Incontro con Nicoletta Bosco. Partecipa Salvatore Esposito. Conduce Marco Reggio
Marco REGGIO
Responsabile dell’Ufficio Comunicazione e Relazioni esterne di Federcasse (la Federazione Italiana delle Banche di Credito Cooperativo/BCC e Casse Rurali), è segretario della Fondazione Tertio Millennio Onlus per la quale, tra l’altro, ha curato la collana dei “Quaderni”. Tra gli ultimi pubblicati per la casa editrice Ecra, “Dal bene confiscato al bene comune” (2013); “Chi semina e chi raccoglie. Per una nuova cultura del territorio” (2014); “La dea bendata. Viaggio nella società dell’azzardo (2015); “La finanza ad impatto sociale” (2016).
Nicoletta BOSCO
Docente all’Università di Torino (Dipartimento di Sociologia), ha scritto tra l’altro “Corsi di vita, povertà e vulnerabilità sociale” (Guerini, 2004).
ultimo aggiornamento 02 dicembre 2005
Salvatore ESPOSITO
Consigliere nazionale del Cnca, presidente onorario della federazione di associazioni “Napoli città sociale”, direttore del dipartimento welfare dell’Ires.
ultimo aggiornamento 02 dicembre 2005
Nicoletta Bosco*
Vorrei parlarvi del modo in cui si articolano le disuguaglianze, ma soprattutto le modalità attraverso le quali queste disuguaglianze vengono comunicate pubblicamente. Vi leggo ora una serie di affermazioni che caratterizzano il periodo dal 2000 al 2002, sull'andamento delle disuguaglianze in Italia secondo l'Istat.
Le ripercorro brevemente. Punto 1: la percentuale di famiglie relativamente povere è diminuita dal 12 all'11% in questo biennio 2000-2002. Punto 2: la percentuale di individui diminuisce nello stesso periodo dal 9 al 7% circa. Punto 3: la percentuale di famiglie rimane invariata al livello del 13,3%. Punto 4: la distribuzione del reddito rimane invariata secondo i dati della Banca d'Italia. Punto 5: il rapporto tra reddito medio degli occupati o salario operaio aumenta, segnalando una divaricazione in una crescita delle disuguaglianze. Punto 6: cresce il potere d'acquisto del lavoro autonomo, si riduce il potere d'acquisto di impiegati e operai.
Non possiamo ovviamente entrare nel merito di queste dichiarazioni-affermazioni, il dato che m'interessa sottolineare è che su sei voci le prime due ci segnalano una riduzione delle disuguaglianze nel 2000-2002, al punto 3 e 4 ci viene invece segnalata la stabilità nella distribuzione delle disuguaglianze e ai punti 5 e 6 un aumento della disuguaglianza. Quindi su 6 affermazioni abbiamo 3 direzioni che specificano, in modo direi molto diverso, uno stesso oggetto.
Allora qual è il problema? Com'è possibile che in uno stesso arco di tempo i dati che descrivono le condizioni e gli andamenti di un biennio siano così eterogenei? Ovviamente assumiamo che le fonti in questione siano tutte attendibili, che non ci sia un uso intenzionalmente distorto delle informazioni. La cosa è resa possibile dal fatto che quando parliamo di disuguaglianza parliamo di un insieme di fattori molto eterogenei: si può parlare di disuguaglianze tra gruppi, si può parlare della posizione degli estremi, delle differenze tra i molto ricchi e quelli che si collocano invece agli estremi inferiori, i più poveri nella distribuzione della ricchezza interna a un paese, si può parlare di consumi, di redditi, si può parlare della ricchezza complessiva della famiglia, ciascuno di questi oggetti ha delle sue specificità. Per cui i dati che sono presentati in questa tabella non sono sbagliati, sono tutti dati giusti, ma ciascuna di queste affermazioni vede il problema da un punto di vista particolare e ovviamente per capire di che cosa stiamo parlando occorre specificare.
La questione delle disuguaglianze è ritornata all'attenzione del dibattito pubblico direi in modo molto massiccio a partire dalla fine del 2003 e nel 2005 ci sono state una serie di inchieste giornalistiche anche molto documentate e approfondite che hanno rimesso a tema la questione delle disuguaglianze soprattutto a partire da una questione che è legata alle condizioni della pancia della distribuzione, cioè dei ceti medi. La disuguaglianza ha cominciato a creare problema nel momento in cui si è cominciato a pensare che non era più solo un problema che riguardava chi stava in cima o chi stava in fondo, bensì di gestione delle risorse che cominciavano ad intaccare anche la parte più robusta della popolazione, quella più stabile, la più tutelata dal lavoro garantito.
