Incontro con Francesca Ciarallo. Conduce Piero Sansonetti. Interviene don Franco Monterubbianesi
Piero SANSONETTI
Giornalista de l’Unità. Con Antonella Marrone ha scritto “Né un uomo Né un soldo. Cronaca del pacifismo italiano del 900 (Baldini & Castaldi, 2003).
Franco MONTERUBBIANESI
Fondatore della Comunità di Capodarco.
Francesca CIARALLO
Peacelink.
Piero Sansonetti*
Mi limito a dare la parola a Francesca. Io ho scritto un libro sul pacifismo e l'unica cosa che ho scoperto è che, di questo argomento, non se ne sa nulla. Si riescono a stento a ricostruire alcuni episodi del pacifismo italiano ma non c'è mai stato uno studio, non un lavoro degli storici.
E' molto difficile costruire una teoria del pacifismo. Io, per esempio, ho perfino qualche dubbio sul titolo di questo seminario: non so se è giusto usare il plurale, in genere è sempre giusto usare il plurale, ma ho qualche dubbio che si possa invece parlare di pacifismi. Sicuramente ci sono molti pacifismi, però non è detto che in questo caso - come in genere avviene - la pluralità dei pacifismi sia un segno di ricchezza.
Forse è un segno ancora di povertà, cioè del fatto che ancora il pacifismo non ha una sua teoria, non ha una sua storia, non è stato studiato.
Per questo credo che anche questa discussione debba essere sperimentale. Ognuno racconta quello che sa, ognuno porta la propria esperienza e poi vediamo se si riesce a mettere insieme qualcosa. Intanto Francesca può dirci qualche cosa di interessante. Prima lei mi ha detto di non essere una giornalista vera. Invece, se capisco bene, credo che lei giornalista vera lo sia. Io in Palestina non sono mai stato, lei c'è stata, quindi lei sicuramente sa molte cose in più. Bisogna vedere chi sono i giornalisti veri. Ho l'impressione che i giornalisti veri che si occupano di pacifismo siano generalmente del tutto creati in laboratorio. Partiamo da dove si combatte la battaglia del pacifismo, anche se, come vedete, non abbiamo neanche un linguaggio. Già dicendo che si combatte la battaglia del pacifismo diciamo una contraddizione, non riusciamo a trovare parole più adeguate, usiamo un linguaggio guerresco persino per descrivere la pace. Intanto do la parola a Francesca.
Francesca Ciarallo*
Sono qui per sostituire Francesco Iannuzzelli che è il portavoce dell'associazione Peacelink. Anch'io faccio parte da tanto tempo di questa associazione che magari molti di voi conoscono. Per chi non la conoscesse posso dire che si tratta di un'associazione di volontariato dell'informazione fondata nel 1992 e che da tanti anni si occupa di giornalismo di base alternativo. Anche qui si incontra la difficoltà dei linguaggi.
A noi piace più usare il termine "autoprodotto" proprio per mettere l'accento sul fatto che è un giornalismo che viene dal basso. Faccio parte di Peacelink però in realtà il mio lavoro è un altro. Lavoro come cooperante o attivista che dir si voglia per un'organizzazione che è l'associazione Papa Giovanni XXIII e proprio per seguire i progetti di questa associazione ho passato molto tempo all'estero in zone di conflitto, in zone difficili. Sono stata in Bosnia, in Kosovo e negli ultimi due anni ho passato molto tempo in Palestina nella maggior parte dei territori occupati e in parte in Israele.
Quando Francesco mi ha chiesto di sostituirlo in questo workshop ho fatto un po' fatica, sinceramente, perché non mi sento una giornalista vera. Si, scrivo delle corrispondenze - scrivo anche per Redattore Sociale delle corrispondenze dalla Palestina, per Vita, per altri giornali - ho un tesserino da giornalista ma questa parola attaccata addosso - "giornalista" - non me la sono mai sentita. Quando Francesco mi ha chiesto di sostituirlo ho telefonato a Stefano e ho chiesto cosa dovevo fare. Mi ha detto: "Dovresti dare un contributo ai partecipanti, ai giornalisti per aiutarli a far meglio il loro mestiere.
Allora mi sono chiesta: "Ma io che tipo di contributo posso dare? Tecnico. Posso parlare di linguaggi.. ", non mi veniva niente in mente. Allora ho pensato che l'unico contributo che vi potevo dare fosse quello di portarvi la mia esperienza concreta, un'esperienza sul campo.
Quando penso alle persone che lavorano nella cooperazione, me compresa, e al nostro ruolo rispetto all'informazione mi viene in mente di poter applicare le regole giornalistiche di un grande reporter, Kapuscinski, e di poter applicare quella che è la sua idea del giornalismo. Kapuscinski, molti di voi lo conosceranno, è un giornalista settantunenne polacco che è stato per tanti anni il corrispondente dell'agenzia di stampa polacca soprattutto in Africa, ma anche nel Medio Oriente e parte dell'Asia. Essenzialmente dice che il giornalismo è un fatto intenzionale, che in qualche modo deve mirare al cambiamento sociale. Secondo Kapuscinski non esiste assolutamente un giornalismo neutro, ma intenzionale nel senso che gli si deve dare uno scopo e cercare di perseguirlo in termini di cambiamento. Kapuscinski dice: "Lo scopo che mi sono dato è cercare di dar voce agli ultimi, ai poveri". Attua una vicinanza con l'ultimo, con colui che non ha modo di entrare nei grandi circuiti informativi. Tra l'altro Kapusciski qualche anno fa è stato anche qui a Capodarco e dalla sua esperienza a Redattore Sociale è stato tratto questo librettino. Si tratta di un'intervista a Kapuscinski, un'intervista generale sul modo di fare giornalismo, un'intervista sull'Africa che s'intitola: "Il cinico non è adatto a questo mestiere". Egli dice, in sintesi, che il suo giornalismo è la sua vicinanza agli ultimi e ai poveri. E io così, quando mi interrogo su quale è il mio ruolo nell'informazione, mi ci ritrovo molto in questa definizione kapuscinskiana. Non ho nessuna presunzione ma mi piace pensare di applicare queste regole del giornalismo. Ora però, come vi dicevo, il mio lavoro è un altro e anche qui faccio delle difficoltà a definirlo. A volte mi chiamano cooperante perché comunque portiamo avanti dei progetti di cooperazione internazionale. Altre volte attivista. La maggior parte delle volte pacifista ed è un termine che un po' istintivamente mi fa rabbrividire. Faccio fatica, non mi piace ecco!
Il perché non ve lo so dire però è una cosa che non mi piace. Ne discutevo con Stefano. Si diceva, dall'Afghanistan in poi, Iraq, è cambiata la percezione del pacifismo.
A volte si intende il binomio pacifismo=terrorismo. Secondo me ancora prima, già da Genova, è stato molto difficile cercare una nostra identità e soprattutto c'è stata molta rabbia nel vedere come noi pacifisti veniamo rappresentati. Intendo molta rabbia da parte nostra e vi parlo della percezione di chi, in qualche modo, sta dall'altra parte. Non parlo di chi sta dalla parte del giornalista, ma da quella dell'attivista e c'è stata molta rabbia, secondo me, per le eccessive semplificazioni che i giornalisti hanno fatto di noi, semplificazioni sia a livello dei linguaggi che a livello di contenuti. Sui giornali si parla indifferentemente di pacifismo, antimilitarismo, antagonismo, non violenza, disobbedienza civile. E si confondono spesso tutti questi ambiti con molta imprecisione.
