Confronto con David Rieff e Alberto Negri. Conduce Jacopo Zanchini
David RIEFF
Giornalista statunitense, scrive su varie testate. In Italia ha pubblicato Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario (Carocci, 2003). Nel 2006 uscirà Sulla punta del fucile (Fusi orari). Ha anche curato Crimini di guerra (Contrasto/Internazionale, 2003) insieme a Ray Gutman.
ultimo aggiornamento 02 dicembre 2005
Jacopo ZANCHINI
Giornalista di Rai Radio Tre, dove conduce il programma “Tutta la città ne parla”.
ultimo aggiornamento 18 aprile 2012
Giovanni NEGRI
Segretario dell’Associazione Stampa Lombarda.
ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007
Jacopo Zanchini*
Stasera parliamo di giornalismo umanitario, ammesso che abbia senso questa definizione, e di giornalismo nelle crisi umanitarie soprattutto negli ultimi 15 anni, di come è cambiato il modo di rapportarsi alle tragedie, sia di quelle provocate dall'uomo che dalla natura; analizzeremo anche come il mestiere di giornalista e un po' anche quello di operatore umanitario sono cambiati, evoluti e forse abbiano preso delle strade strane, su cui bisognerà cercare di riflettere anche alla luce della crisi irachena. Innanzi tutto presenterei i nostri ospiti. David Rieff è un giornalista statunitense piuttosto noto, scrive per molti giornali e ha passato 6 mesi l'anno scorso in Iraq per il New York Times Magazines e ha scritto vari e importanti reportages. Ha scritto per le edizioni Carocci "Un giaciglio per la notte - il paradosso umanitario", che è un libro che consiglio a chiunque sia interessato alle questioni del diritto internazionale umanitario e al rapporto tra le organizzazioni non governative e la politica oggi. Sta per pubblicare con Fusi Orari "Sulla punta del fucile - sogni democratici e interventi armati", un altro libro sempre intorno alle questioni umanitarie e agli interventi armati, alla luce anche della crisi irachena. Alberto Negri, giornalista de Il Sole 24Ore, ha seguito come inviato le principali crisi delle aree mondiali ed è un giornalista con esperienza internazionale ragguardevole.
Cominciamo un attimo a ragionare con David Rieff sul giornalismo oggi nelle crisi umanitarie. Come è cambiato negli ultimi 15-20 anni il giornalismo dopo la caduta del muro, nel rapportarsi a tragedie che sono sempre più umanitarie e che vengono trattate però molto spesso allo stesso modo, che siano tragedie naturali o tragedie invece provocate dall'uomo?
David Rieff*
Prima di tutto grazie per avermi invitato. Mi sento un po' un pesce fuor d'acqua perché non sono sicuro che quello che devo dire sarà di qualche aiuto per voi.
La discussione tra giornalismo e 'umanitarismo' è molto intima, è molto delicata, dipende molto da varie cose, è anche ambivalente. I giornalisti hanno bisogno degli operatori di soccorso per entrare nelle zone di crisi. A meno che non sei un membro di un'organizzazione molto potente è difficile entrare ad esempio nel sud del Sudan, o in altri luoghi di atrocità. La maggior parte di noi generalmente lavora come free lance e noi con il passare degli anni in queste crisi dipendiamo molto dalle Ong come ad esempio Medici senza frontiere o dalla Caritas. Dall'altro lato però i gruppi Ong hanno bisogno di persone come voi e me per far si che le notizie circolino. Loro ci danno ospitalità d'informazione e sperano che noi raccontiamo la storia, pubblicizziamo l'evento a cui sono interessati.
Per ognuna delle parti è un affare necessario, però è anche un affare poco soddisfacente per entrambi, perché dal nostro punto di vista, dalla parte dei giornalisti, forse il soggetto umanitario non è la cosa principale a cui si è interessati. Forse noi siamo più interessati nella politica.
Mentre gli operatori umanitari sono più interessati a migliorare l'accesso per il soccorso umanitario, a salvare vite umane, senza porre importanza alcuna alla politica.
La guerra fredda, le guerre, le guerre sono le guerre di oggi in cui il contesto umanitario probabilmente è diventato più importante poiché se si guardano molte delle presenti guerre vediamo che c'è come obiettivo strategico la pulizia etnica, se paragoniamo le guerre di oggi a quelle di ieri vediamo che la pulizia etnica è una delle basi, una delle cose che ritroviamo. Un altro elemento è quello della conquista del territorio, questa è un'altra delle definizioni tradizionali della guerra, probabilmente le guerre vecchie erano delle guerre con cui avevamo diciamo più familiarità.
Jacopo Zanchini*
David Rieff dice che le guerre diventano sempre più guerre di pulizia etnica e di conquista. Paradossalmente dopo la fine della Guerra Fredda forse la guerra torna ad essere di tipo antico e di tipo molto violento contro le popolazioni civili. Il giornalista si trova in prima linea a dover raccontare queste tragedie e ha un ruolo molto importante, è un mediatore decisivo, è quasi un metro con cui si misura la gravità delle crisi, lo è stato per la Bosnia, il Kosovo in maniera diversa per l'Afghanistan e in maniera un po' paradossale, poi ci arriveremo, lo è per l'Iraq. Nel vostro mestiere di inviati e di corrispondenti di guerra come si misura questa difficoltà?
Alberto Negri*
Non lo so, ognuno se la misura un po' come vuole a seconda di cosa può, di chi è, di chi non è, di quale cultura ha, di quali esperienze tiene, di quali sensibilità più o meno maggiori sente. Io ho dei dubbi che esista un giornalismo umanitario, ma forse esiste un giornalismo umano e anche su questo ho dei dubbi.
Vedo qui molti giovani alcuni probabilmente all'inizio del mestiere e hanno dei contratti umani di lavoro? No, spesso non hanno dei contratti, quindi bisognerebbe già avere un giornalismo umano che presupporrebbe in un mondo altamente utopico che i giornalisti fossero nella posizione di poter raccontare sempre quello che vedono, rafforzato dalle proprie coscienze, dalle proprie opinioni, dalle proprie sensibilità. Occorrerebbe quindi avere dei media che fossero slegati dal potere economico-finanziario, come invece lo sono la gran parte nel nostro paese e nel mondo. Occorrerebbe che parte di questi media non fossero in gravi difficoltà economiche, vediamo le grandi difficoltà che stanno attraversando i quotidiani europei, alcuni dei più importanti come Liberation e Le Monde Diplomatique e anche altri. Occorrerebbe un quadro che in qualche modo rendesse umanamente più possibile fare questo mestiere.
