XII Redattore Sociale 2-4 dicembre 2005

Meraviglia

Presentazione del Bando Premio Paola Biocca 2006

Interventi di Daniela De Robert e Federica Margaritora

Daniela DE ROBERT

Daniela DE ROBERT

Giornalista, lavora alla redazione esteri del Tg2. 

ultimo aggiornamento 18 aprile 2013

Federica MARGARITORA

Federica MARGARITORA

Giornalista. Conduce "Buona la prima", programma di attualità giornalistica su Radio InBlu.

ultimo aggiornamento 30 novembre 2011

Daniela De Robert*

Del premio Biocca io sono una grande sostenitrice, non solo perché ho vinto una edizione, cosa che mi ha fatto molto piacere, ma perché credo che sia un'occasione enorme di cimentarsi con un genere che non usiamo nei nostri giornali, che è il reportage, un genere particolare che offre delle possibilità.
Paola Biocca non la conoscevo direttamente, conoscevo i suoi scritti, avevo letto "Buio a Gerusalemme" , il romanzo che ha vinto il premio Italo Calvino e leggevo e aspettavo come un appuntamento quotidiano quella sua rubrica sul Corriere della Sera "Diario umanitario" . Erano brevi articoli in cui lei, che si trovava in Kosovo con il Programma Alimentare Mondiale, riusciva in poche righe a raccontarci un'altra faccia del paese in quei giorni, una realtà che gli inviati non ci raccontavano. Sicuramente amava molto la vita, sicuramente era molto appassionata delle cose di cui scriveva.

Con quegli articoli e con il seminario Redattore Sociale, io ho scoperto la vita quotidiana . Sembra una cosa stupida, ma ho scoperto la meraviglia della vita quotidiana, l'andare oltre, il vedere dietro, i piccoli gesti, le piccole cose, una realtà più grande. Guardare il piccolo secondo me è una cosa importante. Ho provato a guardare una realtà di cui si parla anche molto, il carcere, qualcuno mi parlava del grande silenzio sul carcere ma non è vero che c'è silenzio, di carcere si parla molto sui giornali, quasi quotidianamente, si parla di alcuni estremi del carcere, si parla della cronaca nera, ogni tanto si parla della cronaca bianca, di belle iniziative, si parla quando ci sono personaggi eccellenti, ma cosa sia il carcere nella sua quotidianità non lo sappiamo. Ho provato a raccontare questo, ho provato ad ispirarmi a grandi autori che qui avevo conosciuto, incontrato, apprezzato come Svetlana Aleksievic , una giornalista che ha fatto dei grandi reportage, uno particolarmente bello mi ha colpito molto su Chernobyl ma non quello della centrale che esplode, ci ha raccontato di come è cambiata la vita per gli abitanti in quel paese, cosa è stato Chernobyl per chi ci viveva ed è un altra Chernobyl che noi non conosciamo, ha svelato un altro volto della realtà. Ho provato a fare questo sfruttando un'esperienza ventennale in carcere da volontaria, di raccontare quello che non si racconta, di svelare quello che non si vede, che non si può vedere se non si conosce a fondo.

Un elemento importante del reportage è che bisogna conoscere molto bene la realtà , bisogna immergersi, mantenendo la distanza ma standoci dentro fino in fondo e ho provato a dilatare i dettagli, come dice Kapuscinsky, insomma ho provato a raccontare i rumori del carcere. Ogni volta quello che mi colpisce quando entro in carcere è il rumore, un rumore costante, continuo, che comincia con la porta blindata che sbatte e ogni volta che sbatte è come una campana che segna di nuovo la divisione tra chi è dentro e chi è fuori e questa porta sbatte in continuazione, perché a differenza di quanto pensiamo, in carcere c'è un grande movimento, un viavai di gente che entra ed esce: entrano ed escono agenti, volontari, direttori, educatori, psicologi, cappellani, detenuti che vanno e tornano dal permesso, i nuovi detenuti, le persone a fine pena, è un continuo movimento, ogni volta è una porta che sbatte e ogni volta viene segnata questa distanza tra il mondo del carcere e la società libera, come la chiamano i detenuti. Il rumore continua, perché in carcere non c'è mai silenzio, si urla sempre, si urlano i nomi dei detenuti che vengono chiamati a colloquio, per parlare con l'avvocato, all'infermeria, si sentono le televisioni che urlano, si urlano la rabbia, i giorni da contare, si urla quando uno viene liberato, si urla da una cella all'altra, da una sezione all'altra. Io ricorderò sempre le prime volte in cui mi dicevano: se vuoi parlare con qualcuno vai dall'agente e te lo fai chiamare. Sono andata diligentemente dall'agente della sezione gli ho detto: mi può chiamare tizio? Pensavo che alzasse un citofono e lo chiamasse, si è alzato invece l'agente è andato ai piedi della sezione di 4 piani e ha fatto un urlo disumano per chiamarlo e questo urlo si è ripetuto, il carcere è tutto un urlo, non c'è mai silenzio.
La forma di protesta più diffusa in carcere è la battitura delle sbarre, perché è un modo per urlare e per far sentire la propria voce. Spesso una voce muta perché nessuno la riprende. E poi fanno urlare il loro corpo con l'autolesionismo che è la forma di protesta individuale più diffusa. Si tagliano, si tagliano le braccia, si tagliano il petto, si cuciono la bocca, s'impiccano, o simulano l'impiccagione, qualche volta si sbagliano e muoiono sul serio.

