X Redattore Sociale 28-30 novembre 2003

Volo Radente

Terraterra

Intervengono Alberto Cairo, Nicoletta Dentico, Paolo Rumiz, Renato Kizito Sesana. Conduce Giovanni De Mauro

Paolo RUMIZ

Paolo RUMIZ

Editorialista de la Repubblica. Tra i suoi libri di reportage “E’ Oriente” (Feltrinelli).

 

Renato “Kizito” SESANA

Renato “Kizito” SESANA

Sacerdote comboniano, missionario in Kenia. A Nairobi ha fondato il “Koinonia media center” e partecipa ad altri progetti nel campo della comunicazione.

 

Giovanni DE MAURO

Giovanni DE MAURO

Direttore del settimanale Internazionale.

ultimo aggiornamento 18 aprile 2013

Alberto CAIRO

Alberto CAIRO

Operatore umanitario della Croce Rossa, attualmente è impegnato in Afghanistan. Ha pubblicato in Italia Storie da Kabul (Einaudi 2002).

 

Nicoletta DENTICO

Nicoletta DENTICO

Giornalista, è stata a lungo direttrice della sezione italiana di Medici Senza Frontiere.

 

Giovanni De Mauro*

Chiacchierando con le persone che sono dietro questo tavolo ci interrogavamo su come riempire il titolo che è stato dato "Terraterra" . E abbastanza rapidamente tutti abbiamo convenuto su alcune cose.
La prima, di interpretarlo in maniera assolutamente letterale e quindi terra terra nel senso di volare molto basso e rimanere - e questa è la seconda cosa che ci interessa e che spero che venga fuori oggi - molto ancorati a partire da qui, dalle proprie, personali, dirette, concrete esperienze. Gli interventi saranno probabilmente rapidi, contenuti nel tempo, per cercare poi di discutere con voi e rispondere a domande e dialogare. Alcune delle persone che sono dietro a questo tavolo vi racconteranno - e questo secondo me è un altro elemento interessante - il loro spaesamento.
Padre Kizito ha usato questa parola anche nell'essere qui oggi nell'ascoltare i workshop molto interessanti di stamattina. Sono 4 persone che vengono da posti molto diversi che ci racconteranno innanzi tutto le loro esperienze e il loro rapporto con il mestiere di giornalista.
Ognuno di loro, tranne Paolo Rumiz, ha un rapporto diretto con la professione del giornalista.
Rumiz rappresenta la figura più classica di un inviato, lavora in un grande giornale ecc. Gli altri hanno un rapporto un po' atipico con il mestiere di giornalista. Sono con noi Padre Kizito che viene da Nairobi, Paolo Rumiz che viene da Trieste, Nicoletta che viene da Roma e Alberto che viene da Kabul.
Angoli di pianeta, di realtà completamente diversi.

Padre Renato Kizito Sesana*

Un giornalista a Nairobi

Mi trovo un po' spaesato non perché i temi non siano importanti e non riesca a seguirli, ma perché sono veramente lontani dal mio mondo e ho paura che quello che avrò da dirvi sarà molto lontano dal vostro mondo. Potrebbe non essere interessante comunque cercherò di essere molto breve, poi voi fate le domande sulle cose che vi possono interessare di più. Io vengo da Nairobi, dove vivo in un quartiere molto povero e dove circa il 60% delle persone quando si alzano al mattino non sanno se quel giorno riusciranno a mangiare, si devono inventare un modo per sopravvivere. Vivo in una casa dove vivono anche 60 ex bambini di strada e quindi vivo immerso in questa realtà. In questa casa, poi, ci sono un sacco di altre attività per i giovani, per la gente della zona, dal microcredito, all'assistenza ai malati terminali di Aids. Noi abbiamo una lista di 120 persone che seguiamo per accompagnarle verso la morte, perché non riusciamo a fare altro se non accompagnare e stare loro vicino mentre si preparano a morire. Nel giro di un anno muoiono tutti, due volte almeno. Vediamo 240 persone all'anno che cambiano il nostro quartiere.
A Nairobi muoiono, secondo il ministro della sanità, circa 600-700 persone al giorno di Aids. Per me questa convivenza, vivere immersi in questa realtà, è irrinunciabile per poter essere un prete e anche un giornalista che parla di cose che sa.
Ci tengo a sottolineare che la mia priorità è l'essere lì con loro. Se devo scrivere un articolo per un giornale e vengono a chiamarmi perché un bambino sta male e bisogna portarlo all'ospedale, vado col bambino all'ospedale senza ombra di dubbio e non penso più a scrivere l'articolo del giornale. Però ho lavorato molto nel campo della comunicazione e mi sono scontrato con tanti problemi che ci sono per fare comunicazione in Africa.