Dall'altra parte poi occorrerebbero dei referenti che sappiano almeno vagamente di che cosa si parla. L'altro giorno stavo partendo per lo Sri Lanka, accendo la televisione e vedo un servizio da Nassiryia che annuncia una missione umanitaria del nostro esercito in un villaggio di cui non si fa naturalmente il nome. La troupe parte, arrivano su un ponte, si vedono in lontananza delle donne irachene, ma molto in lontananza perché il campo è sempre stretto, non si vede mai intorno e uno pensa: ma questo villaggio dov'è? Si fermano su questo ponte e il servizio si chiude con un'intervista a una soldatessa italiana. Hanno portato gli aiuti in un villaggio iracheno che non si è mai visto, di cui non si è sentito mai il nome e in questo servizio neanche un iracheno. Si parla di giornalismo umanitario, ma prima di tutto ci vorrebbe un giornalismo che racconti la verità. David prima ha detto una verità importante: abbiamo a che fare per esempio con la pulizia etnica, i Balcani sono stati il trionfo della pulizia etnica, anche se diciamoci la verità, abbiamo caricato i Balcani a volte di colpe che non hanno, adesso c'è l'Iraq. Cosa si tratta di fare in Medio Oriente?
Jacopo Zanchini*
Io vorrei domandare una cosa che mi sembra importante a David Rieff; torni varie volte nei tuoi libri sul fatto che viviamo in un'epoca di diluvio d'informazioni, siamo informati in tempo reale su quello che succede, ma fondamentalmente non capiamo più o meno niente. Il problema dell'informazione oggi rispetto al passato è che noi la riceviamo in tempo reale e quindi in tempo per fare qualche cosa, in teoria. Questo cambia un po' il ruolo del giornalista. Il giornalista in prima linea che racconta potenzialmente può influenzare l'opinione pubblica, può premere sui governi perché si faccia qualcosa però allo stesso tempo il giornalista è costretto a semplificare, talvolta a brutalizzare i fatti, talvolta a raccontarli in maniera troppo sommaria. È giusto questo pessimismo sulla professione? E da cosa nasce?
David Rieff*
Beh…il pessimismo è una conclusione empirica volendo. Non credo di voler parlare del pessimismo, certamente voglio rispondere alle tue domande, perché se io fossi al posto tuo anch'io farei le stesse cose, ovvero porre domande, però devo dire che quello che tu stai dicendo è un pochino romantico in relazione al giornalismo. Non credo che ci sia stata un'età d'oro del giornalismo in cui eravamo onesti, puri, innocenti e oggi invece c'è Berlusconi, Murdoch ecc., ed è tutta una merda, è un'idea troppo romantica del passato e io non credo a questo. Penso che dobbiamo porci domande difficili, non dobbiamo semplicemente lamentarci. È possibile per gli esseri umani sentire il tipo di altruismo ed essere interessati a 20 diverse crisi? Questo è il nostro lavoro e noi dobbiamo andare a raccontare. Forse siamo un po' deformati dal fatto che lo facciamo e potremmo anche fare qualcosa di valore, una persona che è cresciuta ad Ancona o a Boston o a New Orleans solamente perché ha l'accesso alle notizie, ha davvero la capacità di preoccuparsi di queste crisi? Non sono molto sicuro che questo sia il tipo di versione, di idea di solidarietà che dovremmo adottare, sono piuttosto scettico del fatto che sia umanamente possibile, non siamo delle macchine di altruismo, non siamo così, in quanto esseri umani. Il fatto è che c'è troppa informazione. Ho passato molto tempo attaccando legiferatori, politici del governo, dei governi, ma siamo seri, se noi vogliamo parlare seriamente ad esempio del Darfur che è un evento piuttosto strano a livello anche morale, io posso rendere il Darfur molto complicato, mi bastano 5 minuti, ma non penso che dire: "ah è terribile quello che sta succedendo nel Darfur" deve poi corrispondere al fatto che me ne dispiaccia. Non è la stessa cosa di sapere ciò che può essere fatto. Io credo che viviamo in un'era in cui i nostri mezzi intellettuali e morali, ma anche pratici sono divenuti molto inferiori rispetto alle nostre ambizioni morali, ecco una delle realtà del nostro mondo.
Jacopo Zanchini*
C'è troppa informazione e c'è tutto sommato una distanza troppo grande tra quelle che sono le nostre esigenze morali e quella che è la realtà del mondo che è molto più complicata e molto più difficile da affrontare. Abbiamo la sensazione di poter far tutto mentre non è così…
Alberto Negri*
Prima David diceva: è vero non bisogna prendersela troppo con il presente , perché in fondo c'è sempre stato un grande cinismo in questo mestiere e tutto sommato forse oggi va meglio di ieri, perché ieri c'erano 3 giornali e oggi ce ne sono 30, ci sono 50 televisioni invece che 5, c'è la rete, c'è internet. Qui tutti vogliono capire cosa succede in Africa, cosa succede in Iraq, in Iran, ma è sul fronte interno che bisogna combattere e sui rapporti di forza che vanno modificati. È inutile andare a parlare di interventi umanitari quando si prende la guerra in Iraq, è inutile parlare del Sudan e del Darfur continuando a dire poveretti, quando sappiamo benissimo che è una delle tante guerre del petrolio e che non è cominciata ieri, ma sta andando avanti da 15 anni. Sono rapporti di forza che devono essere modificati. Se si riescono a modificare i rapporti di forza dentro da noi, forse riusciremo a fare qualche cosa fuori.
Un esempio paradossale è il convegno tenutosi a Tunisi sulla libertà di internet, in un paese dove c'è un signore che sta chiuso in una stanza, il presidente della Repubblica Ben Alì, che con delle cuffie sta ad ascoltare quello che raccolgono i servizi segreti, addirittura hanno due server di internet con un sistema con delle parole chiave che blocca le e-mail e le legge automaticamente prima di essere inviate. Questo è il paese che ha ospitato il convegno sulla libertà di internet… Tutte queste sono cose che si sanno, che si dicono, io invece vorrei vedere di più, vorrei vedere un maggiore impegno giornalistico anche su questo aspetto, cioè su quello che avviene qui nel nostro Paese. Perché se non sappiamo quello che avviene qui io mi domando che cosa interessi poi sapere quello che avviene fuori. Il problema infatti non è Berlusconi, come dice Rieff, il problema è tutto un sistema di concepire il potere che deve essere cambiato, forse allora cambierà anche il giornalismo.
Jacopo Zanchini*
Allora come si esce da questo, il senso della professione giornalistica sugli esteri oggi quale è? E' possibile oggi raccontare crisi complicate?
David Rieff*
Certamente è possibile parlare di crisi complicate la questione non è se si può parlare di una crisi complicata, ma ci sono 40 crisi complicate nel mondo al momento, oggi. C'è una possibilità di cambiare le cose in modo fondamentale all'interno del proprio paese, del vostro paese rispetto a intervenire in altri paesi, questo è un fatto. Io non penso che questo possa essere dibattuto. L'umanitarismo ad esempio, adesso non parlo di giornalismo umanitario cosa di cui sono piuttosto scettico, ma l'umanitarismo, l'azione umanitaria è un emblema della disfatta, perché significa raccogliere i pezzi dopo che le cose sono state distrutte, quindi anche sostenere l'azione umanitaria significa accettare il fallimento, la sconfitta. L'umanitarismo non è un modo di cambiare il mondo, è un modo di prendere e raccogliere tutti i pezzi, in un modo limitato ovviamente.
