XI Redattore Sociale 26-28 novembre 2004

Nascondigli

Workshop: Dentro e fuori. Vittime, origini, affetti, lavoro: i detenuti e il rapporto con l'esterno

Incontro con Renato Rebuzzini. Conduce Mario Calabresi

Mario CALABRESI

Mario CALABRESI

Direttore del quotidiano La Stampa, ha scritto per Mondadori i libri “Spingendo la notte più in là” (2007) e “La fortuna non esiste” (2009).

ultimo aggiornamento 27 novembre 2009

Renato REBUZZINI

Renato REBUZZINI

Sacerdote, fondatore della Comunità del Giambellino a Milano, cappellano del carcere di Opera (MI).

 

Mario Calabresi*

Sono un giornalista di Repubblica dove faccio il capo redattore centrale, quindi il mio lavoro è quello di trovare gli spazi e scegliere quali argomenti vanno ogni giorno sulle pagine del giornale. Ho accettato di venire a questo seminario per parlare di come un giornale fa le scelte, di come decide di trattare i vari temi ma anche per capire, perché oggi qui parliamo di un tema, quello del carcere, che riconosco, non è molto presente sui giornali. Con il carcere parliamo di un mondo che è difficile da raccontare; un mondo lontano con cui è difficile entrare in contatto. Lo si racconta molto spesso in maniera superficiale, molto emozionale. Penso, invece, che ci voglia un lavoro profondo per capirlo davvero e quindi io sono anche qui per capire come si possa fare a raccontarlo meglio e in maniera più approfondita. Con me c"è don Renato Rebuzzini che da 10 anni è cappellano del carcere di Opera: ci racconterà il mondo del carcere visto da dentro, il rapporto tra il dentro e il fuori, il rapporto dei detenuti con il fuori, con le vittime, se esiste un rapporto con queste, il modo in cui si può comunicare. Vorrei poi anche portare la discussione su come la società si rapporta col carcere. Ho ricercato quello che nell'ultimo anno è uscito su Repubblica sul carcere e questo lavoro mi è servito anche per rendermi conto che escono soprattutto alcuni aspetti e che vengono trattati sempre nello stesso modo. Darei intanto la parola a don Renato perché ci racconti la sua esperienza. 

Renato Rebuzzini*

Non so quanti di voi sono in possesso del rapporto Antigone, lo studio sulla realtà carceraria più preciso e anche più completo. Vi ricordo che è facilmente reperibile anche su internet. Ne vorrei trattare con voi alcuni aspetti. Le riflessioni che vi porterò non sono soltanto mie, sono riflessioni un po' condivise con altri cappellani e con altri volontari del carcere. In questo primo capitoletto ci rivolgiamo ai detenuti non eccellenti, cioè ai detenuti di cui non si parla mai, perché quando sui giornali o in televisione si parla del carcere è perché ci sono alcuni eventi grandi e rilevanti. Si parla del carcere magari quando Ciampi dà la grazia a detenuti storici o come io li chiamo, "eccellenti". Sono eccellenti perché comunque fanno notizia, mentre la stragrande maggioranza, grosso modo direi molto più del 90%, sono detenuti non eccellenti.

E per questi detenuti la prima osservazione da fare è che sono apparentemente persone senza biografia, non hanno storia, non hanno passato e non hanno futuro mentre il presente è il carcere. Non hanno passato perché come ben sappiamo il magistrato non può che applicare meccanicamente una pena. C'è un reato e applico la pena e questa applicazione è proprio meccanica, non c'è neppure le possibilità di fare una valutazione più completa. Grossomodo questa maggior parte dei detenuti si può suddividere in tre gruppi: tossicodipendenti, che sono ancora una parte notevole; immigrati e per questi soprattutto non c'è storia, veramente non c'è passato, non c'è considerazione minima delle proprie radici, la maggior parte sono musulmani, ma questo non conta niente ovviamente per la vita del carcere, non hanno futuro assolutamente; e infine  poveri in cui racchiudo non solo i poveri in senso economico, ma i poveri che non hanno capitale sociale, che non hanno capacità di interpretare la realtà, di trovare una propria collocazione nella società, che neppure capiscono i codici, i codici di comportamento che esistono nella realtà sociale. Difatti questo terzo gruppo, che non è piccolo, è fatto di persone che continuano a rientrare in carcere, con una frequente reiterazione della pena e per i quali ti accorgi che 10 anni dopo non è proprio cambiato nulla; ecco perché io chiamo il carcere anche Ospizio dei Poveri. Questa prima considerazione mi sembra molto importante perché se il carcere dovrebbe servire per la risocializzazione, che preferisco come termine alla riabilitazione, perché riabilitazione ha un sapore un po' sanitario, al momento siamo fuori strada. In realtà, se non si prende in considerazione la storia, il passato e la possibilità di futuro, allora ci si trova di fronte a delle persone private anche della loro dignità, senza biografia.  Don Milani diceva che fare parti uguali fra disuguali è una grande ingiustizia e quindi l'applicazione di una pena uguale a tutti senza la considerazione della storia, della biografia di una persona è una palese ingiustizia.

Secondo capitoletto. L'organizzazione, i codici di comportamento all'interno del carcere. Nel '75 c'è stata la riforma delle carceri con la legge Gozzini che prevedeva, pur non mettendo assolutamente in discussione l'istituto carcerario, una detenzione utile alla rieducazione della persona per cui ogni forma detentiva, avrebbe dovuto spingere alla responsabilizzazione del detenuto. Questa è una fantasia assolutamente inattuale. Di fatto ciò che regola la vita del carcere è il regolamento, che è una mostruosità. Regolamento vuol dire che ogni piccolo gesto della vita quotidiana è regolato da norme. Se vuoi il dentifricio c'è una prassi, c'è il regolamento. Se vuoi chiedere una visita dal medico, c'è il regolamento. Qualunque cosa della vita quotidiana esige una previsione del regolamento, che è fatta di riti assurdi e privi di senso. Il regolamento espropria la persona di ogni minimo spazio di responsabilità e di ogni minimo spazio di libertà e davvero le cose più semplici diventano un problema. Allora il regolamento è questo grande Dio di fronte al quale tutti alzano le mani al cielo dicendo "è il regolamento". Il direttore dice è il regolamento, il maresciallo dice è il regolamento e le guardie dicono è il regolamento. Pensate alla cosa più banale, alla cosa più stupida, ecco per quello ci vuole una domandina, devi far la domandina su tutto. Questo è il primo clima. Il secondo clima è un clima ricattatorio. E' davvero un clima diffuso all'interno del carcere, piccoli e grandi soprusi da parte dei detenuti stessi, ma non solo. Questo clima di doversi adeguare crea una rivolta interiore incredibile, per cui uno per ottenere benefici subisce tutto e poi basta un attimo di nervosismo per perdere tutto il lavoro di 3 anni e dovere ricominciare da capo. Il clima ricattatorio è pesantissimo. Per cui è comprensibile che i deboli divengano sempre più deboli e che anche addirittura, finiscano spesso "massacrati". A questo si aggiunga il fatto che manca lavoro. A Opera lavorano poco più di 100 persone su 1200 detenuti. Poi ci sono quelli che fanno dei lavori interni, ma non arriviamo a 150. Allora vuol dire che gli altri stanno 24 ore al giorno senza fare niente. Niente vuol dire niente. I detenuti a Opera che non hanno la licenza media sono circa il 40%. Anche questo è un bel dato interessante. perché sempre come diceva don Milani: "Dio deve essere ingiusto perché fa nascere i delinquenti fra i più poveri". Chissà com'è sta storia. Non c'è la possibilità di accedere a dei corsi. I posti sono limitati proprio per questione di ordine e di regolamento. Ad Opera ci sono 3 educatori e mezzo, perché uno è part-time, per 1200 persone, quindi gli educatori anche motivati non possono far altro che fare gli scrivani, dato che devono presentare delle relazioni al magistrato per ottenere i benefici di legge, le licenze, le uscite, i permessi. Scrivono delle relazioni senza conoscere le persone. L'organizzazione del carcere è un'organizzazione assolutamente immobile. Sì, ogni tanto c'è qualche variante. A Opera oramai l'unico interesse della direzione è quello della squadra di calcio. Si è riusciti a fare questa squadra di calcio che è il fiore all'occhiello del carcere: E' veramente l'unica attività su cui il direttore, che per altro non è uno dei peggiori, investe perché gli dà lustro, perché cura l'immagine.  Va bene, ma sono coinvolti solo 20 detenuti.

