XI Redattore Sociale 26-28 novembre 2004

Nascondigli

Resoconto dei workshop paralleli

Renato Rebuzzini, Mario Calabresi, Alexandru Cobzaru, Paolo Lambruschi, Giacomo Panizza, Santo Della Volpe

Renato Rebuzzini*

Mi pare che gli interventi siano ruotati attorno a tre grosse questioni, escluse quelle di stampo giornalistico. Anzitutto sulla questione culturale e quindi sul riuscire a cogliere che cosa fa sì che il bisogno di sicurezza da una parte e il desiderio della certezza della pena dall'altra, ponga il carcere come un assioma indiscutibile. E' emersa la consapevolezza che questa cultura si può modificare, ma occorrono tempi lunghi e certamente non la si può affrontare e vincere da un punto di vista puramente ideologico o di affermazione di principi. Questa mi pare che sia stata condivisa come la questione cruciale.
L'approccio con cui può essere individuato un percorso diverso, dal punto di vista della cultura, è quello della convenienza. E più che affermazione di principio, le domande poste, gli interventi e le risposte sono stati su questa linea. Posto che uno che ha sbagliato deve pagare, perché questa è la logica, attraverso il carcere che cosa paga? E attraverso il carcere a chi paga? La qualità di vita all'interno del carcere fa sì che uno venga torturato, ma senza pagare nulla di efficace per la società. E allora con il carcere che cosa ci guadagna la società e che cosa ci perde? Su questo punto gli interventi sono stati diversi e interessanti. Mi pare che questo approccio possa davvero lentamente far maturare una diversità non tanto tendente all'eliminazione del carcere, questo è impensabile per lo meno per un po' di secoli, ma tendente ad un reale bisogno di sicurezza di cui è necessario farsi carico, quello di sicurezza delle persone. La domanda è se l'attuale modalità di erogare le pene attraverso il carcere, per la stragrande maggioranza dei detenuti sia la strada più efficace per loro e per la società.
Il terzo grande tema che ha avuto molte variazioni è stato quello che possiamo chiamare il tema del territorio, del legame con quello che c'è fuori dal carcere. Bisogna dire che i detenuti rischiano di non avere un futuro, perché senza lavoro, senza prospettive, senza progetti, senza credibilità, senza relazioni all'uscita. Di conseguenza con ogni probabilità sono portati alla reiterazione dei reati. Allora il territorio deve essere qualcosa che va costruito in particolare attraverso le realtà di volontariato perché non c'è nient'altro che possa in qualche modo garantire una ripresa del dopo pena in termini umani se non il lavoro, la casa e relazioni che siano significative.

