XI Redattore Sociale 26-28 novembre 2004

Nascondigli

L'arte di ascoltare e il mestiere di raccontar

Marino Sinibaldi intervista Marianella Sclavi

Marino SINIBALDI

Marino SINIBALDI

Direttore di Rai Radio Tre, dove ha lavorato per molti anni inventando e conducendo, tra l’altro, la trasmissione “Fahrenheit”. Dalla prima metà degli anni 1980 collabora in veste di autore e conduttore a programmi culturali radiotelevisivi della Rai. Dal 2014 al 2017 è stato Presidente del Teatro di Roma. È tra i fondatori della rivista "Linea d'ombra"; è autore di saggi di storia e di critica letteraria, collabora con quotidiani e periodici. Ha pubblicato nel 2014 per Laterza il libro “Un millimetro in là. Intervista sulla cultura” (a cura di Giorgio Zanchini). 

ultimo aggiornamento 10 ottobre 2018

Marianella SCLAVI

Marianella SCLAVI

Docente di antropologia al Politecnico di Milano. Ha scritto “Arte di ascoltare e mondi possibili” (Bruno Mondatori Editore, 2003).

 

Marino Sinibaldi*

Cominceremo col raccontare quant'è difficile ascoltare; ma cosa significa ascoltare? E cosa significa ascoltare per chi poi deve raccontare? Io trovo molto bello il titolo di questo spazio "l'arte di ascoltare e il mestiere di raccontare" e anche la differenza che viene indicata tra i due momenti. La trovo bella e non la trovo gerarchica, cioè non penso, provenendo da tradizioni volgarmente materialiste, che l'arte sia qualcosa di molto superiore al mestiere, non penso che la differenza sia gerarchica, che ci sia una superiorità tra un'arte e un mestiere, però penso che ci sia una differenza di tempi e di spazi, che è esattamente la differenza di tempo e di spazio che esiste tra l'ascoltare e il raccontare.
Questa è un po' quello che mi piaceva del titolo, la possibilità di vedere separati due momenti e quindi analizzarli meglio e poi ricomporli, perché non c'è racconto che non si basi sull'ascolto.
Che cos'è un racconto? Con il termine raccontare io intenderei tutte le modalità che noi abbiamo di rappresentare le diverse realtà, limitandoci anche solo alla rappresentazione di un paese o di una realtà come quella che affidiamo o ci attendiamo dal lavoro giornalistico.
Il racconto è una modalità molto ampia ed è legata all'ascolto. Da questo punto di vista, io penso ai modi con cui chi di professione racconta, è riuscito a raccontare il nostro paese, e per "chi di professione" racconta non intendo solo i giornalisti, ma anche gli scrittori, gli autori di cinema, oggi anche di fiction.
Il racconto del nostro paese proviene dai telegiornali. E' la somma di quello che apprendiamo dai telegiornali e dai quiz, dalle fiction che sono dei forti modelli di rappresentazione oltre che di narrazione del paese.
Esiste una scuola giornalistica di cui un sopravvissuto è Giorgio Bocca con tutta la scuola del "Giorno", che è riuscita a raccontare il paese del boom economico. Un esempio lo abbiamo nel libro recentemente uscito di Dario Di Vico "Profondo Italia": come fonte è stato usato tutto il lavoro giornalistico di quella generazione che era una generazione che camminava, andava e ascoltava, ascoltava e raccontava per esempio le prime fabbriche. Tra l'altro quei giornalisti erano coetanei di quelli che cominciavano a creare le prime fabbriche nella pianura padana, nell'Emilia Romagna, insomma giornalisti nati da quelle parti. "Il Giorno" e' stata un'esperienza molto legata a quella realtà; un'esperienza straordinaria perché formata da giovani giornalisti che venivano dalla Resistenza. Durante quel periodo ebbero il coraggio di raccontare quella che poi era stata la fine dell'Italia dopo la Resistenza, il boom economico.