Ho scelto di partire da una serie di esempi per cercare di riflettere insieme a voi sul modo in cui le argomentazioni entrano nel dibattito pubblico, cioè sulle forme attraverso le quali noi comunichiamo dei dati che possono essere più o meno buoni, più o meno fondati. C'è una ricerca molto interessante che è stata fatta all'inizio degli anni '80 in Gran Bretagna con la quale si è cercato di capire se le immagini che vengono presentate sul funzionamento dei sistemi di welfare avessero o meno un qualche fondamento, cioè quale era la percezione che le persone avevano di una serie di disuguaglianze presenti nella società; le ricerche hanno rilevato l'esistenza di una scarsissima conoscenza, cioè le persone avevano sistematicamente delle idee non fondate ad esempio sull'ammontare dei sussidi pubblici rivolti a chi ha qualche problema di reddito, tutti pensavano che l'importo effettivo che veniva dato a chi aveva dei problemi economici fosse molto più alto di quanto in poi è in realtà. Ma il dato che m'interessa è la considerazione che fanno questi due studiosi, secondo i quali anche se ammettiamo che ci sono degli utilizzi impropri del denaro pubblico, cioè anche se ammettessimo che chi riceve i sussidi di welfare in realtà lo fa non avendone pienamente diritto, la disapprovazione che il pubblico dà nei confronti di chi si appropria di risorse pubbliche è molto differenziata. Questo significa che non nei confronti di tutti quelli che usano in modo indebito le risorse pubbliche c'è la stessa sanzione dal punto di vista dell'opinione pubblica e il caso più lampante è legato alle frodi fiscali: chi ruba denaro pubblico con delle quote consistenti di denaro, in realtà è pubblicamente molto meno sanzionato di coloro che magari indebitamente ricevono dei sostegni al reddito che, soprattutto nel contesto italiano, ma anche in altri paesi, sono delle cifre molto basse. La disapprovazione pubblica si concentra in modo particolare su alcune categorie e molto meno su altre, e ciò non corrisponde a un criterio oggettivo che è legato all'ammontare del furto. Io dovrei arrabbiarmi molto di più con qualcuno che ruba molte risorse, in realtà paradossalmente questa cosa s'inverte, mi arrabbio molto di più con quelli che penso che si approprino di risorse pubbliche e che appartengono abitualmente a delle categorie più svantaggiate nell'ambito della società. Questo per dire che non c'è un modo oggettivo di riportare i fatti e ci sono cose che assumono un peso, una rilevanza che è indipendente dal loro effettivo peso.
Che cosa ci sta dentro alla nozione di disuguaglianza , perché ci sono tutti questi corto circuiti rispetto ai contenuti della disuguaglianza? Possiamo riferire il concetto di disuguaglianza, le differenze tra individui, tra gruppi, tra intere società, ma ci sono anche molte altre dimensioni. Ad esempio una distinzione che si richiama abitualmente come quella tra disuguaglianza dei risultati e disuguaglianza delle opportunità. Cosa significa questa distinzione? La disuguaglianza delle opportunità si concentra sul momento iniziale del percorso di vita. La disuguaglianza dei risultati va invece a vedere dei punti che sono più spostati, più in là nel tempo. C'è il fatto che ad esempio le persone conseguano un certo titolo di studio, dispongano in una particolare fase della loro vita di una certa quantità di risorse. Oppure possiamo parlare di disuguaglianze in termini statici, fotografando in un momento specifico del tempo una certa distribuzione. Quanti sono oggi i disoccupati? Quanti sono oggi i poveri? Oppure utilizzare una dimensione dinamica, ad esempio riferita alla disoccupazione, possiamo andare a vedere quanto a lungo le persone stanno in una condizione di disoccupazione. Ovviamente possiamo misurare aspetti che riguardano il reddito, la possibilità di accedere all'istruzione, piuttosto che alle cure sanitarie. Il punto secondo me è questo: le definizioni che assumiamo non sono delle definizioni neutre, a seconda del tipo di oggetto e del modo in cui caratterizziamo la disuguaglianza, vengono definite, vengono predisposte, vengono implementate delle politiche di un tipo piuttosto che di un altro.
Lo Stato deve intervenire su tutte le disuguaglianze oppure solo su quelle per le quali gli individui non hanno una responsabilità diretta? Oppure solo anche su quelle che sono oggetto di una libera scelta? In Gran Bretagna adesso in campo sanitario si sta discutendo di questo: lo Stato deve pagare le cure ai fumatori che si ammalano di tumore ai polmoni? C'è un modo per compensare questa disuguaglianza quando la persona in qualche modo "se l'è voluta"? Gli obesi che hanno problemi cardiaci sono un problema dello Stato oppure no? Vedete che a seconda del modo in cui definiamo la disuguaglianza predisponiamo degli ambiti, delle forme per intervenire, per eventualmente compensarla, che possono essere molto diverse. Quindi il punto è le definizioni che utilizziamo non sono neutre, non sono neutrali.
La distribuzione delle disuguaglianze ha a che fare prevalentemente con dei fattori strutturali. Cosa significa? Significa che nel tempo tutto è relativamente stabile e che i cambiamenti, anche attraverso le politiche, sono dei cambiamenti molto difficili da raggiungere, anche con la migliore politica del mondo si hanno sempre degli effetti che non possono essere previsti in anticipo e tutto sommato intervenire sulla distribuzione delle disuguaglianze, proprio perché è complesso, è un oggetto di cui i diversi schieramenti politici tendono a non farsi carico; è difficile definire delle politiche che abbiano un qualche tipo di impatto immediatamente visibile. Quindi essendo una materia complessa e di difficile gestione, è un argomento che da un lato è molto presente nel dibattito pubblico, dall'altro sul versante della politica, molto meno.