Ciò che si fa è aiutare le persone dopo un disastro e si aiuta queste persone a sopravvivere. Credo che dobbiamo essere molto modesti quando pensiamo a cosa può fare l'umanitarismo, ma anche a cosa può fare l'attivismo per i diritti umani in altri paesi, penso che ci sia una grande dose di irrealismo su questo tipo di temi….
Jacopo Zanchini*
Lei ha analizzato come è cambiato il mondo dell'aiuto umanitario in questi ultimi anni e come questo è stato percepito dalle opinioni pubbliche occidentali in modo diverso e come dalla Bosnia al Kosovo già ci sia stato un grosso passaggio del rapporto tra il potere politico e le organizzazioni internazionali umanitarie. Ci può brevemente raccontare, anche alla luce della sua esperienza, quello che accade sul campo per esempio in Bosnia e poi successivamente in Kosovo, ecc?
David Rieff*
Storicamente in Europa l'umanitarismo è un movimento che è nato dalla scontentezza.Sto parlando dell'umanitarismo diciamo laico, non parlo della Caritas o di gruppi di questo tipo, parlo di Medici senza frontiere o gruppi del genere. Questi gruppi infatti sono stati fondati da persone dell'estrema sinistra, con l'obiettivo di trasformare il mondo e poter aiutare in maniera indipendente e dignitosa. Non avrebbe cambiato il mondo, ma avrebbe reso il mondo un posto migliore. Questa era la motivazione originale alla base e forse doveva in qualche modo mitigare, non impedire, non arrestare, ma mitigare gli eventi più terribili che avvenivano nelle varie parti del pianeta, è stata una visione molto attraente soprattutto in Europa negli anni '80 e all'inizio degli anni '90. Il prestigio dell'azione umanitaria è diventata enorme, c'è stato uno studio in Catalogna nel '93 in cui si è chiesto: qual è la professione che rispetti? E i giovani con grande percentuale hanno nominato quella legata agli operatori di soccorso e agli operatori umanitari. Circa il 25% dei giovani ha nominato l'attività dell'operatore umanitario come il lavoro più ammirato.
I governi sono anche riflessione dell'umore popolare e l'azione umanitaria è diventata anche una base, una giustificazione fondamentale e importante per i governi. Una società post-cristiana, un posto del genere deve avere un fondamento forte. E qual è il fondamento dell'Unione Europea? La democrazia, i diritti umani, l'azione umanitaria. Queste sono le sue parole chiave. Penso che i governi sono stati attratti dall'idea dell'azione umanitaria ed hanno pensato ad un certo punto che l'umanitarismo è troppo prezioso per essere lasciato agli operatori umanitari, noi paghiamo i conti, il fondo economico per l'aiuto umanitario è la Commissione Europea, l'ufficio della commissione europea per l'umanitarismo. Questo è il donatore più grande in tutto il mondo.
Sono stato a Bruxelles e molte persone lì dicono: noi paghiamo i conti perché non dobbiamo dire come far funzionare queste cose? Dal punto di vista americano, dell'amministrazione Bush, è diventato molto chiaro che una giustificazione umanitaria era molto convincente per il pubblico in generale. George Bush anche per l'Afghanistan - guerra che l'amministrazione avrebbe potuto giustificare solamente su basi tradizionali - ha utilizzato la giustificazione umanitaria, perché sapevano che è molto persuasiva per le persone e forse anche per loro stessi, non voglio farla sembrare una cospirazione, perché non credo ci siano delle cospirazioni, credo però nei modelli. Non è che tutti la mattina si svegliano hanno un incontro e dicono: andiamo ad aiutare queste persone, andiamo ad aiutare quest'altre. Innanzi tutto devi raccontare a te stesso delle storie, poi le racconti agli altri, ecco come penso che funzioni il mondo vero. Il processo è molto sviluppato, si ha un mix di azioni umanitarie e militari in Iraq, in Afghanistan, in Sierra Leone, non voglio lasciare solamente le cose agli americani, guardate anche all'Onu e agli inglesi in Sierra Leone, ci sono molti esempi. Se ci fosse stata un'invasione del Darfur per arrestare il genocidio, allora ci sarebbe anche lì un mix, una miscela di umanitarismo e intervento militare. Penso che questo è il modo in cui le cose sono andate avanti per diverso tempo e non vedo ci sia alcuna probabilità che queste cose cambino.
Jacopo Zanchini*
Rieff fa riferimento a una sorta di tradimento del movimento dei diritti umani che si sviluppa da una costola dell'estrema sinistra per portare, come dice lui, un giaciglio per la notte e poi piano piano viene assunto nell'agenda dei governi e diventa parte di una costruzione, di un consenso sui diritti umani che poi mostra delle crepe piuttosto forti. Si ripete molto spesso che l'esercito italiano è in Iraq per questioni umanitarie, questo però forse è propaganda, ma da qualche parte fa breccia, cioè nell'opinione pubblica questa cosa ha un suo riscontro. Nella sua esperienza di inviato le è capitato di assistere a questo tipo di abusi direttamente, come sbandierare i diritti umani per nascondere gli interessi o di come certe organizzazioni umanitarie inconsapevolmente si facessero usare?
Alberto Negri*
Parli con uno che è sopravvissuto probabilmente a più bombardamenti americani di chiunque in questa stanza. Il problema umanitario è dire la verità o non dirla e cercare di dirla senza condizionamenti. Lo sappiamo benissimo, anche quando non è sostenuto da eserciti, l'umanitario è una forte ingerenza nelle società, infatti gli umanitari diventano sempre più attenti, raffinati quando portano il loro aiuto, perché sanno perfettamente che si tratta di una forte intrusione in una società, soprattutto quando è un villaggio, quando l'aiuto viene gestito magari direttamente e non mediatamente dai governi. È buono? È cattivo? Ci sono sicuramente missionari bravissimi, missionari all'estero che stanno in questi posti sperduti dove non va nessuna televisione, stanno lì da 50 anni e nessuno li va ad intervistare. Cercano di darsi da fare per non far morire quei poveretti di tutte quelle malattie più stupide, più guaribili, però poi c'è un'altra storia, c'è l'altro aspetto che è il punto più mediatizzato, come quando viene fatto l'ospedale in Kurdistan o a Kabul e deve esserci tutto un movimento, la televisione, le interviste, ecc, perché? Quando uno costruisce una fabbrica a Gallarate c'è il servizio in televisione? Per un ospedale a Kabul si, che per altro è stato pagato per il 70% con i soldi della cooperazione italiana e quindi con i soldi pubblici e non da quelli dati in beneficenza. Un'altra delle cose importantissime è come si alimenta questo umanitario; Rieff lo ha scritto, ogni paese ha i suoi mezzi, ma lo vediamo benissimo, sono soldi pubblici che vanno ad organizzazioni governative che sono diventate oggi delle società appaltatrici, che subappaltano i loro lavori a delle società locali. Qual è il giornalismo umanitario dunque? Il giornalismo umanitario è questo, farvi sentire tutti più buoni.