Terzo capitoletto: le condizioni personali, le condizioni psicotiche del detenuto. A parte la questione della sanità, è davvero difficilissimo accedere alle cure. A Opera c'è un bellissimo centro clinico, ma è difficilissimo entrarci. Il regolamento sempre, il regolamento, la domandina. Prima ti deve visitare il medico, fra 10 giorni perché c'è la domandina che deve passare dall'ispettore…
Il carcere produce dei disturbi della personalità. E spesso produce anche disturbi francamente psichici. C'è un medico penitenziario francese, potete trovare informazioni a riguardo su un libretto del Gruppo Abele, che le chiama "le malattie dell'ombra", perché queste sono le malattie che non appaiono sui testi di medicina, che sono vere e proprie malattie professionali dei detenuti ed è la compressione dello spazio, lo spazio compresso per mesi, anni, decenni. Per cui una delle esperienze più frequenti di chi esce dal carcere è la paura degli spazi, la paura della strada, la paura di attraversare la strada, la paura delle macchine. Lo spazio compresso da una parte, e dall'altra parte la smisurata dilatazione del tempo, in particolare quella parte tragica del tempo che è la notte. E poi ancora la modificazione dei sensi. Proprio la modificazione dell'udito, la modificazione del gusto, la modificazione dell'olfatto. Su questo aveva scritto molto Curcio in un librettino che aveva intitolato: "Sensibili alle foglie": la modificazione dei sensi all'interno del carcere ti fa proprio sensibile a una foglia che cade, perché ti ha modificato le capacità sensoriali. Insieme a questi disturbi c'è il senso d'inutilità. Uno è assolutamente inutile a sé ed è inutile per i suoi cari. Il tempo passa, ma è un tempo che non produce nulla. È un tempo che non è efficace per sé e per gli altri. Insomma quando in tribunale si dice 2 anni, 3 anni, 5 anni, 22 anni, lì sono ancora parole, ma quando uno comincia a passare il primo cancello, il secondo cancello, il terzo cancello, il quarto, il quinto ed entra dentro, quelle non sono più parole, ma tempo infinito che annulla la persona. Ancora ci sono tutti i problemi legati all'affettività ed è un'affettività esasperata, perché la cosa più importante all'interno del carcere sono i colloqui, il punto di riferimento che fa stare in piedi un po' la persona. Ma se per caso una volta si salta il colloquio si crea una situazione di ansia, di angoscia. Perché non è venuta? Perché non vengono? Cos'è successo? E allora bisogna chiedere al cappellano che telefoni a casa. Il colloquio è la boccata di ossigeno settimanale. Legato a questo ci sarebbe tutto il tema della sessualità negata, perché mi chiedo in termini di dignità personali cosa vuol dire negare per anni e decenni la sessualità. E poi all'interno delle condizioni di vita c'è anche il rapporto che normalmente non esiste con le vittime del reato. Questo è un tema delicatissimo, perché più di quanto noi pensiamo, i carcerati vivono sensi di colpa profonda nei confronti delle vittime. Non parlo delle vittime dei furti, questi di solito non hanno grandi sensi di colpa ma le vittime di reati consistenti come l'omicidio, ma non solo: quelli che segnano la vita di una persona o di una famiglia. Non può certamente essere il detenuto che prende l'iniziativa, e nemmeno le vittime o i familiari delle vittime. Tutti questi fattori spiegano la frequenza degli atti di autolesionismo, che i giornali riportano quando uno ci riesce e si uccide, ma in realtà sono tantissimi e sono proprio l'indice del non ce la faccio più, non reggo, non resisto. 

Un quarto capitoletto è quello delle famiglie dei detenuti che anch'esse, quando ci sono, pagano duramente la carcerazione. La pagano ovviamente in termini affettivi, di privazione, ma anche in termini economici perché un detenuto costa, perché se tu gli vuoi dare le sigarette devi comperarle. Costano anche le visite, perché non è detto che chi viene a visitare il carcerato di Opera abiti a Milano. Magari abita a Salerno o a Reggio Calabria, per cui la visita in carcere è davvero un disagio da molti punti di vista. Ci sarebbe il diritto all'avvicinamento, ma poi c'è sempre il regolamento, per cui ci sono i trasferimenti improvvisi e anche immotivati. C'è tutto il tema dei figli che vivono una situazione di grande vergogna e di grande esclusione sociale, per cui la famiglia paga. 

C'è un quinto tema che sarebbe da sussurrare, perché è il tema delle guardie. Le guardie rispecchiano esattamente la concezione sociale del carcere. Per la guardia carceraria il detenuto è un animale avversario. Infondo sono dei poveri ragazzi anche loro che fanno questo lavoro per mancanza di altro. Dove sono gli alloggi per le guardie carcerarie? Naturalmente dentro nel carcere, non fuori. Per cui uno smonta dal lavoro e resta in carcere. Io dico che sono dei grandi sfigati.

Uno quando esce dal carcere che cosa mai andrà a fare? Chi mai gli darà un lavoro? A 40 anni 45, 50 anni….hai fatto 10-15 anni di carcere, ma chi ti dà un lavoro? Niente lavoro, molti non hanno neppure la casa. Non ha relazioni, relazioni come dire normali, ma che cosa fa uno quando esce dal carcere? Per cui inventare il territorio significa esattamente dare una speranza di futuro a queste persone, speranze di un lavoro, di una casa, di un posto dove abitare e di relazioni che siano relazioni normali. Questo è importante per il dopo, ma è importante anche durante la detenzione, perché molti, moltissimi non possono uscire in licenza: non hanno una casa dove andare e il magistrato non dà il permesso di uscire per un giorno, per due giorni, perché non c'è un punto di riferimento, perché non può indicare dove, e questo mi pare il grandissimo spazio che può e deve occupare il volontariato. Creare opportunità per il lavoro, per l'abitazione e per le amicizie, nella scommessa che il detenuto anche il delinquente più incallito  abbia ancora la possibilità di risorse interiori. I soggetti di mediazione sul territorio sono di fatto gli operatori, sia dei servizi pubblici, sia i volontari che sono visti spesso come il cordone ombelicale col fuori. L'assistente sociale per i tossicodipendenti, magari qualche operatore dell'Asl, gli operatori delle comunità, i volontari del carcere, sono davvero come un cordone ombelicale; però questo disturba il regolamento, per cui non è che sia poi così facile la vita per i volontari. Così come non è così facile la vita anche per chi vuole dare lavoro. C'erano due aziende che erano disponibili a dare lavoro in carcere lì a Opera, lavoretti del cavolo, però lavori, ma il regolamento ha fatto si che queste due imprese non mandassero più lavoro in carcere.

