X Redattore Sociale 28-30 novembre 2003

Volo Radente

A rimorchio. Se l'agenda dell'informazione è dettata dalla politica

Dibattito tra Marco Damilano, Filippo Ceccarelli, Federica Sciarelli. Coordina Vinicio Albanesi

Marco DAMILANO

Marco DAMILANO

(Roma, 1968) Direttore de L’Espresso, di cui è stato Vicedirettore dal 2015. Ha iniziato al settimanale "Segno Sette" e ha collaborato con il Diario e con il magazine del Corriere della Sera "Sette". Ha scritto tra l’altro "Democristiani immaginari" (Vallecchi, 2006), "Il partito di Dio" (Einaudi, 2006), “Chi ha sbagliato più forte” (Laterza, 2013, “La Repubblica del selfie” (Rizzoli, 2015). È stato co-autore di soggetto e sceneggiatura del film "Piovono Mucche", premio Solinas per la scrittura cinematografica 1996. Oltre alla carta stampata è opinionista dei programmi politici di La 7.

ultimo aggiornamento 09 novembre 2017

Filippo CECCARELLI

Filippo CECCARELLI

Editorialista de La Stampa. Ha scritto tra l’altro “Il teatrone della Politica” (Longanesi, 2003).

 

Federica SCIARELLI

Federica SCIARELLI

Giornalista del Tg3.

 

Vinicio ALBANESI

Vinicio ALBANESI

Sacerdote, presidente della Comunità di Capodarco e di Redattore sociale. Dal 1988 ha ricoperto la carica di presidente del tribunale ecclesiastico delle Marche per 15 anni ed è stato direttore della Caritas diocesana di Fermo per altri dieci. Dal 1990 al 2002 è stato presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca).

 

Vinicio Albanesi*

Ringrazio Paolo e Roberto che hanno dato dei contributi profondi: la coscienza collettiva di cui parlava Paolo, il problema dei contenuti di cui parlava Roberto. Credo che la storia della commercializzazione sia vera ma non è tutto, perché poi dietro c'è un'antropologia che non riusciamo ancora a decifrare. Il commercio certamente è un elemento, ma non è solo il commercio. Chiamo Marco Damilano, Filippo Ceccarelli e Federica Sciarelli: tre giovani leoni e leonesse. Filippo Ceccarelli editorialista de La Stampa, c'è il suo libro in visione. Marco Damilano sta pensando ad un libro, è stato obiettore a Capodarco di Roma e ha fatto un'intervista al nostro don Franco, però lavora a l'Espresso e quindi è di buone promesse. Federica Sciarelli è del Tg3. La prima domanda: è vero che la politica condiziona l'informazione a tal punto da diventare narcisa? Domanda secca a tutti e tre.

Federica Sciarelli*

La politica incide

Vorrei dire qualche cosa di più. L'esperienza del Tg3, per esempio, mi ha insegnato che noi abbiamo combattuto contro quello che era il così detto pastone politico, indigesto ma secondo me sano pastone politico. Perché l'abbiamo fatto noi del Tg3? Abbiamo deciso di fare la politica in un altro modo, quindi abbiamo preso i politici, le frasi dei politici le abbiamo messe nei servizi, mentre prima c'era un giornalista che faceva la nota politica da Montecitorio, dal Senato, insomma dov'era e con 2 minuti se la sbrigava in modo tale che il telegiornale potesse avere spazio per altre notizie. Noi invece abbiamo combinato un guaio perché abbiamo fatto si che il politico entrasse nei telegiornali con la sua frase presa nei convegni o in altri posti. Poi che cosa è successo? Siamo voluti andare oltre. Invece di fare le interviste sedute, il nostro capo redattore si è inventato le tre battute: se il politico veniva e diceva che il cielo è nuvolo, il giorno dopo il Corriere della Sera, la Stampa, metteva il titolone: nubi nel governo. Secondo me è successo che ci siamo un po' incartati nel senso che il politico in qualche modo ha preso gusto a entrare con forza nei telegiornali. Chiaramente un passaggio anche di 3 parole, quando hai 2-3-4 milioni di telespettatori è come stampare un manifesto gratis e metterlo in tutt'Italia. A quel punto non eravamo più noi che andavamo a cercare i politici per fargli domanda.
Ora sono loro a chiedere di entrare con prepotenza nel telegiornale rivendicandolo come diritto. Alla fine una parte politica si è schierata per una legge che si chiama par condicio: tutti noi pensavamo fosse una buona legge, perché è una legge che consente a tutti gli schieramenti di parlare. Secondo me ciò non è vero. Pare strano che io mi metta a parlare contro la par condicio, no? Si tratta di una legge di cui i politici si sono impossessati. Ci obbligano con i vari istituti che controllano, a dare le dichiarazioni di tutti. Ci sono politici che dicono anche delle cose intelligenti - qua devo smentire Roberto Natale, perché la notizia del gatto che ti rovina le tende può essere anche una notizia di servizio, una notizia utile - ma ci sono le dichiarazioni politiche che non hanno senso, non si capisce cosa vogliano dire o sono solo delle ripetizioni di cose già dette. Noi siamo in qualche modo obbligati adesso, quindi insuffliamo i nostri telegiornali.

Alla luce di ciò dico che la par condicio non può valere solo per i politici, che se ne sono impossessati. La par condicio deve valere per tutto e su tutto. Allora quando, ad esempio, parlo di Nassyria, io sono stata colpita perché c'erano anche dei bambini irakeni morti, loro la par condicio non ce l'hanno avuta. Noi parlavamo, giustamente, dei nostri morti perché ci stanno più vicini, ma nei telegiornali a un certo punto è stato difficile far passare che c'erano anche altri morti. A proposito di par condicio, dunque, io dico che bisognerebbe cercarla, tirarla fuori anche con gli altri aspetti della vita sociale. Voglio dire, un morto sul lavoro è anche lui un morto ed è una notizia che va data, non va nascosta. Noi del Tg3 cerchiamo molte volte di parlare anche d'altro. Per esempio abbiamo una rubrica che si chiama "Shucran" che immagino che nessuno di voi abbia mai visto.
E' una rubrica che parla di immigrati ed è successo che l'hanno messa nella fascia di maggiore ascolto delle altri reti e quindi non la vede nessuno. Anche quando noi cerchiamo di forzare la situazione, di parlare di argomenti particolarmente importanti, la rubrica va in una fascia in cui nessuno la guarda quindi tutto il lavoro è praticamente inutile.