Jacopo Zanchini*
Che ne pensa Rieff di questa cosa? C'è un gioco tra i media e le organizzazioni umanitarie? C'è un modo in cui gli uni usano gli altri, un po' a danno anche della verità e sotto la tutela dei governi?
David Rieff*
In questo libro che siete stati tanto gentili da mostrare, ho utilizzato un'epigrafe di Walter Benjamin e l'epigrafe dice: ogni documento di ogni affermazione di civilizzazione è anche una dimostrazione di barbarie. Io credo che tutto quello di cui parlava Alberto sia vero la differenza tra lui e me è che io penso anche che l'umanitarismo, l'azione umanitaria è più di questo. Perché il bambino che riceve la vaccinazione è vaccinato e vaffanculo alle telecamere. Sono estremamente contento che questo bambino abbia avuto la vaccinazione.
Non posso accettare che la parte essenziale dell'umanitarismo sia l'autocompiacimento dell'occidente e la parte di salvare le vite sia una semplice conseguenza. Non sono d'accordo su questo, anche se sono d'accordo sul fatto che molte delle motivazioni alla base dell'umanitarismo siano gli interessi soprattutto dei donatori, questo ovviamente, poi gli interessi anche degli operatori di soccorso, non penso che sia giusto dire che le organizzazioni umanitarie siano lì solamente per la gloria. Non penso che sia corretto essere troppo cinici rispetto a ciò che le persone fanno o meno, bisogna essere cinici invece per quanto riguarda i governi, su quello sono d'accordo, bisogna essere sempre cinici sui governi. C'è una mistura di interessi e impulso umano, umanitario. Non credo che bisogna condannarlo.
Alberto Negri*
David dice giustamente che non bisogna essere troppo cinici. Ho visto tanti volontari darsi da fare, anche recentemente con lo tsunami, vivono anche 6 mesi, magari un anno in un brutto posto, però sul giornalismo umanitario ho molti dubbi. Quando mi chiamano per parlare di questi aspetti, a me non piace fare la bella predichetta sul giornalismo, vi racconto quel poco che so della verità e anch'io un po' da ultima ruota del carro, perché sono un terminale dell'informazione, non sono uno che decide come vengono messi gli articoli, come si scelgono gli argomenti, qual è il contorno. L'articolo dell'inviato, per tornare all'esempio di prima, lo vedete com'è oggi, prima ci sono due colonne di commento, in prima pagina, poi c'è qualcos'altro di taglio; l'articolo dell'inviato è un richiamo con un pezzo dentro, perché prima ci deve essere l'interpretazione dei fatti non il racconto, questo lo sapete bene, ne siete coscienti quando prendete in mano il giornale?
Vi racconto un episodio a proposito di Emma Bonino, ero in Afghanistan a settembre per le elezioni, a fare un'intervista a un ex ministro talebano, e intanto era arrivata la Bonino, cui bisognava dare spazio sui giornali. Io l'avrei vista probabilmente il giorno dopo quando si sarebbero svolte le elezioni e lei avrebbe girato per i seggi, come poi è stato. Però per garantirsi il suo spazio sul nostro giornale non hanno chiamato me per fare l'intervista alla Bonino che era lì a Kabul, da Milano le hanno telefonato per farle un'intervista di 110 righe, prima delle elezioni, anche se sarebbe stato interessante farlo il giorno dopo per avere delle impressioni sui risultati. È così che funziona il meccanismo dell'informazione. L'inviato è una sorta di idraulico che viene chiamato quando si rompe il tubo. C'è la guerra, c'è qualche altra cosa, viene chiamato e diventa il terminale di questa faccenda qua, ma i veri giochi non si fanno lì davanti a lui. Lui racconta una realtà che può essere più o meno interessante, più o meno bella, più o meno brutta, ma è importante che venga presa e "sussulta" prima dentro a quel tubo e poi viene risputata fuori, però in modo che sia ben incanalata. Funziona così. Per questo che purtroppo non esiste il giornalismo né umanitario, né di guerra, né di sport, non esiste nessuna qualificazione in realtà di questo mestiere, se non avere perfettamente la coscienza di chi si è e di chi non si è, di come funziona il sistema soprattutto. Se conosci il sistema, come funziona, puoi cercare in qualche modo a volte di evitare le cose più penose. La mia lettura non è in negativo. Vi dico tutto ciò perché molti di voi lo sanno benissimo, sono intelligentissimi, sanno tutto di questa roba qui.
Il giornalista testimone non esiste più da un giorno ben preciso che è il 17 gennaio, nella notte tra il 16 e il 17 gennaio del '91, quando hanno trasmesso la prima guerra in diretta, il giornalista ha finito di essere un testimone, ma è diventato una parte in causa, per questo che non esiste più qualificazione del giornalismo e soprattutto lì, in quelle situazioni il giornalista è sempre di più una pedina di quel gioco. Un giornalismo sempre più personalizzato che invece di raccontare quello che ha davanti molto spesso si racconta. È più facile raccontarsi in prima persona e si vendono più libri e più servizi televisivi.
Jacopo Zanchini*
Vorrei sentire adesso Gianluca Orsini di Peace Reporter. Mi sembra interessante un attimo sentire la voce, dato che è stato evocato lo tsunami e le tragedie umanitarie, di qualcuno che ha fatto il giornalista in questo contesto.
Gianluca Orsini*
Sono tornato tre giorni fa dall'Indonesia , ero andato con il collega Luca Galassi e abbiamo visto, a un anno dallo Tsunami ancora 200 mila persone che non hanno casa, 80 mila case da costruire e meno di 10 mila già costruite. Quello che ci ha più colpito rientra anche nel tema della meraviglia, di quello che uno non si aspettava di trovare. È che io avevo il mito dell'intervento umanitario delle Ong, degli operatori umanitari che vanno a fare il bene. Poi invece arrivi là e vedi i " bulé ", loro ci chiamano bulé , che sono i bianchi, gli occidentali che girano con questi grandi 4x4 con i vetri oscurati, con il driver, con l'antennone del satellitare davanti, dormono nelle ville con l'aria condizionata, un mese di affitto costa quanto un ricco indonesiano pagherebbe per un anno una villa.
L'economia di questi posti viene stravolta perché anche le Ong pagano i lavoratori del luogo 4 o 5 volte quello che loro guadagnerebbero, infatti lo stipendio medio è di 50 dollari, mentre le Ong pagano 300 dollari. Anche noi da cronisti per trovare un interprete abbiamo sperimentato dei prezzi che erano 4 o 5 volte quello che costerebbe in un altro paese, perché lì c'è l'economia ONU. Il governo indonesiano per coordinare tutto lo sforzo umanitario e la ricostruzione paga tutti i dirigenti in media tra gli 8 e i 9 mila dollari puliti al mese, perché comunque sono in un'area disagiata. Abbiamo intervistato un signore di un'organizzazione che si occupa di microcredito che permette ai guidatori di risciò, le motociclette con le quali fanno i tassisti, di riscattarli con una sorta di leasing e lui denunciava appunto questo sistema dicendo: i buléstravolgono tutto perché pagheranno 4 volte quanto noi paghiamo i locali, noi continuiamo a pagare lo stesso stipendio che guadagnerebbero se non ci fosse stato lo tsunami. Al che noi gli abbiamo chiesto: ma secondo lei uno di questi signori che è venuto qua quanto potrà guadagnare? Lui diceva: non so immaginarlo, una cifra per me inimmaginabile.. Sollecitato ha detto: forse guadagneranno 900 dollari al mese. Al che noi siamo rimasti un po' di ghiaccio, ci abbiamo pensato se dirglielo che un junior che si è appena laureato prende 4000 dollari netti con l'indennità di trasferta, il driver locale che lo porta in giro. Il nostro compito sarebbe quello di affidare l'intervento a chi è più vicino al territorio, conosce le Ong locali, sa come operano, sanno come intervenire senza stravolgere un'economia e senza avere quel senso un po' di paternalismo neocolonialista, giustificandoci col dire che loro non sono in grado di organizzare questo sforzo umanitario.