Un'ultima questione generale è questa . Un conto è valutare la quantità di risorse di cui le persone dispongono, altro è capire che cosa le persone possono e riescono a fare con le risorse disponibili. L'economista indiano premio Nobel per l'Economia Amartya Sen sottolinea proprio questo punto facendo un esempio: possono esserci delle persone che non hanno nessun problema di reddito, ma sono malnutrite, perché hanno magari delle malattie parassitarie, quindi se noi continuiamo a dare loro risorse alimentari e non teniamo conto che quelle persone non sono in grado di trasformare queste risorse in un funzionamento che consenta loro di essere adeguatamente nutriti, in realtà stiamo sperperando del denaro, non stiamo risolvendo un problema. E' molto difficile modificare la distribuzione delle risorse e poi è molto difficile capire come le risorse si trasformano in funzionamenti, quindi quando ragioniamo su queste materie dobbiamo contemporaneamente tenere conto di un insieme estremamente eterogeneo di questioni che rendono oggettivamente complicato ottenere dei risultati, ma che dal punto di vista comunicativo, segnalano evidentemente l'esigenza di un'attenzione, una cautela, perché usiamo una materia che è potenzialmente esplosiva e può provocare dei danni.
Vi presento qualche dato per capire come si distribuiscono i beni, ma vorrei che aveste a mente tutte le cautele che ho richiamato prima. Allora questo grafico mostra l'andamento dagli inizi degli anni '90 al 2002 della ricchezza di cui dispongono le famiglie, distinte a seconda della professione del capofamiglia. Quindi abbiamo famiglie dove il capofamiglia è un imprenditore, un impiegato, o un dirigente. La linea tratteggiata rappresenta la media italiana. Che cosa ci dice questo grafico? Ci dice che se la famiglia media italiana disponeva di una ricchezza pari a 100, la ricchezza della famiglia operaia mediana nel 2002 è poco più di un terzo ossia 37.7 mentre quella di una famiglia tipo di un dirigente è il doppio quindi 219.3; dunque il rapporto tra la ricchezza di uno dei gruppi che sta più in alto e il gruppo che si colloca più in basso dal punto di vista professionale è di 5.8 punti, cioè una divaricazione piuttosto ampia che come vedete tende a partire dal '98 in poi ad accentuarsi. Effettivamente c'è una divaricazione delle condizioni di ricchezza presenti all'interno del contesto nazionale italiano secondo i diversi gruppi.
Cosa ci dicono i dati sulla povertà? I dati sulla povertà ci dicono delle cose strane perché nel confronto tra il 2002 e il 2003 a un certo punto sembrava che la povertà stesse diminuendo. Ovviamente il governo, non perché è questo governo, ma l'avrebbe fatto qualunque altro governo, ha molto ribadito la bontà della prestazione che in questi anni aveva realizzato. I dati dell'ultimo Rapporto Nazionale sulla povertà che è stato presentato il mese scorso, segnala invece un incremento consistente della povertà: dal 2003 al 2004 la distribuzione della ricchezza misurata sui consumi delle famiglie è pesantemente peggiorata. Sono aumentati i poveri, è aumentata l'incidenza della povertà e non soltanto quelli che stanno al di sotto di una certa soglia, ma anche la distanza dalla soglia, vuol dire che quelli che sono poveri sono più poveri di quanto non fossero prima. Questi dati ci dicono che mediamente le famiglie residenti in Italia in condizioni di povertà relativa sono l'11,7% della popolazione, cioè 2674 famiglie che corrispondo a 7 milioni e mezzo di individui, cioè il 13,2% della popolazione. Adesso non voglio bombardarvi di numeri che sono difficili da trattenere e non sono neanche l'oggetto della nostra chiacchierata di oggi, resta il fatto che dentro a questi dati è possibile individuare dei particolari fattori di vulnerabilità che peggiorano negli anni. Innanzi tutto da segnalare una distinzione territoriale che è sempre stata una caratteristica del contesto nazionale italiano, che invece di migliorare sta ulteriormente peggiorando, con un significativo peggioramento dal 2003 al 2004 per le famiglie che risiedono nel Mezzogiorno, per le famiglie numerose con 5 o più componenti, per le famiglie con figli minori e famiglie con anziani al loro interno. La media nazionale è 11,7%, ci sono regioni in cui l'incidenza della povertà arriva, come in Basilicata al 28,5%, in Calabria al 28,9%, in Sicilia al 29,9%, cioè il triplo di quella che è la distribuzione e la presenza di famiglie povere in certi contesti. In certe circostanze questo dato peggiora ulteriormente perlopiù in assenza di un titolo di studio, ossia nel caso di famiglie con un capofamiglia senza titolo di studio, che risultano più povere delle altre e rappresentano il 19,3% nel contesto nazionale, ma anche la localizzazione in certe aree del paese, nel Mezzogiorno arriviamo al 35%. L'altro dato grave è che questa condizione è peggiorata di quasi 4 punti percentuali nel passaggio dal 2003 al 2004, quindi a fronte di una distribuzione tendenzialmente stabile, che vede la distinzione nord, centro, sud, come una distinzione rilevante anche in anni passati, invece di trovare delle forme, delle modalità per colmare questo ghetto tra i diversi contesti nazionali, queste differenze tendono ad accentuarsi e a peggiorare.