Primo problema fondamentale, che qui magari non è un grave problema, per noi è semplicemente "il problema" ed è il problema dei fondi.
Fare comunicazione in un'economia che è totalmente disastrata, che ha certamente altre priorità, dove la gente pensa solo a sopravvivere, sembra a volte di fare una cosa di lusso. Io sono convinto di no, sono convinto che una delle ragioni per cui l'Africa è sottosviluppata è anche perché l'informazione è controllata dall'esterno, perché non c'è sufficiente informazione. Ma è difficilissimo fare qualsiasi cosa quando si vive in un'economia di quel tipo. Tutto ciò e il disastro economico ci portano anche ad avere un ritardo tecnico notevolissimo, per cui problemi che per voi sono scontati per noi invece sono a volte difficilissimi da risolvere. Le nostre linee telefoniche sono disastrate.
Abbiamo le linee del telefono appese agli alberi e spesso il collegamento telefonico salta, internet non c'è e abbiamo tutta una serie di difficoltà.

In questa situazione, nel 1996 il primo aprile, abbiamo attivato la prima agenzia di informazioni solo in internet che è riuscita sempre ad uscire regolarmente il 15 di ogni mese, anche se a volte con qualche giorno di ritardo. Siamo orgogliosi di aver potuto iniziare tale esperienza. Un altro problema è la mancanza di giornalisti formati e di centri di formazione per i giornalisti, per cui spesso bisogna imparare il mestiere sul posto.
Da questo punto di vista Nairobi è un po' privilegiata perché è il centro più grosso dal punto di vista dei mass media, dell'informazione, del giornalismo in tutta l'Africa a sud del Sahara, credo anche più importante che non nel sud Africa. Ecco, queste sono le difficoltà. Vi dico un po' le mie esperienze, così, brevemente. Sono arrivato in Kenia nell'88, incaricato dai comboniani di avviare una rivista che poi ho chiamato "New people", che è un po' la "Nigrizia" per l'Africa, per chi conosce la rivista "Nigrizia".
È in inglese ed è distribuita in tanti paesi dell'Africa. È stata una stagione molto bella, perché in quegli anni dall'88 al 92-93-94, c'era un grande momento di apertura in tutta l'Africa. Il crollo del muro di Berlino da una parte e dal punto di vista della chiesa la preparazione al sinodo per l'Africa che era stato annunciato nel gennaio dell'89 ed è stato fatto nel 94, avevano creato grandi aspettative e grandi speranze di cambiamento.

La chiesa, che negli anni precedenti all'indipendenza africana aveva avuto spesso un ruolo positivo di accompagnamento verso l'indipendenza, nei primi anni dopo l'indipendenza si era chiusa e aveva finito per appoggiare i governi che erano andati al potere per un senso di difesa, di nazionalismo, e poi si era trovata legata a regimi che erano assolutamente indifendibili. Si era trovata ad essere silenziata in qualche modo. In quegli anni ha recuperato voce e ha visto iniziative importanti.
C'è stato un grande risveglio soprattutto una grande riscoperta di impegno e della necessità della chiesa di impegnarsi sui problemi di giustizia e di pace. È stato un periodo in cui addirittura, in alcuni paesi, la chiesa ha giocato un ruolo determinante semplicemente scrivendo delle lettere pastorali per far crollare un presidente!