Guardate le difficoltà che abbiamo oggi a raccontare il paese. Io credo che derivi da una crisi di ascolto. Già negli anni '80 abbiamo avuto una difficoltà enorme a raccontare il Paese e abbiamo potuto scoprire la nostra Italia con Tangentopoli. La realtà, la vera realtà degli anni '80 c'è l' hanno raccontata gli atti giudiziari ed è così che si è sviluppata una crisi dell'ascolto.
Da cosa dipende? Questa è una delle domande che faremo a Marianella Sclavi. Da cosa derivano le difficoltà di ascoltare? Non parliamo di censure o di rimozioni, perché io non credo sia tanto un problema di censura politica, anche se forse oggi nelle modalità di racconto del paese, quindi anche nelle disponibilità di ascoltare ci sia molto "pregiudizio". Penso però che ci siano dei mondi nascosti che non raccontiamo. A forza di chiudere gli occhi sui mondi nascosti ci succede come quando si è affetti dalla malattia chiamata la macula, quella malattia visiva per cui alla fine la zona buia si allarga molto.
Noi giornalisti non siamo riusciti negli ultimi anni a raccontare i ceti medi, non abbiamo raccontato le nuove povertà, non abbiamo raccontato i managers cinquantenni, delle persone cioè che erano il centro culturale ed economico della società. Ecco tutto questo non lo abbiamo raccontato. Quindi il vero problema è che non guardando i margini, non guardi neanche il cuore della società.
E' molto significativo che Dario Di Vico, in "Profondo Italia" apra gli occhi e guardi cose che sono al cuore delle grandi metropoli come i ceti medi, asse portante di Milano; noti ad esempio come anche la professione giornalistica diventi sempre più precaria, in linea con le attuali dinamiche del lavoro.
Voi sapete benissimo che il lavoro del giornalista era importante nella società non come nel periodo che stiamo attraversando in cui si manifesta una forte crisi dell'ascolto.
Se non si ascolta si diventa sordi, più o meno del tutto, e si finisce per raccontare cose diverse dalla realtà. E' ciò che è accaduto in questi anni. Oggi lo scontro nel nostro Paese è tra chi vuole raccontare un'Italia immaginaria e chi vuole raccontare un'Italia reale. Tra l'altro abbiamo come signore uno che è maestro dell'immaginario...

L'esito di questo incontro con Marianella Sclavi dovrebbe essere imparare l'arte dell'ascolto. Il libro contiene un decalogo dell'ascolto che leggeremo fra un po' e proveremo a far commentare.
Con l'aiuto dei giornalisti presenti in sala cercheremo inoltre di ricomporre il filo e vedere come quest'arte può produrre e può arricchire il mestiere di raccontare.
Vorrei cominciare col chiedere a Marinella Sclavi una cosa che ha a che fare con noi, oggi, qui al seminario: in queste prime due ore scarse abbiamo fatto delle esperienze di ascolto con la proiezione del filmato su Agata e sulla Comunità, con l'intervento di Giovanni Maria Bellu e don Vinicio Albanesi. Possono le due categorie dell'ascolto passivo e dell'ascolto attivo, essere applicate alle modalità di ascolto cui siamo stati sollecitati sinora?

Marianella Sclavi*

L'Occidente sta attraversando un momento di crisi verticale del modo in cui sta affrontando l'arte dell'ascolto ossia nel saper esercitare una capacità di mettersi in rapporto con l'altro e di comprensione inclusiva dell'alterità.
Oggi giorno questo vale non solo nei riguardi dei marginali, degli immigrati, vale anche fra noi, perché il processo di individualizzazione è arrivato a un punto tale per cui qualsiasi istituzione, a partire dalla famiglia, la scuola, e qualsiasi altro gruppo tende ad essere un'istituzione di soggetti che si pone con una pretesa di co-protagonismo arrivando dunque a una specie di smottamento delle strutture di autorità tradizionali.
Credo che non si possa affrontare il tema dell'ascolto senza considerare il problema, descritto anche da alcuni sociologi come Bauman, Beck, che attualmente nessuno è più disponibile, sempre in linea di principio naturalmente, ad assumersi degli impegni per la vita, compreso il matrimonio. Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che il punto di partenza di qualsiasi discorso sull'ascolto, sul racconto non è più la normalità rotta dal conflitto, ma è il conflitto, cioè si parte da dentro il conflitto: la situazione di partenza, l'incipit, è sempre una situazione in cui si osserva e le persone osservate stanno dentro una situazione di conflitto.
E allora il problema è passare dal conflitto alla cooperazione ma questo non vale più perché siamo tutti procacciatori di conflitti, suscitatori di conflitti, siamo dentro il conflitto molto concreto, specifico, suscitato da una parte e dall'altra. A partire da questo devo assumere che l'ascolto attivo sia intelligente. Se io voglio capire quello che sta facendo o dicendo l'interlocutore, devo assumere che questa persona sia intelligente e questo vuol dire accogliere un paradosso, come don Vinicio ha espresso molto bene quando ha detto: "C'è questo disagio e dare risposta al disagio significa fare miracoli". Credo che sia esattamente questo.

