarizzare oltremisura un settore che già è altamente precarizzato di per sé.
Abbiamo costruito delle piattaforme che in questo momento non stanno ponendo problemi tipicamente corporativi, ancorché legittimi, come possono essere adeguati aumenti salariali, come fa qualsiasi sindacato. Forse se togliessimo dal tavolo le richieste delle garanzie che citavo prima e andassimo semplicemente agli aspetti economici potremmo anche concludere, invece siamo in un conflitto durissimo di cui non si vede la fine proprio perché poniamo questi problemi, problemi per altro che ci rendiamo conto non sono risolvibili da uno specifico contratto di lavoro toutcourt e in assoluto, ma che avrebbero bisogno di ben altre attenzioni dal mondo della politica e delle istituzioni e devo dire, pur avendo anch'io le mie appartenenze politiche, le mie convinzioni, che forse il mondo della politica, al di là degli schieramenti, su questo si assomiglia un po' troppo, nel senso che l'idea generale è che il liberismo sia il modo migliore per risolvere i problemi della società futura, come meccanismo che in sé risolverà i problemi che abbiamo. Questa idea è un po' troppo trasversalmente diffusa nelle forze politiche, nelle aree culturali e negli schieramenti. Anche per questo credo che poi a volte sia difficile per l'editore capire bene le differenze tra i vari schieramenti.
Se il processo resta quello che è in atto, io dubito francamente che sia possibile far fare un salto alla qualità dell'informazione . Qualità dell'informazione sarebbe poter avere giornalisti che hanno la possibilità di lavorare secondo modelli che non sono gli attuali e quindi che hanno possibilità d'indagare, di formarsi, di prendersi il tempo necessario per capire ciò che accade e di scrivere a ragion veduta. Questo non potrà mai essere, se non in casi straordinari, date le condizioni del lavoratore precario, pagato 5-7 euro ad articolo, a prescindere dalle spese che questo comporta. Dobbiamo anche essere molto concreti nell'affrontare i problemi della qualità, non bastano solo i discorsi di scenario, perché i discorsi generali, i grandi discorsi di principio vanno benissimo, ma devono anche prendere atto delle realtà in cui vanno inseriti. E quando dico queste cose non mi si risponda che questi trattamenti economici sono praticati diciamo così, dai giornali marginali, gli esempi che ho fatto attengono ai più grandi gruppi editoriali di questo paese. E poi dovremmo anche porci il problema dell'uso delle nuove tecnologie, che oramai non sono più nuove, delle tecnologie moderne in continuo sviluppo. Il giornalismo non è riprodurre nel proprio computer ciò che si trova, ciò che si riceve attraverso le agenzie, attraverso una semplice rielaborazione in un ciclo che riproduce sé stesso all'infinito. Su questo però torniamo sempre al conflitto sociale, perché l'introduzione delle nuove tecnologie in sé avrebbe potuto portare un miglioramento della qualità del prodotto giornalistico, tecnologie più veloci, consultazione più veloce, scrittura più veloce, e tuttavia qual è stato il metodo d'introduzione e l'uso? L'uso massivo, l'aumento della quantità, mentre la qualità è l'ultimo dei problemi che sta di fronte al giornalista.
Ecco io mi limito a fare questa che so bene essere una provocazione , perché va in conflitto con molte idee che oggi sono prevalenti nella società e purtroppo anche tra i giornalisti, perché non vi nascondo che tante cose le trovo scritte sui giornali da colleghi che esaltano esattamente questo tipo d'impostazione e questa realtà. È di questi giorni il famoso dibattito sul modello danese. Per scrivere certe cose bisogna avere una conoscenza davvero molto relativa della realtà e soprattutto per scrivere che il modello danese può essere la soluzione al problema italiano, significa non sapere che differenza c'è tra l'Italia e la Danimarca. Mi pare che sia una cosa che dovrebbe essere acquisita da tutti già quando si esce dalla quinta elementare, invece ho assistito a un dibattito che evidentemente mi pone anche molti problemi rispetto a come vengono poste queste questioni senza nessun approfondimento. Il modello che oggi prevale è quello delle chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere, possibilmente televisive, mentre nessuno è andato a vedere le differenze di popolazione, di storia, di struttura, di tassazione, tutte cose che sono poi saltate fuori a spizzichi e bocconi. T orno a porre il problema, dobbiamo discutere e dobbiamo anche trovare una soluzione, dobbiamo trovarla noi, nella nostra categoria, con i nostri strumenti, con le nostre battaglie sindacali, ma qualcuno se le deve porre in modo diverso a livello politico ed istituzionale. Anche Redattore Sociale è un'occasione, quindi faccio una proposta per le future edizioni: se c'è la possibilità di approfondire ulteriormente queste problematiche analizzando il problema del contratto, le prospettive, se il contratto passerà penso… Serve lungimiranza e coraggio, il futuro si fonda sull'autorevolezza quella vera di contenuto. Penso che discutere di problematiche come queste non sia discutere d'altro rispetto alle questioni appunto della qualità dell'informazione, della democrazia e del ruolo dell'informazione, degli operatori dell'informazione nel nostro paese. So benissimo di avere, diciamo così, teso ad andare terra terra rispetto alle grandi questioni di principio, però io so che le grandi questioni di principio hanno bisogno di soluzioni concrete per poi realizzarsi.
* Testo non rivisto dall'autore.