La chiesa è stata chiamata ad impegnarsi nelle conferenze costituzionali che venivano costituite nei diversi paesi e si parlava addirittura degli anni della seconda indipendenza.
Tutto questo periodo ha avuto fine molto presto, purtroppo, nel '94-'95, perché dal punto di vista politico i vecchi poteri hanno recuperato quasi tutta la forza che avevano perso e la chiesa, secondo me, ha avuto un momento di grande introversione durante il sinodo africano. I due temi principali del sinodo sono stati prima l'inculturazione e poi il problema di giustizia e pace. Di fatto il sinodo ha approvato, ha sanzionato, che bisogna fare un'inculturazione: il cristianesimo deve diventare africano, ma come succede spesso in queste cose, la sanzione è stata poi la fine della ricerca.
Mentre prima si faceva molto lavoro per cercare un'inculturazione del cristianesimo, adesso che è stato approvato non si fa quasi più niente. C'è stata una grande frenata.
Parte della frenata è stato anche un segnale che è venuto dal Vaticano: la mia rimozione, la rimozione di tutte le redazioni di "New People", che aveva preparato il sinodo, creando forse delle aspettative che sono state poi negate e facendo delle critiche, secondo noi molto fondate, a ciò che si stava facendo e al modo con cui si conduceva il problema dell'inculturazione in Africa.

Da allora, nel '95, appena abbandonata la direzione di "New People", mi sono impegnato a scrivere ogni settimana, ogni domenica, sul giornale che è ancora il giornale più importante del Kenia, con una rubrica settimanale, tipo opinionista. E poi nel '96 abbiamo iniziato con alcuni amici l'esperienza di "Africa News", che è appunto la rivista che il 15 di ogni mese esce su Internet. Dal mese scorso "Africa News" si chiama "News from Africa". L'abbiamo cambiato perché siamo stati ospitati inizialmente da "Peacelink", siamo molto grati agli amici di "Peacelink" però ciò rendeva difficile la ricerca, rendeva difficile trovare "Africa News". Quando abbiamo cercato un nostro dominio abbiamo visto che "Africa News" era presa in tutte le possibili salse... coi puntini, coi trattini ed erano tutte agenzie fatte in Inghilterra o negli Stati Uniti. Allora abbiamo trovato "News from Africa" che era più corrispondente a ciò che facevamo e c'era anche il dominio libero.
Abbiamo cambiato il nome, da ottobre trovate: www.newsfromafrica.org.
Stiamo anche cercando di superare i limiti imposti dalle linee telefoniche in Kenya, per riuscire a gestire l'agenzia direttamente. Nel '99 sono stato incaricato di organizzare dal niente la radio cattolica del Kenya, che non esisteva. Si è partiti da come si fa nella chiesa cattolica cominciando dal raccogliere i fondi, fare il progetto della casa, costruire lo studio, installare lo studio e tutto il resto.
Dal luglio di quest'anno siamo in onda 24 ore su 24 con una radio fm che copre Nairobi e i dintorni, circa 8 milioni di persone su 30 milioni di persone del Kenya. È un impegno molto grosso, io sono ancora il direttore di questa radio, abbiamo una quindicina di giornalisti tutti keniani che lavorano in questa nuova impresa molto difficile.
La comunicazione purtroppo è ai primi stadi, per cui bastano un trasmettitore, 3 o 4 volontari, una suora che al mattino va ad accendere la radio e dice: "Buongiorno siamo arrivati in ritardo anche oggi, incominciamo 20 minuti dopo ma non fa niente". Noi questo in Kenya non lo possiamo fare perché siamo la quindicesima radio, ci sono 14 radio fra commerciali e governative di primissimo livello tecnicamente, come segnale, come contenuti, come programmazione offerta.