L'ascolto attivo è un atteggiamento in qualche modo disponibile a fare il miracolo dell'accoglienza , attraverso delle operazioni molto precise. Non è una cosa così assurda, perché ha un senso, nella misura in cui c'è un alterità, se si assume che l'altro sia intelligente. La modalità di pensiero: vero, falso, amico, nemico, giusto, sbagliato, si lascia da parte con l'ascolto attivo e si assume che entrambe le persone, composizioni antagonistiche, anche nel corpo e nelle emozioni, hanno ragione. L'attenzione si sposta dal comportamento che diventa di interesse marginale mentre prima era l'unica cosa importante mentre scatta la curiosità per l'altro che è una curiosità di indagine sulla sua esperienza, il suo mondo, su come ha vissuto, come vede la situazione alla quale ancora non so rispondere...
Però se uno vuole adottare l'ascolto attivo e magari poi scrivere delle buone storie, bisogna mettersi dalla parte dell'altro: se lui mi insulta, io mi alleo, esprimo oltre alla mia irritazione che c'è una solidarietà curiosa, di indagine perché non ti capisco e voglio capire come mai tu che sei intelligente puoi dire una cosa del genere. Tutto ciò apre un rapporto di dialogo e possibilmente di reciprocità.
C'è un esempio nel mio libro: ho dato un incarico ad uno studente di andare in una stanza e descrivermi cosa facevano dei bambini che stavano giocando sotto un tavolo. Il ragazzo va nella stanza , osserva e dice che i bambini portano sotto il tavolino dei cuscini, una lampadina, tutti i loro giochetti. Chiede "cosa state facendo" e loro rispondono che "stanno giocando alla nave, alla capanna..."
Lo studente con ciò arriva alla conclusione che le sue osservazioni erano giuste ma io gli dico che tutte questo è pre-osservazione.
La vera osservazione inizia con un conflitto, quando entra la madre e dice: "Ma che cavolo state facendo? Quante volte vi ho detto che non potete giocare sotto il tavolo in sala da pranzo, portate via tutte le vostre cose, come faccio a preparare la tavola..." La madre è leggermente isterica, ha già i suoi problemi e i ragazzi vengono fuori Ma come reagiscono i bambini? Come gestiscono questo rapporto conflittuale? Si mettono a piangere? Immaginiamo che i bambini vadano fuori e dicano: "No! Tu non puoi preparare la tavola sopra il tetto della nostra capanna! Ci abbiamo lavorato tanto!" E si oppongono... Poi dicono: "Questa è una capanna, non si può usare come un tavolo". E la mamma: "Questo è un tavolo, non si può usare come una capanna". Da qui la questione diventa interessante. È interessante capire come ne escono, come gestiscono questo rapporto conflittuale. E la descrizione diventa interessante anche per chi legge.
Ma usano l'ascolto attivo o no? Allora faccio continuare la storia per concluderla con la madre che dice: "No! Portate tutto in camera vostra in cinque minuti!" I bambini si mettono a piangere, corrono dal papà che sta in un'altra camera: "Papà... la mamma vuole distruggerci la nostra capanna!" Arriva il papà e fa il mediatore. Poi però la madre riflette e si rende conto che in fondo i bimbi hanno lavorato così tanto per costruire questa capanna, ci hanno messo tanta immaginazione, tanta cura, e dunque per una sera si potrebbe mangiare in cucina. Si posso trovare 1000 soluzioni, che però sono soluzioni che dicono: questo tavolo, anzi questa struttura, può essere vista legittimamente come un tavolo e può essere vista legittimamente come una capanna. E grazie al fatto che io accetto queste due cose, trovo delle soluzioni che ricreano dei terreni comuni.
Così l'ascolto attivo assume che siano intelligenti tutti e due. Questo spiazza e si è costretti a trovare delle soluzioni. L'idea è questa: essere dei buoni osservatori come da sempre, ma oggi in particolare, vuol dire avere un sapere della gestione creativa dei conflitti e una gestione creativa dei conflitti implica ascolto attivo ed auto-consapevolezza emozionale, quindi avere un sapere del rapporto emozioni-conoscenza.