Mario Calabresi*

Nel dibattito è venuta fuori soprattutto una domanda che ruota intorno al come raccontare un mondo come quello del carcere che è un mondo poco presente nell'agenda dei giornali. Soprattutto è venuto fuori una cosa che è vera ed è sotto gli occhi di tutti, ossia che si tende a raccontarlo in termini scandalistici o emozionali: emergono spesso storie particolari o elementi che non ci raccontano davvero il carcere, ma solo le punte, le rivolte, i detenuti eccellenti, solo le cose che fanno scandalo. E c'è stata la questione condivisa sulla necessità di porre il tema nell'agenda dell'informazione, di dare vita a un dibattito più approfondito.
Dibattiti di questo tipo non si possono fare senza partire da cose concrete, senza farsi carico della realtà e senza interloquire veramente con chi nel carcere fa volontariato, con chi vive quel mondo, perché altrimenti si fanno discorsi filosofici, che non hanno poi davvero nessun fondamento reale. Altre persone oltre a don Rebuzzini ci hanno raccontato molte esperienze di carcere, storie, sensibilità. Quello che io ho capito è che c'è un mondo da scoprire che emerge poco.
Alcune storie appaiono sui giornali ma spesso vengono lette in modo superficiale, invece dobbiamo coglierle, non buttarle via perché le riteniamo troppo banali, dobbiamo usarle come una chiave per entrare dentro il carcere e raccontarlo.
Nell'ultimo anno si è parlato molto di carcere oltre che per il 41 bis, i detenuti eccellenti, l'indulto e l'amnistia, anche per le squadre di calcio, come quella di Opera, oppure per il teatro fatto da compagnie di detenuti, per le sfilate a Rebibbia. Tutti temi che possono apparire frivoli, che possono denunciarci che si fa un marketing, un abbellettamento della questione carcere. Si pubblicizza questo con i lettori e la stampa, quasi a dirgli: "Ma no... questa è una buona facciata, state tranquilli, il carcere funziona davvero".
Ci raccontava don Renato che nella squadra di calcio di Opera giocano venti persone: le altre 1200 rimangono fuori. Però questo serve a farci entrare in contatto con il carcere, a farci aprire la porta.
Soprattutto io penso che il ruolo dei giornalisti e dei giornali sia la capacità di dare contesti, di dare spunti, di raccontare ciò che accade realmente e di raccontare una realtà complessa in un mondo e soprattutto in un dibattito, in particolar modo politico, che lascia molto poco spazio ai contesti, all'approfondimento, che sceglie invece delle vie più facili, più dirette che sono quelle scandalistiche, emozionali. Stamattina siamo tornati spesso su un argomento: quando ci troviamo in un Paese che ha un ministro delle riforme che chiede di mettere una taglia, oppure che pensa di risolvere il problema delle carceri soltanto con l'edilizia carceraria costruendone venti in più, capite quanto lavoro c'è da fare per discutere quelli che invece sono i problemi più reali e più approfonditi. E allora, dicevamo, se non si può fare a meno di raccontare che il camorrista che ha ammazzato una settimana fa una ragazza a Napoli è uscito da due giorni dal carcere grazie alla riduzione di pena, dell'indultino. Abbiamo il dovere di raccontare questo, non possiamo fermarci lì, perché altrimenti abbiamo ridotto tutto, abbiamo criminalizzato l'indultino e abbiamo criminalizzato tutti quelli che escono dal carcere, abbiamo eliminato completamente qualsiasi possibilità della funzione non di recupero ma di socializzazione del carcere. E allora ci vuole anche la capacità di raccontare il contesto, che significa spiegare che oltre a quello che è tornato a compiere un reato appena uscito, ce ne sono 2100 che sono usciti e non lo hanno reiterato e quindi non rientreranno in galera.
Ecco questo è lo sforzo, lo sforzo di andare al di là in una società, in una politica in cui il dibattito è fatto sugli eccessi. Ritrovare una normalità in cui si torni a raccontare, a delineare il quadro e non a raccontarne solo i picchi.

Seminari paralleli - Resoconti

Il benessere "Facile". Illusione e speranze della manodopera dell'est Europa

Alexandru Cobzaru*

Nel nostro gruppo abbiamo parlato soprattutto dell'immigrazioni di giovani rumeni , della tratta, delle badanti, dei ragazzi di strada e delle zingare, bambine rumene che sono in Occidente per chiedere l'elemosina. Ci siamo chiesti: perché questi fenomeni nella Romania e nei paesi dell'est? Certo innanzitutto perché c'è tanta povertà. C'è la gente che si arricchisce giorno per giorno, sono soprattutto i comunisti di una volta che erano ricchi anche durante il passato regime e hanno avuto soldi subito dopo la cosiddetta rivoluzione e con pochi soldi hanno comprato tutto ciò che hanno voluto. Allora certo che questi giovani, queste ragazze, diciamo bambine, queste famiglie, adesso si trovano in assoluta povertà. E non solo questo: un altro motivo per il quale tutti desiderano di andarsene via è anche perché durante il comunismo non era possibile conoscere il mondo occidentale. Una volta che è finito il comunismo, tutti quelli che avevano un televisore hanno potuto vedere come si vive in occidente e hanno detto: andiamo anche noi. E poi c'è anche il desiderio di arricchirsi, il benessere facile e tutti pensano che in occidente si possano guadagnare i soldi subito.
Si è parlato anche non solo di emigranti dall'est ma anche del fenomeno opposto ossia della creazione di imprese straniere nell'Est Europa, e delle cause che spingono gli imprenditori italiani a venire (sono quasi 20.000 le imprese italiane in Romania). Soprattutto la prospettiva di una manodopera a bassissimo costo.
Nel caso, poi, delle donne che vengono a fare le badanti sorge il problema del rischio di dissoluzione della famiglia, la cellula di ogni società.
Abbiamo inoltre discusso riguardo alla cultura rumena, perché il pericolo è questo: se prima della caduta del regime comunista non c'era la possibilità di conoscere come si vive veramente in occidente, adesso anche nell'Europa dell'Est si conoscono e si imitano i pregi e soprattutto i difetti delle vostra società. Certo adesso la droga è il pericolo più grave tra i giovani romeni come l'alcol.
A un certo punto alcune famiglie sono state costrette a vendere i bambini. Adesso è vietato ma il problema non è del tutto risolto. Un altro fenomeno è quello degli ex ragazzi di strada che sono all'incirca 3000.
Poi abbiamo parlato anche di cosa fa il giornalismo e i giornalisti rumeni. È uscito fuori certo che non fanno ancora abbastanza. Adesso hanno iniziato a scrivere qual'è la situazione di un rumeno che viene in Italia. Il ruolo del giornalista è molto importante. È importante perché chi fa questa professione ha la possibilità di gridare e far vedere che c'è la povertà, che ci sono persone sfruttate che stanno rintanate nei "nascondigli" e non hanno il coraggio di uscire allo scoperto per diverse paure.
Se un giornalista scrive solo come diciamo noi in rumeno articoli di scandalo, perché sono più cercati, perché lì si paga di più, perché tutti vogliono questo giornale dove ci sono questi articoli, allora è certo che può rovinare la vera immagine di un popolo, di un paese.