E i ricchi come stanno? Sui ricchi ci sono molte meno informazioni. Allora vi do soltanto qualche flash per altro contenuto in resoconti che sono stati pubblicati in questi anni soprattutto sul Corriere della Sera e sul Manifesto, che sono i giornali che hanno seguito in modo più continuativo la questione dell'andamento delle disuguaglianze. Allora i dati si riferiscono al 2002 che vi ricordo è stato l'anno della grande crisi della Fiat, nonché l'anno dell'euro; nel 2002 la domanda dei mezzi di trasporto nel nostro paese si è ridotta di quasi 3 punti, ma in compenso la vendita delle Ferrari è aumentata del 15%, la vendita delle Maserati del 31%. Si sono vendute imbarcazioni private, motoscafi, yacht, ecc., in una percentuale che è raddoppiata nel giro di 4 anni, arrivando nel 2002 a quasi 500 milioni di euro, una cifra rilevante. È cresciuto il mercato degli oggetti d'arte e di antiquariato in un modo molto più marcato di quanto non sia avvenuto in altri paesi. Sulla base della retribuzione annua ufficiale, nel 1986 il rapporto tra la paga di un operaio alla Fiat Mirafiori e la paga del suo amministratore delegato era 1 a 55: 1 prendeva l'operaio, 55 prendeva l'amministratore delegato. Nel 2002, quindi nel pieno della crisi della Fiat questo rapporto passa da 1 a 70. L'economista Tito Boeri ha stimato che quando è stato liquidato Cantarella dalla Fiat, con l'ammontare della retribuzione che gli è stata data, si potevano pagare gli stipendi di Termini Imerese per 2 anni. Quando parliamo di disuguaglianze possiamo parlare di moltissime cose diverse, non soltanto di questioni che attengono al reddito. Ad esempio un fattore crescente di disuguaglianza ha a che fare con l'accesso alle nuove tecnologie, che divide in modo molto forte la popolazione. Ci sono disuguaglianze indotte dal fatto che sistemi di welfare hanno una natura sempre più residuale, quindi in presenza di disuguaglianze che crescono, non ci sono degli elementi che compensino in misura abbastanza forte. Ci sono disuguaglianze che hanno a che fare con la precarizzazione in campo lavorativo, con l'esistenza di forme di lavoro atipico, che non permettono ad esempio di agganciare i diversi periodi contributivi e quindi di immaginare che in un futuro si potrà disporre di una pensione.
A fronte di tutto ciò, come si parla delle disuguaglianze? Vi voglio fare questo ultimo esempio, che sicuramente qualcuno di voi ha colto nel dibattito pubblico in queste ultime settimane, che ha a che fare con la distribuzione dei titoli di studio nel nostro paese. C'è stata una polemica perché l'Unione Nazionale per la Lotta all'analfabetismo ha pubblicato un rapporto in cui si diceva che in Italia ci sono 6 milioni di analfabeti. Questi dati sono stati prodotti dall'Istat e si riferiscono al censimento del 2001. Cosa ha fatto l'Istat? Ha immediatamente comunicato una smentita, che i loro dati non dicono assolutamente che in Italia ci sono 6 milioni di analfabeti. Vi faccio vedere la pagina sul sito dell'Istat dove si parla di questa cosa: il numero di analfabeti, numero in grassetto, è pari a 782.342 unità però viene allegata la tabella sotto. Probabilmente l'Istat, questo è un problema importante nel campo della comunicazione, dà per scontato che le persone si fermino al pezzettino iniziale e non leggano la tabella, perché la tabella dice che si gli analfabeti è vero sono 782.342, ma gli alfabeti privi di titolo di studio, cioè le persone che non hanno raggiunto la conclusione del ciclo elementare, sono 5.199.237 e che le persone che hanno conseguito la licenza elementare sono 13.686.021. Quindi quello che questa tabella ci dice è che al di sotto della licenza media compresa, si colloca in Italia il 66% della popolazione. Che cosa avrebbe potuto fare l'Istat? L'Istat avrebbe potuto argomentare diversamente. Avrebbe potuto dire: bene, è vero i titoli di studio della popolazione italiana sono bassi, però guardate c'è un invecchiamento della popolazione, allora andiamo a scomporre i dati, vediamo se sono gli anziani che sono quelli che hanno meno disponibilità di titoli di studio… C'è un problema forte di comunicazione dentro a questa questione. Non voglio parlare di malafede, non è questo che ci interessa, ma le modalità attraverso le quali presentiamo i dati sono comunque effettivamente rilevanti.
C'è una differenza molto importante tra la disuguaglianza reale e quella percepita , sono due dimensioni che stanno su piani molto diversi ed è sulla disuguaglianza percepita che si ottengono i voti, non su quella effettiva. Gli economisti Franzini e Supino che hanno pubblicato un rapporto molto interessante sullo stato sociale in Italia citano un'indagine che è stata realizzata dall'Ocse, relativa al modo in cui le disuguaglianze sono percepite nei diversi paesi. Ne risulta che ci sono dei collegamenti tra queste due dimensioni molto diverse. Ad esempio negli Stati Uniti la disuguaglianza effettiva è alta, la percezione delle disuguaglianze invece è molto bassa. In Italia invece c'è una forte disuguaglianza e una forte percezione delle disuguaglianze.
Franzini e Supino dicono questo: è facile dimostrare che in generale i comportamenti elettorali risentono della disuguaglianza percepita piuttosto che di quella reale e dunque i meccanismi che concorrono a questa spiegazione dovrebbero essere decisivi. Allora loro non si spingono oltre, perché fanno giustappunto gli economisti, ma uno dei contesti in cui si produce la percezione e si diffonde la percezione della disuguaglianza è ovviamente il sistema dei media. Proprio per questo motivo il sistema dei media è così appetibile, così oggetto di discussioni pubbliche, di discussioni politiche, proprio perché c'è un oggettivo potere che consente d'indurre nella popolazione, attraverso un uso di un termine piuttosto che di un altro, una percezione che non corrisponde a un dato oggettivo, nella sociologia della comunicazione si usa il termine "spirale del silenzio". La spirale del silenzio è una sorta di vortice che risucchia certi aspetti della realtà e che impedisce di vederli. Quando una voce è progressivamente legittimata dai mezzi d'informazione è praticamente impossibile riuscire a smontarla. Quindi dobbiamo in qualche modo attrezzarci perché le spirali del silenzio vengano rotte, piuttosto che produrle e ovviamente non è un compito facile per niente.