David Rieff*
Vorrei tentare semplicemente di complicare un po' di più le cose. Vorrei tornare alla mia sottolineatura alla menzione di Walter Benjamin, sulla civilizzazione appunto e sulla barbarie, perché è importante sapere che un governo che è competente e che può avere a che fare con le cosiddette crisi umanitarie nel proprio paese, generalmente non accetta l'aiuto esterno, il migliore esempio è l'India. L'India ha una struttura di risposta ai disastri ottima e quindi è stata inclusa anche nello tsunami. C'è stato un grande sforzo da parte dell'autorità indiane che non hanno accettato aiuto esterno. Dall'altro lato però anziché affidarsi a delle Ong indonesiane e fare in modo di dare loro i mezzi per sviluppare questi problemi io mi sarei affidato meglio ad esempio una cooperazione con l'Italia. Ho fatto uno studio sulle relazioni a questo sistema, ovvero portare queste persone al di fuori del loro sistema economico locale, ho parlato di questo problema ad alcuni membri delle Ong e loro ne sono consci. Credo che l'umanitarismo ha fatto questi errori sempre. Fiona Terry ha scritto un libro il cui titolo è "Condannati a ripetere" dove sottolinea proprio il fatto che questi errori si fanno sempre, in continuazione. Credo però che non sia giusto descrivere questa situazione come una situazione neo-coloniale, soprattutto perché in un posto come l'Indonesia si ha a che fare con delle persone ribelli, con dei ribelli che gestiscono il paese, quindi la zona e le persone, queste sono le stesse persone che gestiscono i settori sanitari, commerciali, ecc. Se dovessi scegliere tra il " bulé " e i ribelli locali, io prenderei la banalità dei bulé , prima di tutto. Vi do un esempio dello Sri Lanka. Ho lavorato in Sri Lanka poco dopo lo tsunami, per quanto riguarda la risposta al disastro una delle cose peggiori che è successa è stata la decisione non di utilizzare i soldi loro stessi, ma di dare i soldi al governo di Colombo, al governo dello Sri Lanka, che è un governo estremista. Questi soldi hanno confermato la guerra e hanno fatto attuare questa guerra in modo permanente. Nei prossimi 10 anni la storia dello Sri Lanka sarà basata su questi miliardi di dollari che sono stati messi nelle mani del governo di Colombo e della guerriglia del nord. Bisogna essere molto autocritici, usare molta autocritica
Alberto Negri*
E' interessante quello che diceva adesso David sullo Sri Lanka. In effetti è così. L'intervento umanitario non doveva sia da una parte che dall'altra, cambiare l'equilibrio. Poi c'è un'altra cosa interessante che notavo, guardando un po' le cifre. Uno non si aspetterebbe per esempio che un fenomeno come lo tsunami che ha provocato 40 mila morti, 6-700 mila sfollati, avesse un impatto sulla crescita economica del paese. Ha avuto un impatto, invece, ma non negativo, anzi positivo. Innanzi tutto se uno legge la crescita economica ufficiale vede che il paese ha continuato a crescere economicamente e poi molto cinicamente, ma io l'ho sentito dire, ci si augura un altro tsunami perché così arrivano un sacco di soldi. Lo tsunami in qualche modo ha fatto quasi da volano economico, oltre che della corruzione che non ve l'accenno neppure perché è cronica in quei posti.
Jacopo Zanchini*
Vorrei invitare Roberto Natale, segretario dell'UsigRai a commentare qualcosa su questo dibattito e poi a darci anche una buona notizia.
Roberto Natale*
La prima cosa apparentemente rischia di dar ragione al radicale scetticismo del collega Negri, ed è la vicenda del Niger, permettetemi di tornarci un attimo a proposito di giornalismo umanitario. Ieri Zizola ci ha detto di come il giornale per il quale lui lavora avesse rifiutato il reportage sul Niger. Sulla vicenda del Niger c'è stato quest'estate uno studio che credo dobbiamo tenere a mente, come vergogna della categoria. Medici Senza Frontiere ha commissionato all'Osservatorio di Pavia uno studio sulla presenza dell'emergenza umanitaria del Niger dentro i principali Tg italiani, 7 Tg Nazionali, nei mesi di luglio e agosto. I dati li cito a memoria perché come si dice, ne è ancora viva in me l'impressione. Nei mesi di luglio e agosto sui 7 Tg nazionali, 3 Rai, 3 Mediaset e quello de La7, l'emergenza umanitaria del Niger ha preso 19 minuti. Siccome la conoscenza è sempre roba di relazione, questo dato va messo in relazione con altri fatti e prendo ad esempio il delitto di Brescia, un efferato caso di cronaca nera in cui un tizio ammazza squartandoli gli zii. In quello stesso periodo ha occupato in quei 7 Tg nazionali ben 7 ore e mezzo. Il gossip ha preso 11 ore e 29 minuti. Dati vergognosi. C'è un elemento però ancora più vergognoso ossia che i dati di attenzione al Niger si sono impennati nel mese successivo quando in quel Paese si è recato il sottosegretario agli esteri Margherita Boniver. Lo scandalo non sta nella presenza del governo, lo scandalo sta in una scelta giornalistica per la quale decidi di occuparti di un tema, mandi le telecamere solo quando c'è un ministro, un sottosegretario, quello è l'elemento vergognoso, quella è una storia da tenere davvero a mente.