Filippo Ceccarelli*

Il teatrone della politica 

Si, l'informazione si è fatta narcisa e ce la teniamo così ma ci ribelliamo, ne parliamo, ne bofonchiamo, cerchiamo se possibile di smontarla. Questo è quello che ho cercato di fare. Non conoscevo il Redattore Sociale. Prima di venire, però, ho voluto guardare gli ultimi 60 gg. E man mano che leggevo, che sfogliavo - perché poi me le sono stampate le notizie - mi veniva di pensare alla rovescia, al tesoro di tempo, di cura professionale, di soldi, di capacità tecnica che invece viene spesa per mettere in scena quella che io ho chiamato il teatrone della politica, che invece è il teatro del potere sostanzialmente. E avendo dedicato qualche tempo all'importanza che ha assunto lo spettacolo nella vita pubblica italiana e in particolare nell'informazione, mi chiedevo se fosse stato possibile utilizzare tale spettacolo sui temi che leggevo su Redattore Sociale. E naturalmente si, altroché.. I charter della vergogna.. un bel servizio televisivo su questi che rimandano i clandestini nei loro paesi immaginate. Oppure la battaglia sottile tra Maroni e la Fish... i tribuni della Fish, se funzionano o no nell'anno del disabile, fatta con colpi di scena, con delle musiche giuste. Oppure la straordinaria storia di alcuni zingari diventati archeologi a Roma a cui è stata affidata la tutela di una villa romana. O anche vita da mediatore culturale... pensate ai casini che può avere una persona di questo genere.

Non vi sarà sfuggito che nella lettera provocatoria - ma fino a un certo punto - che Vinicio ha scritto al presidente Colombo, c'è il soggetto di un film, ossia Colombo che improvvisamente va in una comunità per vip. questo è un film, un bellissimo film che forse serve più di tante informazioni, fino agli effetti speciali. Ora man mano che leggevo queste cose, man mano che mi venivano queste tentazioni giornalistiche, mi chiedevo se spettacolarizzarle costituisse un peccato o un modo di corromperle, contaminarle. Devo confessarvi che alla fine ho detto: forse si può, forse è lecito. Perché gli strumenti della tecnica rimangono per fortuna, per grazia di Dio neutrali, perché l'importante è l'ispirazione di fondo, l'intenzione. Lasciamoci questa possibilità. Guardando sempre Redattore Sociale mi è cascato l'occhio a un certo punto sulla pubblicazione di un libro di Bianca Pizzorno che si chiama "L'isola degli smemorati". Ha a che fare con i diritti dei bambini, c'entrano i rom, fatto in una municipalità romana, però di fronte al titolo io non ho potuto non pensare a quell'altra isola. E qui arrivando poi al nocciolo puro di quello che vorrei dire e cioè al teatrone, alla politica come viene rappresentata. Io debbo in qualche maniera tentare una proporzione matematica di quelle chi ci hanno insegnato alle medie. L'informazione politica sta alla vita come il reality show sta alla realtà.
Venerdì scorso Berlusconi poteva andare a tribuna politica, conferenza stampa si chiama. Era lo spazio di Forza Italia, ma non ci è andato perché sull'altro canale 10 milioni di persone guardavano altro. sarebbe stata una mortificazione in una vita pubblica ormai così esposta a una specie di perpetua rappresentazione. E debbo anche informarvi che nel cast dell'Isola dei famosi era previsto un politico. Era Claudio Martelli. È vero. Se ci pensate poi i conti tornano, perché Claudio Martelli è bello. Era bello.. era un ex potente, quindi in qualche misura divideva questa condizione di aver perso qualche cosa di molto prezioso oggi. Ma soprattutto Claudio Martelli aveva partecipato 2 anni fa ad una trasmissione televisiva che si chiamava "Biglietto di sola andata", cioè acchiappavano delle persone le mollavano non so se a Linosa o in un'isola abbastanza lontana dal continente e loro poi dovevano dimostrare di saper arrivare senza una lira, ma con telecamere alle spalle, fino a Roma, ecc. Martelli l'aveva già fatto, quindi questi probabilmente dell'Isola dei famosi hanno provato a chiederglielo, non abbiamo avuto il piacere di vederlo, forse è stato un bene per lui, per tutti quanti, però il fatto che lo si potesse immaginare in quel contesto, qualche cosa significa.

Significa che gli uomini politici sono ormai diventati più che dei politici, dei personaggi,quindi in qualche misura degli attori, delle macchiette talvolta e che d'altra parte gli attori fanno politica. L'evento della manifestazione, la recita, lo spettacolo della Guzzanti domenica scorsa all'auditorium non è stato semplicemente uno spettacolo, è stato un evento politico, la gente l'ha vissuto come tale, quindi è sviluppata questa inversione, per cui i politici recitano e gli attori fanno politica. In mezzo si è creata una terza dimensione popolata di mostri, di sosia, di tapiri, di iene, in cui diciamo fluttuano queste due realtà.
Io penso che siano cose che occorre in qualche maniera sapere. Se la conquista dell'attenzione è diventata la vera posta in gioco non è che la cosa non abbia effetti. La tecnica dello spettacolo diventa preponderante, la politica torna a farsi figurativa, la faccia diventa qualche cosa di importantissimo. Pensate tutte le polemiche sui capelli di Berlusconi, glieli coprono, gli fanno il riporto col pennarello, con la grafica computerizzata, le rughe che non ci sono più, il corpo comincia a diventare una cosa molto più importante di quello che è stato, per i politici intendo, 15-20 anni fa. Si spogliano. C'è una nudità fortissima d'estate, a un certo punto io ricordo che alcuni sindaci si sono fatti fotografare in costume da bagno. Tanti, tantissimi.. quello di Roma, quello di Milano, quello di Bologna, senza distinzioni politiche, quello di Ancona con un vassoio di pesce in mano, quello di Benevento.. per carità, direte che male c'è? Però insomma. Basta saperlo.

L'informazione politica, quella che conta, quella autentica prevede ormai spettacolo. Non si capisce per quale ragione temi importanti come la guerra, la pace debbano essere sistematicamente accompagnati con la presenza in studio di alcune attrici. Pare che le dicano addirittura anche lì di venire vestite in maniera tale da suscitare maggiore attenzione. Insomma l'idea di fondo è che la tecnologia, la tecnica televisiva è sfuggita di mano e che lo spettacolo si è fatto le ossa sul terreno soprattutto della pubblicità, del mondo del consumo, mondi se non altro economicamente molto vitali rispetto alla politica, almeno a questa politica di oggi dove le appartenenze sono deboli, dove le ideologie lasciano un po' il tempo che trovano, dove tante cose sono cambiate anche negli stati e sui poteri che si hanno. Sono mondi che hanno ormai l'egemonia sulla vita pubblica quindi condizionano e la politica, i politici e l'informazione. La sensazione è che il giornalismo, anche quello della parola scritta, stenti a seguire questa realtà, non prende atto del cambiamento e questo, in qualche maniera, si risolve anche in una complicità.
Credo che si tratti di fenomeni che prescindono dalle volontà individuali, sono fenomeni più generali. Un tempo esisteva la rappresentanza. Io ho fatto in tempo a conoscere i politici di una volta. Non vorrei qui fare il nostalgico, ma insomma quando si incontrava Moro o Berlinguer - due persone la cui morte è stata all'altezza anche del dramma geo-politico che l'Italia ha vissuto - si aveva la percezione di persone che prima di dire una cosa, o prima di fare una cosa sistematicamente si rapportassero con i milioni di persone che avevano dietro. Era inimmaginabile pensare che potessero cantare, ballare, o cucinare, o giocare a tennis in tv, incarnavano qualche cosa quasi di sacro. Quella era la rappresentanza.