Marino Sinibaldi*

Almeno una parte del libro analizza un'esperienza molto interessante di questi anni, soprattutto in Sudafrica ma che si tende ad estendere altrove. Mi riferisco al metodo delle commissioni come forme di riconciliazione sociale che sono delle forme di giustizia non processuale, per così dire, per recuperare l'unità senza passare attraverso il modello Norimberga.
Recuperare l'unità, la coesione e l'identità e salvare il destino di una comunità, come quella sudafricana, valorizzando molto l'elemento della narrazione ai limiti della confessione.
In questo le esperienze teologiche presenti in sala sarebbero utili, perché c'è proprio questo modello che vede la narrazione cooperare con l'elemento perfino catartico che poi è risolutivo.
Peraltro la narrazione è essa stessa terreno di conflitto, perché ovviamente la "Storia" ognuno la racconta a modo suo.
Tra due contendenti, il primo dice la sua storia, ricostruisce la sua realtà e il giudice gli dice che ha ragione; si presenta il secondo e dice la cosa opposta come in ogni contesa giudiziaria e il giudice anche in questo caso dà ragione al contendente. Allora uno del pubblico dice: ma non possono avere ragione tutti e due. E il giudice: hai ragione anche tu.
Prima di tutto vorrei sgombrare il campo da una cosa che è l'ascolto passivo o il non ascoltare, nel senso che vorrei chiederti: cosa significa "non ascoltare"? Vorrei chiedertelo partendo dalle definizioni del modello di ascolto passivo e di quello attivo. Modello di ascolto passivo: concentrare l'attenzione su azioni e proposizioni isolate.

Modello di ascolto attivo: concentrare l'attenzione su reazioni ed enunciazioni, cioè proposte e anticipazioni di risposta.
Primo modello: interrompe l'altro.
Secondo modello: lo lascia parlare.
Primo modello: nega all'altro la capacità di meta-comunicare, cioè di precisare la cornice relazionale dentro la quale dice quello che dice.
Secondo modello: riconosce all'altro la capacità di meta-comunicare, cioè assegna grande importanza a tutti i segnali meta-comunicativi.

Marianella Sclavi

Cosa vuol dire essere auto-referenziali? E' quando un soggetto parla con un'altra persona, anzi quando quest'altra persona pensa di aver capito al volo e non ha bisogno di chiederti, di verificare, non ha bisogno di interloquire perché ti legge nel pensiero, sa cosa pensi. In secondo luogo, sa che cosa è meglio per te e per tutti, quindi non ha bisogno di indagare insieme agli interlocutori per capire meglio il problema. In terzo luogo, sa come si attuano quelle decisioni, cioè sa i modi impliciti ed espliciti, formali e informali con i quali si procede poi per fare le cose. Quindi è una posizione di totale auto-referenzialità, ti legge nel pensiero, sa che cosa meglio, non solo a livello singolare ma anche a livello del pubblico, della gente, dei problemi della città, dei cittadini, ecc. A questo punto non hai più bisogno di interloquire e di ascoltare.
Io lavoro spesso con i politici perché mi occupo di programmi di risanamento dei quartieri in crisi,. Faccio la consulente di ascolto del territorio, di ascolto dei cittadini, dei programmi inclusivi di progettazione partecipata, degli spazi pubblici, ecc. Spessissimo mi trovo in situazioni in cui sembra di parlare con un muro di gomma. Oltretutto parli ed hai questo senso di irrilevanza totale dovuta al fatto che l'interlocutore sa già tutto: è irrilevante quello che stai dicendo.
L'ascolto passivo lo si vede bene a scuola, se voi pensate alle insegnanti. Sempre, ovviamente, nello stereotipo molto preciso che è quello dell'insegnante che sa, dello studente che non sa; l'insegnante che giudica uno studente quando dice qualcosa e lo raffronta con quello che lei già sa, e se coincide, allora significa che lo studente è preparato e gli dà un bel voto ma se lo studente dice qualche cosa che non rientra in quello che l'insegnante si aspetta che dica, viene corretto.
Invece l'ascolto attivo richiederebbe che pensasse diversamente. Ad esempio, se l'alunno ha scritto bello con una "l" sola ed è intelligente, come ha interpretato il compito? Forse per lui era importante tenere la riga, cioè il suo obiettivo non era la parola bello o un'altra, ma era scrivere in maniera diritta. La parola era estremamente secondaria. L'insegnante dovrebbe apprezzare il suo sforzo, poi correggere la "l" mancante. Mentre se ogni volta che sbaglia lo corregge e sempre sulla base delle sue proprie interpretazioni, arriverà il momento in cui odierà la scuola, questo è sicuro.
Questo vale per il bambino piccolissimo che impara a parlare, per l'alunno delle elementari, vale per il rapporto tra politici e cittadini, vale nelle istituzioni e vale nei rapporti sociali in generale.
Insomma, l'ascolto attivo è un modo di rapportarsi. Significa soprattutto assumere che l'altro sia intelligente proprio quando invece ci sembra che non lo sia. C'è un gioco di emozioni da imparare, da conoscere; un modo di leggere le proprie emozioni che è molto importante e che ci aiuta a capirle. Aiuta a descrivere le emozioni delle persone che si intervistano, che si osservano, le cui storie dobbiamo raccontare.