Ci sono delle radio che non sfigurerebbero certamente né a Milano, né a Londra, né a Washington, abbiamo una concorrenza di primissimo livello, quindi l'impresa è molto difficile. Abbiamo continuato anche in altre cose. Sia io, sia i miei amici giornalisti che sono vicino a me.
Per esempio abbiamo avviato dei corsi sulla pace. Io ho insegnato alcuni anni all'università, adesso ho lasciato l'università e sto insegnando un corso nuovo che mi invento, perché qualcuno aveva fatto qualcosa del genere in giro per il mondo. Insegno come scrivere la pace a gruppi di volontari di Nairobi, dalle parrocchie, dalle associazioni che vogliono far crescere la loro realtà nella pace. Viviamo in una realtà che è molto dinamica, molto diversa da qui. I problemi che vi ho detto all'inizio sono quelli, però c'è una società civile che è molto molto viva, ha ancora la caratteristica della società civile a Nairobi che secondo me è molto vivace, ma molto frammentaria.
Ci saranno ormai quasi, per esempio, una cinquantina di associazioni che lavorano per la riconciliazione fra le diverse etnie e per la pace, però sono tutte molto piccole e non riescono a mettersi insieme ad aggregarsi e ad avere un peso.
Noi stiamo cercando di pensare qualche iniziativa per dar loro più voce.
Per esempio sono 4 anni che facciamo una marcia della pace, un po' in sordina, l'anno prossimo vorremmo fare una cosa più grande proprio cercando di creare un momento in cui tutte queste associazioni si ritrovino e riescano a farsi sentire. Comunque le premesse per una rinascita, per un impegno di tantissime persone ci sono.

Alberto Cairo*

Parlare di reinserimento sociale in Afghanistan

Io non sono un giornalista . Ho avuto ed ho dei rapporti col giornalismo e con i giornalisti a volte molto intensi e a volte quasi inesistenti. Questo in Afghanistan è il mio mestiere da 14 anni: lavoro per la Croce Rossa Internazionale. Ci si occupava, all'inizio, soltanto di feriti di guerra. Poi ci siamo resi conto che era quasi imbarazzante: se la mattina arrivavano 20 pazienti nuovi e 10 erano vittime di guerra, immaginate cosa volesse dire mandare via gli altri dieci, magari malati di poliomielite o disabili, dicendo che non si poteva fare niente per loro perché non erano vittime di guerra! Era una discriminazione bella e buona.
Era imbarazzante nel vero senso della parola. Poi si è deciso di cercare di aiutare tutti, tutti i disabili con un problema motorio. Anche a quel punto ci siamo resi conto che non bastava. Dare una gamba a qualcuno, un braccio a qualcuno è tanto, è tantissimo, però la gente deve vivere, deve lavorare, deve sposarsi, deve andare a scuola e quindi si è cercato anche di parlare di reinserimento sociale. E se qui è difficile - in Italia, in Europa è difficile parlare di questo - potete immaginare in Afghanistan dove tutto sembra fatto per creare problemi a tutti, non soltanto ai disabili, ma anche alle persone non portatrici di handicap, però è una cosa che va fatta. Così si è cominciato a mandare i ragazzini disabili a scuola, o per quelli con una disabilità molto grave si cercava e si cerca di mandare insegnanti a domicilio e gli insegnanti stessi sono portatori di handicap.
Poi quando diventano un po' più grandi - più grandi non è come da noi grandi grandi, ma quando hanno 12-13 anni - si comincia ad insegnare loro un mestiere.
Può essere qualsiasi mestiere, dall'aiutante falegname, all'aiuto cuoco, a qualsiasi lavoro. Poi quando sono adulti si cerca di trovare loro un lavoro. Non è molto facile, è difficile trovare qualcuno che ti dia lavoro se non sei perfettamente forte e sano, però ci si prova.
Abbiamo creato una specie di centro, di ufficio di collocamento dove si cerca bussando alle porte delle ambasciate, delle organizzazioni, degli uffici governativi, invitandoli a dare lavoro ai disabili.