Una domanda: il carcere risponde al bisogno di sicurezza? Ma è veramente il carcere che ti garantisce la sicurezza?  I dati del ministero dicono che il 98% dei furti non è punito. E' un'illusione secondo me che il carcere dia la sicurezza. Non dico che non ci vuole, per carità. Ci sono delle situazioni in cui assolutamente la società va difesa attraverso una restrizione della libertà ma questo uso generalizzato ed unico, perché il carcere è l'unico modo di rispondere ai reati, non è il modo migliore per garantire la sicurezza dei cittadini. E se la detenzione in carcere è quello che abbiamo detto prima, siamo  veramente sicuri che il percorso del carcere è riabilitativo, per cui uno ne esce cambiato? C'è qualcuno che in carcere cambia, ci sono dei cambiamenti straordinari, ma a me sembra che siano cambiamenti nonostante il carcere, non in forza del carcere. 

Vanno trovati dei cambiamenti legislativi che superino anche il sovraffollamento in carcere.
Il nuovo programma di edilizia carceraria urgente che prevede 13 nuovi carceri è il percorso da intraprendere? A me pare che siamo fortemente colpevoli di una grave pigrizia mentale. Allora pongo 3 domande alle quali io credo che i politici non sappiano rispondere non per il fatto che non possano rispondere, ma perché un politico, di qualunque appartenenza, che si pone questi problemi perde immediatamente il consenso e quindi se ne guarda bene dal farlo.
Forse chi ha un compito culturale all'interno della società come per esempio i giornalisti potrebbero invece aiutare queste riflessioni. Allora la prima domanda è: questo modo di trattare i detenuti a quale idea di uomo e a quale idea di società corrisponde? Come si concilia con i principi della costituzione? La seconda domanda. Il carcere è un assioma che  non si può mettere in discussione; è la logica punitiva: tu hai sbagliato e paghi. Ma la domanda è un'altra: col carcere che cosa paghi? E col carcere a chi paghi? Ma davvero il carcere è un modo di pagare? Se non sai cosa paghi e a chi paghi? Terza domanda, sempre sull'efficacia del carcere come unica soluzione: ma cosa ci guadagna la società e cosa ci perde la società col carcere?

Mario Calabresi

Direi che di cose su cui discutere ce ne sono tantissime. Vorrei ripartire dall'inizio, perché la prima frase è rimasta senza spiegazione: perché non ci sono più rivolte in carcere? Che cosa è successo, che cosa è cambiato?

Renato Rebuzzini

La legislazione premiale dei pentiti. Se vuoi ottenere un beneficio devi comportarti bene Basta, quello che dicevo prima parlando del clima ricattatorio. È così. Non ci si può ribellare. La legge Gozzini, quella legge di riforma dice: il carcere ha la finalità fondamentale di ridare dignità e questa legge è stata approvata a  larga maggioranza ed è a mio parere una legge riformista e non rivoluzionaria. Ma mi pare che sia per convenienza, perché se il carcere viene strutturato e organizzato in modo tale che rimetta in gioco le risorse che la persona comunque ha dentro, magari anche residue, ne uscirà dal carcere una persona più dignitosa e della quale mi sentirò più sicuro, per cui è per convenienza. E perché dovrei pensare a pene diverse dal carcere o complementari ad esso? Per convenienza, perché credo che ci siano una serie di bisogni e di realtà nelle quali si può intervenire efficacemente in un lavoro che ridia il senso dell'utilità alla persona, che ridia la possibilità di dire io sono ancora in grado di fare qualcosa e sono in grado attraverso questo mio fare di ripagare in modo efficace. Perché dovrei fare volontariato? Perché devo darmi da fare per costruire un territorio? Per convenienza. Perché è esattamente quello che fornisce delle condizioni perché uno che esca dal carcere non si metta a delinquere di nuovo. Allora questa posizione che può sembrare troppo marcatamente pragmatica, priva di grandi ideali, in realtà non lo è.
Devo invitare a ragionare sulla nostra comune convenienza. Credo che anche dal punto di vista del carcere valga la pena riprendere le considerazioni molto interessanti che faceva ieri Marianella Sclavi, da una parte sull'emotività e quindi proprio l'ermeneutica dell'emotività  quando c'è un impulso emotivo e dall'altra la riflessione che ha fatto sulla commissione pace-riconciliazione. Ve la ricordate? A me interessa un detenuto riconciliato con la società e una società riconciliata col detenuto, perché questo mi dà più sicurezza, perché questo mi dà più libertà. Marianella diceva che se io odio l'oppressore sono condizionato, non sono libero, sono legato e quanto più odio, tanto più sono legato. Il processo di liberazione è il processo di perdono ma non da un punto di vista morale. Il perdono da un punto di vista sociale è una condizione per una vivibilità, per una riconciliazione sociale che mi permetta di vivere. Credo che i giornali possano e debbano intervenire sottolineando la convenienza comune di questa modalità di approcciare la realtà del carcere.

Mario Calabresi

Su questo sono d'accordo. Anche in Italia molto spesso temi come quelli del carceretirano fuori il peggio dai cittadini che solo perché fuori dal carcere si ritengono normali, diversi, in regola e invece di esaltare la loro diversità,  molto spesso tirano appunto fuori il peggio di loro stessi con giudizi raccapriccianti. Si sentono nei commenti, nelle lettere ai giornali, nei dibattiti. L'altro ieri mattina, c'era una serie di interviste dopo il Tg5 fatte a persone per la strada. Si chiedeva il parere sulla grazia a Messina. Io, devo dire la verità, mi aspettavo che questo caso di una persona di oltre 60 anni, che ne ha passati 40 in carcere, finalmente graziato, non dovesse trascinare un dibattito tale. Invece c'erano persone per la strada che dicevano: "ma che vergogna, ma che schifo, è un assassino, deve stare in carcere". E' facile che ci sia indignazione se Giovanni Brusca prende il permesso di star fuori una settimana  o che parta un dibattito se lo stesso Brusca si lamenta perché non ha l'accesso al telefonino quando va in permesso ma il caso Messina è diverso. Il punto di partenza quindi, molto spesso, è che si apre un dibattito ad esempio sull'assassino di Lecco su cui la Lega mette la taglia. Il giornalista va a Lecco, parla con le persone che stanno dal benzinaio dove l'uomo è stato ucciso e gli interlocutori dicono: "Ah, ma è chiaro, qui sbagliamo tutto in questo Paese, ci vorrebbe la pena di morte".  Allora che cosa si può fare? Per esempio come abbiamo fatto noi oggi; per esempio vai a cercare i parenti della vittima e scopri che esprimono nel dolore una sensibilità molto più complessa di quella chiamiamola del "bar" e dei leghisti. In quel caso specifico i parenti hanno detto: "no, questa della taglia è un'iniziativa che non ci appartiene, in cui non ci riconosciamo, abbiamo più fiducia nelle istituzioni che in questo tipo di ragionamento". Allora c'è anche nei giornali uno sforzo per andare a cercare luoghi in cui si possa dialogare in maniera più importante. 