Marino Sinibaldi*

Non dirò banalmente che nel fare informazione bisogna separare i fatti dalle emozioni . Non è così e penso oltretutto che sia impossibile, anche se non ne sono del tutto sicuro. Mi viene in mente che sia più o meno l'obiezione che Calvino faceva a Sciascia, sul suo modo di narrare. Mi rendo conto che è una questione abbastanza complicata, ma perché pensi che l'emozione sia decisiva nell'ascolto attivo? Perché l'emozione non è qualcosa che interferisce tanto quanto un pregiudizio nell'ascolto?

Marianella Sclavi

Noi siamo abituati a pensare, spesso non c'è stato detto ma è scontato nella nostra società, che le emozioni disturbano la conoscenza e che quindi una buona conoscenza è quella cui abbiamo represso le emozioni, specialmente quelle negative.
Questa è una cosa quasi data per scontata; ma cosa intendiamo per emozioni e come le interpretiamo.
Le emozioni vengono intese normalmente come delle forze che spingono ad agire, delle forze viscerali, ideologiche che io devo reprimere, specialmente se sono negative. Un esempio: se io provo l'emozione ossia l'impulso di strozzare mia madre e penso che quest'emozione mi spinga a strozzarla, allora a questo punto devo reprimerla perché altrimenti compirei davvero il fatto, devo quindi reprimere l'emozione e guardare le cose con più freddezza e con la ragione.
Però c'è un altro modo che non è assente dalla storia del pensiero occidentale. Io cito William James, autore di "Principi di psicologia", un grande pensatore della psicologia sociale e del costruttivismo il quale sostiene che le emozioni non sono delle forze che ci spingono ad agire, ma sono una consapevolezza, un emergere alla coscienza: "guarda che il tuo corpo sta danzando questa danza che consiste, riprendendo l'esempio di prima, nello strozzare tua madre". Quindi le emozioni, anche le più negative, sono nostre amiche che ci informano di una cosa molto particolare: di come il corpo è impegnato ad interpretare una situazione concreta e contingente.
Questo guardate che è importantissimo se uno opera con delle persone violente che vedono come unica strada di uscita dalle situazioni di disagio o di conflitto la reazione violenta. E' proprio in tali casi che bisognerebbe interpretare le loro emozioni in modo completamente diverso e liberatorio.

Mi posso chiedere: ci sono altre strade? Ci sono altre alternative? E quindi entro di nuovo in una epistemologia, cioè in una teoria della conoscenza che è quella dei mondi possibili. Io esploro tante possibilità che implica l'arte dello spiazzamento, che è un altro pezzettino dell'arte di ascoltare.
Come vedete, in effetti è complicato quello di cui parlo, però è fondamentale il solo fatto di interpretare le emozioni come amiche, anche quelle più violente, più disastrose, ovviamente nel momento in cui si manifestano ossia quando ancora possono essere definite irritazioni, rancori che potrebbero diventare odio, mentre quando è già odio diventa molto più complicato.
La auto-consapevolezza emozionale è tale se si esercita subito, appena si manifesta, perché lì è più facile da modificare. Quindi interpreto questi emozioni come una possibilità messa in atto dal mio corpo in una situazione di relazione specifica, come un elemento conoscitivo fondamentale relativo agli scenari che i corpi continuamente mettono in atto per comunicare.
Anche questo è un pezzo di epistemologia abbastanza assente nel mondo occidentale, avendo quasi totalmente eliminato il corpo e le emozioni.
Questa settimana è uscita sulla rivista "L'Internazionale" una bellissima intervista a Kapuscinski che analizza la teoria di Marinoski, l'antropologo polacco che ha inventato "l'osservazione partecipante", cioè il fatto che io possa capire un'altra cultura solo se metto lì la mia tenda tra gli abitanti condivido la loro vita quotidiana e sbatto la faccia in continuazione con una serie di conflitti, di dissensi, di malintesi. Quindi è attraverso questi spiazzamenti che io capisco l'altro e comincio a cogliere l'alterità. Troppo complicato?

