XI Redattore Sociale 26-28 novembre 2004

Nascondigli

Il dovere scomodo di superare i cliché. Route 181: un viaggio nel “cuore del problema”

Incontro con Michel Khleifi. Conduce Maria Nadotti

Michel KHLEIFI

Michel KHLEIFI

Regista cinematografico palestinese. Nel 2002 ha realizzato insieme al regista israeliano Eyal Sivan il road movie “Route 181 - Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele”, distribuito in Italia in Dvd da Bollati Boringhieri. 

 

Maria NADOTTI

Maria NADOTTI

Giornalista, saggista, consulente editoriale e traduttrice. Ha curato il libro “10 in paura” (Epochè, 2010), dieci racconti di autori italiani.

ultimo aggiornamento 26 novembre 2010

Maria Nadotti*

Adesso darei molto rapidamente la parola a Michel Khleif i per raccontare in breve da dove nasce il progetto di questo film-documentario "Route 181 - Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele" e con che scelte di tipo cinematografico e di tipo contenutistico l'hanno costruito. Il film è disponibile anche in Italia, in DVD. L'ha pubblicato la casa editrice Bollati-Boringhieri. Il cofanetto contiene le tre parti del film sud, centro e nord, un quarto DVD con una serie di sequenze che non sono finite nel montaggio finale e una serie di apparati assolutamente utili: la risoluzione 181 delle Nazioni Unite da cui è tratto il titolo, carte geografiche, informazioni storico-geografiche, ecc

Michel Khleifi*

Naturalmente ogni volta che si dice che un palestinese e un israeliano hanno fatto insieme un film, la prima reazione è di solito di entusiasmo. Perché suscita entusiasmo quest'accoppiata? Perché la Palestina e in particolare il conflitto Israeliano-Palestinese sono una materia storico-politica che vive appunto oppressa da una marea di stereotipi. È a tal punto coperta da stereotipi che non si riesce più a vedere la verità. Ma poiché Palestina e Israele, i palestinesi e gli israeliani fanno parte dell'umanità non li si può né osservare, né giudicare come se fossero esterni, estranei all'umanità. Più li si umanizza, più li si guarda nella loro realtà di esseri umani e più ci si avvicina alla realtà e alla complessità del reale. La complessità del nostro lavoro e del vostro lavoro è proprio questo, di liberare la realtà, i fatti di tutto questo sovraccarico di miti, interpretazioni ideologiche, interpretazioni bibliche, interpretazioni craniche, interpretazioni cattoliche, ecc., per riuscire a capire la realtà e a comunicarla. Ciò che Eyal ed io abbiamo cominciato a fare nel 2002, in un momento di estrema violenza nei territori occupati della Palestina è stato proprio questo: tentare di capire che cosa stesse succedendo, come si fosse giunti a disumanizzare e a degradare a tal punto l'altro.
In quel momento noi abbiamo sentito il bisogno di andare a lavorare lì, perché era come se i due discorsi si fossero irrigiditi in due blocchi stereotipati fortissimi. I palestinesi venivano visti e rappresentati come terroristi kamikaze e invece dall'altra parte gli israeliani venivano visti come colonialisti, occupanti punto e basta, come si trattasse appunto di un derby di calcio e questo impedisce di capire che cosa sta succedendo.
Siamo partiti con un'idea base semplicissima: come si fa a restituire umanità, ad umanizzare una società che l'ha persa nella rappresentazione; come si fa a restituire un'umanità agli uomini e alle donne che compongono, che fanno questa società. Noi ci siamo resi conto benissimo che le due società, entrambe le società, sono traumatizzate. Sono il risultato di traumi e come in tutte le situazioni dove c'è stato trauma, l'unica via di uscita è permettere, creare una situazione in cui le persone che sono dentro quella situazione di trauma possano elaborarlo attraverso la parola. E in questo conflitto, ci siamo accorti con chiarezza, si tende a pensare che il trauma subito dall'uno sia contro il trauma subito dall'altro ma l'idea che un trauma sia contro l'altro è un vero e proprio stereotipo. I due traumi sono indipendenti l'uno dall'altro e hanno bisogno di spazio di elaborazione e non di essere usati l'uno contro l'altro. Vedrete attraverso queste prime sequenze che il nostro intento andando ad osservare e ascoltare e innanzitutto di non giudicare.
La regola numero uno che ci siamo dati è "ascoltare con rispetto" tutti. Adesso vediamo questa mezz'oretta circa delle 4 ore e mezza del film. Sarà il punto di partenza della discussione.