Come è fatta l'agenda sui giornali? In parte è vero è un'agenda comandata da fuori. Attenzione, non perché ci sia qualcuno che ci dice che cosa va messo sui giornali e che cosa non va messo: sono i fatti che accadono che ti dettano un'agenda. Un giornale poi può scegliere di approfondire dei temi e di seguire altri, deve trovare però gli interlocutori. Vi faccio un esempio. Ho studiato la trasformazione degli ultimi anni di Repubblica: 5 anni fa su Repubblica c'erano 12-15 pagine di politica al giorno ed erano 12-15 pagine di dibattito politico, di camera, senato, di votazioni, di interviste. Oggi queste pagine sono più che dimezzate, sono circa 6 e abbiamo scelto di sostituirle con un'altra cosa, cioè di parlare anziché della politica, dei problemi che la politica dovrebbe affrontare. Ad esempio abbiamo cercato di interpretare la finanziaria, non come mero dibattito politico, ma più approfonditamente, chiedendoci che cosa significano i tagli alla finanziaria. Ok, tagliano sulla sanità, sugli asili, tagliano sugli insegnanti e allora abbiamo cercato di raccontare, di dire alle persone: perché c'è il numero chiuso nel tuo asilo comunale? Perché sono stati tagliati i fondi del governo. Ammetto che il giornalista deve fare uno sforzo di ricerca molto più alto e molto più complesso, molto più difficile, per scoprire la realtà carceraria. Durante tutto il periodo in cui c'è stato il dibattito sull'indulto a noi arrivavano tantissime lettere di persone che dicevano si all'indulto ma arrivavano tantissime lettere che ci dicevano: ma vi rendete conto che cosa vuol dire se domani tutte insieme escono 10 mila persone? E sono lettori della Repubblica e non di Libero…Penso che il compito dei giornalisti sia anche farsi carico delle paure della società, per non ripetere errori che secondo me sono stati compiuti in passato, anche dai giornali e qui chiudo sarò brevissimo.  

Sul tema dell'immigrazione e della criminalità legata all'immigrazione. Per troppo tempo i giornali, la sinistra, i sociologi hanno negato un nesso che invece esiste tra immigrazione e criminalità. Cioè si è sempre detto non si possono criminalizzare gli immigrati, bisogna accoglierli, bisogna aprire la società, dobbiamo far convivere identità, dobbiamo camminare assieme… Se tutto questo però viene detto senza farsi carico anche delle esigenze di sicurezza, si fa un'operazione che alla fine è assolutamente fallimentare. Io ricordo che 10 anni fa Marzio Barbagli che è un sociologo serio, fece un libro in cui c'erano dei dati che evidenziavano come nella microcriminalità l'immigrazione albanese la facesse da padrone. Io ricordo che Barbagli ebbe delle difficoltà a pubblicare il libro e poi raccontò del grande imbarazzo che ebbe a presentarlo. Molte persone gli dicevano: non ti riconosciamo più, ma come eri una persona aperta e adesso criminalizzi gli stranieri, ma come è possibile, ma che operazioni fai? E lui era molto in difficoltà e dall'altra parte cercava di spiegare… no, ma io continuo a fare il lavoro di sociologo come l'ho sempre fatto, io voglio fare delle fotografie della realtà. E allora che cosa è successo poi in questi anni? Che per esempio i politici di centro-sinistra e i giornali come Repubblica hanno lavorato dicendo: no, ma non è quello il problema. E che cosa si sono trovati di fronte invece? Altri giornali, altre televisioni e un centro-destra che ha fatto una campagna sulla criminalità-immigrazione. Vi accorgete anche voi che vi rubano la borsa? Vedete voi gli spacciatori sotto casa? Ecco questi qui sono quelli che la sinistra vorrebbe integrare, li volete in casa? Non vi sarà sfuggito che prima delle scorse elezioni tutti i giorni i telegiornali aprivano con un servizio su una rapina nelle ville, sugli omicidi…Noi per curiosità abbiamo fatto 3 volte lo stesso lavoro nell'ultimo anno e mezzo, ossia siamo andati a prendere semestralmente le relazioni i dati sulle rapine nelle ville e gli omicidi. Non sono assolutamente calati, anzi sono aumentati, però non se ne parla più sono scomparsi, perché erano solo un tema di campagna elettorale. Se si vuole anche evitare che questi diventino temi di campagna elettorale, bisogna farsi carico di tutto, bisogna farsi carico anche del tema della sicurezza, perché se non ce se ne fa carico, si lascia che queste diventino bandiere assolutamente di parte e che poi vengano sventolate in un modo completamente ideologico. 

Maurizio Covarelli*

Collaboro col dipartimento di sociologia dell'università di Bologna; volevo prendere spunto dal messaggio che ha lanciato don Renato che è quello che vede nella figura del giornalista colui che si deve fare promotore di una sorta di rivoluzione culturale. Il messaggio è forte, perché d'improvviso cambia a mio parere il ruolo del giornalista, cioè da colui che è attore che deve in tutti i modi raccontare un evento o dei fatti, o una serie di fatti, all'improvviso deve diventare colui che deve descrivere una realtà, ma per descrivere una realtà bisogna essere lineari, bisogna essere consequenziali, in una parola bisogna avere una metodologia scientifica, cioè saper essere in grado di mettere in correlazione tutte quelle variabili che possono dare un quadro più completo possibile della realtà. Allora Calabresi diceva che in questi ultimi anni Repubblica ha cominciato a partire dalla descrivere un semplice evento per  vedere quali ne sono le possibili conseguenze; però l'ha fatto solo in parte. Repubblica, come qualsiasi altro giornale, se vuole proporsi come promotore di una rivoluzione culturale, deve considerare tante altre variabili in maniera neutra  e completa il più possibile. La mia domanda: è in grado una testata giornalistica, che in tutti i modi ha degli influssi ideologici e politici, di fare questo? E ci sono anche delle persone preparate a fare questo all'interno della categoria dei giornalisti?

Federico Bonelli*

Sono un giornalista freelance. Alcune riflessioni come il numero crescente di malati di Aids, sieropositivi nelle carceri, la situazione delle donne carcerate… Negli ultimi tempi mi capita di lavorare nel campo degli audiovisivi e ho notato un'insistenza nell'utilizzo ad esempio nei telegiornali, ma non solo, delle stesse immagini ed è una cosa credo che faccia riflettere quando si parla di carcere, di arresti, di detenzione. A parte alcune, purtroppo sempre poche, lodevoli eccezioni, nei servizi si vedono immagini con la consueta camera car che gira intorno al carcere, quindi le mura del carcere, la zoommata sulle guardie, l'entrata del cellulare e delle automobili di scorta, la ressa, se c'è, dei giornalisti, i cancelli che si aprono e si chiudono. Raramente avviene uno sforzo anche nella ricerca delle immagini o dell'inserimento delle immagini che vada oltre questi "luoghi comuni". Mi veniva in mente il tema del nostro seminario cioè quello dei nascondigli. Probabilmente quando non si riesce o non si vuole spiegare o non si è in grado di spiegare un fenomeno che può essere sgradevole, un mondo che cerchiamo di tenere nascosto, ricorriamo ai trucchi del mestiere, ai nascondigli e questo evidentemente fa ricadere a volte nei vizi dei luoghi comuni.