E per essere noi stessi un esempio abbiamo deciso di dare lavoro solo a disabili. È una discriminazione, lo so, non si dovrebbe, però è una discriminazione positiva se vogliamo, per cui mi sono assolto e da allora è proprio una regola fissa: chiunque venga a cercare lavoro, qualsiasi attività, qualsiasi mestiere, da quello che fa le pulizie all'infermiere, al fisioterapista, al medico, al contabile, deve essere disabile. Mi dispiace per gli altri, ma è così.
Deve essere ed è un esempio per gli altri, per far capire che si può, che funziona, che la disabilità è un problema certe volte, però se aiutata. Non devo spiegarla a voi, credo siate tutti piuttosto sensibili a questo problema. E poi microprestiti che funzionano molto bene. Si tratta, anche in questo caso, di microprestiti concessi solo a disabili e quindi continua la nostra politica di discriminazione in questo senso! Ecco, questo è il mio lavoro.
Ho anche scritto per qualche periodo, però è stato un caso. E' durato per qualche tempo, ogni tanto scrivo ancora, però non è il mio mestiere.

Il mio mestiere è quello cercare di aiutare la gente a camminare di nuovo sia nel senso di permettere loro di deambulare che di riprendere a vivere la propria vita. Ho contatti coi giornalisti e col giornalismo, ne ho avuti tanti. In Afghanistan adesso se ne vedono pochi, pochissimi.
C'è stato il periodo che chiamavamo delle vacche grasse, nel senso che venivano tantissimi giornalisti al punto da non poterne più. Spuntavano dappertutto, alcuni molto seri, alcuni con volo radente, alcuni con volo ad alta quota, qualcuno molto veloce, qualcuno più lento, qualcuno ben intenzionato, qualcuno disgraziato. C'è stato un po' di tutto, adesso invece non ce ne sono quasi più. Devo ringraziare qualcuno di loro perché hanno scritto delle cose bellissime, hanno fatto capire cosa l'Afghanistan è, cosa non è.
Altri, invece, hanno inventato tutto.
Molti vengono con delle idee già fatte. C'era una signora - è venuta qualche settimana fa - che voleva soltanto che si parlasse di donne. Può essere comprensibile ma l'Afghanistan non è fatto soltanto di donne, è fatta di uomini e donne. Invece no. Lei voleva sapere solo di donne e non voleva che si dicesse niente in favore degli uomini. comprensibile anche questo, nascere donna in Afghanistan non è un regalo che la mamma ti può fare però, è dura per tutti. Quella donna sapeva tutto e ogni volta che tentavo di dire qualche cosa che non fosse di suo gradimento mi interrompeva dicendo di sapere già questo e quello. Sapeva sempre e comunque di più. Ecco, questi sono i giornalisti che mi fanno molta rabbia!
Poi ci sono i giornalisti che invece mi insegnano qualcosa, che vengono, mi fanno capire. Io essendo lì da 14 anni a volte non vedo più certe cose. So bene che questo è un grosso rischio. Mi piace che venga qualcuno e mi faccia capire, mi riporti un pochino non dico coi piedi sulla terra, perché quelli cerco di averli, ma mi faccia capire che sto guardando l'Afghanistan con degli occhi che non sono più obiettivi. Questi sono i rapporti che ho col giornalismo, coi giornalisti ed è tutto quello che ho da dire.

Paolo Rumiz*

L'andatura e la  quota del moviment del giornalista

Sono Paolo Rumiz per Repubblica, giornalista "viaggiatore", per cui questo invito a parlare del volo radente mi ha intrigato assai, perché l'andatura e la quota del movimento del giornalista sono centrali per il suo approccio e la sua comprensione delle notizie.
Quando sono arrivato in bicicletta a Istanbul dall'Italia con Francesco Altan, Emilio Rigatti, con quell'irripetibile storia che fu raccontata da Repubblica, quando arrivai e vidi i minareti dopo 3 milioni di colpi di pedale, circa 35 litri di birra ingurgitata in 18 giorni, ho avuto una stranissima sensazione.
Non mi sono chiesto come mai ce l'avevo fatta ad arrivare fino a lì ma mi sono chiesto come mai, improvvisamente, l'Europa mi sembrasse molto più piccola di prima. Questo era molto strano, perché se è vero che la velocità è uguale a spazio diviso tempo, lo spazio avrebbe dovuto dilatarsi all'infinito e il tempo comprimersi, e invece era accaduto esattamente il contrario. E capii che cosa era successo soltanto durante il viaggio di ritorno in aereo quando, incollandomi al finestrino, come faccio sempre per seguire le linee del terreno, mi sono reso conto che riconoscevo ogni sentiero, ogni cima, ogni locanda, ogni luogo in cui ero stato. In quel momento ho capito che cos'era accaduto.