Il pacifismo è una cosa, il pacifismo di per sé è l'opposizione alla guerra. L'antagonismo è una lotta contro un sistema che non si ritiene modificabile, è una lotta con qualsiasi mezzo, non è detto che l'antagonismo sia una cosa pacifica per forza. L'antimilitarimo a sua volta ancora, è una lotta, un'opposizione alle strutture militari, alla loro cultura, alla loro politica.
La non violenza è un'altra cosa ancora. In questo caso non si ha metodo, è una forma di lotta politica e anche gestione del quotidiano, dei rapporti umani. Aldo Capitini riteneva che la nonviolenza non fosse semplicemente una negazione della violenza, dunque non violenza. Egli lo usava tutto attaccato, usava questa parola senza lo spazio divisorio e questa cosa è molto importante perché nonviolenza è un concetto molto più ampio, molto più globale, è unicomprensivo, non è una semplice negazione di qualcosa, ma è un qualcosa che ha una sua identità e dei suoi percorsi. La disobbedienza civile è un'altra cosa ancora, insomma. Spesso si sente parlare di disobbedienze e di disobbedienti. Disobbedienza civile. Anche qui c'è molta confusione, perché la disobbedienza civile è una forma dell'azione nonviolenta, è una relazione pubblica, una decisione-rivelazione pubblica di una legge o di un precetto. Tutto questo perché si cerca di dare una collocazione alle "nostre definizioni". Secondo me fare discorsi meno semplici, semplicistici può dare anche delle chiavi di lettura diverse, può dare delle chiavi di lettura che appunto aiutino ognuno ad andare contro quella che è la legge del pensiero unico, non semplificare questa realtà, farla vedere nelle sue sfaccettature, nelle sue differenze e a non ridurla a unità. Quando vedo, fra l'altro, che nella grande bagarre, nel grande calderone, vengono fatte delle associazioni semplicistiche. Quando una persona come Luca Casalin viene - senza dare alcuna spiegazione - equiparato ad Alex Zanotelli faccio un po' fatica a vedere questa associazione. Va bene, questa è una cosa che è nata soprattutto a Genova.
A Genova in qualche modo si è riscoperta questa idea del "movimentiamo" e quello che ha tenute unite tutte queste anime del movimento è stato l'opposizione a qualcosa, l'opposizione verso il G8, le tematiche, ecc. però al di là di questo, il cosiddetto movimento che è fatto anche da tantissime anime diverse, forse per un giornalista sarebbe una bella cosa cercare di approfondire, di coglierne anche le differenze, ma anche le contraddizioni, i conflitti interni che ci sono.
Un approfondimento necessario per cercare di darne una spiegazione più profonda, una chiave di lettura più ampia. Ora mi rendo conto che oggi è difficile. Proprio il titolo di questo seminario è il volo radente, il giornalismo veloce e le sue vittime. Oggi il mondo è sempre più veloce, anche il giornalismo lo è. per cui è difficile che un giornalista abbia il tempo per un approfondimento, per la ricerca delle fonti e la verifica.
Ritengo, però, che si tratti anche di fare una scelta, scegliere da che parte dobbiamo stare, fino a che punto vogliamo dare un valore aggiunto, un'identità al tipo d'informazione che si fa oggi. E questo è uno dei punti di cui volevo parlarvi. Un'altra cosa di cui Stefano mi ha chiesto di parlare è anche - ed è la mia esperienza - di qualche caso concreto.
Quando Rachel* è morta non ero lì ma mi è sembrato - soprattutto dalle notizie giunte dall'Italia - che se ne sia parlato abbastanza poco. Dobbiamo essere già fortunati se se ne è parlato. Ci sono state altre morti, ci sono tantissime altre violazioni di cui non se ne parla per niente! A me è capitato di essere arrestata mi hanno lasciato 48 ore senza poter parlare con nessuno, per esempio. Ora, da quella che è la mia percezione personale, la figura di Rachel a seconda di chi ha scritto di lei è stata vista o come un'eroina o come una stupida ventitreenne che non sapeva che fare o addirittura come una terrorista. Rachel, secondo me, non era niente di tutto questo. C'era un articolo molto bello su Repubblica molto tempo fa, che associava la figura di Rachel a Oscar Romero e diceva che Rachel è una che ha avuto il coraggio, coraggio inteso dal punto di vista morale, il coraggio morale di portare avanti anche delle azioni impopolari. Si, Rachel era questo. E' vero che era una ragazza di 23 anni che di fronte a una situazione di disperazione, di violazione totale non dico di diritti umani, ma di qualsiasi umanità - che è quello che succede oggi nei territori occupati - ha deciso di reagire. Ha deciso di dire no, e di dire no in un modo non violento. Rachel è stata definita uno scudo umano... questa parola è orribile, è ancora peggio della parola pacifismo, perché noi non siamo e non ci sentiamo scudi umani.
Quando io vado davanti ai carri armati israeliani non lo faccio sicuramente né per farmi sparare, né per farmi mettere sotto. Vorrei che questo fosse chiaro. Potevamo usare questa parola da interposizione, interposizione nonviolenta appunto, come assenza di qualsiasi forma di violenza. Interposizione vuol dire mettersi in mezzo per cercare di creare uno schermo tra le due parti. C'interponiamo.
Nei territori ci sono molte organizzazioni che fanno interposizione, per la maggior parte sono di matrice anglosassone. L'interposizione, al di là del fatto di volersi interporre, vuol dire anche cercare una forma di vicinanza con le parti. Questo è il concetto un po' più ampio che intendiamo noi, di vicinanza con ambedue le parti. Anche qui, quando sento parlare di equidistanza - che è un termine abbastanza abusato rispetto al conflitto Israelo-palestinese - anche in questo caso faccio fatica, perché l'equidistanza è una cosa che secondo me in questo conflitto è difficile applicare. Noi intendiamo come equidistanza la stessa distanza tra le parti. E' assolutamente impossibile. Vi stavo parlando di Rachel. Lei - probabilmente era vero - era una ragazza di 23 anni che si è vista immersa in una situazione di disperazione, di violazione e ha cercato di opporsi nell'unico modo che conosceva, cioè fisicamente col proprio corpo.
È anche vero che, vista dal di fuori, questa cosa sembra assurda. Per chi conosce un po' la situazione, invece, per chi è stato nei territori occupati per un po', la percezione è diversa. O almeno dovrebbe essere tale. L'approccio che potevo avere io con un passaporto in mano di fronte ai soldati israeliani era completamente diverso da quello che poteva avere un palestinese. Rachel si è trovata di fronte a quel bulldozer, perché credeva in quello che stava facendo, non perché voleva morire, non perché era una terrorista, non perché si sentiva un eroe. Rachel fino all'ultimo ha creduto che il poter tenere il suo passaporto alzato le desse ancora una forma di garanzia, ma Rachel non ha mai veramente creduto di morire. È anche vero che gli americani come tipo di intervento, anche come tipo di cultura, sono molto diversi da noi. Anche adesso, per altre cose, mi occupo di pacifismo americano, stiamo traducendo e curando le pubblicazioni di un libro di questa associazione americana delle vittime dell'11 settembre. Poiché sto curando io questo libro, mi capita di avere molti contatti e verifico che il pacifismo anglosassone è molto "tecnico", molto concentrato sull'aspetto dell'azione diretta non violenta. Proprio dal punto di vista tecnico spesso anche nei territori occupati ho pensato che abbiamo molto da imparare. A loro manca un pò di quella che è la nostra fantasia, forse dell'approccio umano che a noi non manca. Il più grande dramma di tutti noi che abbiamo vissuto i territori occupati, o che abbiamo vissuto le zone di conflitto rispetto all'informazione era la rabbia, la frustrazione, il senso d'impotenza. Vivevamo, vedevamo una situazione e vedevamo la rappresentazione che di quella situazione veniva fatta. Io ricordo proprio la rabbia. Mi chiedevo: "Ma come diavolo si fa? Come si fa a rappresentare in questo modo la realtà?". Non lo so, quello che so è che la mia esperienza mi porta a dire, onestamente, che di veri giornalisti sul campo ne ho visti davvero pochi.