Daniela De Robert - Tg2*

Lavoro al Tg2 che non è un giornale particolarmente sensibile ai temi sociali, ma dove ci sono delle sensibilità individuali e sono volontaria in carcere, quindi vivo la difficoltà dei due mondi. Del carcere si parla, c'è informazione, ma secondo me c'è un'informazione molto discontinua e molto sbriciolata e spesso si parla dei contorni del carcere, ma non di cosa è realmente il carcere. Ci sono singoli episodi che vengono fuori, singoli eventi positivi o negativi, più spesso negativi. Sono eventi che secondo me comunque servono. Non voglio essere retorica, ma è così. Cioè si scopre che dietro a un criminale c'è una persona, quelli che noi chiamiamo detenuti non sono solo detenuti, ma sono uomini e donne che hanno una vita, che hanno un passato, che non è solo il loro reato ma che è qualcos'altro, hanno dei sentimenti, hanno una salute. Scoprire che questo mondo del carcere è fatto di esseri umani male non fa, anche se attraverso una partita di calcio. Si scopre che ci sono uomini e donne che a volte cambiano Pochi, perché la maggioranza entra e riesce, lo sappiamo. Manca la quotidianità. Scopriamo la quotidianità del carcere quando un potente entra in carcere, una persona nota entra in carcere e si scopre ad esempio che Carra andò in manette al processo e successe uno scandalo. Tutti i giorni centinaia e migliaia di persone vanno in manette ai processi; tutti i giorni centinaia e migliaia di persone vanno in manette ai funerali dei genitori, dei figli e nessuno si scandalizza. La quotidianità è fatta di questo, la quotidianità è fatta di suicidi, perché i suicidi sono all'ordine del giorno, ma non si conosce il carcere, non si racconta il carcere, non si racconta la violenza strutturale del carcere. Ci saranno anche atti di violenza ancora, ma il carcere di per sé è un posto che quando un uomo di 45 anni esce e chiede di rientrare e a volte succede, perché ha paura di attraversare la strada, la violenza è evidente. Quindi questo non si racconta, non lo raccontano i nostri giornali, capisco anche che è molto difficile raccontarlo.

Il seminario si chiama nascondigli: a volte c'è un po' la pigrizia tipica dei giornalisti, un po' la difficoltà un po' la testa sotto la sabbia di non voler andare oltre le notizie. Faccio esempi banali. Il comune di Roma e quello di Padova hanno preso l'iniziativa del kit delle 48 ore: uno zainetto per chi esce dal carcere e non sa dove andare a dormire, non sa dove andare a mangiare, non ha neanche una maglietta per cambiarsi. Dentro ci sono dei buoni pasto per le mense, c'è l'indirizzo dei dormitori, c'è una maglietta, una saponetta, una bottiglia d'acqua, biglietti dell'autobus. Di questo si è data la notizia ma non si è andato oltre. Comunque se un assessorato ai servizi sociali di una città come Roma che ha 3000 detenuti adulti ha bisogno di dare uno zainetto coi biglietti dell'autobus, con l'indirizzo delle mense, forse c'è un problema. Forse ci si può chiedere chi abita in questi carceri, chi sono questi 56 mila uomini e donne.

È vero che c'è una difficoltà a raccontare televisivamente il carcere perché non ce lo fanno più vedere. Io lavoro con la televisione e mi capita spesso di raccontare le cose del carcere. Nel 2000 ho chiesto di seguire con un gruppo di detenuti il messaggio del Papa alle camere riunite. Cosa dicono? Cosa pensano? Come reagiscono? Sono andata a Regina Coeli e l'autorizzazione diceva: è vietato riprendere, misure di sicurezza, porte blindate, sbarre. Quindi dovevamo far finta di essere in un salotto buon.  Non puoi parlare coi detenuti. Che cosa vado a fare? In quel caso siamo riusciti comunque a trovare una via di mezzo, ma le autorizzazioni sono così,: non ti fanno più entrare, a meno che non racconti nulla. E quindi questo è un problema di cui forse in qualche modo bisognerebbe farsi carico. E' vero che il carcere è un assioma, è tornato ad essere solo ed esclusivamente un assioma. Negli anni '80 esisteva un'associazione che si chiamava "Liberarsi dalla necessità del carcere". Non so se esiste ancora, comunque la domanda che si poneva era come fare in modo che il carcere sia veramente e solamente l'ultima ratio. Recentemente il carcere è stato previsto anche per chi abbandona i cani per strada d'estate e dopo le grandi campagne è stata accolta con grandi applausi: avremo persone che abbandonano i cani che entrano in carcere. Forse ci si può chiedere se il carcere è il modo per combattere l'abbandono dei cani, forse ci si può chiedere se la patente a punti non sia stata molto più efficace della minaccia del carcere. A volte basta poco, credo, per provare a trovare alternative perché non tutti quelli che stanno in carcere, anzi la minoranza di quelli che stanno in carcere hanno commesso grandi reati.

Stefano Vaia*

Sono un fotografo. Volevo raccontare un paradosso e una bella storia. Il paradosso è che a Volterra c'è un carcere dove ci sono 170 detenuti e un centinaio di agenti di guardia. Ci si è accorti che il bilancio del carcere, quindi per circa 300  persone che ci lavorano e ci vivono, è pari al bilancio del comune di Volterra che ospita alcune migliaia di cittadini. Quindi vuol dire che lo stato finanzia in ugual misura una struttura repressiva, detentiva che coinvolge 170 detenuti e 100 guardie alla comunità intera di Volterra. Questo a proposito della convenienza di cui si parlava prima, dei costi enormi che comporta rinchiudere la gente in carcere. La bella storia riguarda sempre il carcere di Volterra, non perché non sia assolutamente vero quanto è stato detto finora, però siccome Calabresi prima parlava di operazioni di marketing facendo riferimento anche in qualche modo al teatro vorrei dire che a Volterra c'è la più grande esperienza di teatro in carcere e proprio ieri Repubblica dedicava la prima pagina degli spettacoli a un'intervista a un regista della compagnia della fortezza. Io sono 6 anni che entro a Volterra fotografando gli spettacoli però per fortuna non mi limito solo a quello: seguo anche le prove, passo le giornate con loro e quindi posso testimoniare un clima assolutamente incredibile che c'è fra i detenuti a proposito di solidarietà. 130 detenuti che sono quelli che non partecipano all'esperienza del teatro, per un mese rinunciano all'uso del campo da calcio per permettere ai 40 che sono iscritti al teatro di realizzare lì lo spettacolo. Questo è un esempio di solidarietà straordinaria. Oppure si può parlare del fatto che adesso faticosamente vengono realizzate le tournée e i detenuti le fanno utilizzando i propri permessi personali, quindi rinunciando ad andare a casa. Stiamo parlando di un esperienza che raggiunge livelli straordinari proprio da un punto di vista teatrale. Tra pochi giorni infatti il loro spettacolo dell'anno scorso verrà premiato come miglior spettacolo di tutto il teatro italiano. Altra questione. È vero che c'è la possibilità o il pericolo di utilizzare situazioni di questo tipo per far parlar bene del carcere, quindi per creare del fumo, però al contrario un'esperienza come quella della Fortezza che esiste dall'88 ha potuto sopravvivere solo grazie all'appoggio e al sostegno dei giornali e delle televisioni. Ad esempio l'anno scorso la direttrice ha cercato di sabotare questa esperienza, basta semplicemente ridurre l'orario di prove per rendere impossibile la realizzazione di uno spettacolo e quindi cancellare quell'esperienza; ne è scaturito uno scontro sui giornali e stranamente alla fine la direttrice è stata spostata altrove. Altra novità. Dal mese scorso è passato l'art. 31. Questo vuol dire che i detenuti che hanno permesso premio, quindi che possono uscire e decidono di far gli spettacoli fuori lo fanno come se fosse un lavoro, quindi non usano più i permessi personali, vengono pagati e fanno teatro fuori. Questo non significa assolutamente nulla in concreto su quello che sarà la loro vita una volta usciti.  Diciamo che è un modo importante di passare il tempo, di crescere, di confrontarsi, di avere emozioni positive. Loro dicono spesso: è la prima volta che i giornali parlano bene di noi.