Marino Sinibaldi*

No, non credo sia complicato questo, ma sarà complicato poi tradurlo in narrazione. Adesso vorrei soffermarmi su un esempio che lei fa sul suo libro quando scrive dei medici tedeschi di fronte ai pazienti turchi. Nella cultura tedesca un malato non deve essere affaticato, nella cultura turca va trattato come uno sano. Nella cultura tedesca, che poi è la nostra, va isolato e trattato con discrezione, nella cultura turca non va isolato dalla comunità. Nella cultura tedesca gli si parla a bassa voce e il meno possibile, nella cultura turca gli si parla ad alta voce cercando di tenerlo allegro.

Marianella Sclavi

C'è un altro esempio nel mio libro che è quello di una ragazza, Francesca, che va a fare la commessa in un negozio di pelletterie a Londra e quando incontra la zia, alla domanda "Cosa stai imparando da quest'esperienza a Londra come commessa?" Francesca risponde: "C'è una cosa che mi ha colpito molto, quando entra una signora inglese e chiede un oggetto non molto comune, per esempio una cintura di coccodrillo e io dico mi dispiace ne siamo sforniti, quella signora reagisce con un movimento di trattenuta stizza come se io le avessi fatto uno sgarbo; quando entra una signora giapponese e mi dice: vorrei una cintura di coccodrillo ed io dico: mi dispiace siamo sforniti, la reazione della signora giapponese è questa: china le spalle mette la mano davanti alla bocca ed è come se mi dicesse non dovevo chiedertelo, ti ho fatto uno sgarbo a chiederti qualcosa a cui non puoi corrispondere".
Allora la comunicazione interculturale è questa: la stessa risposta "mi dispiace siamo sforniti" da una parte viene vissuto come uno sgarbo e dall'altro come l'aver fatto uno sgarbo.

La comunicazione interculturale diventa comprensibile pienamente solo se noi abbiamo una concezione della realtà come una figura multistabile che è una figura che per essere descritta deve essere vista e scritta da una pluralità di punti di vista.
C'è una scultura famosa che se la guardi da un certo punto di vista, vedi uno che suona il pianoforte, la guardi da un altro e vedi un uccello che vola, guardi da un altro ancora e c'è una scala... allora dici: cos'è questa figura? Descrivila. E per descriverla devi dire: questa è una figura che se la guardo da questo punto di vista mi appare come un pianista, se la guardo da quell'altro come un uccello e dall'altra parte la vedo come una scala.
La comunicazione interculturale è una situazione nella quale stesse cose legittimamente possono essere viste da una pluralità di punti di vista e devo fare l'analisi detta variazionale, ossia descrivere le cose da tanti punti di vista, per capire meglio e trovare delle soluzioni.
L'autore Michael Bactrim è uno degli autori che io amo di più e ha descritto in particolare lo stile di Dostojeski come uno stile polifonico oppure Rabalais per il quale il ruolo e il senso della satira e del comico nel capire la realtà diventa importante.
Vi consiglio il libro "Leggere Lolita a Teheran", nel quale viene descritto come un gruppo di donne , nella città Iraniana, durante la rivoluzione comunista, leggendo diversi romanzi di autori importanti come Fitzgerald, trasformano quell'occasione in un modo per descrivere quello che succede loro intorno. Assolutamente straordinario perché ci fa rivedere tutti questi scritti con occhi diversi, filtrati da esperienze totalmente diverse. Queste donne leggono in un modo estremamente fresco e ci illuminano. Lolita io l'avevo letta secondo il modo con cui veniva presentata. Mi dava fastidio questa ragazzina un po' stupida, vanesia, seduttiva... e poi in quel libro la riscopro. Attraverso gli occhi di quelle donne iraniane capisco delle cose che mi danno un approfondimento di quel testo che non avrei mai raggiunto se non avessi avuto questo contributo.

Marino Sinibaldi

Il nucleo fondamentale della tesi della Sclavi è che bisogna uscire dalla propria cornice ed adottare una metodologia umoristica.