Seconda storia quella di Rai News 24; torno anche qui su un tema che ieri è stato toccato, il reportage su Fallujia. Non credo che dobbiamo vivere una contrapposizione tra il parlare di Fallujia e il parlare della Val di Susa, c'è posto per tutti, credo che non si tratti di aggettivare il giornalismo o di localizzarlo in determinate aree, soprattutto se pensiamo alle ore che dedichiamo, come ricordavo adesso, ai temi finti come i gossip. L'inchiesta su Fallujia di Rai News 24, che dentro la Rai ha avuto qualche problema, ha ricevuto riconoscimenti dalla BBC, è entrata negli editoriali del New York Times, e stiamo ancora aspettando 25 giorni dopo la messa in onda per la prima volta di questa inchiesta, che il vertice Rai, presidente e direttore generale, trovino il modo per manifestare un piccolo apprezzamento per un servizio che ha fatto il giro del mondo; evidentemente lì si è andati a toccare un nodo per il quale il vertice aziendale ha ritegno ad esprimersi. Per intenderci, è lo stesso vertice aziendale che pure su altre cose si sta muovendo non dico bene ma meglio rispetto al vertice passato, ma è comunque lo stesso vertice che due mesi fa ha trovato modo due volte per apprezzare pubblicamente, con tanto di comunicati in agenzia, il lavoro di Anna La Rosa per il programma Alice. Anche qui c'è spazio per tanti tipi di giornalismo, ma se apprezzi la messa in onda di Alice, forse c'è anche modo per spendere un grazie persino orgoglioso per il lavoro che Rai News 24 ha fatto.
La buona notizia è questa: con molti di voi ci incontriamo qui , ci incontriamo alla Perugia-Assisi, insomma ci si trova spesso a parlare di temi che s'intrecciano. Sapete che da questa area civile, professionale, sindacale era nata 2 o 3 anni fa la richiesta al servizio pubblico, di dare un segno di attenzione ai temi del sud del mondo, che avevamo simboleggiato nella richiesta di una nuova sede Rai in Africa; sapete che la Rai ha una presenza ad Al Cairo e nient'altro. Questa comune battaglia, mi sento di dire a bassa voce, sta producendo un risultato, nel senso che un mese fa è stato deciso dal vertice aziendale di avviare la costituzione di questo secondo punto di riferimento per la Rai in Africa, non si chiama ancora sede di corrispondenza con tutto ciò che di stabile questo prevede, ma comunque è un segno di attenzione; è stato scelto in questi ultimissimi giorni anche il collega che dovrà occuparsene. Per intenderci, non vogliamo correre il rischio che il servizio pubblico si metta questo fiore all'occhiello e poi il collega che va lì magari rimanga ad aspettare l'arrivo dei sottosegretari che capitano in quel paese, per poter meglio dar conto dell'attività del governo. Insieme alla Tavola della Pace, con la quale questa richiesta è maturata insieme alle riviste missionarie, Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di Pace, contiamo di spingere il vertice aziendale a un incontro nelle prossime settimane in cui ufficialmente la Rai assuma l'impegno con noi, perché l'indicazione di un secondo punto di corrispondenza in Africa abbia poi un riscontro anche in una maggiore presenza all'interno dei palinsesti, fare in modo cioè che questi temi davvero comincino ad entrare di più nella programmazione del servizio pubblico. A questa buona notizia c'è una coda che riguarda specificamente questo luogo, perché con la Tavola della Pace, le riviste missionarie, coloro che hanno partecipato ai giorni di preparazione della Perugia-Assisi, al seminario sull'informazione che abbiamo tenuto a Perugia il 7 settembre, con questo stesso schieramento è nata l'idea di provare a mettere insieme un'iniziativa stabile di formazione sui temi della pace, il rapporto tra pace e informazione. Faremo un incontro a Roma per annunciare la giornata che ci sarà a marzo, mi piace qui dire che questa iniziativa di formazione stabile sui temi della pace, tra noi la chiamiamo in gergo "La Capodarco della pace". Mi sembra che sia un bellissimo riconoscimento alla stabilità del lavoro che abbiamo eseguito in questi anni.
Jacopo Zanchini*
Mi sembra maturo il momento di parlare di Fallujia e dell'Iraq. Volevo domandare a David Rieff che è stato in Iraq l'anno scorso e che è arrivato da New York stamattina se si è avuto eco dell'inchiesta su Fallujia e che opinione si è fatto lui su quello che è accaduto veramente.
David Rieff*
Questo è il tipo di giornalismo che io non pratico, poiché non ero a Fallujia durante la battaglia, quindi non vi dirò cosa effettivamente penso che sia successo a Fallujia perché la risposta è: non lo so. Posso parlarvi di come è stato scoperto questo fatto negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia, posso dirvi qualcosa di qualche speculazione che ho sentito perché non ero lì. Sarebbe assurdo da parte mia dire cosa penso che sia successo, questa è strettamente cosa che i giornalisti non dovrebbero fare, questa è la differenza tra un giornalista e uno che non lo è, ovvero una persona che scrive così tanto per scrivere. Non so che cosa è successo a Fallujia, probabilmente neanche voi lo sapete, a meno che voi non siete stati lì effettivamente, a meno che voi non siete appunto dei corrispondenti che lavorano lì.
È interessante dire che il rapporto che è stato messo in discussione da persone che sono molto critiche circa le operazioni militari degli Stati Uniti a Fallujia non è riuscito. È servito come pretesto per le coloro che altrimenti non sarebbero stati disposti a pensare male dei militari americani. Ha messo in discussione il modo in cui gli americani stanno conducendo questa guerra. Sto parlando degli Stati Uniti. Certamente i militari Usa hanno rigettato, hanno detto che non hanno utilizzato il fosforo bianco. I militari americani hanno detto: no, non è stato usato così, era legale il modo in cui l'abbiamo utilizzato. Il fatto che hanno ammesso di averlo utilizzato era stata una cosa scioccante per molti americani che avevano una vista più positiva. Il fenomeno più importante, è che il documentario sembra aver aperto una conversazione negli Stati Uniti, un dibattito e certamente anche nel Regno Unito, in relazione al modo in cui la guerra è stata combattuta da parte del lato anglo-americano. Certamente questo è stato un dibattito importantissimo, di grande valore, soprattutto negli Stati Uniti, in cui non c'è la grande opposizione alla guerra che invece c'è in questo paese ad esempio, o in Germania. Ci sono alcune storie che permeano e alcune storie, alcuni articoli che invece non passano, che non interessano, come ad esempio quella relativa sugli americani che hanno o meno sparato sulla macchina di Giuliana Sgrena e del funzionario dei servizi segreti, uccidendo una persona, certamente è stata molto importante qui, ma non particolarmente importante negli Stati Uniti, non era certamente sulla pagina principale, in prima pagina, non ha provocato un cambiamento, un'ondata d'urto, non ha avuto gravi conseguenze in termini di dibattito. La questione sul fosforo bianco, ha preso un posto più importante, più rilevante, perché è venuta in un momento in cui c'era un passaggio dell'opinione, un cambiamento dell'opinione degli Stati Uniti. Questo cambiamento sarà permanente? Non lo so, tecnicamente George Bush ha ancora 3 anni, può ancora fare quello che vuole come presidente, ma questa è un'altra questione.
Comunque sia dopo 15 anni in giro per il mondo a seguire l'umanitarismo e le guerre, una cosa che ho imparato è di non parlare di cose che non ho visto. Dobbiamo insistere sul privilegio del giornalista, o l'empirisi del privilegio del giornalista, ovvero pensare di sapere ciò che sta davvero succedendo. Ho visto una pagina editoriale e articoli scritti da persone che dicevano cosa succederà in Iraq. Io che ho passato molto più tempo in Iraq rispetto alla maggior parte delle persone che hanno scritto quegli articoli, credo che per l'Iraq potrebbero esserci 5 diversi scenari futuri plausibili, forse anche più di 5, ma certamente 5 e comunque non oserei dire quale secondo me sarà.