Una volta ero a Gaza, nella striscia e l'esercito israeliano in pieno giorno ha attaccato il nord della striscia di Gaza. Non vi dico cosa ho visto quel giorno! Presa dalla rabbia mi sono attaccata al telefonino, ho cominciato a telefonare a tutti i corrispondenti delle testate italiane che conosco in Israele che mi han detto: "Se vuoi una troupe a Gaza ce lo devi dire il giorno prima, sai si fa fatica ad arrivare a Gaza". Io gli ho detto: "Io il giorno prima chiaramente so quello che succederà e allora ti chiamo la prossima volta. Certo che ti chiamo!". E gli ho attaccato il telefono in faccia.
Questa è la reale situazione. Mi rendo conto che un giornalista che deve coprire tutto, deve guardare tutti i vari aspetti non può fare la vita che probabilmente facciamo noi attivisti, questo è chiaro. Ciò ci spinge a un'altra riflessione: probabilmente noi siamo una risorsa, probabilmente noi dovremmo utilizzare il fatto di poter essere una risorsa.
Del resto, voglio dire, è anche abbastanza comune, negli ultimi tempi vedo che stanno nascendo anche tanti siti web con padre Angelo adesso abbiamo messo su questo progetto che si chiama "autunno di pace" (www.autunnodipace.org), dove abbiamo deciso di dare una formazione all'informazione, ai caschi bianchi che abbiamo in giro per il mondo.
I caschi bianchi, forse non tutti lo sanno, sono gli obiettori di coscienza e i ragazzi in servizio civile volontario che decidono di svolgere il loro servizio all'estero in zone di conflitto.
È difficile, certo, è difficile perché la prima cosa che mi dicono quando faccio la formazione ai caschi bianchi è: "Ma cosa vuoi da me, io non sono mica un giornalista?!?". Io devo dire che mi trovo abbastanza spiazzata. Allora rispondo: "No, tu sei il vero giornalista" e gli tiro fuori anche lì tutta la storiella di Kapuscinski.
Poi è difficile, certo, anche per l'aspetto motivazionale. Questo è anche un problema nostro come organizzazioni Ong - organizzazioni che lavorano nella cooperazione: forse a quest'aspetto dell'informazione è sempre stata data poca importanza. Quando ai ragazzi chiedi gli aspetti motivazionali delle loro scelte mi dicono: "Va bhe' l'esperienza, la condivisione con l'ultimo". E se chiedo che voto diano all'informazione mi sento rispondere un voto altro, tipo 8-9, ma con una precisazione "però, sai, posso fare informazione se ho tempo". Questo vuol dire che proprio nelle loro mansioni, nella loro idea di mansioni come casco bianco che fa servizio civile all'estero, c'è sempre prima qualcos'altro. E questa è una cosa che stiamo cercando di far passare. Mi rendo anche conto che per un giornalista è anche difficile. Un giornalista dovrebbe venire da me e considerarmi una fonte qualificata all'informazione? Insomma. Non è semplice che il giornalista si fidi subito. Cerco di mettermi nei panni di chi cerca la notizia. Io penso che un giornalista dovrebbe trattare me come fonte con lo stesso beneficio d'inventario, con lo stesso dovere di controllo, di verifica, che ha con le altre fonti. Alla fine è chiaro che se un giornalista vede agenzia Ansa - l'Ansa è l'Ansa e si sa chi è, anche se vi assicuro che per esperienza diretta vi ho visto scritte delle grosse stupidaggini, le più grosse imprecisioni anche dei corrispondenti Ansa - allora si fida. Io chi sono? Bhe' io forse non sono nessuno ma probabilmente un giornalista dovrebbe fidarsi di me anche cercando di costituire con me un rapporto diretto. Dovrebbe darmi una certa credibilità se non altro come struttura.
Abbiamo un progetto che si chiama "Operazione colomba" che da tantissimo tempo opera in zone di guerra. Io vedo che i giornalisti, ultimamente, quando vedono che la fonte è l'Operazione colomba di Papa Giovanni XXIII mi danno immediatamente credibilità..
Piero Sansonetti*
Giornalismo alternativo e giornalismo ufficiale, è già una grande questione. Il fatto che si possa parlare di giornalismo alternativo e di giornalismo ufficiale già segnala un problema fondamentale. Qual è la differenza? Che cosa vuol dire giornalismo alternativo? Perché esiste un giornalismo alternativo? Parliamo un attimo del Medio Oriente solo per vedere alcuni dati.
I giornali italiani, tutti, tutti i giornali italiani, hanno una o due persone che seguono costantemente Berlusconi, hanno una o due persone che seguono costantemente il presidente della Repubblica Ciampi. Fermiamoci qui, lasciamo stare il resto. Il costo per seguire solo i viaggi del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio è sicuramente superiore, ma di gran lunga superiore al costo per coprire la crisi del Medio Oriente e la crisi dell'Iraq.
I giornali spendono più soldi per raccogliere le dichiarazioni che possono anche essere copiate dall'Ansa, perché è una delle poche cose sulla quale l'Ansa è assolutamente attendibile sono le dichiarazioni del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica. Solo la Rai e credo il Corriere della sera, Repubblica e La Stampa hanno dei corrispondenti, o più precisamente dei collaborati fissi.
I giornali italiani non coprono Gerusalemme, non so quanti ne hai incontrati, ma tranne i momenti di crisi grave in cui ogni tanto vengono mandati degli inviati, i giornali italiani non hanno il corrispondente a Gerusalemme. Credo che non ci voglia un'enorme fantasia e una grande conoscenza e studio della massmediologia per capire che Gerusalemme è una delle capitali, una delle città più importanti della politica internazionale da diversi anni. Eppure anche giornali che hanno corrispondenti all'estero non ne hanno a Gerusalemme. I soldi che spendono per coprire la politica internazionale sono infinitamente inferiore di quelli che spendono per coprire la politica interna.
Non c'è dubbio alcuno che da almeno 2 o 3 anni a questa parte - diciamo dall'11 settembre - la politica internazionale è infinitamente preponderante sulla politica interna. Eppure, malgrado ciò, i giornali non spendono una lira sulla politica internazionale, tranne alcuni grandi giornali che comunque di solito ne hanno talmente tanti, di soldi, che si possono permettere anche di spenderli. Non è che facciano una grande scelta di investire. Se pensate a come, per esempio, il giornalismo italiano seguiva la politica internazionale 20 anni fa e a come la segue adesso, vedete chiaramente che il modo è cambiato completamente.
E' cambiata la concezione. Era una regola di base del giornalismo italiano, come lo è di tutti i giornalismi del mondo, che gli uomini migliori venissero usati sulla politica estera.