Marco Reggio*
L'esempio della tabella dell'Istat è illuminante. Le nostre redazioni sono piene di comunicati stampa che arrivano belli, pronti e confezionati, che quasi nessuno ha più la possibilità di verificare oltre, ma questo non è solamente un difetto professionale. Ci rendiamo conto che si è sommersi di valanghe di carta e informazioni e i ritmi sono quelli che sono. Però questo è un mestiere che ci impone di fare comunque e di andare sempre oltre. Se non lo facciamo noi, veramente diventa un problema. Volevo dire una parola a proposito delle statistiche. Voi sapete bene che negli ultimi 10-15 mesi ci sono entusiastiche dichiarazioni sull'aumento dei posti di lavoro in Italia e questa cosa è un'altra che andrebbe vista con occhi diversi: se noi abbiamo un ragazzo che lavora in un call center, quindi in maniera assolutamente precaria per 4 contratti in un anno, secondo le nostre indagini statistiche diventano 4 posti di lavoro creati in un anno, ma voi capite benissimo che non è nulla rispetto alla reale potenzialità di creazione di stabilità.
Passo la parola a Salvatore Esposito cercando di fare una provocazione: Stefano Zamagni, professore all'Università di Bologna, dice che oggi la povertà è sostanzialmente privazione e vulnerabilità. Ci piacerebbe sviscerare insieme quelli che sono gli elementi della privazione oggi, della vulnerabilità, dell'essere esposti comunque alle intemperie della vita normale.
Salvatore Esposito*
Vorrei dare il mio contributo schematico e breve su 3 ordini di ragionamento . Un primo ragionamento su come si comunicano i dati del sociale, della povertà, della ricchezza. Un secondo ragionamento sugli stereotipi culturali e ideali del welfare che hanno molto a che fare col rapporto tra operatori del sociale, ricercatori del sociale, comunicatori del sociale e un terzo ragionamento un po' sull'esperienza del reddito minimo di cittadinanza, sul reddito minimo d'inserimento e sul reddito di cittadinanza in Campania, per dirvi come un operatore sociale se la cava in questa dinamica.
Nicoletta Bosco ha posto molto correttamente la questione di merito su come si comunica il rapporto tra povertà e ricchezza e sul fatto che oggi non solo in Italia, ma in modo raddoppiato in Campania, o nelle regioni del sud, c'è una rigidità tra le classi povere, le classi medie e le classi ricche, per la quale un soggetto, una persona, una famiglia che appartiene a una classe povera di quei 2 milioni e rotti di cui si parlava prima, non solo è povero, ma non ha più speranza di andare a collocarsi nella classe media della popolazione. Quello che oggi si sta determinando, non lo diciamo noi qua solo in Italia, in Campania, nel Mezzogiorno, ma lo dicevano due autorevoli giornalisti del New York Times una quarantina di giorni fa, è la fine del sogno americano per questo tipo d'impossibilità delle classi povere e medie di poter accedere alle risorse. Questa cosa è ancora più grave della povertà in sé. A proposito di come poi si comunicano i dati, di come si possono leggere le questioni, io vi voglio fare un esempio. Su tutti i giornali c'è questa storia del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali che il governo Berlusconi ha ridotto da 900 mila euro a 500 mila euro e poi pare che neanche 500 mila euro siano confermati. Se invece io vi do lo stesso dato, calcolato con la modalità diversa, calcolando la quota capitaria, cioè divido quel dato macro per 54 milioni di abitanti, ottengo appunto la quota capitaria che non supera i 10-15 euro per abitante. Questo è un modo diverso di comunicare la situazione. Una politica sociale per essere dignitosa, che regga l'impatto con le condizioni sociali della popolazione, si deve fare in questa logica di tappabuchi o si deve porre un problema strutturale nel bilancio dello Stato?
Credo che qui noi abbiamo un deficit di analisi di tipo culturale , che riguarda il fatto che purtroppo gli operatori sociali non sanno fare i ricercatori sociali, perché non hanno poi neanche il tempo di farlo. I ricercatori sociali non hanno contatti e comunicazioni con gli operatori sociali e i comunicatori sociali nemmeno se li filano tutti e due tranne diciamo in questo tempio straordinario. Noi operatori sociali dobbiamo imparare a connettere le prassi organizzative sui territori. Dobbiamo superare lo stereotipo che il welfare sia una conseguenza di uno sviluppo e di un Pil che va bene e come una possibilità di finanziamento del welfare con la plusvalenza residuale di uno sviluppo positivo in un dato momento storico. No, il welfare deve essere inteso come una condizione dello sviluppo. Io vivo a Napoli e nei quartieri spagnoli o a Scampìa, noi dobbiamo mettere mano a una misura di contrasto alla povertà che toglie i ragazzi dalle manipolazioni e dall'attrazione non solo economica, ma anche politico-culturale della camorra, perché lì è un riferimento, è un qualcosa che ti dà una speranza, ciò ti dà la possibilità di passare dalla classe povera alla classe media. C'è anche un problema di risorse umane. Voi mi dite su quali gambe? Sapete quanti operatori sociali pubblici abbiamo per abitante nel Mezzogiorno d'Italia? Abbiamo livelli che vanno da 0 a 0,5 per 1000 abitanti. Come si fa ad implementare la legge quadro 328, come si fa a dare i soldi del reddito di cittadinanza alla popolazione se non c'è la capacità di prendere in carico una famiglia povera?