La sensazione è che la rappresentanza sia sfuggita e sia stata sostituita da rappresentazioni. Qualche mese fa il presidente del Consiglio Berlusconi, che di questo regime di rappresentazione in qualche maniera è un po' il messia - perché è uno che ha regalato immagine, che viene dal mondo del consumo, della pubblicità, perché ha sposato un'attrice di teatro, perché ha comprato dei teatri, ha fatto il produttore di cinema, è un grande attore, un regista di sé stesso, un impresario di sé stesso, dà le parti agli altri - voleva chiaramente dire il "popolo italiano", ma gli è sfuggito il "pubblico italiano".
La cosa non è suonata neanche tanto stridente perché effettivamente si andava a rappresentare qualche cosa. E allo stesso modo la percezione è che non ci si consideri più tanto come cittadini o elettori, ma come telespettatori, il che cambia la prospettiva. Queste cose in qualche maniera hanno un riflesso anche nel linguaggio. Io ho letto che quando i socialisti all'inizio degli anni 60 andarono al governo, Nenni che era un grande capo redattore disse: entriamo nella stanza dei bottoni.. per dire l'immagine del potere, l'essenza. Oggi la stanza dei bottoni è diventata la cabina di regia.
E non a caso un regista, Nanni Moretti, è quello che ha con i girotondi inventato la forma politica forse più evoluta, o comunque l'ultima che abbiamo avuto davanti agli occhi. La televisione, lo spettacolo hanno imposto un linguaggio, hanno dettato i tempi. In televisione la soglia di attenzione non supera i 20''. Tutto è talmente ritmicizzato che ciò ha inciso sugli uomini politici, sulla classe politica, su questo ceto politico in maniera tale che loro si comportano come se ci fossero sempre le telecamere, anche quando non ci sono.

È una condizione molto particolare, anche psicologica. Gli spazi, i luoghi deputati della politica, il Parlamento... il Parlamento è sistematicamente travolto da questo tipo di civiltà, è un luogo noioso, è un luogo di mediazione, è un luogo dove si perde tempo, ormai. Il presidente del Consiglio non è mai andato a rispondere a un question time: nella rappresentazione lui si trova, ad esempio, qui dove sono io e lassù, parecchio più in alto di lui, c'è il presidente della Camera. A lui scoccia da morire avere qualcuno sopra. È un fatto che ha a che fare con la tecnica. E' come il trono dell'imperatore di Bisanzio... insomma è qualche cosa che ha a che fare con la tecnica e Berlusconi su queste cose è talmente tecnico da sfiorare il ridicolo, nel senso che viaggia con un camion pieno di palchi speciali, pedanette che lui sistema in maniera da non risultare più in basso dell'altro. Sono cose che a noi fanno ridere, ma che costituiscono la grammatica della vita, o che la stanno costituendo, fino a quando non diventano un patrimonio comune. Per loro diventano importantissime, sono l'essenzialità. Quindi i luoghi, come ad esempio il Parlamento, non contano più tanto.
E' bene dirselo questo. Contano i palazzi privati, le ville, le regge. Il sistema dei mezzi di comunicazione così forte ha fatto riemergere elementi pre-democratici. Torno su Berlusconi ma con questo non voglio dire che gli altri non abbiano le loro responsabilità, quelli che c'erano prima, quelli che lo imitano. Berlusconi ha una capacità straordinaria di rendere servi quelli che gli stanno attorno. Il servo è una figura antica nella commedia, c'è sempre stata, è classica da Plauto, Aristofane. I preparatori atletici, le ville bellissime. Io mi ricordo Craxi e De Mita che stavano sempre a litigare e Andreotti diceva: mica devono andare in vacanza insieme per fargli fare pace! Oggi vanno in vacanza insieme, invitano figli. In qualche maniera anche a livello internazionale c'è tutta la formazione di una nuova aristocrazia, di personaggi, di repertori.

La televisione, lo spettacolo in generale pone la classe politica a fare dei numeri, classici, seriali, sono sempre gli stessi fateci caso. Il giuramento solenne, il contratto col foglio del notaio... giura Bossi a Pontida. Ma giura anche Rutelli quando accetta la candidatura al centro sinistra. Oppure il bagno di folla, quei 10'' di telegiornale in cui noi vediamo il leader che passa, la gente attorno che lo tocca, che si fanno fare la foto con i bambini. E il momento di commozione... piangono con una facilità, ormai, un tempo l'autocontrollo era una virtù. Tutti noi vogliamo anche essere protetti per cui chi ci deve proteggere per favore tenesse i nervi a posto e invece no, lacrime, commozione.
Giù a piangere. Vengono comunicate le emozioni. Ormai il rapporto tra emozioni e istituzioni è cruciale. Vengono comunicate le proprie emozioni come se fosse un atto di cortesia. In certi casi la comunicazione della propria emozione rientra in una dimensione protocollare, cerimoniale. Per esempio tutti gli uomini politici che incontrano il Papa sono particolarmente prodighi di esternazione della propria commozione.
Nel caso di D'Alema, quando era presidente del Consiglio, i giornalisti ricevettero una nota in cui D'Alema riconosceva la propria emozione nell'incontrare il santo Padre bla, bla, bla, ma l'incontro non era ancora avvenuto. Lo davano per ragioni di tempo. Quindi voglio dire: è ormai entrata in una dimensione liturgica. L'atto di bontà: quello che si sfila l'orologio, la donazione di massa, i commutatori dell'euro. Tutta una serie di bontà. Le peggiori cose vergognose fatte però a fin di bene. Vanno tutti a cantare a Sanremo perché poi il ricavato del disco verrà dato ai bisognosi. Poi tutte cose che nessuno compra che servono, però, a farli vedere. Fanno ridere queste cose ma sono importanti e oltretutto determinano l'attenzione dei media e sono come civette, ci si casca. Martedì approvano la Gasparri ed è previsto già uno spettacolo: prenderà la parola uno dell'opposizione e farà l'imitazione di Berlusconi nel Senato. Basta vero?