Oggi la tendenza si è completamente invertita e soprattutto la politica estera viene fatta per agenzie. Ecco, dunque, che l'informazione è fondamentalmente appannaggio dell'agenzia Ansa. L'Ansa ha un potere quasi assoluto sulla politica estera, sulla cronaca estera, su quello che succede all'estero, sulle guerre. E' l'Ansa che decide cosa è successo, cosa si dà, cosa è notizia, quando si ha una notizia e quando non la si ha, è perfino l'Ansa che decide quando sia opportuno mandare l'inviato in proporzione al numero di lanci. Se su una notizia l'Ansa manda 13, 14 e 15 lanci, allora forse si può decidere di mandare l'inviato. Vedete che, di fatto, è l'ufficio centrale dell'Ansa che decide come ci si comporta. Questi sono dati che prescindono dal giudizio che si dà sul giornalismo, per questo io dicevo prima a Francesca: "Guarda che sei tu che ci devi raccontare perché sei tu la giornalista".
Se vogliamo parlare di giornalismo o di pacifismo non possiamo fare altro che parlare di giornalismo e politica internazionale. Oggi giorno il giornalismo italiano non è qualificato a parlare di politica internazionale, perché da almeno 15 anni è del tutto disinteressato alla politica internazionale, non la conosce, non la frequenta, non la segue, non l'analizza, non la studia.
Le cose migliori che si trovano sono quelle di alcuni analisti che sanno scrivere di politica internazionale. Volete qualche nome? Di destra, non di sinistra. Sergio Romano è uno dei migliori analisti di politica internazionale: non a caso è un ambasciatore, non è un giornalista, ha fatto l'ambasciatore per tutta la vita, ha girato il mondo e lo conosce per fortuna.
Purtroppo, ai tempi d'oggi, un giornalista che conosce il mondo non si trova più e quindi è molto difficile trovare un giornalista che possa occuparsi di questi temi. Questo è un punto di partenza, perché in questo seminario dobbiamo chiederci: "Di che cosa vogliamo parlare? Del giornalismo e del mondo dell'informazione come metodo per vendere i giornali o del giornalismo e del mondo dell'informazione come metodo per informare?". Credo che questa sia una distinzione decisiva anche se, alla lunga, si tratta di una distinzione che possa anche sparire.
Attualmente, però, è decisiva. Se discutiamo della struttura, del funzionamento del giornalismo italiano guardandolo dal punto di vista della possibilità di vendere più giornali, siamo il paese dell'occidente in cui si vendono e si leggono meno quotidiani. Siamo il paese dell'occidente dove, soprattutto i giovani, leggono meno quotidiani. Ormai non li leggono quasi più. I dati della lettura dei quotidiani sotto i 30 anni è sul filo dello zero, è zero virgola, diciamo così. Questa è una questione importante.
Vogliamo invece discutere del giornalismo come sistema di fare informazione? Allora cambia completamente la prospettiva. Dobbiamo capire, per esempio, il metodo in base al quale oggi i giornali vengono realizzati, con quale metodo vengono scelte le notizie. E' questo, di fatto, il punto fondamentale: come si sceglie una notizia? Prima dicevo che in gran parte decide l'Ansa, perché il numero che c'è scritto sul lancio - 5, 7,12, 13 - decide quanto è importante una notizia di politica interna o di politica internazionale. Le notizie come vengono scelte? Badate che è un paradosso, ma è così. I giornali sono interessati dalla notizia che già conoscono e sono fondamentalmente disinteressati, mezzi intimoriti, dalle notizie che non conoscono. Questo è il metodo fondamentale di funzionamento dei giornali italiani.
Si viene affascinati e si mette in moto la macchina informativa quando la notizia già la si conosce, Già se ne conosce lo schema, quando succede una cosa prevedibile, quando succede una cosa di cui già si sa tutto, si conoscono i protagonisti, si conosce il meccanismo. questo mette in moto la macchina informativa. Quando avviene qualche cosa che non si capisce, qualche cosa nuova, questo non interessa molto.
Perché è così veloce il giornalismo? Non c'è tempo, non ci sono forze. Questo non è vero.
Le forze ci sono, i giornalisti sono molti più di prima, le informazioni sono molto meno di prima, come è possibile? Non è che sono molto meno di prima, sono molto meno come numero e poi magari il bombardamento delle notizie è molto più forte. Resta il fatto che il numero delle informazioni è molto basso e i giornali stampati sono arrivati ad avere 40-50-60 pagine. Se guardate il numero delle notizie pubblicate ogni mattina su un giornale che è fra le 45 e le 60, le prime 5-6 pagine sono su una notizia sola, su quella che si decide che è la notizia del giorno. Quasi tutti i giornali dedicano 5-6 pagine, talvolta di più. Se guardate il numero delle notizie che oggi pubblica ciascun giornale - tra le 45 e le 60 - è nettamente inferiore al numero delle notizie che dava un giornale di 20-30 anni fa quando era di 12-18 pagine.Il giornale era circa un quarto rispetto a quello attuale ma dava un numero di notizie superiore.
Qui si pone una questione decisiva. Vorrei, a questo punto, porre una domanda di metodo: cosa vogliamo sapere? Di cosa vogliamo discutere oggi? Vorrei dire una cosa sul pacifismo e giornalismo. Su un aspetto non sono d'accordo con te. Secondo me "pacifismo" è una bellissima parola. Io non mi offenderei.
Il problema è diverso: cosa vuol dire, per il giornalismo italiano, occuparsi di pacifismo? Il giornalismo italiano ha una sola chiave ed è quella di come collocare il pacifista nello schieramento politico precedente: a quale punto di sinistra va collocato, in che rapporto va collocato con i partiti politici, con le istituzioni...
Non c'è alcun interesse nel giornalismo italiano per cosa vuole il pacifista e per quali sono i temi che pone. Nessun interesse ad analizzare la guerra, perché c'è la guerra, in che cosa consiste la guerra, quali interessi muove la guerra, quali successi porta la guerra. Voi avete letto qualche analisi in questi giorni, o qualche paginata di giornale sul rapporto tra l'impennata dell'economia americana e la guerra dell'Iraq? L'economia americana, per due quadrimestri consecutivi, ha avuto un risultato clamoroso: +8% dopo anni di recessione. Tutti gli economisti concordano nel dire che chi ha dato la spinta è stata la guerra. Mi ricordo di aver letto ai tempi della guerra in Afghanistan un articolo sul Corriere della sera, molto bello, di un economista moderato - Francesco Gialazzi - che diceva: "La guerra porterà un'esplosione, un boom dell'economia americana come l'ha sempre portato. L'economia americana ha sempre tirato nei periodi di guerra, nella seconda guerra mondiale ha tirato, ha tirato durante la guerra del Vietnam e tutte e due le volte è uscita da un periodo di recessione e tirerà anche questa volta". Avete letto qualche riga su questi temi? Avete letto qualcosa sul petrolio? Si è impegnato il giornalismo italiano per sapere che petrolio c'è lì? Quanto ce n'è? Quali sono le compagnie che lo utilizzano? Che sta succedendo col petrolio irakeno? Come verrà distribuito? Quali compagnie ci andranno?
Voi lo sapete per esempio - e stiamo parlando di pacifismo non stiamo parlando di economia - che tutti gli investimenti americani e in Iraq in questi ultimi 6 mesi, per alcuni miliardi di dollari - non ricordo la cifra esatta - sono stati assegnati solo a 70 compagnie americane, tutte e 70?