Marianella Sclavi

Certo l'umorismo è importante . Quando si racconta una storia o una barzelletta, si ascolta aspettandosi da un'interpretazione scontata una battuta che spiazzerà tutti e questo creerà una risata inclusiva e ci sentiremo insieme, accomunati. Questa è la dinamica che stiamo mettendo in atto.
Con la battuta succede che si dà un senso che prima era escluso. In questo senso, la metodologia umoristica assomiglia alla comprensione interculturale perché avviene la stessa cosa quando io accolgo l'altro in un senso che prima escludevo, che non mi veniva in mente. Questa è una prima cosa.
Un'altra ragione per cui è importante l'umorismo la ritroviamo nell'introduzione di un libro di Freud: quando ascoltiamo un motto ridiamo perché subiamo un doppio spiazzamento, uno relativo al significato, al contenuto, l'altro relativo alla dinamica dell'io. Prima della battuta non solo escludevamo quel comportamento ma assumevamo che era assolutamente giusta la nostra interpretazione In pratica ci giocavamo la faccia sulla nostra interpretazione e c'imbarazza dover accettare che non era quella giusta. Dopo il motto è quindi necessario elaborare in modo giocoso, accogliere l'imbarazzo e una risata serve per scaricare il nervosismo per aver pensato che l'unica interpretazione che potesse esistere era la nostra. Ogni volta che noi dobbiamo mettere in discussione quel che diamo per scontato proviamo un profondo senso di dispetto, di fastidio e succede molto spesso. L'unico modo per gestire questo è ammettere che " è un gioco", non essendo seri. Un atteggiamento giocoso ti aiuta ad uscire dalla cornice.
Ultimo punto. L'umorismo richiede il saper raccontare delle storie e quindi creare l'atmosfera giusta. C'è chi sa raccontare barzellette e chi non le sa raccontare. Però chi sa raccontare barzellette cosa fa? Crea quell'atmosfera di gioco, di attesa giocosa di una batosta che ti mette in difficoltà e ti fa poi ridere.

Marino Sinibaldi*

Recentemente mi ha molto colpito la vicenda dell'assassinio di Teo Van Gogh in Olanda; sapete che è stato ucciso e poi con un coltello gli hanno piantato un documento sul corpo. Quello scritto era il cuore della questione, dato che Teo Van Gogh aveva mostrato in televisione un corpo nudo di donna con sopra incisi i versi del Corano. Poteva anche essere un caso isolato e uno dei tanti assassini, poi invece ha assunto un rilievo maggiore nel mondo dell'informazione dato che è successo in Olanda, una dei paesi europei più avanzati d'Europa, con una forte integrazione dovuta ad un assoluto rispetto delle differenze, un modello che storicamente ha delle radici antichissime. In Olanda cattolici, ebrei e protestanti sono convissuti pacificamente; sono stati tutti accettati ed hanno prodotto la straordinaria ricchezza di quel minuscolo paese che è stato per secoli come sapete il cuore di un impero e che è ancora il cuore di un impero finanziario enorme. Mi sembra che quel delitto abbia messo in discussione molti elementi, soprattutto quello di una società molto avanzata che non sa difendere la multiculturalità. Io ritengo che l'impallidimento delle culture non è un bene ma il rafforzamento identitario è ancora peggio.

Daniela Maccari*

Sono tornata in Italia da poco, da due anni, sono missionaria, ho vissuto in Africa e America Latina per 26 anni e mi è piaciuto il discorso sull'ascolto, proprio perché gli ultimi tredici anni in Mozambico ho lavorato nel campo della comunicazione Comunicazione sotto gli alberi: piccole scritte su carta riciclata in tempo di guerra e di censura; poi ho collaborato con una radio comunitaria che cercava di dare voce a tutti. Tornando in Italia mi ritrovo che gli stessi problemi culturali che si vivono in Africa, iniziano a profilarsi anche qui. Ciò che vorrei dire è che, noi occidentali, dovremmo avere più umiltà nel raccontare le altre culture. Non tocca ai giornalisti italiani raccontare l'Africa e in tempi di digital divided noi rischiamo di ascoltare soltanto noi stessi. Ascoltiamo noi stessi. Parliamo delle mutilazioni genitali, le giudichiamo, le definiamo, le scriviamo... il velo delle donne... io sono stufa di ascoltare questo discorso sul velo delle donne. Nessuno in Italia o qui nel nostro mondo si pone il problema dei turbanti, delle mitra dei vescovi, del velo delle suore, nemmeno una virgola; si parla del velo delle musulmane, ma nemmeno una virgola sulle papaline, sui mitra, sui turbanti che sono tutti segni di potere molto forti, molto di più del velo che si mette la donna musulmana.
Io ho imparato moltissimo dalle africane, quando ho dato loro carta e penna, hanno scritto, chi non sapeva scrivere ha raccontato che cos'è l'iniziazione alla vita, che cos'è la morte, il matrimonio.
E' inutile pensare che ci sia dell'ascolto tra i popoli di culture diverse finché non diamo e non condividiamo i mezzi, ci impegniamo a studiare quelle lingue, ci impegniamo a studiare la cultura. E' soprattutto dalla lingua che si imparano tantissime cose. Gli extracomunitari fanno la fatica di imparare l'italiano perché non ci sforziamo anche noi? Rischiamo di ascoltare soltanto noi stessi.