Vinicio Albanesi*

Prima la domanda era: la politica è narcisa? Quindi che rapporti ha con la comunicazione. Seconda domanda: ma non si diceva che l'economia guidava la politica? O non è vero più? Quali sono le connessioni sempre dal versante della comunicazione? Terza: che rapporto c'è tra politica, economia e realtà del paese? Quarta: che rapporto c'è tra politica, economia, realtà del paese e bene comune, progetto politico? Poi aprirei il dibattito. Adesso ascoltiamo Marco per sapere se è vero che la politica è narcisa.

Marco Damilano*

Il giornalista "nip" not important person 

Bhe', dopo lo show di Filippo è difficile aggiungere qualcos'altro. Il titolo del mio intervento potrebbe essere "quand'ero un giornalista buono". Adesso sto cercando di diventare un buon giornalista e non è detto che questo abbia poi a che fare qualche cosa con la bontà morale di cui parliamo praticamente ogni anno anche in questa sede.
Rispetto al titolo l'altra sollecitazione che mi veniva era questa: io ho lavorato, prima di lavorare a l'Espresso, per molti anni in un settimanale di una grande associazione cattolica, l'Azione Cattolica. In questo settimanale c'era, come in tutte le strutture che gravitano più o meno intorno al Vaticano, la struttura di controllo, diciamo pure di censura preventiva. Ricordo che c'era un Vescovo che fa l'assistente centrale dell'Azione Cattolica, che attualmente è il Cardinale di Palermo peraltro, che ogni volta che voleva censurare un articolo perché era un po' scomodo, un po' provocatorio, oppure un po' fastidioso diceva sempre: ma voi dovete volare alto, alto, alto. Faceva il gesto con la mano. E vedevi che ti allontanavi sempre di più dalla realtà, dalle emozioni, da quello che dà fastidio, dalla punzecchiatura, dalla polemica, dal conflitto, cioè tutto quello che è una buona regola del giornalismo, ma che è anche soprattutto una buona regola democratica. A me questa immagine del volo radente suggerisce innanzi tutto la bellezza del volare basso.

Volare basso significa immergersi nella palude, cercare di scoprire dettagli, cercare e vedere il sudore della fronte di un politico poi che non sa cosa dire. E volare basso significa poi, per chi fa informazione sociale, raccontare realtà che nessuno racconta. Ecco, a me questo volare radente mi suggerisce il primo antidoto all'informazione narcisista. Perché Filippo ha già detto tante cose sulla politica narcisa, io gli do atto che è stato uno dei pochi volti amici che ho incontrato il primo giorno che ho messo piede in Transatlantico, che era il primo giorno di questa legislatura, il 30 maggio del 2001. E lui mi diede una lezione assoluta subito, dopo che ero stato pesantemente insultato da Bossi, da cui ero ingenuamente andato a presentarmi.
E lui mi disse: ti rendi conto. Si è fatta l'ora di pranzo. Questo aveva promesso che cambiava l'Italia in 100 gg., sono passate le prime 5 ore del primo giorno e non si è fatto niente. Ecco su questo "niente" poi è una lezione, perché spesso noi raccontiamo il niente, coccoliamo il niente, lo corteggiamo, lo impastiamo. Quel niente che è la dichiarazione politica delle 16. C'è un club di politici che alle ore 16, come ubbidendo a un timing preciso, tutti i giorni fa polemica su qualcosa che poi tra l'altro a malapena finisce nei telegiornali della sera, quasi mai finisce in un quotidiano del giorno dopo, mai finisce in un settimanale. Lo fanno per narcisismo, lo fanno per apparire nel telpress che sforna agenzie, lo fanno per litigare tra di loro. Uno di questi deputati addirittura ha raccolto tutte le sue agenzie ne ha fatto un libro e lo ha regalato ai giornalisti.

Siamo all'assurdo. Noi spesso raccontiamo questo niente, che è un niente che spesso non rappresenta nulla, cioè il vero passaggio è quello di cui parlava anche Filippo, è il passaggio da una politica che rappresentava qualcosa, a costo di non avere un volto, ma rappresentava qualcosa, a una politica che ha un volto, ma spesso non rappresenta nulla. Sulla politica che non aveva un volto, ma rappresentava qualcosa, c'è un libro splendido di un grandissimo scrittore che è stato anche un grande maestro del giornalismo e del giornalismo politico, che è Leonardo Sciascia, che racconta i politici della Democrazia Cristiana che si riuniscono in un convento per gli esercizi spirituali e tra di loro si inserisce il personaggio dello stesso Sciascia, che è un artista scettico, assolutamente non credente, che sente questi che parlano linguaggi da iniziati.
A un certo punto lui racconta cosa si dicono dopo aver mangiato. "Sentivo intere frasi. Nell'insieme pareva che tutti parlassero poi della refezione consumata a mezzogiorno, dell'inappetenza di qualcuno e della fame dei più".
E qui comincia la politica: "quello mangia, quello ha una fame! Quello non ha mangiato ancora, non vuole mangiare. Vuole, non può! Bisogna farlo mangiare, deve finire di mangiare tanto c'è un limite al mangiare... e così via".
Mi resi conto che era un parlare figurato e spensi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in decomposizione. Era una politica che aveva sicuramente un linguaggio da iniziati. Mangiare per dire voglio il posto all'Eni, all'Iri. Se ti do l'Alitalia tu mi dai le Ferrovie.ecc. Però spesso c'erano personaggi assolutamente mitici come un certo Arcangelo Lo Bianco che era un signor nessuno sulla scena politica nazionale, ma era il rappresentante della Coldiretti, quindi della più potente lobby interna alla Democrazia Cristiana, voleva dire migliaia e migliaia di voti e se non c'era quello non si faceva la lista. Non appariva alle 16 nel telpress, non voleva andare in televisione, non gliene fregava niente, lui era li per rappresentare.