Io questo l'ho letto, l'ha riportato Lanfranco Vaccai del Corriere della sera da una fonte informativa americana molto attendibile. Settanta compagnie che sono nell'affare Iraq sono tutte compagnie che nella campagna elettorale del 2000 hanno donato almeno mezzo milione di dollari per il presidente Bush. La compagnia che ha l'affare maggiore, che è di 2,3 miliardi di dollari mi pare, quindi di 5 mila miliardi di vecchie lire, è la compagnia di cui come al solito non ricordo il nome e di cui era presidente che si è dimesso nell'agosto del 2000.
Su questi argomenti il giornalismo investe qualcosa? Impegna qualcosa? Su alcuni non ci sarebbe neanche bisogno di investire molto, basta consultare, leggere qualche giornale americano. La domanda che volevo porre è questa: "Vogliamo discutere con voi di come bisogna fare i giornalisti e quindi di quali sono gli schemi e le regole per avere successo nel giornalismo, o vogliamo discutere di come si riforma il giornalismo che, credo di non esagerare, è giunto in questi ultimi anni al suo ruolo più basso, anche se formalmente è molto libero, molto più libero probabilmente degli anni 50?".
Probabilmente oggi il giornalismo è più libero che negli anni '50, però è molto meno produttivo, meno approfondito ed è in crisi profonda proprio d'identità. Non si sa più che cos'è il giornalista, cos'è il giornalismo, cos'è l'informazione. Credo che tutto ciò sia decisivo. Noi dobbiamo discutere, tanto per partire, di come s'impara a fare i giornalisti e di come si riforma il giornalismo. Non è una domanda estremista ma è una domanda fondamentale di oggi.
Don Franco Monterubbianesi*
Stefano mi ha detto di intervenire nel gruppo del pacifismo, perché anch'io sono un pacifista, mi piace questa parola, il Vangelo dice beati i pacifici. E credo che ciò sia essenziale anche dalla prospettiva di Capodarco, nel nostro lavoro qui insomma. Vorrei dire che oggi siamo arrivati a un punto di crisi di civiltà in cui o il cristianesimo va a fondo a presentare il suo valore diverso rispetto gli islamici, o gli ebrei, o anche gli integralisti cattolici - perché anche questi ci sono, anche questa è una bestia rara che abbiamo da dominare - hanno la concezione del Dio lassù, del Dio per cui si può fare la guerra santa, si può fare il kamikaze. La cosa tragica è che i bambini musulmani vengono educati già da piccoli al sacrificio, all'offerta della vita, ammazzando e ammazzandosi. Siamo dentro una crisi di fondo della civiltà. Perché S. Francesco è antesignano del pacifismo?
Non perché era un pacifista, ma perché era un cristiano fino in fondo, applicava il Vangelo fino in fondo, dalla parte dei poveri, quel Vangelo che la chiesa deve riscoprire. Noi troviamo un Papa che su questo piano è stato forte rispetto a tutti, perché io credo che il primo pacifista che ci abbia creduto fino in fondo è stato il Papa. Se Papa Giovanni Paolo II è riuscito a mantenersi in un'ottica di fedeltà al Vangelo, è anche perché ha fatto quest'esperienza del mondo.
Credo che ha capito sempre di più il valore del cristianesimo come assertore dei diritti. Certamente la questione della pace è molto più profonda andando nel sud del mondo, in giro per il mondo, ha capito quanto i diritti oggi sono violati e quanto c'è bisogno di un cristianesimo portato alla radicalità, anche di questa scelta della pace a tutti i costi.
Oggi sta nascendo e noi dobbiamo aiutare a crescere questa coscienza della guerra. Dobbiamo eliminarla per sempre, riconoscendo che è una strada impraticabile per costruire il dialogo tra i popoli, per risolvere i problemi.
Porto avanti ideali molto profondi adesso che sono diventato battitore libero perché non sono più presidente di niente, quindi sono finalmente libero di dedicarmi alle cose in cui credo.
Lotto molto perché si persegua la verità a partire dai ragazzi, a partire dai semplici. Mi sono perso un concetto quando dicevo che il Papa se ha portato avanti la verità dei diritti è perché ha visto chi soffriva nel mondo per l'annullamento, l'abbassamento dei diritti.. è stato veramente dalla parte dei poveri e quindi bisogna stare anche dalla parte oggi della verità, proprio perché dobbiamo stare dalla parte dell'uomo negato, dell'uomo sofferente. Io, adesso, sto dalla parte - ad esempio - della costruzione della pace portata avanti dai ragazzi del mondo, dai ragazzi che devono essere strumento di pace. L'ultima marcia Perugia-Assisi noi l'abbiamo fatta con 60 ragazzi che venivano dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Grecia, dalla Germania e poi c'erano ragazzi del sud, Perù ecc. Il mondo nuovo che dobbiamo costruire deve essere a misura dei diritti dei ragazzi negati sul piano del lavoro, sul piano del rispetto della loro vita. Quei giorni c'era a Perugia anche la storia dei 600 mila bambini schiavi in Costa d'Avorio, che vengono dagli altri paesi per fare la raccolta del cacao. bambini che scompaiono. Ecco. Oggi l'integralità della pace è costruita non solo con le azioni pacifiste, ma costruita anche nelle azioni di risoluzione dei problemi concreti della gente, della giustizia.
Ho fatto anche l'insegnante ed insegnavo che i 4 cardini della pace da costruire nel mondo sono: la verità, la giustizia, l'amore e la libertà. Sono 4 cose su cui anche un giornalismo si dovrebbe fondare perché la verità è la prima cosa, si potrebbe dire uno dei tradimenti più profondi che facciamo è la verità: il giornalismo, se non sta sulla verità, se non fa vera informazione, tradisce sostanzialmente il suo compito.
La verità è il primo elemento per costruire la pace, fino a che non porteremo avanti in modo esemplare la giustizia nei riguardi dei popoli del sud. In questi giorni io ho un gruppetto di ragazzi che stanno facendo "Voci del sud" e ci stiamo preparando per quando arriveranno i giovani brasiliani a Roma che stanno nella periferia di Rio De Janeiro. Si tratta di bambini che lavorano nella zona più violenta del mondo.
I ragazzi che stanno con me sono una ventina e fanno i danzatori classici, insegnano ai bambini di questa periferia - dove ci sono gli uomini degli squadroni della morte che girano per ammazzare i bambini - a danzare. Pensate la dimensione di educazione in una zona così violenta. Questi bambini verranno in aprile, faranno uno spettacolo al teatro Olimpico di Roma. Sono veramente bravi. Però, vi dicevo, ci sono i miei giovani che stanno preparando la venuta di questi ragazzi: dovremo andare nelle scuole a preparare il senso della venuta di questi brasiliani e sul programma di solidarietà che si attua.
Il pacifismo è portato all'estremo in gesti anche autentici in cui uno rischia anche la vita. Quando si tratta di andare a fondo alle tematiche, in Israele, in Palestina, il coinvolgimento è profondo.
S. Francesco era uno di quelli che era capace di andare dal musulmano mentre gli altri volevano la guerra tra cristiani e musulmani. Lui era capace di andare a parlare, questi gesti bisogna riuscire a portarli avanti fino in fondo.
Credo moltissimo nel valore dell'Europa che sarà la nostra dimensione operativa su cui bisognerebbe fare una nuova politica.