Giovanni Vella*

Lavoro a RaiNet news e sono rimasto colpito dalle tre questioni poste da don Renato sul grado del trattamento in carcere come esempio della civiltà italiana o comunque occidentale, la convenienza o no del carcere. A me sembrano tutte questioni vere, profonde, in sintonia con lo spirito costituzionale del paese nelle quali mi ritrovo pienamente. Ho una suggestione che sottopongo alla vostra riflessione: nel Grande Fratello il carcerato non esiste…Cosa intendo per logica semplificatoria del Grande Fratello? Il concetto delle trasmissioni televisive dove o vinci o perdi. Vai da Bonolis: se hai fortuna entri fra i concorrenti, se hai fortuna vinci o sennò perdi, dentro o fuori. Nel Grande Fratello succede di tutto, se bestemmi sei fuori, se riesci a guadagnarti 5 minuti di notorietà sei dentro, sennò sei fuori. In questo contesto così semplificatorio chi va in carcere è già fuori, non partecipa neanche alla corsa, è un escluso sociale in partenza. È ovvio che chi compie un reato va in carcere:  è una logica semplificatoria molto precisa e non c'è possibilità di errore, perché è molto inerziale, perché è povera, perché non ha contenuti, ma questa è. E' abbastanza evidente che un giornalista che si trova a descrivere la realtà, se ce la immaginiamo come un condominio, la guarderà da fuori, guarderà i terrazzi come sono fatti, come si presenta la facciata, poi con le altre telecamere più indiscrete vai proprio dentro la camera da letto come nel Grande Fratello, ma sarà difficile far vedere il cassonetto, perché il carcere, l'ha detto la collega De Robert molto bene, è il cassonetto sociale. Certo ci può essere il giornalista interessato che va a vedere come si vive nel condominio studiandone i rifiuti. Molto intelligente, molto interessante, ma è veramente molto difficile che questo accada.  Può accadere che nel cassonetto qualcuno bussi, bum bum, che  tiri fuori e lì sono gli aborti che fanno notizia, ma ce ne devono essere tanti di seguito in settimana. Il 90% dei casi dei detenuti si procurano autolesioni  per cercare di fare notizia. Se questa è la realtà in questa logica semplificata del Grande Fratello, il carcere non fa notizia. Uno dei luoghi comuni più diffuso è invece il tema della sicurezza. Il tema della sicurezza col carcere non ha niente a che fare. Con la percezione della sicurezza che i cittadini debbono avere, il carcere non ha niente a che fare, perché il carcere è già cassonetto. Il cittadino che dice "metto in carcere quello che mi deruba o mi borseggia" si sente sicuro per 20 minuti poi torna in strada e dice "ma saranno in carcere anche tutti gli altri?" È ovvio che la percezione di sicurezza sarà compulsivamente alimentata dal fatto che per essere sicuri bisognerebbe mettere in carcere tutti. Finirà per mettere in carcere anche suo fratello e sua sorella. Ad un certo punto avremo un carcere strapieno e le strade vuote. L'altro luogo comune da sfatare è che non è una giustizia neutra quella del carcere, è una giustizia classista. Il carcere non mette in carcere le persone che compiono reati, il carcere mette in carcere le persone che non riescono a pagarsi un buon avvocato. Il carcere è pieno per il 50% di detenuti tossicodipendenti, il 25% sono malati e l'altro 25% compiono reati diciamo sociali, perché vengono con dei mezzi culturali molto poveri e non riescono a integrarsi. Il terzo luogo comune è che il dibattito a mio avviso non è fra carcere si e carcere no, ma il carcere come istituzione totale ottocentesca, medievale, come ce l'ha descritta giustamente Don Renato, è una realtà di custodia necessaria per la società, oppure regionale, limitata, con poche persone in modo da consentire la socialità che possa essere riabilitativa per gli individui. Inoltre il carcere produce criminalità, perché se il 67% delle persone compiono reati, il 67% dei detenuti reiterano il reato vuol dire che chi c'entra come criminale, esce come criminale studiato. I diciottenni che compiono reati stanno in cella con persone che sono pluricriminali che scontano 20 anni di carcere. Che cosa studiano in carcere? Studiano come si diventa criminali. 

Ida Palisi - Redattore sociale (Napoli)*

Faccio la corrispondente da Napoli per il Redattore Sociale. Volevo fare una duplice domanda a padre Renato: quali sono le alternative possibili concretamente al carcere, se è vero quello che sta emergendo qui ossia che il carcere non serve? Al di là di come vengono trattati o meno i detenuti, insomma, se ci possono essere ipotesi concrete di alternative possibili e chi se ne deve fare carico, se i politici evidentemente non possono. La seconda domanda è un po' riferita anche al contesto napoletano dove ci sono 4 carceri di cui uno minorile e un altro femminile ma non sembrano assolutamente arginare la criminalità: lì che si può fare per far entrare il giornalista e raccontare quel mondo? Io mi chiedo sempre chi può offrire un'alternativa possibile e quanto valida possa essere questa alternativa per i ragazzi che hanno come modello culturale soltanto quello camorristico e che sono in carcere soprattutto perché hanno fatto un apprendistato camorristico, perché per loro fare scippi e rapine non significa soltanto e sempre procurarsi la dose quotidiana di droga, ma significa soprattutto entrare in un sistema culturale nel quale loro si sentono protetti. Dare a questi ragazzi una possibilità diversa? Anche culturale, possibilmente,  che non si limiti al progettino in carcere. Napoli proprio da questo punto di vista è sempre sotto i riflettori come esempio negativo. Io vedo soprattutto che è il volontariato di stampo cattolico che se ne fa carico, e molto poco se ne fanno invece carico le associazioni, quindi l'ultima domanda è: qual è il ruolo del terzo settore in questo tipo di contesto?