Adesso contano i leaders, contano i loro staff, c'è una classe politica spesso di cooptati, di signor nessuno che hanno l'unico merito di aver fatto amicizia con il leader e di esserci andati a cena la sera prima, contano tantissimo. Si parlava di economia ma in questo momento quelli che forse contano di più in assoluto sono le agenzie di comunicazione, le agenzie di marketing politico, che sono una vera potenza occulta, che è una di quelle potenze che noi che facciamo informazione politica dovremmo smascherare. In anni passati c'è stato chi ha smascherato quelli che erano della P2, ha smascherato quelli che avevano i fondi neri delle industrie di stato, adesso secondo me chi fa informazione politica dovrebbe smascherare le agenzie di comunicazione. A me è capitato di fare un'inchiesta alle ultime elezioni politiche del 2001 su queste società di comunicazione, quelle Berlusconi-Rutelli per capirci, che facevano questi manifesti 6x3 che erano praticamente autentici, davano lo stesso messaggio, solo quelli di Berlusconi erano fatti bene e quelli di Rutelli male, ma dietro questi 6x3 che insomma monopolizzavano il dibattito politico, c'erano queste agenzie di comunicazione con cose incredibili e divertentissime.
Per esempio c'è un personaggio molto noto, che forse qualcuno di voi avrà sentito nominare che si chiama Claudio Velardi, che era l'ex braccio destro di D'Alema alla segreteria del Pds, dei DS e poi a Palazzo Chigi, che a un certo punto si è messo in proprio e ha fondato una sua società di comunicazione che si chiama "Tunning". Ecco lui, tra l'altro è un personaggio simpatico devo dire. Però era al suo debutto nella sua nuova veste di lobbista della comunicazione e naturalmente dice: io sono un professionista, quindi affido la mia professionalità a tutti.
E quindi assistevamo all'uomo più vicino a Massimo D'Alema che ha fatto il consulente elettorale di candidati del centro-destra, gente che vuole il tuo male diciamo, che vorrebbe che tu fossi all'opposizione. Dall'altra parte c'era un certo Mauro Terlizzi , questo invece è meno conosciuto, che veniva da Pubblitalia. Nel '93-94 era stato chiamato da Marcello Dellutri a fondare Forza Italia, aveva partecipato nello strettissimo gruppo dell'inizio di Forza Italia con il sondaggista Gianni Pilo e poi tutti questi personaggi che si sono avvicendati e poi scomparsi. Questo Mauro Terlizzi faceva la campagna elettorale dei DS e aveva anche dato un suggerimento paradossale. Quando si era fatta la prima riunione al botteghino di via Nazionale, gli avevano chiesto il da farsi e lui gli aveva detto: dovete rimettere il rosso dappertutto, sennò non si capisce chi siete. E quelli hanno messo il rosso.
Vi ricordate quella campagna elettorale bella, ricca, tutto rosso.
Ma fu paradossale, perché loro ci avevano messo 10 anni a eliminare il rosso dalle loro bandiere. C'erano congressi che erano sempre più azzurri, il rosso spariva non c'era più. Insomma la politica ci aveva messo 10 anni a scolorire una bandiera che lo stratega della comunicazione, che peraltro arriva dal campo avversario, ti suggerisce di rimettere. Smascherare questi meccanismi è fondamentale perché altrimenti non riusciamo a capire cosa si nasconde, spesso, dietro tante maschere e la conseguenza è che alla fine diventiamo narcisi anche noi.

C'è un narcisismo del giornalista che non è insito nel mestiere. Ogni giornalista è narciso, ogni giornalista ama vedere la propria firma o il proprio servizio, specie se l'ha fatto con amore, con passione, con dedizione, ama essere ripreso, ama che qualcuno il giorno dopo lo chiami per complimentarsi del pezzo scritto... C'è però un'informazione sganciata completamente dal pezzo direi. messaggi trasversali, autocitazioni. Sganciato completamente dalla realtà. Il fenomeno dei giornalisti che sono più intelligenti e presentabili dei politici, un caso per tutti Giuliano Ferrara ovviamente, è un'altra grossa novità di questi anni. Spesso questo è un giornalismo che diventa cinico e sicuramente un giornalismo che vede male quelle rare volte che in politica fa irruzione la realtà, non la reality, anche se magari per fare irruzione deve utilizzare gli strumenti dello spettacolo. Dato che qui c'è don Vinicio ho raccolto una cosa che ho visto dove lui è stato protagonista. Lo invitano alla convention nazionale dell'Ulivo del 96 con Prodi e Veltroni, perché serviva un prete. lo invitano come se fosse don Mazzi diciamo, o come il Cardinale Tonini. Perché non so, un prete serve.. si mettono lì compunti pronti a beccarsi la predica che lui infatti fa. .gli dice che sono il peggio possibile, ecc., sono pronti ad applaudirlo e quando sono già con la mano pronti all'applauso lui, che aveva una sciarpa rossa, dice: "Dato che è domenica io vi invito ad alzarvi in piedi e a chiedere scusa per quelle malefatte che avete fatto nella vostra azione di politici. Per chi ci crede chiede scusa a Dio, per chi non ci crede chiede scusa alla sua coscienza".
Momento di stupore e a quel punto si vedono le prime file dove c'era gente come D'Alema, Dini, Meccanico. Nicola Mancino... che sono costretti con una smorfia di disgusto.. certo Prodi e Veltroni sono stati molto più reattivi. Un episodio, questo, che ci dice cosa succede quando la società e la politica s'incontrano.

Le manifestazioni di questi ultimi 2 anni, per noi che facciamo informazione politica, la follia è che ogni volta che c'è stata una manifestazione per tutta la settimana si discute se uno ci va o non ci va. Rutelli ci va alla marcia Perugia-Assisi? Si però poi scappa dopo 5 km. Ma Fassino? No, Fassino resta fino a Ponte S. Giovanni. Ah, va bene ma lì a Firenze ci va? Si però se ha la scorta. Questo è il dibattito politico della settimana prima, mentre loro discutono sui pullman, sulle bandiere, sulle parole d'ordine, fanno riunioni perché la manifestazione non resti fine a sé stessa, ma sia il frutto di un lavoro e che ci sia un lavoro dopo. Manifestazione con milioni di persone, il lunedì scatta il dibattito. Ci sei andato? No. Perché non ci sei andato? Cosa vuol dire che non ci sei andato.
Ma allora non riesci a parlare con quei milioni di persone.
Insomma è la tragedia della rappresentanza, rispetto alla quale voi nell'impazzimento generale dovete fare anche un lavoro che non vi dovrebbe essere richiesto. C'è la Caritas che fa una roba come il dossier sull'immigrazione che fu voluto da don Luigi Di Niegro che era un altro che pensava in lungo diciamo, che è l'unico strumento che dà informazioni sul pianeta immigrazione. Questo è un lavoro che dovremmo fare noi, o dovrebbe fare il ministero degli interni, però lo fa la Caritas e noi ci limitiamo a incassarlo, poi a citarlo quando c'è l'emergenza. Insomma in questo impazzimento mi sembra che noi dobbiamo ascoltare di più, avere più curiosità. Prima sulle domande mi veniva in mente chi è che ti fa fare il volo radente nel senso che dicevi tu, ci sono i poteri però c'è anche la pigrizia, c'è la mancanza dei piedi, cioè uscire dalla redazione e andare a vedere.
E l'altro antidoto secondo me è la memoria. Ieri ho partecipato a un incontro politico, poi c'erano 4 giovani ambiziosissimi politici, diciamo pure la classe dirigente dei prossimi 10 anni, Fini e Casini da una parte, Veltroni e Rutelli dall'altra, e sulla cosa di Fini, sul viaggio a Gerusalemme tutti e 4 concordavano sul fatto che non possiamo restare prigionieri del passato. Si ovviamente è vero, non si può restare prigionieri del passato, però mi veniva anche da pensare quanto la memoria sia un antidoto a una politica che tende a vivere in un eterno presente, per cui fa le svolte più incredibili con disinvoltura assoluta, per cui si oscilla tra "Mussolini è il più grande statista del secolo" e tra "il fascismo è il male assoluto".