Piero Sansonetti*
Volevo fare tre osservazioni e un'ulteriore domanda che vi rilancio. La prima osservazione è che il fondamentalismo cristiano non è secondario nei fondamentalismi che sono in lotta in questi anni. Non è poi così nascosto e strano, perché il presidente degli Stati Uniti d'America viene eletto solo se la Christian Coalition da il via libera. Nessun candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti d'America è stato nominato, ha avuto la nomination - poi se ha vinto o no è un'altra questione - senza il via libera della Christian Coalition, cioè l'organizzazione integralista dei cristiani americani che è un'organizzazione evidentemente molto forte, se riesce a controllare la maggioranza dei voti alle primarie americane. Sono tanti i fondamentalismi. La seconda osservazione è la crisi di civiltà e la lotta di civiltà.
Di questo si è parlato pochissimo. Se ne è parlato solo quando Berlusconi si fece sfuggire, circa un anno e mezzo fa, la frase... come il re è nudo. Lo disse, gli altri non lo dicevano, ma lo disse perché è un uomo che ha degli splendidi slanci d'ingenuità, secondo me. Talvolta Berlusconi è una fortuna. lui disse se vi ricordate - poi lo censurò dal resoconto, Vespa lo fece sparire - ma disse la famosa frase sulla superiorità della civiltà occidentale. E' una guerra di civiltà.
Io sono convinto che chi ha deciso di fare questa guerra aveva due ragioni fondamentali, una economica - il petrolio e il rilancio della guerra, dell'industria bellica, ecc. - l'altra era la guerra di civiltà. Bush era convinto che fosse giunto il momento di fare i conti con la civiltà araba. Era convinto che fosse giunto il momento, per l'occidente, di prendere il potere assoluto del mondo senza eliminare una grandissima civiltà che è vista come avversario, male assoluto.
Si è pensato che si fosse in grado di regolare i conti e cioè che si potesse vincere la guerra alla civiltà araba come si è vinta la guerra a Granata, come si è conquistata la Colombia. Invece no. E oggi si vede. Questo ha dato uno spazio gigantesco anche al fondamentalismo islamico, cioè alla parte più combattiva e più fanatica di una grandissima religione, di una grandissima civiltà e di una grandissima cultura.
Altra osservazione e veniamo più a noi. Apprezzo moltissimo le parole di don Franco, mi suggestionano, mi affascinano, però io credo che bisogna non dico andare oltre, ma forse fermarsi prima. Naturalmente don Franco carica la questione pacifista rispetto a quello che gli compete, di quello che è suo, del suo modo di pensare e di vedere il mondo, alla luce della teologia. Io però volevo fermarmi prima e dei 4 pilastri della pacem in terris, che è diciamo uno dei grandi pezzi del pacifismo moderno e del pacifismo italiano, prenderne solo alcuni.
Non è detto che bisogna prenderli tutti. Sicuramente il primo dei 4 pezzi, quello fondamentale, è quello che stamattina ci riguarda: la verità. Poi c'è la giustizia, poi c'è l'amore, poi c'è la libertà. credo che si abbiano altre sfere.
La giustizia riguarda la politica, l'amore riguarda la filosofia, la teologia o le scienze umane, la solidarietà, e la libertà... la verità credo ci riguardi se vogliamo parlare di giornalismo e pacifismo, perché se affrontiamo il tema della verità avvertiamo la possibilità di grandi passi avanti nel pacifismo.
Ma, alla fine, cos'è poi il pacifismo? È un avanzamento della civiltà. È vero che i pacifismi sono tanti: c'è quello cristiano, quello marxista, quello anglosassone, quello italiano. Ci sono tanti pacifismi. I grandi pacifismi europei sono, secondo me, il pacifismo italiano e il pacifismo britannico. Quello britannico è un grandissimo pacifismo marxista e liberale.
Quello italiano è un pacifismo anche questo in gran parte marxista e in gran parte invece cristiano, cattolico. I pacifismi sono tanti e ci sono tanti modi di pensare. Francesca mi pare che abbia elencato molto bene le parole chiave del pacifismo spiegando come non sempre coincidano, soprattutto nella storia passata. I due più grandi concetti di pacifismo e nonviolenza non sempre sono andati d'accordo.
La storia del pacifismo, soprattutto del pacifismo di sinistra non radicale, è una storia di pacifismo nonviolento. I partigiani della pace non erano dei nonviolenti, per lo meno non lo erano tutti. Il pacifismo della guerra, della mia generazione, quella del Vietnam, non è un pacifismo nonviolento, è un pacifismo talvolta anche molto violento. Io ho l'impressione che da almeno 15 anni il pacifismo e la nonviolenza stiano compiendo un cammino di convergenza e si stiano sempre più avvicinando. Una parte sempre più grande del pacifismo applica il suo concetto di nonviolenza e, facendo suo il concetto di nonviolenza, unifica l'idea di base che c'è dentro il pacifismo moderno. L'idea del rifiuto dell'uso della forza come strumento di regolazione delle relazioni umane. Mi sembra che accada questo.
E la questione della civiltà è esattamente al contrario, alla rovescia. Porsi il problema di creare dei modi per regolare le relazioni umane, le società umane, i rapporti tra gli stati. Quanto conta in tutto questo la verità? La verità conta molto, tutto direi. Sono possibili dei grandi avanzamenti in misura del tutto proporzionale alla quantità di verità della quale riusciamo ad appropriarci, non a livello individuale ma livello di massa. Se questo ragionamento è giusto - ed io credo che sia giusto - la questione dell'informazione, del giornalismo, diventa non una delle tante questioni, ma può diventare la questione fondamentale, la questione di base. Partiamo da lontanissimo, dal punto di arrivo, perché ci troviamo - lo dicevamo prima mi sembra e siamo più o meno tutti d'accordo su questo - in una fase di crisi gravissima del giornalismo. Non direi tanto e solo crisi d'identità, di formazione, di rapporto col mercato, ecc., ma parlerei di vera crisi di rapporto con la verità.
Il giornalismo, oggi come non mai, è in crisi di rapporto con la verità. Questo accade perché a differenza del passato - quando la difficoltà di rapporto con la verità era dettata dalle ideologie e dalle appartenenze politiche e quindi le violazioni della verità, i camuffamenti della verità, la distorsione della verità erano guidate da idee giuste, sbagliate, sbagliatissime, giustissime, medie, ma comunque da delle idee - oggi il rapporto e la crisi con la verità è una crisi strutturale dettata fondamentalmente non più dalle idee, ma dalle anti idee, cioè dal conformismo.
E' un po' ciò che si diceva prima. Il giornalismo italiano oggi vive lontano dalla verità. La verità è una cosa che va contro il conformismo, non esiste la possibilità di affrontare e di comunicare la verità mantenendo il conformismo. Io credo - ma non mi voglio soffermare su questo - che tutta la vicenda di Nassirya e di come i giornali italiani si sono occupati del tragico episodio della morte di 27 persone - non 19 come è stato riportato da tutti i giornali, perché i morti per i giornali italiani sono solo quelli in difesa, gli altri 7 non sono morti, cioè c'erano credo 5 bambini fra gli altri 7, mai apparsi nei giornali italiani - il conformismo e la retorica con la quale è stata trattata tutta la vicenda di Nassirya non è grave perché ideologicamente di destra, è grave perché dimostra che quando il conformismo prende il potere la conoscenza è impossibile.