Paolo Lambruschi*

Sullo sfondo di questo lavoro credo che ci fosse questa vicinanza e questa lontananza tra Italia e Romania. Il dossier statistico della Caritas riporta che quella rumena è l'etnia con più presenze in Italia: 600.000 rumeni in Italia, la metà è regolare e l'altra metà è clandestina, quindi la realtà rumena incrocia molto la nostra quotidianità. Il nascondiglio da cui abbiamo cercato di uscire è proprio questo. Io ricordo di aver visto, non tutti gli immigrati naturalmente, ma parte di immigrati anche rumeni che lavorano, che hanno un lavoro regolare, dormire a Milano nelle aree dismesse e lo fanno perché non hanno alternative, perché devono comunque mandare soldi a casa, perché comunque quello è un modo di risparmiare. Una vita onesta tutto sommato, ma dignitosa non si può proprio dire. Però questo scandalo viene taciuto, questo nascondiglio non viene svelato.
Ci siamo chiesti questo paese che alternative ha oggi? E la risposta è stata: "L'Italia, la speranza siete voi. Noi nel 2007 entriamo nell'unione europea, voi siete un po' il nostro modello, quindi siete la realizzazione di quello che noi vorremmo essere".
L'altro problema che siamo andati ad affrontare è stato effettivamente il sistema dei media. Conosciamo pochissimo tutto quello che succede fuori dall'Italia. Questo è un problema grosso e effettivamente l'eldorado italiano è stato amplificato da questo vuoto mediatico che c'è in Romania e dal passa parola, dagli emigranti, che da che mondo è mondo quando tornano a casa devono farlo con la lavatrice e con la macchina magari presa a noleggio per far vedere che i sacrifici che hanno fatto all'estero stanno funzionando. Questo è un effetto diabolico.
L'ultimo aspetto che volevo riportare: oggi non si può fare comunque un'informazione sociale se non si hanno gli strumenti per capire che cosa accade nel mondo. Capire anche da un testimone come don Alexandru che cosa spinge queste persone ad affrontare di tutto pur di non morire di fame, credo che sia stato molto interessante. Spero davvero che l'ingresso nell'Unione Europea dia a questo popolo e agli altri popoli una speranza e faccia capire anche a noi cosa vuol dire aprire le nostre porte.