Maria Nadotti*

E' d'accordo con l'ultima affermazione del signore che abbiamo visto nel film ossia che da entrambe le parti ci sono persone che non vogliono la pace?

Michel Khleifi*

Diciamo che queste sono le parole di questa persona e come tali noi le abbiamo presentate. Non volevamo dare giudizi, il che non significa che io non abbia un mio punto di vista. Diciamo che in una situazione così complessa può darsi che una persona di questo tipo che ha la percezione dal basso, abbia anche una saggezza popolare e può darsi che attraverso la saggezza popolare si arrivi a fare una lucida sintesi politica. Io sono d'accordo con lui.

Maria Nadotti*

Sono d'accordo. Le dinamiche umane si basano sul conflitto, anche a proposito della convivenza di cui si è parlato e che molte delle persone hanno testimoniato. Alla base c'è, credo, un discorso forte di memoria la quale appartiene spesso a una certa generazione che ricorda ad esempio i nomi che avevano quelle città un tempo. Rispetto a questa nuova generazione che non ha quella memoria quale scenario ci si può immaginare in futuro? Mi riferisco anche a quella che potrebbe essere un'ipotesi di convivenza, di cui le nuove generazioni non hanno appunto ripeto memoria.

Michel Khleifi*

La memoria in realtà è qualcosa che si trasmette. La memoria non arriva così dal nulla. Per dirla molto schematicamente, con un esempio: personalmente conosco i traumi subiti dai miei genitori, ma non conosco i traumi dei loro genitori e dei genitori dei genitori, tuttavia questi traumi non detti, non raccontati sono dentro di me. E quando si parla di memoria bisognerebbe chiedersi che cosa si dimentica, perché dimenticare non vuol dire cancellare, vuol dire semplicemente mettere da qualche parte le cose e dunque a partire da questo la memoria è una costruzione.
In questo processo di costruzione c'entra molto il tema dell'ereditarietà. Non si eredita soltanto in positivo, si eredita anche il negativo. Per esempio, a partire da questo punto di vista si può riflettere, si può ripensare alla questione Israelo-Palestinese, perché, e questo è proprio lo stereotipo degli stereotipi, si dice che esistono due società, la società palestinese da un lato, la società israeliana dall'altra, completamene separate. Il che è una falsità assoluta perché società palestinese e società israeliana vivono completamente insieme. Il problema è che questa loro convivenza è pessima, vivono male insieme.
Io sono anche belga, ho un passaporto belga e dunque sono europeo come voi. Se io sono in questa situazione è grazie al diritto del suolo, non al diritto del sangue, io sono diventato cittadino europeo grazie al fatto che ho abitato in Belgio per molti anni. Se io sono diventato cittadino europeo è grazie ad anni e anni delle vostre lotte di europei che avete pagato un prezzo molto alto per arrivare a questo tipo di diritto. Ci sono moltissime persone ebree, di origini ebreea nate in Europa, che godono del mio stesso status. Quando poi torniamo nelle nostre terre di origine all'improvviso riprendiamo due status diversi: io sono l'occupato, lui è il padrone.
Qui sta proprio il grosso divario tra una percezione diciamo impressionista della società e una percezione invece, democratica della società. Mi viene in mente a questo proposito una discussione tra Bertold Brecht e Fritz Lang. Quest'ultimo sosteneva che noi arriviamo ad essere quello che siamo attraverso un percorso di emozioni mentre Brecht diceva che in realtà noi arriviamo ad essere quello che siamo attraverso un processo. Per esempio l'odio, il sentimento dell'odio che non è che scenda dalla luna, è un processo che si costruisce nel tempo. Abbiamo bisogno di aiuto, del vostro aiuto, per ristabilire questo principio democratico di parità di diritti tra cittadini di uno stesso luogo.

Intervento

Vorrei sapere come è stato distribuito questo film in Israele e in Palestina; come è stato accolto sia dai governanti israeliani che da quelli palestinesi e dalla popolazione anche in Europa o nel mondo.