Valentina Melis - Radio 24* 

Lavoro a Radio 24 e condivido molte delle osservazioni che sono state fatte sull'opportunità di dare spazio all'interlocutore. D'accordissimo su ciò che si è detto sul dialogo tra culture e ascolto dell'altro. Però è vera anche un'altra cosa: secondo me noi giornalisti rischiamo di essere degli strumenti. E' vero che spessissimo vogliamo far dire all'interlocutore una cosa che ci fa comodo che dica, ma è altrettanto vero che l'interlocutore semplicemente come strumenti per diffondere le sue prese di posizione. Io sono d'accordo nel portar fuori le storie, nel restituire la dignità, il valore di ogni cultura, però anche al giornalista deve essere restituito il suo ruolo che è quello, se non è cambiato, della dottrina di controllore di poteri. Cosa vuol dire controllore di poteri? Significa non fare il portavoce.

Cinzia Sciuto*

Io ho una domanda precisa per Marianella Sclavi. Prima Marino Sinibaldi citava come esempio di applicazione di ascolto attivo le commissioni di verità e giustizia come quelle del Sudafrica. Non riesco a capire in che senso quelle commissioni possano essere degli esempi di ascolto attivo.

Marianella Sclavi

Tendenzialmente le opinioni maggioritarie hanno maggior peso delle opinioni minoritarie. Questo è il criterio dell'opinione. Il criterio dell'esperienza è totalmente diverso. Nel criterio dell'esperienza la rappresentatività è data dalla capacità di mettere sul palco, evidenziare il maggior numero possibile di esperienze differenziate. L'ascolto attivo non ha a che fare con le opinioni è proprio su un altro piano. Ha a che fare con l'esperienza. Ed è per questo che c'è il problema dell'includere. Io queste cose le adotto nella progettazione partecipata degli spazi pubblici, non sto facendo della teoria astratta, spiego delle cose che poi diventano molto concrete. Se voglio fare una progettazione inclusiva devo avere tutte le possibili esperienze di quello spazio in quel quartiere, della gente che ci passa, di quelli che ci vivono, di quelli che ci lavorano, di quelli che ci passano solo di giorno, ecc. e devo accogliere tutte queste esperienze, che sono racconti. Io devo raccogliere tutte le esperienze nella maggiore differenziazione possibile senza fermarmi a giudicare per ognuna se è giusto o sbagliato, vero falso, amico o nemico, devo solo prenderne atto. Le esperienze sono tutte vere. Lo slogan è: ogni percezione è valida in quest'approccio.
Io ascolto tutto, faccio delle domande e interrompo perché in realtà l'ascolto attivo interrompe, ma lo fa per capire. Posso anche interrompere per fare delle domande scomode, ma che sono finalizzate a capire. Fare domande aiuta le persone a raccontare le violenze subite. Il secondo criterio è quello dell'"ubuntu". Voi sapete che il concetto da cui nasce l'idea stessa della commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica ha radici in una serie di culture africane, che hanno un idea di giustizia non retributiva. Si chiama "ubuntu". Un atto violento è una rottura del tessuto sociale. Questa è l'idea che sta alla base e quindi tutti gli attori, tutti i soggetti che hanno subito questa violenza, che non è mai di due soli, ma di tutti quelli che gli stanno attorno, si raccolgono insieme, ne discutono e cercano insieme una soluzione riparatrice per riconnettere questo tessuto sociale. Questa è l'idea della giustizia restaurativa, la più famosa è quella dei Maori.
Sul concetto di "ubuntu", Mandela nei suoi 27 anni in carcere ha molto meditato fino a portarlo ad alti livelli di saggezza. Egli dice che se io odio il mio persecutore sono legato a lui, sono suo schiavo; più lo odio e più mi attacco a lui, in realtà ne sono prigioniero. Questa è l'idea, l'unico modo per liberarmene, per sciogliere il legame con lui, è il perdono ma inteso nel senso di un rituale attraverso il quale si raggiunge la riconciliazione, un rituale che non è un perdono superficiale, come non lo è in fondo quello della commissione per la verità e la riconciliazione. C'è un dover raccontare fino in fondo da parte del persecutore quello che ha fatto, con le vittime che dicono se va bene o se non va bene.

L'oggettività e la soggettività sono dei momenti del processo di comprensione, cioè non degli atti, ma delle constatazioni, delle cose che elabori nella comprensione.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.