Se la conoscenza è impossibile, vogliamo dire conoscenza invece di verità? Verità è una parola molto alta e non a caso l'usava un Papa. Voliamo radente.. la conoscenza invece della verità. Allora qui pongo la domanda: ci sono molti giornalisti. vedo alcuni che sono anche sindacalisti importanti, impegnati, con lunga storia. Si potrà mai affrontare questo tema se non da dentro? È possibile arrivare a una nuova stagione del sindacalismo giornalistico italiano, come quello che ci fu negli anni '60 e '70 e cambiò i giornali.
E' possibile per far nascere il nuovo sindacalismo che faccia esplodere il meccanismo di funzionamento deleterio e marcio dei giornali e dei sistemi d'informazione che oggi esistono? Solo da lì può partire.
Non c'è nessun giornale che oggi possa funzionare e dare dei risultati se continua a funzionare così come funziona.Bisogna far saltare le teste, non quelle fisiche ma le teste dei giornali, smontare il sistema di comando e solo una nuova stagione del sindacalismo può fare questo. Io ricevo quotidianamente per posta elettronica, ma ci entro anche nel sito di Capodarco una mole impressionante di informazioni. Bene, non ho mai trovato una di quelle notizie riprese dai giornali. Basta leggere, scorrere solo i titoli per verificare che ogni titolo dà lo spunto a due pagine d'inchiesta. Non costerebbe niente, basterebbe copiare.Si copiano sempre le agenzie. Ma tutto questo non succede, perché? Perché non è assolutamente considerato interessante. E' considerato interessante solo tutto ciò che assomiglia alla falsa conoscenza del potere. E' inutile che ci parliamo addosso, è possibile solo cambiare le vicende solo se si fa una formidabile azione di rottura. Io volevo sentire anche voi, visto che appunto fra voi ci sono molti giornalisti, credete che ciò sia possibile?
Giovanna Rossiello - Giornalista Tg1*
Sono sempre contenta quando vengo qui perché sento che parliamo un po' tutti la stessa lingua. Non so se c'eravate ieri sera. Io avevo proposto questa piattaforma del tavolo di confronto tra giornalismi e media. Io personalmente curavo una pagina no-profit prima dei movimenti, si chiamava "Tg1 storie" e affrontavo proprio la mediazione dei conflitti sotto casa, per esempio con il gruppo Abele a Torino, oppure pacifisti israeliani. Bene, è stata una rubrica che ho curato con il collega Piero Damosso e che è andata in onda dal primo giorno che era caduto l'Ulivo al giorno in cui è arrivato il nostro direttore. In quell'intervallo di tempo si è deciso che come Tg1 si dovesse dare visibilità a questi temi, a queste persone che portano avanti il senso della vita, Avete fatto caso. la grande visibilità che c'è per Luttazzi e per la Guzzanti? Questo è molto faticoso perché, è vero, si fanno battaglie insieme per il pluralismo, poi ci sono quelli che sono più uguali e che sono più pluralisti e che seguono i funerali di stato di Nassirya facendolo grondare di retorica. Retorica che ci fa male e non ci fa crescere, perché non ci fa pensare all'identità di essere giornalisti italiani. Ogni servizio parla di commozione e dolore, dolore e commozione, ma per un giorno vanno in servizio senza le firme, per un giorno siamo virtuosi e poi il giorno dopo andiamo con tanto di titolo di chi è gay, chi non è gay, ma scusate a noi che ce ne importa? Il nostro giornalismo non riesce ad essere libero, ad essere autonomo, perché non capisce chi è il riferimento della Rossiello, chi è il riferimento della Francesca, perché ci deve essere sempre qualcuno. La nostra testa non può girare da sola?
Al contrario, io scommetto che nessuno di voi sapeva che, per esempio, su l'Unità alla collega e amica Antonella Marrone che si occupava come me di no-profit, anche a lei siano state cancellate delle pagine.
Prima avevamo l'umiltà, la voce, il naso per andare a odorare, a captare le persone e le situazioni, senza che ci sia stata mai una virgola di solidarietà. Adesso su l'Unità c'è la pagina che fa molto tendenza dei diritti degli omosessuali, assolutamente doverosa. Ma perché una cosa costruttiva deve essere a discapito di un'altra? Perché la marginalità fa anche un po' notizia, un pochino ogni tanto, ma non tutti i giorni. Se non si ribalta questo non andiamo da nessuna parte. Aavete fatto caso che le pagine della finanza etica sono solo sul Sole 24 ore o soltanto su Redattore Sociale? Ma siamo pazzi? Tutti gli esperimenti di cittadinanza attiva positiva sono marginalizzati così. Io la trovo una cosa folle. Allora, se insieme spingiamo verso questa direzione. Vi prego facciamolo, aderite in massa alla piattaforma del tavolo di confronto media e società, per cercare di riequilibrare spezzando i pregiudizi. non ho capito, per esempio perché tutti i nostri parlamentari più pluralisti trasversalmente hanno detto: "No, la Riforma Castelli sul tribunale dei minori quella non deve passare". Però tutti sanno benissimo che ci si occupa d'infanzia, di adolescenza...
Padre Angelo Cavagna*
Mi trovo d'accordo con quanto ho sentito finora. Vorrei dire però che ci sono alcune cose che - vi dico la mia opinione - valgono poi i politici, specialmente per la grande cultura e anche per i giornalisti. La nonviolenza è ancora percepita come passività. Parlare di nonviolenza. allora se c'invadono cosa facciamo, stiamo con le braccia conserte? Come se i grandi nonviolenti fossero stati dei passivi! Invece sono stati grandi lottatori. La nonviolenza non ignora i conflitti, li affronta con la nonviolenza, ma li affronta con una lotta, una lotta di idee, una lotta di verità, una lotta di giustizia, una lotta anche di sacrificio personale. Addirittura il Papa nella giornata della pace mi pare proprio del 2003, o del 2002, ricordando le guerre che abbiamo fatto, che hanno insanguinato il 900, ha detto: "Chi ha salvato l'onore dell'umanità sono stati coloro che hanno adottato metodi nonviolenti per la difesa della giustizia, della verità, ecc.". Chi ha salvato l'onore dell'umanità... e hanno scritto pagine storiche magnifiche.
Volesse il cielo, visto che qui ci sono parecchi giornalisti che prendessero sul serio queste cose... Un'altra lacuna che mi sembra di avvertire è che se chiedo ad uno di buon senso: "Ma secondo te il commercio delle armi è proprio così necessario? Le spese militari? Allora secondo te ci vuole l'esercito o non ci vuole?" Il Papa ha detto, ricevendo gli scienziati: "Metà di voi lavorano nei laboratori della morte, anziché per far vivere la gente."