Michel Khleifi*

Il film è stato trasmesso da 'Arté', canale televisivo franco-tedesco esattamente un anno fa, il 24 novembre 2003 e ha creato un mare di polemiche e discussioni. In particolare in Francia dove si è creato un movimento per proibirne la visione. Si è cominciato subito con una polemica molto violenta. All'inizio abbiamo pensato: "Fantastico per un film così!" Invece credetemi non è stato affatto buono questo modo di partire perché ci ha creato vari problemi di distribuzione in diversi paesi europei. Ringrazio dunque la Bollati-Boringhieri.
Il film è stato trasmesso da Arté e siccome in Medio Oriente ci sono satellitari da tutte le parti in realtà è stato visto e stravisto in Palestina, in Israele, in Egitto, in Siria, in Giordania e dopo 3 mesi hanno cominciato a mostrarlo nelle sale o in altre situazioni.
Sono convinto che il cinema non debba dare delle risposte, ma creare delle domande, creare delle riflessioni, perché la domanda sta dalla parte della vita e la risposta sta dalla parte della morte. Credo che la cosa fondamentale forse sta succedendo, ossia che si ricominci a interrogarsi.

Intervento

Lei ci ha detto della fase di distribuzione. Ora, facendo un passo indietro e parlando della fase in cui è stato girato il film, vorremmo sapere se è stato difficile girarlo, sia sul piano delle implicazioni emotive, sia degli ostacoli oggettivi incontrati nella realizzazione tecnica.

Michel Khleifi*

Il fatto che fossimo due registi uno palestinese e uno israeliano ha in qualche modo tenuto sotto controllo l'aggressività. Allora il problema vero, la risposta da dare è come gestire l'aggressività che c'era tra Eyal e me, perché non vanno mica taciute le complessità anche delle relazioni. Siamo due persone una nata e cresciuta da una società colonialista, Eyal, e una invece da una società colonizzata, io. Ma la cosa che ci ha permesso di lavorare è che eravamo molto coscienti di queste diverse appartenenze, non era una cosa che tenevamo nascosta e questo ci ha permesso di tenere aperto un dialogo continuo.
Un aneddoto. A me è capitato spesso di dire ad Eyal: "Per piacere, sii un po' più palestinese!". Lui ogni tanto mi diceva: "Su , cerca di essere un po' più israeliano!" Devo dire che lungo il percorso di questo film sono diventato un po' più israeliano.
Inoltre, io palestinese parlo l'ebraico e a sua volta Eyal, israeliano, parla l'arabo, il che ci ha permesso di creare delle relazioni molto fluide. Ci siamo molto aiutati tra di noi e se voi conoscete, come credo, la tecnica dell'intervista, può capitare all'intervistatore di aver esaurito le proprie domande o i propri argomenti. Io finivo i miei argomenti, entrava lui e viceversa, ecco andava così e questa effettivamente è una formidabile ricchezza.
Nel prologo abbiamo disegnato il percorso di questo viaggio lungo la route 181, il confine virtuale. L'unica regola che ci siamo dati è stata quella di seguire questa linea virtuale della 181^ street, dopo di che con la macchina ci fermavamo quando individuavamo qualcuno che ci sembrava interessante. Stavamo lì il tempo di questo scambio di domande, risposte, ecc. e ripartivamo. E quindi noi abbiamo filmato per chilometri e chilometri tantissime persone, non sono tutte nel film evidentemente, con l'idea di condividere poi con tutto il mondo questo viaggio. Abbiamo girato 100 ore e quindi sono rimasti fuori praticamente il 90% degli intervistati. Perlopiù abbiamo fatto delle scelte di tipo tecnico.

Ad esempio abbiamo incontrato una coppia, lui è ungherese e lei italiana ed io personalmente sono affezionatissimo a quella scena, perché è una scena ricca, piena di cose, una scena molto parlante.
Io sono convinto che il pensiero nasca dallo squilibrio, non nasce pensiero dall'equilibrio.

Intervento

Vedendo questo film mi è venuto in mente un documentario che mi era molto piaciuto e mi aveva colpito, che si chiamava "La mia terra natia, la tua terra natia" di Amos OZ.
Risale al periodo in cui c'era stata la stretta di mano tra Rabin e Arafat. Rivedendolo, ripensando a questo film, mi sembrava che tutto fosse perduto, invece vedendo il suo film c'è questa sensazione almeno molto positiva che dal basso ci siano delle speranze e ci sia un'unione, una convivenza in qualche modo possibile. Volevo sapere se lei aveva presente questi precedenti e come giudica in generale il modo di raccontare attraverso i documentari la vicenda israelo-palestinese.