Alberto Negri*
Voglio utilizzare queste ultime battute per dire una cosa che serve soprattutto in questo paese per avere una migliore informazione su Fallujia e su qualunque altra cosa, o perlomeno su alcuni temi principali. La nostra informazione si deve concentrare su tre obiettivi: gli Stati Uniti, il Vaticano e Israele.
Gli Stati Uniti perché rappresentano naturalmente la potenza nei confronti della quale tutti i governi italiani, tranne alcuni che hanno pagato duramente il prezzo, hanno mostrato e mostrano pubblicamente maggiore sudditanza. Questo ha una conseguenza anche sull'informazione, perché tutto ciò che in qualche modo dà fastidio agli Stati Uniti, molto spesso sui nostri giornali viene trattato come una sorta di auto-censura e questo spiega perché la questione di Fallujia è stata per giorni e giorni ignorata, è stata ignorata perché non bisognava dare fastidio agli americani e poi solo secondariamente anche alle nostre truppe a Nassiryia, ma questo secondariamente, perché gli americani sono già irritati dalla nostra presenza inutile a Nassiryia, inutile militarmente.
Passiamo al Vaticano. Perché? Perché il 90% degli argomenti di carattere etico e morale che ci sono in questo paese devono passare dal Vaticano. Devono essere approvati dalla Cei, dalla Conferenza Episcopale, in un paese in cui la separazione tra Stato e Chiesa non si è ancora fatta.
Vengo al punto finale. Per avere una migliore informazione su Fallujia, l'Iraq, il Medio Oriente, bisogna innanzi tutto che si abbia un rapporto nuovo con Israele, e lo vedete bene dalle corrispondenze della nostra televisione italiana, come molte di queste siano fortemente condizionate. È un condizionamento forte, continuo che rasenta l'influenza indebita esercitata dentro gli affari di un altro paese e sapete benissimo tutti di che cosa sto parlando. L'informazione che passa di quel paese sulla nostra stampa è ridicola al confronto di quella che passa sul resto d'Europa. È poco obiettiva, poco informativa e condizionata pesantemente. Se si vuole avere dell'informazione buona in questo paese, su quello che passa dentro, su quello che passa fuori, bisogna togliersi questi tre pesi.
Jacopo Zanchini*
Alberto Negri evoca Israele, vorrei invitare Giorgio Bernardelli, giornalista di Avvenire a raccontarci del suo libro "Oltre il muro" che proprio lì si svolge, tra Israele e i territori palestinesi.
Giorgio Bernardelli*
Credo, riprendendo un po' la provocazione prima di Rieff , che non si può chiedere a una persona normale di prendersi a cuore e spendere la proprio volontà per 40 situazioni nel mondo.
La cosa paradossale del contesto Israele-Palestina, è che questa è la situazione su cui probabilmente si è scritto di più negli ultimi 50 anni e se guardiamo il rapporto fra la grandezza del paese e il numero di persone che questo conflitto coinvolge, non ci sono paragoni tra la copertura in termini quantitativi dell'informazione data al conflitto Israelo-Palestinese e tutti gli altri conflitti sparsi per il mondo. Questo a dimostrazione di come il problema non sia solo una questione di quantità e le cose che diceva adesso Negri sono abbastanza evidenti, il problema è appunto andare dentro alle situazioni e cercare di spiegare in un conflitto come quello Israelo-Palestinese, dove l'informazione stessa diventa un'arma, andare a spiegare numeri, date, cifre, cose. A me viene in mente un esempio molto concreto che è quello del muro, un muro che abbiamo visto nelle nostre televisioni tantissime volte, perché è un'immagine ad effetto, però nessuno ha ancora capito che quel muro non separa gli israeliani da una parte e i palestinesi dall'altra, questa è una finzione, perché in realtà non è neanche possibile tracciare una linea che divida così, ci sono migliaia di israeliani anche dall'altra parte del muro e migliaia di palestinesi dalla parte sbagliata.
Credo che in questo contesto, tanto per spezzare una lancia anche in favore delle Ong,quelle locali stanno esercitando un ruolo importante. Sono realtà che fanno molte volte l'informazione che altri non fanno, un solo esempio: la storia di un rabbino che è il direttore di un'associazione. Uno potrebbe pensare alle tante associazioni buoniste che provano a realizzare l'incontro tra israeliani e palestinesi, ed è anche questo, ma questa associazione sta facendo una cosa molto concreta su un tema spinosissimo che è quello della demolizione di case palestinesi a Gerusalemme est. Per farla breve è quel tema su cui è venuto fuori quel famoso rapporto che sta preparando la Presidenza inglese della Commissione dei Ministri degli Esteri e l'Unione Europea e che il nostro ministro degli esteri non conosce, non sa, non vede… A Gerusalemme est c'è un problema molto forte di case demolite neanche per ragioni di sicurezza, ma semplicemente perché sono state costruite abusivamente, perché la municipalità di Gerusalemme non rilascia licenze edilizie a un arabo. Se un arabo vuole costruirsi una casa o lo fa abusivamente o non se la costruisce. Questo rabbino ha fatto resistenza passiva di fronte a una di queste demolizioni e ha portato con questo gesto, il problema delle discriminazioni urbanistiche a Gerusalemme est in tribunale, c'è stato un processo e alla fine lo hanno condannato. Quanto di questa storia abbiamo letto sui giornali italiani? Neanche una riga.
Il problema a questo punto è che noi possiamo fare anche pagine su pagine sulle situazioni, però se questa che è senza ombra di dubbio una notizia, non viene considerata tale, io non so più che cos'è questo mestiere. Io sono d'accordo su tutto quello che si dice sulle carovane che vanno a seguito dei ministri, però è una questione di scelta, questo a dimostrazione che c'è comunque e sempre anche una responsabilità personale di chi fa informazione, perché anche le opportunità si possono utilizzare.
Antonella Casini*
Lavoro ad "Italia solidale", siamo un'associazione che opera sia sulla fame dello spirito qui nella nostra società, sia sulla fame nel corpo in 85 missioni dell'Africa, del sud America e dell'India. Ci sono 30 mila bambini che ogni giorno muoiono di fame e nella nostra società in 3 anni siamo passati da 121 milioni a 340 milioni di depressi. La metà delle nostre famiglie sono divise ed io trovo una relazione profonda tra questa sofferenza, l'incapacità di essere solidali e l'incapacità di esprimere delle proposte valide. Quindi è per questo che noi abbiamo scelto di lavorare non tanto con le strutture, organizzazioni Ong, ma da persone per le persone. E penso che noi che stiamo sul campo non dobbiamo aspettare che solo i giornalisti facciano giornalismo umanitario, ma dobbiamo portare la nostra esperienza. In tanti anni che lavoro non mi sento di dire che tutti i giornalisti sono insensibili. I giornalisti aspettano dei contributi, ci sono quelli insensibili e quelli sensibili. Quindi faccio un appello a tutti gli operatori del settore per potenziare questa sinergia.