Dibattito e repliche

Giovanna Rossiello - Tg1*

Parto dall'ultima riflessione che ha fatto Marco, da questo orrore. Partendo dalla nostra proposta costruttiva in un tavolo di confronto tra media e società, volevo invitare a rifare il bilancino delle cose giuste. Per esempio io ho trovato troppa diversità tra la presenza nella marcia della Pace della parte politica e di tutti gli altri. Voglio dire, ho trovato sbilanciato lo spazio dato alla presenza dei politici rispetto a quello riservato a persone spinte solo ed esclusivamente dalla voglia di esserci. Questo, di fatto, non è recepito dai giornali. Credo sia una mancanza.

Ettore Colombo - Quotidiano "Europa"*

Mi colpisce molto una cosa che tra l'altro temo stia un po' dilagando anche nel mondo del sociale, cioè la mania del portavoce, che tale non è. C'è sempre stato l'ufficio stampa, i politici hanno sempre avuto gli uffici stampa, però una volta quando volevi capire che cosa un politico pensava parlavi con il suo segretario particolare che aveva una funzione politica. Cioè Antonio Tatò per Berlinguer era anche un mezzo per pensare e per fare da filtro alla realtà, ma anche per ragionare sulla realtà. Oggi invece gli uffici stampa dei politici sono diventati alle volte. lo dico senza cattiveria. Sessisti perché tra l'altro dilagano le fanciulle in questo mestiere e sono diventate come delle veline o dei veloni se fossero brutti come me. Non esiste un vero ufficio stampa istituzionale, ma semplicemente la proiezione all'infinito di quelle chiacchiere sul nulla di cui parlavate prima. Questa cosa, purtroppo, io lo dico da persona di sinistra, sta prendendo piede per esempio nei movimenti no-global, c'è l'ufficio stampa del girotondo, mi sembra una follia che esista.

Maurizio De Matteis - Rivista ong "Volontari per lo sviluppo"*

Faccio velocemente una domanda a Filippo Ceccarelli. Si parla di collegamento tra informazione e società. Volevo chiedere se per esempio la redazione de "La stampa" di Torino che io conosco, ha un inviato del Redattore Sociale. Cioè tu dicevi che hai scoperto che esiste Redattore Sociale, ma insomma è una realtà che ormai c'è da anni. forse a volte c'è poco collegamento anche tra persone che sono preparate in alcuni ambiti dell'informazione.

Simone Ramella - Agenzia "Redattore Sociale"*

Ho lavorato anche come addetto stampa oltre che come giornalista e ho notato che, anche da parte di testate che teoricamente dovevano essere vicine in qualche modo alle tematiche sociali, c'era una difficoltà di fondo che spiega anche il fatto che i girotondi possano avere un ufficio stampa: quando il giornalista si mette in contatto con le testate o serve su un piatto il servizio preparato nel giro di 24 ore al massimo, altrimenti la notizia non esce. In questo per esempio le "tute bianche" di Casalin sono state bravissime a sfruttare questa cosa a loro vantaggio. Poi invece per quanto riguarda la televisione, in particolare la Rai, c'è un elemento che mi sembra che in Italia non sia passato e cioè il fatto che quando si parla di servizio pubblico si parla sempre ed esclusivamente solo della Rai, mentre in altri paesi, in particolare io ho vissuto qualche anno in Inghilterra, quando si parla di servizio pubblico televisivo il discorso è applicato indiscriminatamente alla BBC, ma anche alle altre televisioni. Che poi lo facciano o meno è un altro discorso. In Italia è passato il messaggio che alla Rai spetta di fare trasmissioni di qualità mentre Mediaset e le altre reti sono considerate libere di fare quello che vogliono perché non sarebbero servizio pubblico.

Giovanni Vella - "Rai Net News"*

Volevo cercare di decifrare qual era la nostra responsabilità di giornalisti nella partecipazione a questo teatro della politica. La descrizione di Filippo mi è sembrata molto ben fatta. È chiaro questo teatrino della politica dove prevale il dire piuttosto che il fare. Però io non credo che i fatti nella politica siano scomparsi. I fatti ci sono, ci sono perché la realtà c'è e ancora viviamo su questa terra, non siamo del tutto una realtà virtuale. Se questi fatti ci sono evidentemente non riusciamo a raccontarli, o non abbiamo idea di quali siano, o c'è qualcuno che detta per noi la priorità di nascondere il fatto e non raccontarlo. Mi riferisco per esempio al Parlamento: il Parlamento è un'industria di fatti, è un'industria di notizie. I grandi assenti degli uffici parlamentari sono i giornalisti, gli uffici non sono solamente le sale parlamentari, sono i centri studi della Camera che sono pieni di materiale ed è il precotto, il pre elaborato che dopo arriva in testa, nelle mani del deputato che a volte non sa neanche leggerli e decifrarli e utilizza il 20% del materiale che c'è. Comparazioni internazionali, procedure, storia, dossologia: c'è tutto negli uffici parlamentari e nei centri studi. La domanda è questa: se foste voi i capi redattori di voi stessi quali sono i fatti che coinvolgono la rappresentanza che ancora c'è. perché ancora la gente va a votare. Voi che raccontereste? E vengo alla seconda domanda: qual è il meccanismo inconscio, o comunque il meccanismo che scatta nella testa dei capi redattori quando poi passa la scelta di prendere il virgolettato del politico piuttosto che raccontare un fatto della politica? Volevo sapere se c'è una parte di nostra corresponsabilità nelle redazioni, grazie.