Michel Khleifi*

Amos Oz non è soltanto uno scrittore, è uno scrittore impegnato.
Si definisce sionista; io credo che per poter afferrare e capire bene la questione israelo-palestinese, si debba uscire dalle ideologie. Magari è fuori moda dire quello che sto per dire, però vi cito una frase di Marx a proposito dell'emancipazione. Marx dice semplicemente che l'emancipazione è esattamente il ritorno degli esseri umani alla loro umanità e a strutture più umane. Dunque io non credo che Amos ci proponga un'emancipazione, ci propone una sorta di caso. Non va dimenticato tra le altre cose che è stata la sinistra sionista a nome di qualche tipo di socialismo, che ha costruito la politica dell'esclusione. Questo è importantissimo come dato storico. È questo tipo di sionismo socialista che crea una delle prime ondate migratorie immediatamente dopo la rivoluzione russa del 1905.
E' lì che si fonda tutta la teoria appunto di un certo tipo di ebraicità, lavoro ebraico, stato ebraico, terra ebraica e questo avviene 20 anni prima dell'instaurarsi del nazismo. E a partire da lì che nasce questa politica dell'esclusione che poi recentemente ha prodotto l'architettura del muro di sicurezza.
Eyal ed io non siamo per niente d'accordo con quella cosa: Eyal difende la mia umanità ed io difendo l'umanità di Eyal. Se c'è un progetto palestinese che esclude Eyal, i suoi genitori e gli altri, io come palestinese non posso aderire a questo progetto e lui lo stesso. E quindi il nostro progetto documentario si è dato queste basi, sono basi che permettono di cominciare a costruire un futuro, perché sennò si rimane prigionieri della percezione ideologica.
Se un film viene costruito a partire da un'ideologia, allora non si fa cinema-documentario, ma si fa cinema di propaganda. Io preferisco i film che esitano, che pensano, che sono confusi anche, perché la confusione è forma di pensiero. L'ideologia invece è proprio quello strumento che fa ordine nella confusione. Di nuovo, ancora una volta cerchiamo di essere coerenti.

Intervento

In questa parte di film che abbiamo visto ci sono alcune domande ricorrenti.
Una mi sembra abbastanza provocatoria: prima viene chiesto se erano meglio gli arabi o i cinesi, poi viene chiesto agli ebrei sugli yemeniti e i russi. Insomma quello che poi sembra di capire è che non va bene nessuno.Mi chiedevo se queste domande un po' percorrono tutto il viaggio e in secondo luogo se tra le risposte invece ci sono stati dei casi che l'hanno veramente sorpresa .

Michel Khleifi*

In questa prima sequenza c'è uno di questi due padroncini che dicono: un buon arabo è un arabo morto. Mi creda, mi ha molto sorpreso questa risposta. Tra l'altro in questa sequenza sono io che sto facendo le domande. Eyal reagisce e dice: rispondi, replica, non lasciarti trattare così! E io gli rispondo: no, noi non siamo qui per giudicare, ma per ascoltare. Per cui molte di queste risposte che lei definiva provocatorie, in realtà no, sono semplicemente uno spaccato acutizzato complessivo della società israeliana.
Le due donne che abbiamo visto, vivono vicinissime. Ci sono circa 5 metri di giardino tra le due. Tra l'altro sono tutte e due arabe di origine, una è palestinese e l'altra è yemenita. Il sistema israeliano permette che l'una si emancipi e diventi proprietaria di un ristorante e che l'altra sia spinta verso la miseria umana e non è solo una questione materiale, è che proprio non le vengono date possibilità di emancipazione. E quindi è proprio normale, anzi è proprio il nostro dovere di documentaristi, capire come si è costruito e come funziona il sistema in sé.
Abbiamo cercato di evitare di costruire il film sulla questione palestino-israeliana, togliendola dalla storia universale? No, è una storia che sta molto dentro alla storia che tutti quanti conosciamo. È molto importante reinserire Palestina e Israele nella storia di tutti noi, nella storia del mondo, perché sennò non si capisce, si perde di vista un'anomalia pazzesca.
La questione israelo-palestinese è semplicissima se la si guarda dal punto di vista del diritto internazionale, la soluzione è facile, mettersi fuori dal diritto internazionale è mettersi davvero fuori legge.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.