Seminari  Paralleli - Resoconto

Ragazzi di famiglia. Il coinvolgimento dei giovani nella criminalità organizzata

Giacomo Panizza*

Nel mio gruppo abbiamo parlato dei ragazzi di famiglia, quelli già inseriti nei clan , ma in particolare quelli che non lo sono ancora, che non sono parte delle famiglie mafiose o della ndrangheta e che rischiano di finirci dentro. Abbiamo tentato di parlare un po' della criminalità.
Ho notato che l'interesse dei giornalisti era concentrato soprattutto sui ragazzi di famiglia; perciò l'argomento non era più spostato sul clan, sull'organizzazione, sulla criminalità ma piuttosto sul ragazzo, ragazzetto, bambino cresciuto.
Ho visto con piacere molta professionalità. Tutta la gente che ho sentito parlare sottolineava, volendo o non volendo, l'aspetto della professionalità anche su terreni, su sentieri pericolosi. E' bello scoprire mondi reali che ci sono, che non conosciamo ancora ma sono accanto a noi. Questi mondi, questi ragazzi che entrano nei giri criminali e hanno tantissime possibilità, hanno dietro un grande mondo.
Ho visto una voglia di legare la notizia al mutamento sociale, al mutamento culturale, all'esito. Io ho notato negli interventi che ci sono stati che anche su questi temi di 'ndrangheta, di mafia, ecc., c'è la voglia di legare quello che si andrà ad indagare, a scrivere e a far circolare, di creare una notizia dinamica, una notizia con l'anima e un giornalismo che da speranza.

Santo Della Volpe*

Siamo partiti da questo depliant con uno struzzo con la testa dentro la sabbia, e siamo arrivati alla fine a tirarla fuori la testa e questo mi sembra un argomento estremamente importante, perché senza quest'operazione di alzare la testa e guardare non si va da nessuna parte.
Abbiamo fatto una discussione questa mattina che aveva sempre e comunque due cornici. Una era l'esperienza personale di Giacomo Panizza, di un prete, chiamiamolo, di frontiera scortato, di una persona che vive a Lamezia Terme un quotidiano rapporto con un mondo fatto di violenza; l'altra quella dei giornalisti e della comunicazione.
Siamo partiti con due cornici che erano molto distanti da un lato e dall'altro del tavolo e progressivamente abbiamo cercato di arrivare a una sovrapposizione. Io non sono ancora riuscito a capire se ci siamo riusciti, però ci siamo sicuramente avvicinati molto. Su alcuni temi fondamentali ognuno di noi portava esperienze che riempivano questa cornice in modo diverso.
Ci sono quelli che sono senza lavoro a Lamezia Terme, quelli che fuggono dalla scuola, di cui abbiamo i dati ma abbiamo anche cercato di capirli. Si può dare una notizia di cronaca nera, ad esempio, su un morto ammazzato, parlando anche di questi dati, senza che diventino un modo per giustificare quello che è successo, ma cercando di farli capire in cinquanta secondi in televisione, piuttosto che in cinquanta righe o in trenta righe sulla carta stampata? Si può fare.
Allora si può cercare di fare un'informazione che sia corretta. Per fare questo bisogna avere delle garanzie, ne abbiamo poi discusso a lungo, garanzie di tipo contrattuale, sindacale, di potere, perché ogni volta c'è un potere che mi dice che io devo dare la notizia in un certo modo.
Ed era la prima cornice sindacale. L'altra è quella individuale: è la coscienza. Come mi pongo io di fronte a questi fatti? La terza era quella dell'osservazione. Mi pongo come osservante militante, cioè partecipo e cerco di dare il maggior numero di dati possibile perché gli altri possano comprendere. Allora se c'è un ragazzo che è vissuto sempre in una famiglia di clan, ma che ha una madre che dice no e invece una nonna che dice devi fare come tuo padre, io riesco nel momento in cui quel ragazzo commette un crimine, un fatto criminale a far capire la complessità della sua storia all'interno di un servizio giornalistico?
Questa è la scommessa che entra nella mia cornice. C'è un confine nel quale io devo intervenire come stampa per far capire che c'è un problema che non posso risolvere con lo scoop, ma che devo risolvere con una coscienza giornalistica.
Ci dobbiamo porre il problema sociale e politico e lo dobbiamo affrontare nei giusti termini, perché altrimenti il ragazzino o tutti i soggetti border line, deviano e non c'è altra possibilità. Abbiamo fatto l'esempio dell'episodio di Erika e Omar che parte in un modo e finisce da un'altra parte. Inizia come delitto gravissimo e finisce per diventare un tentativo di reprimere i giovani. Allora anche in questo c'è un modo per fare informazione, un'informazione corretta.
Alla fine abbiamo scoperto che non esiste una zona "grigia", "rosa" o "azzurra", cioè una zona di speranza nel quale è possibile far incontrare le istituzioni. Questo senza fare gli eroi, perché non vogliamo eroi, giornalisti che cioè rischiano la vita.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.