La misura del reddito minimo di cittadinanza a Napoli l'abbiamo potuta attivare anche in modo sperimentale prendendo in carico circa 4000 famiglie della città a fronte di 20 mila domande. Questa misura di contrasto alla povertà è importante non per l'integrazione reddituale in sé, ma per il fatto che il servizio pubblico, lo Stato, l'ente locale entra in queste famiglie e poi può essere accompagnata da altre forme di inclusione sociale, di protezione sociale, come l'attenzione ai bambini, l'attenzione per uscire dall'illegalità. Noi abbiamo avuto tante famiglie e i dati sono buoni: 1.461 casi di recupero sulla scuola dell'obbligo da parte dei bambini, 3.994 casi di rientro dalla legalità, 23.206 casi di risanamento delle condizioni abitative su queste integrazioni reddituali, con un indotto di economia locale. Dobbiamo immaginarci il welfare come una strategia riformista vera di ridistribuzione delle risorse e dobbiamo ispirarci per garantire il welfare a quello che dice la costituzione italiana all'art. 3 comma 2, superare le condizioni che ostacolano il pieno sviluppo della persona umana e lo dobbiamo fare sui rapporti economici, lo dobbiamo fare attingendo alla contribuzione progressiva, ispirata a criteri di progressività.
Ida Palisi - Corrispondente da Napoli di Redattore Sociale*
La dott.ssa Bosco diceva che ci vengono passati dei dati sui quali noi non siamo abituati a ragionare e questo fa parte della prassi del nostro lavoro giornalistico, l'economicità del tempo, quindi anche adattarsi alle fonti che ci vengono date e basta, senza interrogarsi troppo. Ma soprattutto su come ci vengono date certe fonti, nel senso che se l'Istat, che comunque è il più autorevole istituto d'indagini statistiche in Italia, ci dà un dato con un comunicato stampa impostato in quel modo, sicuramente noi non ci poniamo il problema di andarlo a verificare, di andarlo a leggere oltre, forse non ne abbiamo neanche il tempo. Questa cosa mi fa pensare in automatico a quanto clamore è stato fatto a Napoli e in Campania sulla misura del reddito di cittadinanza, che però a ben guardare non è una misura che risolve in nessun modo i problemi delle fasce di povertà che ci sono a Napoli, è una misura che viene finanziata per quasi 80 milioni di euro sull'88 che la regione Campania mette a disposizione delle politiche sociali, che corrisponde all'1% della spesa della Regione Campania. Quindi anche la regione Campania certo fa le lotte giuste e dovute sul fondo sociale, però non mette in campo risorse adeguate e su questo nessun giornalista a Napoli ha fatto nessun tipo di ragionamento. Sono 3 anni che la regione Campania si vanta, ma anche a buon ragione, perché comunque ha fatto delle scelte, di privilegiare i poveri che sono un problema evidente a Napoli, però senza collegarsi ad alcun tipo di politica sociale. Il reddito di cittadinanza come il reddito minimo d'inserimento, prevede un pacchetto di misure a sostegno della famiglia, che non si sa che fine abbiano fatto, tra l'altro adesso mi sembra che solo il 13% delle famiglie dopo 3 anni ne stanno finalmente usufruendo, o meglio solo adesso stanno pubblicando le graduatorie, dovuto anche ai ritardi dei comuni.
C'è anche la questione dei fondi che secondo me va a monte, di quei fondi strutturali in Campania soltanto il 4% viene usato per le politiche sociali. Questi sono dati ai quali diciamo noi giornalisti non abbiamo accesso, che dobbiamo andare a studiare. Più che una riflessione, una critica alle politiche sociali che vengono fatte nella mia regione, la mia vuole essere una critica di come noi ci poniamo di fronte a questo tipo di notizie.
Laura Badaracchi - Corrispondente da Roma di Redattore Sociale*
Volevo fare anch'io un'autocritica sul nostro lavoro su due aspetti. Mi sembra che sui ricchi e su questa forbice che si allarga, si parli molto poco. Io collaboro anche col quotidiano Avvenire e mi sono ritrovata a fare un'inchiesta sui consultori pubblici, sono andata a parlare con gli operatori, con chi lavora praticamente nel consultorio e mi sono accorta di cose veramente eclatanti. Qui a Roma esistono 50 consultori e ne dovrebbero esistere 150 per i bisogni del territorio, perché dovrebbe esserci un consultorio ogni 20.000 abitanti. Sono realtà che veramente sul territorio agiscono e incontrano, incrociano le povertà e il disagio veri delle persone ma gli assistenti sociali sono presenti in minima parte, perché non ci sono fondi, perché non vengono erogati fondi per questi servizi. In televisione però non ho mai visto intervistare un'assistente sociale, uno psicologo, un ginecologo che ogni giorno lavora a contatto con queste situazioni e quando sono andata a parlare con queste persone è stato come un fiume in piena, ognuno un'ora di intervista, non si fermavano più, perché dicevano: noi non abbiamo voce, nessuno ci ascolta, nessuno viene a sentire noi che lavoriamo tutti i giorni in questi luoghi dove incontriamo le persone e i problemi reali della gente. Quello che dice la televisione, l'informazione, non è la realtà che noi incontriamo tutti i giorni.