Federica Sciarelli*

Sottostare alla legge del mercato

Vinicio ci chiedeva se era prima l'economia che guidava la politica, l'informazione e tutto quanto. E' cambiato tutto con la seconda repubblica e devo dire che l'informazione, che la legge dell'informazione, purtroppo è molto mischiata con quello che è successo. Nella prima Repubblica l'unica volta che sono stata censurata è stato quando ho intervistato Romiti. Era stato indagato per falso in bilancio ed io, in coda all'intervista, ho messo una domanda proprio su questo. L'addetto stampa ha detto: "Questa lei non gliela doveva fare". Io ho fatto comunque la domanda e lui mi ha risposto. Qui è nato un battibecco sul fatto che dovessi fare quella domanda o meno e sul fatto che dovessi mandarla in onda oppure no. Ma per decidere queste cose ci sono i direttori, no? Ben, il direttore ha deciso che non era il caso di mandarla in onda. Io sono rimasta stupita perché siccome seguivo sempre il Quirinale al mio capo redattore dell'Economico ho detto: "Ma come, a me non hanno mai censurato i presidenti della Repubblica e i segretari di partito. Vado da Romiti e vengo censurata?". Risposta: "Ma quel Romiti è il presidente della Fiat!". Lì ho capito che io ero una pischella nel telegiornale e non avevo capito bene quali erano i poteri forti e chi comandava. Ma con la seconda Repubblica. questa non è una mia fissazione di cabulista, ma il conflitto d'interessi veramente detta legge, perché quando tu hai un politico che ha imprese, televisioni, c'è un giornale che non è di Silvio ma è di Paolo, comunque è sempre di Berlusconi, bene o male.

Ma torniamo al servizio pubblico. Si dice che noi siamo il servizio pubblico perché veniamo pagati, perché ogni cittadino paga il canone, ma questa è una grande baggianata, perché il canone è rimasto sempre uguale, quello che paga lo stipendio ai giornalisti è la pubblicità e quando noi abbiamo un concorrente che fa delle trasmissioni come il Grande Fratello e ci massacrano. Il Grande Fratello - trasmissione che peraltro prima di essere offerta a Mediaset è stata offerta alla Rai che l'ha rifiutata perché non piaceva - ci ha massacrato, ma questo non è che vuol dire che massacra me perché mi vedono meno il telegiornale, vuol dire che il pubblicitario, chiaramente, vende la sua pubblicità ad un cliente che paga per una fascia di ascolto che è il 40% e, rispetto ad una fascia in cui l'ascolto è maggiore, costa un'altra cifra. Questo che vuol dire? Che noi della Rai, purtroppo, dobbiamo sottostare alla legge del mercato perché sennò noi proprio chiudiamo, perché anche la nostra è un'azienda, e allora che cosa abbiamo fatto? Il rifiuto al Grande Fratello è rientrato con l'Isola dei famosi. L'economia in qualche modo c'entra, ma c'entra con la politica, è tutto un insieme.

Dico una cosa brevissima a Vinicio perché lui ha citato la cosa dei calendari e allora per farvi sorridere. Questa storia dei calendari è diventata una cosa pazzesca, perché noi l'altra volta abbiamo fatto un servizio sulla cocaina degli onorevoli. Io sono stata attentissima a tutto quello che riguardava il Senato della Repubblica terrorizzata, ho corretto tutti i testi, ecc., a un certo punto il giorno dopo il mio capo redattore mi ha detto: "Federica dobbiamo fare una rettifica". E io ho pensato al senatore Colombo, chissà che è successo. Mi dice: "Hai messo un culo al posto di un altro culo". Ed io: "Ma che stai dicendo Onofrio"? Mi ha detto: "Le immagini degli spezzoni delle attrici - che io chiaramente non sono andata a controllare - invece del culo della Ludmilla. Chissà come si chiama. Ce n'era uno di un'altra che ha telefonato e ha detto: o rettifichiamo questa sera o...". Immaginate. Noi avevamo le bombe di Istambul, per cui o rettifichiamo questa sera, oppure gli dobbiamo presentare il suo prossimo calendario nuda...

Filippo Ceccarelli*

Lo smascheramento della realtà è una benedizione

Proviamo a cercare un filo conduttore tra le varie questioni che sono state poste. La mia risposta verte su una parola che è la "tecnica". Ho come la sensazione, l'impressione che le cose che non ci piacciono, le cose per le quali noi siamo qua, le cose che vogliamo cambiare siano in qualche maniera il frutto di una tecnica che ha perso l'ispirazione e si è come disintenzionalizzata.
Credo che i fatti che non si possono rappresentare, le persone che non riescono mai a essere rappresentate, la necessità o la proliferazione dei portavoce. Tutto questo abbia una spiegazione di tipo tecnico. Penso che sia arrivato il momento di ridare una lucidata a quella grande frase di Mc Luan secondo cui il mezzo è il messaggio.
Oggi la sensazione è che il mezzo si sia mangiato il messaggio, soprattutto per quello che riguarda la televisione, ma anche il giornalismo scritto. Si ha la sensazione che il prevalere di certe cose dell'apparato tecnico faccia ormai strame, abbia ridotto ad uno straccetto il contenuto, le forme sono diventate fortissime. Ciò ci pone nella condizione di sapere che una tecnica intenzionalizzata - e quindi con un'ispirazione che magari contempli il dubbio o la discussione, o il confronto costante - può battere una tecnica disintenzionalizzata. Io penso sul serio, soprattutto per quello che riguarda il giornalismo del sociale, che per sfondare il muro dell'indifferenza occorra aggiornare le tecniche. Questo non vuol dire che dobbiamo spogliarci, oppure che bisogna cantare invece che parlare, che occorre organizzare dei film o delle opere teatrali per far passare un messaggio. Però se questo messaggio non riesce, se i giornalisti non colgono che alla marcia della pace c'è tanto di rappresentabile, se i veri fatti del Parlamento non riescono a uscire fuori, io penso che serva in qualche maniera anche di mettere il punto, andare a capo e provare strade nuove, innovative, magari anche un po' più provocatorie.

La realtà in un mondo di maschere, lo smascheramento della realtà è una benedizione. In un mondo dominato dal varietà, la verità si persegue con rovesciamenti, con paradossi. Mi rendo conto di dire delle cose astratte, ma è molto probabile che rispetto alla mortacora, alla bonaccia, alcune cose debbano essere prese e riproposte in forma un po' più smagliante, altrimenti non riescono a passare. Si chiedeva se fossi il capo redattore di me stesso in quale direzione andrei. Io penso che il lavoro, forse oggi più impegnativo e più difficile, più nobile in qualche maniera della cronaca, del giornalismo, della comunicazione, dell'informazione sia proprio lo smontare i meccanismi dominanti dell'economia. Io penso che di fronte ai messaggi del potere, del consumo, si debba togliere la patina con la quale questi messaggi sono stati confezionati, che ne vadano presi dei pezzetti e mostrati in maniera separata dal tutto, in maniera tale che anche quello che a volte ci sembra un mostro, smontato, ci fa meno paura.
Ecco. Questo rispetto a certi programmi anche della televisione. Io penso che un atteggiamento sia anche quello di vederli, di guardarli con dei riferimenti culturali forti.