Intervento

Lavoro per una testata locale in provincia di Milano. Io innanzi tutto avevo una domanda per don Renato: volevo chiedergli qual è il rapporto tra detenuti italiani e detenuti immigrati. In un periodo in cui si parla tanto di integrazione, di difficoltà d'integrazione, in un luogo dove comunque devono stare insieme che tipo di rapporto si crea.. L'altra cosa che volevo dire è che ammetto di essere probabilmente un po' confusa, perché io faccio fatica a capire quali sono le cause e quali sono gli effetti di alcune problematiche. Per esempio nell'intervento di Calabresi poco prima della pausa lei diceva che era stato un errore negare l'incidenza della criminalità straniera, perché non si era tastato il polso delle paure della gente. L'aveva lasciata come una tematica di esclusiva della destra che ne aveva poi fatto un cavallo di battaglia per le elezioni. Però io mi chiedo: le paura a cui lei fa riferimento e che poi immagino si possano applicare anche all'idea che la società ha del carcere, quindi la paura del detenuto e la diffidenza, sono autentiche o sono indotte? Perché parlando di ruolo dei giornali e dei media, io purtroppo non vorrei far la pessimista, ma mi rendo conto che sempre più spesso è negativo.  Di fronte a un caso come fu quello di Erika e Omar, o a un caso come quello di Cogne e di fronte a settimane intere di Porta a Porta in cui si parla di nulla relativamente a questi argomenti non si può poi pretendere che la famosa casalinga di Voghera non si spaventi. Secondo me la paura è indotta ed è su quello che bisognerebbe lavorare.  Bush ha vinto le ultime elezioni sulla paura degli americani e sulla diffidenza e sulla non fiducia nei confronti del diverso. Pochi giorni fa sono stata a un convegno su una nuova legge relativamente alla figura dell'amministratore sociale che è un'alternativa all'interdizione, all'inabilitazione dei malati psichici;. Il direttore di una struttura per malati psichici in provincia di Milano diceva che non sono loro i portatori di handicap, è la società che glielo mette addosso l'handicap. Secondo me un ragionamento del genere che ho trovato molto illuminante, oltretutto fatto dal direttore di una struttura apposita, è  altrettanto ben applicabile anche alla paura della gente. Lei prima citava i dati delle rapine nelle ville, è verissimo che i giornali cavalcano certe notizie nel momento in cui si parla di quello. Le vorrei citare i dati del piccolo paese dove abito in cui i reati per fortuna si concentrano nel centro commerciale e sono spesso fatti da stranieri, ed è vero, che rubano vestiti e scarpe. Io non ho paura dello straniero che ruba vestiti e scarpe, posso avere invece paura del mio concittadino Vibromonese con cui ho preso il caffè e che affitta agli stranieri stanze dove abitare in condizioni inumane a prezzi esorbitanti. Per cui anche questo discorso della criminalità dipende proprio da come lo si affronta, qual è la causa, qual è l'effetto. Si parla del ruolo dei giornalisti, ruolo della cultura, secondo me ci vuole un ripensamento totale in un paese dove i ministri dicono le cose che ha detto ieri Calderoli, dove i parlamentari o sono assenti o si prendono a botte il più delle volte. Cioè quale può essere il messaggio che arriva, se poi magari capita che non tutte le persone abbiano gli strumenti culturali per vagliare le informazioni che ricevono, perché c'è anche questo aspetto. Chi prepara il minestrone ascoltando il Tg2 piuttosto che il Tg5 prende come oro colato quello che gli viene detto e allora davvero il problema della causa e dell'effetto è fondamentale per stabilire poi le soluzioni.

Marina Picone - giornalista freelance*

Sono una giornalista freelance. Volevo riallacciarmi al discorso riguardo ai detenuti di cui non si parla e volevo portare una testimonianza perché in realtà c'è una categoria che è ancora più ultima di quella dei detenuti, che ha ancora meno diritti di quella dei detenuti, che è quella dei matti criminali, le persone che commettono reato e che essendo dichiarati incapaci di intendere e di volere vanno a finire nei manicomi criminali, nei manicomi giudiziari. In Italia esistono 6 manicomi giudiziari, ospitano 1300 persone circa e semplicemente sono una realtà assolutamente censurata, di cui non si parla. Io ho fatto un reportage su questi manicomi giudiziari,; poi ho intervistato dei cittadini chiedendo: secondo te chi c'è lì dentro? E loro dicevano: i mostri. Cioè quelli che hanno ammazzato, hanno fatto dei delitti atroci. In realtà non è vero. Oltre l'80% delle persone hanno commesso reati di lieve entità: furto, incendio, percosse e solo una piccolissima parte ha commesso omicidi. Il problema è che devi avere dei buoni avvocati. Siccome le persone che vanno nei manicomi giudiziari non hanno avvocati, sono le persone povere, sono quelle più escluse, vanno a finire lì e nella gran parte dei casi non ne escono perché non esistono strutture sul territorio. Ecco questa è una realtà che non trova molto spazio e di cui in televisione non si parla.

Intervento

Frequento la scuola di giornalismo di Perugia e volevo sollevare una questione pragmatica: per rendere più efficace il lavoro dei giornalisti nel sensibilizzare l'opinione pubblica al problema dei detenuti credo che sia fondamentale quello che diceva Calabresi, ossia che le varie associazioni di volontariato si organizzino nel creare un progetto comune con dossiers magari, dati, ecc.; che siano acquisibili de tutti i giornalisti con un click o in una telefonata. Perché se pensiamo che nemmeno Repubblica, che è un grande giornale riesce  sull'urgenza della cronaca ad avere le risorse e le capacità per fare delle inchieste che permettano d'interpretare il fatto di cronaca al di là della contingenza, immaginiamo per i piccoli quotidiani, o per i quotidiani locali, le televisioni locali…  

Carla Chiaramoni - Redattore sociale*

Lavoro all'agenzia Redattore Sociale. Volevo solo riequilibrare questa seconda parte nel senso che non mi sembra che i dati non esistan. Ci sono: c'è un rapporto di Antigone che è estremamente dettagliato, preciso, puntuale, c'è Redattore Sociale, scusate è di parte, ma esiste. In realtà i dati ci sono, forse non c'è la facilità di alzare il telefono e trovare dall'altra parte spiattellata la notizia, quindi richiede un po' d'impegno in più, però i dati ci sono. Ecco questo mi sembrava doveroso.