Ho provato ad osservare gli sguardi dei detenuti. Ho visto in questi anni che lo sguardo della persona prigioniera è uno sguardo mutilato, è uno sguardo che non conosce più l'orizzonte, è uno sguardo che sbatte sempre contro un muro, che non ha più prospettiva lunga. E allora succede che quando escono in permesso, quando escono a fine pena, questo sguardo che non ha più un limite, non sa più dove andare, gli si ritorce contro e si sentono male, gli gira la testa. La prima volta che ho accompagnato un detenuto in permesso, un pittore che aveva 8 ore di libertà dopo 8 anni di detenzione, ho pensato di fargli vedere tutta Roma, l'ho portato al Gianicolo, gli ho fatto vedere un panorama meraviglioso, lui è tornato in carcere e ha vomitato, perché non reggeva più lo sguardo. Lo sguardo ti fa capire come cambia il corpo di una persona prigioniera. Ho provato ad osservare le parole, si è parlato molto di parole in questo seminario. Le parole sono indicatori di una realtà. Il mondo del carcere è un mondo dove si usa un linguaggio per bambini, tutto è in ino : la persona che è addetta a ricevere le richieste della spesa interna si chiama spesino, il modulo, che è il cuore della vita penitenziaria, con il quale si richiede di fare un colloquio, di studiare, di comprare la mozzarella, qualsiasi cosa passa attraverso questa domandina, poi c'è l'indultino. Sofri chiama il carcere "carcere-asilo d'infanzia". Attraverso il linguaggio si vede come le persone adulte sono trattate come dei bambini. In carcere la responsabilità è bandita, non puoi decidere nulla, mai. Tu puoi chiedere. Puoi chiedere di studiare, puoi chiedere di parlare, puoi chiedere di uscire in permesso, puoi chiedere di parlare con un volontario, puoi chiedere di andare a messa. Questa è la vita dei detenuti.

Federica Margaritora*

La prima volta che sono andata in Africa per fare il mio reportage sul Sudan , non sapevo dove stavo andando, solo dopo me ne sono accorta; sono stata contenta ad un certo punto di essermi fatta coraggio, perché avevo una paura tremenda prima di partire, andavamo dentro le capanne, non in un albergo a 5 stelle, andavamo insieme ai missionari in una zona di guerra e la cosa mi spaventava; eravamo un gruppo di fotografi e giornalisti con dei missionari che ci portavano e dovevamo fare comunque un tragitto un po' pericoloso, dovevamo passare una frontiera clandestinamente con un piccolo aereo che volava a rasoterra, atterrare su una pista da go-cart e poi comunque sopportare delle difficoltà per me fino ad allora sconosciute e trovavo comunque anche la stessa emozione in persone che venivano e che dicevano: ma no, io sono già stato qui, sono già stato là…
Comunque secondo me la cosa è che uno a un certo punto si deve decidere, prendere il coraggio, la valigia, lo zainetto, quello che volete e andare, perché è vero che se non si va non si vede, nel senso che specie nelle realtà più lontane, ma anche in quelle vicine, ci devi andare dentro. La cornice è importante, nel senso che bisogna avere dei fondamenti dietro anche per reggere le varie situazioni, quindi è ovvio che bisogna avere una preparazione, un minimo di preparazione culturale, ma anche psicologica. Sono delle realtà sconcertanti in cui bisogna andare armati secondo me di voglia di capire, di vedere, quello che ti porti poi quando torni non può essere mai quello che ti aspettavi ed è la grande ricchezza, è lo stare fermi che non va bene. Il giornalista si deve muovere, deve andare. Questo premio è una grande occasione.


* Testo non rivisto dall'autore.