Marco Damilano*

La sensazione di essere degli "optionals"

Chi ordina il volo radente? Senz'altro lo ordinano i poteri editoriali che gestiscono il giornale. Per esempio io lavoro in un settimanale molto complicato. Da un lato c'è un lato un editore che non è indifferente alla politica, che ama giocare alla politica e che non fa i giornali solo per vendere o raccogliere pubblicità. Contemporaneamente si ha a che fare con un settimanale che è un aggeggio molto complicato a sua volta, che negli ultimi 10 anni in Italia ha attraversato una crisi profonda e che tende a diventare sempre più un contenitore di altre cose: compri la cassetta la storia dell'arte, il dvd ecc., e poi forse alla fine ti danno pure il settimanale e lo butti perché non t'interessa. Da un lato il volo radente è la sensazione che un po' tutti noi abbiamo di essere gli optionals, di non essere il motore centrale del lavoro di chi fa un giornale. Poi però il mandante sei tu, te stesso, la tua pigrizia o la tua curiosità fanno la differenza.

Ci si chiedeva cosa spinga a volare radenti. Secondo me questo è un mestiere che ancora sta in bilico tra la tecnica disincarnata, la tecnica gelida con cui si fanno tante cose - si tagliano e incollano le agenzie - e una passione che spesso è perdita di tempo, rottura di scatole, è incontrare persone moleste, telefonate, lettere di protesta che però - secondo me - continua ad essere, tutto sommato, la cosa che lo rende bello e divertente, senza la quale probabilmente questo lavoro non esisterebbe più. Il che non vuol dire che il giornalista si debba trasformare in un predicatore. Noi non dobbiamo essere né dei burocrati, che mettono in pagina i comunicati stampa, che vogliono la pappa pronta, che se non ci date entro 20 minuti i dati noi il pezzo non ve lo facciamo. Dall'altro lato non possiamo neanche essere degli pseudo-predicatori. Non spetta a noi il compito di fare il ruolo della società che si mobilita, che s'impegna, che milita, che si schiera. Noi dobbiamo cercare di raccontare nel modo migliore questa società che esiste.

Roberto Natale*

La nostra responsabilità nel racconto della politica

Marco adesso diceva: giornalisti né burocrati, né predicatori. Forse quello che può salvarci è il punto interrogativo. E cioè a noi compete la responsabilità delle domande. Che c'entra questo con la questione della nostra responsabilità nel racconto della politica? Il fatto che in certi giornali Rai siamo ormai alla dichiarazione senza domanda. Cioè il politico dichiara ma non viene intervistato. Negli ultimi tempi c'è un'evoluzione più raffinata. La domanda gli viene fatta dal suo portavoce, cioè dalla redazione politica lo si chiama e si dice al portavoce del ministro del politico - che per definizione non ha una curiosità professionale su quello che il politico dice, ma ha l'obiettivo di farlo uscire nel modo migliore - gli si dice: fagli questa domanda.
Si narra di un ministro che recentemente, con gesto nobile ha detto: "Ma che pagliacciata è? Io non voglio farmi intervistare in maniera finta". Oppure: "Non voglio fare la dichiarazione". All'uomo con la telecamera che gli diceva: ci rilasci una dichiarazione. Lui rispondeva "Se volete intervistatemi, rispondo a una domanda". Questo per dire che tra le nostre responsabilità del racconto della politica innanzitutto a noi compete far domande. È rilevante questo, perché non riguarda la politica, ma riguarda la qualità complessiva dell'informazione che offriamo. delle degenerazioni degli ultimi tempi si segnala anche. Avete presente Marzullo si faccia una domanda e si dia una risposta? Ci scherziamo sopra da anni. Seriamente invece sta accadendo in alcuni giornali, in alcuni telegiornali che si dica all'operatore esci. E alle persone che incontri non solo fagli questa domanda, ma fatti dire questo. Voi direte: ah cos'è la pigrizia? No, non è pigrizia.

La degenerazione dell'ultimo stadio è che se io voglio costruire un servizio sul caro vita e all'operatore che esce non dico solo: fa domande su quale è la percezione del livello di incremento dei prezzi, ma dico anche fatti dire questo. Io sto facendo un'operazione giornalisticamente scorrettissima. Non riguarda direttamente la politica, riguarda l'informazione tutta. Si segnala da questo punto di vista la polemica che scoppiò al Tg1. Guardate il caso come possa accadere. I Tg stanno a Roma, dunque uno dei servizi luogo comune. La Befana la sera del 5 gennaio si va in Piazza Navona. Scoppiò un mezzo putiferio perché nelle interviste raccolte ancora liberamente del tipo ". Lei cosa regala a suo figlio, perché sta qui? Cosa pensa di comprare?" . Inavvertitamente entrò una risposta da una signora che disse: "mio marito è disoccupato, quest'anno abbiamo difficoltà, non ci sarà regalo per i nostri bambini". Questa cosa andò in onda. Suscitò più problemi che una battuta politica dell'opposizione.
E qui torniamo. E su questo chiudo. alle questioni che si accennavano prima. Il problema è il modello di vita e di consumo che si deve propugnare. L'idea di un'Italia, come ha detto qualche mio collega, coi carrelli del supermercato sempre pieni. Allora da questo punto di vista la responsabilità nostra è quella di una domanda che può sembrare piccola cosa, un punto interrogativo, ma credo che sia gran parte del nostro lavoro.

Una cosa al volo sui calendari. Il punto è quello delle responsabilità di chi fa informazione e le responsabilità di chi informazione non la fa. Il problema dei calendari per metà è nostro, di chi fa informazione. Vinicio ricordava giustamente che 10 anni fa i calendari delle belle donne stavano nelle officine dei meccanici, adesso no. In altri termini e sia detto in maniera sobria. 15 anni fa su una cosa del genere i gruppi di femministe avrebbero preso d'assalto le edicole. Non sto sollecitando una cosa del genere, ma sto dicendo che l'informazione risente anche di una forma di critica sociale che c'è o non c'è. Ci ho ripensato la settimana scorsa. Parigi, social forum, ho avuto la possibilità, la fortuna di intervenire e vedevo nelle stazioni della metropolitana una foto gigantesca di Letizia Casta, che fa pubblicità in Francia per non so quale casa di biancheria intima. Ebbene, stazione per stazione c'erano le scritte a pennarello di gruppi suppongo, non conosco il francese, ma gruppi femministi che dicevano: tu scegli di essere una donna oggetto. Nulla di sovversivo, ma era un modo per marcare una distanza e una critica. Forse se sulle locandine che campeggiano nelle nostre edicole, tornasse questo tipo di critica, anche per chi fa informazione sarebbe meno difficile porsi il problema che pure dovremmo porci.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche, se non diversamente specificato, si riferiscono al momento del seminario.