E poi quando costruiscono mica fanno un missile o due, ne fanno montagne! Allora dopo bisogna vendere, perché se restano lì si chiude. E per vendere il grande stratega Alberto Sordi si appellò al motto "Finchè c'è guerra c'è speranza". E ci sarebbero dei fatti. Ma non la voglio tirare per le lunghe. Che sono dettati proprio da questo fatto, ci sono gli arsenali pieni di armi in rapporto con l'economia. Ecco perché a un certo punto, dopo che hanno fatto le guerre, l'economia va su. E' una strategia, è un sistema. Non esiste il commercio bellico da solo, non esistono le spese militari da sole, sono tutti anelli di una catena.... Quando si è fatta l'unità d'Italia dove sono andati a finire gli eserciti del Piemonte, del Ducato di Milano, della Serenissima. Via tutti questi eserciti. L'esercito è uso omicida della forza in armonia con il generale Bruno Loi che se ne intendeva di operazioni di polizia internazionale, diceva: "Non si possono mandare gli eserciti a fare azioni di polizia internazionale, perché l'esercito è fatto per andare allo sbaraglio, il soldato deve essere addestrato a uccidere e a uccidere bene, perché un soldato se no fa questo, non vale nulla. La polizia, invece, non ha lo scopo di uccidere neanche gli assassini, neanche i ladri". Questa distinzione è essenziale. Oggi, poi, che i problemi sono mondiali, tutti dicono il mondo è diventato un villaggio planetario, io direi che questo è un villaggio planetario senza sindaco, senza consiglio comunale. Questo è l'Onu, fatta solo dai signori della guerra. Abbiamo vinto la guerra e tutti i rappresentanti di tutti i paesi del mondo ci sono dentro ma non possono fare la minima legge. Anche quando votano, votano delle dichiarazioni, al massimo delle raccomandazioni. Ognuno fa quel che vuole. Vi sono i 5 del consiglio di sicurezza che decidono qualcosa poi hanno il diritto di voto singolo, per cui fanno proprio quel che vogliono loro. Occorre non soltanto invocare l'Onu, ma quale Onu? Un'Onu vera.
Ci vuole una riforma radicale dell'Onu. Bisogna costruire un sistema di pace e una vera Onu, sopranazionale. La seconda parte dell'art. 11, che quasi nessuno cita, dice: "L'Italia è pronta a rinunciare a parte della propria sovranità per istituzioni internazionali che garantiscano giustizia e pace per tutti i popoli".
Francesca Ciarallo*
Qualche sera fa ho visto il film su Ilaria Alpi, quello tratto dal libro "Le esecuzioni". Alla fine del film mi sono chiesta: "Quanto ci sarà di vero? Ma è possibile che oggi un giornalista arrivi a questo?". Quando si vedeva nel film la Alpi che gira, scappa, fa le foto. Ma io di questi giornalisti qui non ne ho mai visti. Sarà un caso. C'è anche da dire un'altra cosa più o meno importante.. è vero quello che ha detto Ettore, quello che ha detto anche Roberto prima, è facile sparare sui giornalisti, è anche facile non fare un certo tipo di autocritica. Tu prima don Franco parlavi del pacifismo israeliano. Noi come pacifisti stiamo dando supporto a un gesto che non ha niente di pacifismo, non ha niente di nonviolenza. Nelle battaglie di coscienza gli israeliani non sono pacifisti.. non sono per la posizione della guerra, gli obiettori di coscienza israeliani attuano un gesto di disobbedienza civile perché vogliono l'uscita del loro stato dai territori, è quello il loro scopo. Molti di loro, io ne ho incontrati tantissimi, ti dicono di credere nella difesa armata del paese.
Non sono nonviolenti.
Non sono per il non uso della violenza. Allora chiedo a voi che siete giornalisti: come facciamo noi a raccontare questa quotidianità e ad essere presi in considerazione? Questa è la mia domanda, perché io non ho una risposta.
Roberto Natale - Segretario Usigrai*
Risposte no, pezzettini di pensieri forse. Ecco la mia prima superficiale constatazione.
La politica intesa come politica spoliticata quella del teatrone di cui già parlavo ieri... Il direttore del Corriere della sera, Stefano Folli, il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, il direttore de La Stampa, Marcello Sorgi, cioè i direttori dei tre più importanti quotidiani italiani hanno fatto cioè si arriva ai vertici dei giornali più importanti, vivendo nel km quadrato che va tra la sede del giornale, Montecitorio, Palazzo Madama, si va in trasferta quando si va ai congressi dei partiti importanti.
Questi sono i nostri giornali. Colombo e Di Bella hanno percorsi professionali in cui la politica estera ha pesato, la conoscenza del mondo ha pesato. Diceva Piero: "Non è più un problema di diritti delle redazioni dei giornalisti, non è più un problema di pluralismo vero". Teniamo a un plurale, i pluralismi, perché siamo tutti allenati a considerare il pluralismo politico. Se ieri sera in tv abbiamo visto Bondi parlare 3 minuti e mezzo e Rutelli e Fassino parlare 40 secondi diciamo grave violazione del pluralismo. Il pluralismo pace-guerra ci interessa? Chi li misura? Terza questione: pluralismo, pluralismi.
La distinzione tra notizie e non notizie. Lo so che è moralistica la considerazione ma lo spazio che nei nostri giornali e telegiornali hanno acquisito toni che fino a qualche anno fa sarebbero stati sdegnosamente scartati, è un fenomeno sul quale secondo me vale la pena di fermarsi un attimo. Se Manuela Arcuri e Andrea Coco litigano in discoteca la notizia finisce sul Corriere della sera. 10 anni fa non sarebbe stato così. C'erano i settimanali deputati.Novella 2000, Eva Express.Venivano considerate non notizie.
Quante sono le notizie? Il meteorologo 10 anni fa dentro tg Rai non ci stava, perché c'erano le previsioni del tempo. Come mai oggi il meteorologo diventa uno da top ten? Si può parlare di uso politico del tempo?
Uso politico-militare del tempo.? Io credo di si. Sono minuti che togli ad altri temi. Due anni fa uscì una ricerca mi pare dell'università di Bologna, secondo la quale il Tg2 aveva parlato di Giulia Roberts più che dell'Africa in un anno. In un anno, capite, non in un giorno in cui fosse capitato qualche cosa di particolare. In un anno Giulia Roberts più dell'Africa. Non c'è nessun partito che su questo si sente direttamente leso e interviene per dire che si sta facendo una schifezza. Ma questa è una lesione profondissima che riguarda noi Rai, ma che non riguarda solo noi Rai. Io ho un episodio a monte. Il Corriere della Sera in prima pagina.. Era stata pubblicata la lettera con la quale Claudia Pandolfi annunciava che si metteva con Andrea Pezzi e lasciava il marito, mi pare si chiami Massimiliano Virgili, un mese dopo le nozze.. Vi rendete conto?
Il Corriere della Sera.. 15-10 anni fa non sarebbe accaduto. Torniamo, come diceva anche Ettore, alle responsabilità dei direttori di testata. vogliono dei giornalisti che siano professionisti di nulla. Non so quale sia la situazione da voi, ma per qualsiasi direttore di testata l'ideale è un giornalista che oggi sappia farti il pezzettino di esteri, domani di politica interna, dopodomani se serve di sport, giovedì di cultura. Il professionista del nulla.. che non avrà bisogno di censurare, perché sarà così naturalmente subalterno al tema e all'interlocutore che andrà a intervistare, che non potrà esprimere un suo punto di vista. Solo alcuni territori non hanno questo professionismo del nulla: lo sport. sullo sport la specializzazione serve. Guardiamo i nostri telegiornali, leggiamo i nostri giornali e ci diciamo cosa c'è e cosa non c'è, cosa ci troviamo, perché le informazioni si sono moltiplicate e le notizie si sono ridimensionate.
NOTA: * Rachel Corrie, pacifista americana, morta dopo essere stata schiacciata da un bulldozer dell'esercito nella striscia di Gaza a marzo. La Corrie, una studentessa 23enne che apparteneva al movimento di solidarietà internazionale nei territori, è stata uccisa da un bulldozer dell'IDF a Rafah, dove stava prendendo parte alle azioni di protesta per impedire che l'esercito distruggesse case, per ostacolare il commercio di contrabbando dall'Egitto.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.