Daniela Ducoli - Radio Montecarlo*
Vengo qui dal '95, forse un po' il rischio è quello di dirci quanto siamo bravi, quanto siamo buoni, quindi Alberto grazie. Una domanda però perché nessuno grida "il re è nudo?" Nel senso che oggi nei vari workshop si è parlato della responsabilità soggettiva. Per esempio io ho seguito il lavoro sull'istruzione, le distanze tra ignoranti e colti. Si diceva che un insegnante ha il diritto certamente di gridare che la scuola fa acqua da tutte le parti, ma non può sottrarsi al suo dovere d'insegnare bene con tutta la passione e l'energia che ha. Non voglio sottrarmi alla mia piccolissima responsabilità di piccolissima giornalista, di una piccolissima radio, però credo che tocchi, soprattutto a un'autorevole firma, di un'autorevole testata, con autorevoli editori, dire queste cose; ma soprattutto, non sono così ingenua da non capire che non si può urlare questa cosa su alcuni poteri e su alcune lobby, però nel confronto delle Ong che seguo da un sacco di anni, ho visto del buono e del cattivo.
Alberto Negri
Sull'informazione il problema da noi è fondamentale. Negli anni '70 io non mi accorgevo che molti di noi facevano già il giornalista, perché producevano della controinformazione. C'erano addirittura dei fogli, ciclostilati all'epoca, che si chiamavano "Quaderni della controinformazione". Si cercò in qualche modo di produrre dell'informazione che non fosse legata direttamente al sistema di potere. Purtroppo non ci sono stati gli spazi, faceva parte di un'esperienza che fallì dal punto di vista politico, ideologico e fu anche poi triturata da una notevole repressione. Io penso comunque che da allora sia rimasta in molti questa voglia, questa volontà di non cadere vittime totalmente anche di questa situazione. Prima accennavo a quei 3 fronti e lo dicevo proprio perché purtroppo si sono sperimentati molto bene, si sperimentano tutti i giorni sulla nostra pelle.
David aveva detto che non dobbiamo piangerci troppo addosso, dobbiamo essere noi in qualche modo a tirarci fuori dalle situazioni e avere un'informazione migliore è proprio cercare di non cadere vittime di una sorta di auto-censura che sembra ormai dentro i geni del giornalista che viene prodotto dal nostro sistema. Bernardelli lo diceva molto bene, non c'è bisogno propriamente di essere supini, sdraiati e via discorrendo, poi certamente chi lavora, magari in organizzazioni come la vostra, in gruppi come questi, può sentirsi più supportato. Io incido solo nel momento in cui vado sul posto e racconto i fatti come li vedo, punto, poi quando torno qui non ho nessuna incidenza e nessuna influenza, se non fare del volontariato. Quelli che potrebbero farlo ragazzi lo avete visto che idee hanno, le conoscete le vere firme, quelle che dirigono i giornali…
Intervento
Ci state un po' demolendo le Ong, e una cosa che chiedo a Negri: quando "insinuava" la non assoluta trasparenza di un'Ong, io ho pensato che si riferisse a Emergency, volevo capire se era questa la Ong a cui si faceva riferimento e perché. La seconda cosa che volevo chiedere a Rieff è: Bush è stato rieletto dopo che sono state stabilite alcune cose tra cui il fatto che di armi di distruzioni di massa non ce n'erano, come se lo spiega?
Alberto Negri*
Si, hai ragione, io facevo riferimento a Emergency, l'ho anche scritto in un articolo da Kabul.
Su Fallujia lì non ci ha fregati nessuno, le cose erano chiarissime. Negli anni dell'embargo, come tanti altri giornalisti, abbiamo spulciato credo centinaia, migliaia di pagine sull'argomento dell'arsenale chimico di Saddam, ma la cosa più istruttiva era naturalmente per un inviato andare regolarmente ogni anno in Iraq e cercare di vedere come andava il paese e cercare di capire anche economicamente come potesse sostenere una macchina bellica. L'Iraq non era più in grado di sostenere una macchina bellica e soprattutto legata per esempio alla produzione di armi chimiche che comunque richiede delle spese molto grandi. Nessuno però era assolutamente certo di questo.
David Rieff*
Secondo me la cosa importante sono le persone sul luogo, del luogo, locali. La cosa importante non è il fatto che noi ci sentiamo più o meno volontari. Nell'aiuto umanitario, nell'aiuto allo sviluppo credo che la professionalizzazione sia essenziale se si vuol dare un buon servizio alle persone che si vuole aiutare. La cosa importante è dare un buon servizio. Certamente capisco che tutti quanti siamo frustrati dalle bruttezze che avvengono nel mondo, ma le persone sanno che devono lavorare bene. Molte persone sono vive oggi grazie anche all'intervento militare. Ad esempio molte persone sarebbero morte nello tsunami se non ci fossero stati gli elicotteri a trasportarli di qua e di là.
Cosa dovrei dire infine dell'America che sarebbe di qualche interesse in questa sala?Gli Stati Uniti sono un paese molto diviso a livello politico. Il margine di vittoria di Bush era stata piuttosto stretto, piccolo, rispetto alla seconda elezione, è un altro paese, veramente non si può parlare di un consenso in relazione alle cose più importanti. Non credo che ci sia da sorprendersi per il fatto che un paese che non mai stato attaccato e che invece attacca, ha ancora un certo atteggiamento di panico 4 anni dopo l'11 settembre, non mi piace ma credo che storicamente è perfettamente comprensibile, credo che potrebbe anche essere inevitabile, perché mi sembra che negli Stati Uniti abbiano una tradizione particolare di non avere guerre sul proprio suolo, ma forse bisogna essere un americano per capire il tipo di shock cognitivo che ha portato l'11 settembre negli Stati Uniti, perché ovviamente l'11 settembre non è una buona cosa, non è giusta, però è un dato di fatto e in queste circostanze l'idea che un presidente che ha offerto soluzioni semplici e sicurezza attraverso l'azione militare è stato rieletto con un piccolo margine, non mi sembra sia una grande sorpresa, soprattutto quando il suo oppositore è un candidato piuttosto debole.
Jacopo Zanchini*
Credo sia importante dire una cosa prima di concludere; non era intenzione di questo dibattito né di David Rieff, demolire le organizzazioni non governative, bensì argomentare il rapporto che le organizzazioni non governative hanno oggi con il potere politico e anche l'evoluzione che queste hanno avuto negli ultimi 15 anni dopo i Balcani, l'Afghanistan e l' Iraq. Il dibattito è stato complesso e difficile e forse un po' sfaccettato e se è così me ne scuso, perché lo dovevo dirigere io. Ringrazio tutti quelli che sono intervenuti, innanzi tutto ringrazio David Rieff e Alberto Negri, ringrazio anche chi è intervenuto e ha fatto delle domande e la Comunità di Capodarco che ci ha offerto questo spazio e infine spero che uscirete da qui con un punto interrogativo e non con una disillusione totale.
* Testo non rivisto dall'autore.