Renato Rebuzzini

Per alcune domande appunto volevo rimandare al rapporto Antigone che ho nominato all'inizio del nostro incontro. Ho l'impressione che si dovrebbe parlare del carcere, ma per questo è necessario far diventare il carcere una notizia, altrimenti i giornali non ne parlano. Ma la notizia è soltanto quando ci sono brutte cose? Io credo che non manchino le possibilità di far diventare notizia non cose che valorizzano il carcere, ma che valorizzano i detenuti in quanto persone. Chissà perché le donne in carcere sono molto più protagoniste. Lo sono senza dubbio: le donne riescono molto di più ad avere una progettualità per la loro vita; più difficilmente si lasciano andare, ma hanno davvero una capacità di esistenza e di non perdita della propria dignità molto più forte degli uomini; hanno anche una capacità organizzativa interna più robusta. Credo che su una cosa dobbiamo stare attenti. Prima qualcuno mi faceva una domanda sulle donne con figli.  Sì c'è l'asilo nido e circa 4 o 5 anni fa era stato preso contatto con una realtà di Milano del Cnca, per studiare l'ipotesi di comunità che accogliessero mamme con bambini in alternativa al carcere. C'è stata una serie d'incontri interessanti. Si è discusso e infine non se ne è fatto niente ma la domanda più seria era: ma è giusto che un'associazione prenda la gestione della giustizia? Sapete che la proposta di Fini è quella di appaltare il carcere per i tossicodipendenti a delle mega-comunità, al di là della valutazione sull'utilità o meno. Allora io dico che uno stato che delega l'amministrazione della giustizia mi fa tremare sulla qualità democratica. Adesso non so se è una posizione di principio, ma a me viene per motivi di principio di non poterci neppure pensare che venga delegata la giustizia. Già è stata delegata la sanità, se poi deleghiamo anche la giustizia mi pare che davvero siamo alla totale perdita della cittadinanza. È vero che il volontario non deve partire dal reato, il volontario no, però la società si. Se fossi il volontario, in carcere non m'interessa in breve istanza qual è il reato del detenuto, ma per la società invece è in carcere per un reato e quindi mi sembra che dobbiamo essere concreti: non possiamo assolutamente dimenticare il reato, che comunque non definisce la persona. E' vero la giustizia non è neutra, è una giustizia di classe: chi non può avere un buon avvocato resta dentro, chi ce l'ha esce. Questo è tutto vero, assolutamente. Mi chiedo: queste considerazioni ci aiutano all'ascolto attivo? Ho l'impressione di no. Cioè non ci servono. Io credo che dobbiamo partire dalla realtà e da come le persone percepiscono la realtà. Per cui, se le persone percepiscono il carcere come l'elemento fondamentale della sicurezza, io devo partire da lì. Sono convinto che non c'è connessione tra carcere e sicurezza ma non posso non partire da lì, perché altrimenti non c'è comunicazione, non c'è possibilità di un passo in avanti. Devo partire da come la persona percepisce la sua paura e la sua sicurezza. Sul manicomio criminale, l'ultimo superstite della legge 180. per me, se il carcere è l'ospizio dei poveri, questo è il cassonetto dell'ospizio dei poveri.

Mario Calabresi

Lei dice: il giornalista attore deve cambiare ruolo, deve diventare colui che descrive la realtà. Attenzione perché il giornalista attore è una degenerazione. Non è che il giornalista da attore deve descrivere la realtà. I giornalisti dovrebbero per statuto interno non scritto descrivere la realtà e non diventare attori di quello che raccontano. E qui vorrei fare una considerazione che potrebbe essere finale, ma la faccio subito. Attenti a una cosa: a non affidare ai giornali e ai giornalisti missioni catartiche e risolutive, perché possiamo lanciare tutti i dibattiti del mondo, tutte le operazioni culturali sul carcere che ci sono, ma se poi non ci sono i volontari, non c'è chi ci va nelle carceri, non c'è una sensibilizzazione dei direttori piuttosto che degli educatori, avremmo solo esercizi stilistici e non servirebbero a nulla. Banalizzo per essere chiaro: se io parlo con una persona che ha subito uno scippo da parte di uno straniero come un tunisino; se io mi pongo davanti a questa persona dicendogli "va bene, è un caso, noi i tunisini dobbiamo integrarli", a questa persona tutto quello dico gli sembrerà un insulto, non lo ascolterà, perché dirà: "Ma come, tu non ti stai facendo carico del mio problema e della mia paura". Allora secondo me bisogna farsi carico prima di questo per poter poi aprire un dialogo. Bisogna ammettere il problema, riconoscere la paura. Solo allora avremo la titolarità per dire: "Sì, ma contestualizziamo, per un tunisino che fa un furto, quanti tunisini invece sono inseriti nel tessuto sociale?"
Una considerazione: proprio due anni fa mentre sembrava che in Italia non si potesse più aprire la porta di casa perché ti entravano a rapinare, ad un certo punto l'attenzione si è rivolta ad Erika e Omar  e sembrava che non ci fosse figlio che non aspettasse il genitore con il coltello in cucina. Ecco, io in quel periodo lavoravo alla Stampa e mi è capitato sotto mano la prima pagina del giornale nell'edizione del giorno in cui si è suicidato Pavese. C'erano 4 notizie. Una era il suicidio di Pavese, le altre erano un figlio che aveva ammazzato a colpi di roncola i genitori e il fratello in Piemonte, una rapina in una cascina vicino Bologna in cui erano stati presi a martellate due anziani,  massacrati e derubati di tutto e  un marito che aveva ammazzato la moglie. Questo me lo sono tenuto come esempio, tutte le volte che qualcuno mi diceva: "Ormai succede di tutto…prendono a martellate la gente". Io dicevo: ma guarda che anche nel 1950 prendevano a martellate la gente, stiamo attenti ci vuole un po' di memoria, perché altrimenti sembra sempre che l'emergenza di giornata sia assolutamente nuova e predominante. Prima mi è venuto in mente, mentre parlavate, un libro di un giornalista inglese che si chiama David Randall che vi consiglio. E' appena uscito nelle edizioni Laterza. Il titolo è "Il giornalista quasi perfetto". E' un bel libro che mi ha colpito perché oltre a ricordarci un po' di regole etiche del giornalismo che in Italia sono un po' così così, dice anche che il giornalista ha il dovere di farsi carico anche degli ultimi e del disagio. Sembra una cosa scontata ma non è scontata per niente. Voglio chiudere con due esempi di giornalisti che erano qui poco fa.

Mi permetto di citare le loro vicende perché sono usciti, sennò sarebbe stato imbarazzante. Dino Martirano del Corriere della Sera ha fatto dimettere un ministro della Repubblica, il ministro Scajola, solo avendo il coraggio di scrivere una parola. Era vicino al ministro Scajola quando questi ha detto: "Ma no, non mi parli più di quel Biagi ammazzato dalle Brigate Rosse, se dovessi dire io cosa penso di Biagi, era un rompi…". L'addetto stampa del ministro ha cercato di dissuaderlo: "No ma era solo una battuta…mica scriverai sta cosa, che sei matto?"  Martirano ha scritto un pezzo dicendo: Biagi per il ministro Scaiola è un rompi… Le pressioni del Ministero dell'Interno quella sera sul Corriere della Sera perché non pubblicasse quel pezzo sono state fortissime, però il giornalista ci ha messo la faccia ed è stato coraggioso, l'ha pubblicata e da lì è iniziata una frana che conosciamo e il ministro si è dimesso. Sapete ci voleva molto poco per non mettere quella parola sul giornale, pochissimo. L'altro è Gian Maria Bellu che lavora nel mio stesso giornale. Lui ha preso una storia che era una storia come tante altre, i pescatori di Mazzara del Vallo di Porto Palo che raccontavano che si era persa una barca a Natale. Ha insistito, ci ha lavorato tantissimo, ha trovato il modo per pubblicare dei pezzi sul suo giornale che gli ha dato lo spazio andando fino in fondo. Vorrei che questo dibattito lasciasse la sensazione che ci siano gli spazi per fare di più e meglio e senza costruire però barricate, soprattutto non ce le costruiamo dentro, non costruiamoci noi un mondo separato pensando, ma tanto la politica non capirà niente, ma tanto i giornali non le racconteranno mai queste cose, perché altrimenti siamo fregati davvero.  Io penso inoltre che il mondo del terzo settore, del sociale dovrebbe fare un passo in più anche verso i giornali, perché è vero che i tempi sono stretti; penso che ci sia da una parte molta pigrizia, dall'altra invece la necessità di creare ulteriori contatti.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.