Antonella Casini - Addetta stampa di Italia Solidale*
L'associazione Italia Solidale vede il problema della disuguaglianza sia dal punto di vista chiamiamolo della società, sia dal punto di vista della fame del corpo del Sud del Mondo, perché siamo in contatto con 85 missioni in Africa, in Sud America, in India e partendo da questa nostra esperienza, mi sentirei di dire che le disuguaglianze che molto lucidamente e profondamente sono state denunciate diciamo dai relatori, si iscrivono in una disuguaglianza più grande. Se noi pensiamo che il 20% degli abitanti della Terra, che sono quelli dei paesi occidentali diciamo così, detengono l'80% delle risorse del mondo, questa è una disuguaglianza grandissima, dentro la quale si iscrivono tutte le altre disuguaglianze. Io credo che l'informazione ha un ruolo nevralgico per far si che le persone ritrovino la loro identità, la loro spiritualità, quindi una buona capacità di relazione nella coppia, nella famiglia, la capacità di lavorare creativamente, riscoprire la comunità, per essere poi solidali; credo che l'informatore deve stare molto più in relazione con chi sta sul campo e chi sta sul campo deve avere molta relazione con gli informatori.
Giulia Cananzi - Giornalista de Il Messaggero di S. Antonio*
Mi sembra che uno dei fenomeni che sta cambiando il nostro modo di vivere in maniera radicale, sia questa precarizzazione del lavoro, che si analizza molto per quello che sta provocando, ma poco sulle ragioni per cui è nato.
Salvatore Esposito*
Io credo che noi comunicatori, come gli operatori sociali, gli economisti , non taglierei fuori i filosofi, dobbiamo imparare insieme a leggere le comunità, a leggere i territori, le comunità come relazioni, sistemi di relazione e dovremmo mettere su una serie di strumenti. Io non ho visto in nessuna parte di questo paese uno che vada a fare un bellissimo centro polifunzionale sociale, dove dentro ci sia la biblioteca, la sala cinema, non investiamo su questa roba qua. Noi dobbiamo andare a Scampìa, dobbiamo andare nelle periferie, dobbiamo andare anche nei luoghi che lei citava. Diceva bene Stefano Boeri su Il Sole 24 ore di qualche giorno fa, cioè il problema non è l'architetto, il problema è cosa metti in termini di welfare sulla città, perché non è solo la periferia che ti viene meno, ma anche quella che lui definiva anti-città, cioè luoghi della città che sono assolutamente insostenibili. Allora il punto è investire strutturalmente, architettonicamente, economicamente e socialmente sugli spazi urbani dimensionandoli. Vedete questa storia della dimensione è molto importante, ho detto una volta in un congresso di urbanistica facendoli un po' arrabbiare, la grande città è contro il welfare, la metropoli così come noi l'abbiamo costruita è contro il welfare, non ce la possiamo fare.
Stefano Ischia
Non dobbiamo assolutamente stupirci se i nostri grandi mezzi d'informazione dedicano poco spazio o fanno analisi molto parziali o totalmente assenti su queste problematiche. Io penso che chi ha in mano i soldi, il potere, non abbia interesse che la gente sappia del divario che c'è tra povertà e ricchezza, tra chi sta bene e chi sta male, piuttosto cerca di nasconderlo. Dopo è vero che se noi vogliamo andare a cercare notizie di questo divario le possiamo anche trovare, cioè penso al giornale con cui collaboro, il Manifesto, penso che sia uno dei giornali più indicati per trovare analisi di questo tipo, ma posso pensare anche a Carta, a Diario, a tanti altri strumenti d'informazione, in televisione vediamo Report alcune volte le Iene. Adesso è curioso il fatto che per 10 anni i giornalisti dei grandi organi d'informazione hanno predicato la flessibilità e adesso che la flessibilità deve toccare noi ci ribelliamo e ci accorgiamo di quanto possa essere nefasta. Per cui è vero che ci vuole un esame di coscienza anche da parte dei giornalisti e anche chi opera nel sociale ha il diritto di battere i pugni sui tavoli dei direttori, di andare a parlare coi direttori.
Giorgia Cardini*
Nel nostro mestiere impera al di là di una modifica di tempi di lavoro, che ha reso il mestiere del giornalista simile a una catena di montaggio di un'azienda, anche un pò di pigrizia culturale da parte dei giornalisti. Secondo me lo sforzo più grande che dovrebbero fare i mezzi d'informazione sarebbe proprio quello di cominciare a imporre e quindi staccarsi dalla cronaca, dal dato di cronaca, o magari anche partire da un piccolo dato di cronaca per approfondire, andare al di là di quello che sono i comunicati stampa, come si diceva prima. Credo che anche gli operatori sociali dovrebbero fare uno sforzo per farsi sentire di più, io capisco che il primo problema è quello di esserci sul territorio e di lavorare, però effettivamente se anche da questo punto di vista si organizzassero per far avere più informazione e farla avere in modo più capillare, scegliersi anche, come dire, degli interlocutori nel campo dell'informazione, probabilmente uscirebbero molte più notizie con una qualità molto più elevata ed è necessario, perché il giornalista spesso non sa dove sbattere la testa.
Paola Miniliti - Responsabile dell'ufficio stampa di Coop Adriatica*
Sono la responsabile dell'ufficio stampa di Coop Adriatica. La questione della disuguaglianza soprattutto nelle classi medie si è posta perché c'è stato un calo dei consumi che ha interessato appunto non le fasce classicamente deboli della popolazione, ma quelle che venivano ritenute le classi medie. Come responsabile dell'ufficio stampa della Coop, questo ha significato per me essere subissata di telefonate di colleghi che volevano dati sui consumi e devo porre l'accento sulla enorme ignoranza che esiste da parte dei giornalisti in tutto quello che è materia economica, statistica e di lettura dei dati.
Antonella Battaglia*
Innanzi tutto volevo un attimo parlare della difficoltà che ci troviamo noi come operatori sociali a comunicare i nostri servizi. Molto spesso siamo ignorati completamente. Quando facciamo delle iniziative, invitiamo giornalisti, vengono soltanto perché arriva un Giletti o arriva il grosso segretario federale, poi per il resto non viene data nessuna pubblicità a tutte quelle che sono le nostre iniziative. Dall'altra parte però ci troviamo a dover fare informazione e informazioni di servizio soprattutto verso i cittadini, verso tutti coloro che si rivolgono a noi.
Intervento
Sono un giornalista freelance, mi sono occupato sempre di temi di lavoro, finanza etica e terzo settore. Vorrei collegarmi alla questione del lavoro precario: sto seguendo in questi mesi una tematica che secondo me sui giornali è uscita veramente poco, collegata alla precarizzazione del lavoro e alla difficoltà di costruire, progettare una vita, che è l'inserimento della malavita organizzata all'interno del disagio delle famiglie, che va sotto il nome di usura familiare: per l'acquisto di beni di consumo, mediamente di prima necessità, le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese a causa di periodi più o meno lunghi di non lavoro, si rivolgono all'usuraio per chiedere in prestito dei soldi, per pagare il mutuo, per l'acquisto di un frigorifero, di una cucina, o addirittura anche per i beni di prima necessità dei bambini e in cambio la criminalità gli chiede di commettere dei reati, dei piccoli reati. A riprova di questo fatto mi è capitato di seguire un convegno dove il comandante della guardia di finanza che si occupa di questi argomenti diceva che soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno in situazione di forte disagio e povertà questo fenomeno sta aumentando e sta colpendo anche buoni settori delle piccole imprese, a conduzione familiare o anche individuali e infatti vengono definite imprese a conduzione mafiosa dove l'organizzazione criminale non si sostituisce all'imprenditore, ma tende a entrare nel capitale e poi a condizionare e a gestire un po' le sue decisioni. Secondo me oltre ad analizzare i temi del disagio e della povertà, bisognerebbe un po' allargare l'analisi e cercare di capire come la criminalità riesce ad inserirsi e a guadagnare da queste situazioni di difficoltà e bisognerebbe anche parlarne un pò di più.
Nicoletta Bosco*
Io condivido con Esposito l'idea che il bisogno deve produrre dei diritti , però è un discorso che fuori di qua funziona poco, siamo comunque in un modello che libera progressivamente lo Stato dalla responsabilità. Tutti i discorsi sulla detassazione ad esempio, che non hanno immediatamente una connessione diretta con la questione delle disuguaglianze, in realtà ce l'hanno e ce l'hanno in modo molto pesante. Il modello dominante è quello di uno Stato che è sempre più leggero che al limite dà più risorse ai cittadini e chi ce li ha decide come investirle. Bisogna cercare secondo me di non autocolpevolizzarsi, voi siete una parte, posso dire, la crema dell'attenzione su una serie di problematiche. A me ha molto colpito il fatto che da molti di voi sia partita questa autocritica sulla mancanza d'informazione, sul bisogno di approfondire. Il problema è che questa autocritica non è ovviamente generalizzata. Allora può essere utile, spero, cercare di distinguere i livelli dei discorsi, ci sono delle responsabilità macro che stanno in alto, che riguardano le scelte politiche, che riguardano il governo, che riguardano il fatto di votare o non votare persone che fanno certe cose o non ne fanno altre, e sono delle questioni che stanno al di sopra delle nostre singole esistenze di persone impegnate e motivate. Poi ci stanno delle questioni che dipendono e ne sono venute fuori molte, da un livello che è invece quello dell'interazione tra i giornalisti. Ma c'è ancora un altro aspetto che vorrei che vi sollevasse un po' dalla responsabilità sulle conseguenze di quel che si produce e vi volevo proporre un giochetto che in realtà è pensato da un genio della comunicazione. Allora se voi prendete un foglio, vi disegnate 9 punti equidistanti e provate ad unirli. Perché vi sto facendo fare questa cosa? Che cosa c'entra con le cose che ci siamo detti oggi? C'entra perché nella nostra testa 9 punti equidistanti evocano quelli che si chiamano i freni cognitivi, gli schemi mentali. Nella nostra testa scatta l'immagine di un quadrato, un quadrato non ci sta lì, ma noi per riuscire a rispondere a questa domanda, è una stupidaggine evidentemente, dobbiamo uscire dal quadrato. Vi sto dicendo che ci sono dei meccanismi che attiviamo in modo automatico che fanno parte del nostro patrimonio culturale. Per uscire da questi quadrati che abbiamo nella testa secondo me è importante che come individui sviluppiamo delle dimensioni collettive, ne parliamo insieme, ci confrontiamo, facciamo formazione, facciamo discussione, veniamo a Capodarco, cioè ci confrontiamo sulle cose, perché in realtà di molti dei quadrati con i quali ci ritroviamo a ragionare non riusciamo a fare i conti perché è difficile vederli.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.