Attraversando con lentezza questi territori essi erano diventati il giardino di casa mia, mi erano diventati familiari, non erano più il luogo dell'alieno, ma erano la mia Europa. Automaticamente uno spazio che mi era sembrato lontanissimo si era contratto ed era diventato, appunto, il cortile di casa.
A quel punto ho cominciato ad analizzare gli effetti collaterali e straordinari di questa lentezza, chiedendomi quanto avrebbero potuto essermi utili, anche perché dopo aver fatto questo viaggio ho dovuto anche scrivere, ho dovuto raccontare quello che avevo visto.
Mi sono reso conto che disponevo di una serie di cose delle quali avevo fatto a meno durante lo svolgimento normale del mio lavoro di giornalista che è per sua natura un mestiere veloce. La lentezza mi aveva dischiuso tutta una serie di dimensioni che non avevo ancora conosciuto. Innanzitutto la casualità degli incontri. Quando vai con un obiettivo - cioè trovare qualcosa di preciso - scarti tutto ciò che non è funzionale a quell'obiettivo. In questo caso noi attraversavamo diagonalmente un territorio e chi si incontrava si incontrava. Alla fine questi incontri casuali facevano la storia.
Poi c'era un'altra cosa straordinaria, che secondo me nasceva proprio dalla lentezza, cioè dall'adozione di un mezzo francescano di attraversamento del territorio, che in qualche modo disarmava ogni possibile avversario: noi alla fine scoprivamo che tutti i luoghi comuni sull'altro, sulle nazioni, sui serbi, sui croati, sui turchi e sui bulgari che vengono normalmente coltivate, quando venivano affrontate con un mezzo francescano e lento si sfarinavano e scomparivano. C'è una vignetta splendida di Altan, si vedono i tre ciclisti che riflettono in mezzo a un gruppo di cani da strada, assolutamente mansueti e uno dei due dice: "E' strano. i cani non ci mordono, la polizia non ci chiede il pizzo e nessuno ci ha aggredito". E l'altro dice: "Che lo facciano per confonderci le idee?".

Ecco, vedete, la seconda scoperta è la rottura del luogo comune. L'altra cosa è che senti un registro di voci che in questo mondo di urla e di prime donne altrimenti non sentiresti. Cominci a registrare il flebile mormorio delle voci deboli, che sono quelle che fanno il vero sottofondo della storia. L'altra cosa ancora è che quando viaggi così non apprendi nulla dagli altri se non racconti nulla. Non esiste l'intervista di chi chiede e basta, esiste l'uomo che appoggia la sua bicicletta, o si toglie le scarpe ed entra in casa, o entra in una locanda e prima di cominciare a parlare automaticamente dice da dove viene, dove va, che cosa sta facendo, quindi dà in ostaggio un pezzo di sé, per avere in cambio qualcosa dall'altro.
Il giornalismo viene inteso come scambio. Un'altra cosa straordinaria era la capacità di riuscire a vedere anche nel più piccolo dei villaggi il cosmo. Quindi vedevi nei microcosmi persi nella Balcania profonda - ma la stessa cosa mi è accaduta in Afghanistan quando ho conosciuto Alberto Cairo - o altrove, riuscivi a vedere la situazione globale.
E poi la scoperta forse più interessante era che la lentezza dell'attraversamento, la lentezza del viaggio si trasformava in velocità di racconto, in essenzialità di racconto.
Questo mi ha consentito di rileggere in qualche modo, di ribaltare un po' quello che ha raccontato Italo Calvino nelle sue "Lezioni americane", cioè la velocità in leggerezza è una delle qualità della scrittura. Ma io dico che a questa velocità e a questa leggerezza di stile tu non arrivi se non entri con lentezza nel mondo e magari portandoti un peso che ti obbliga anche a pesare il tuo corpo, la tua fisicità.

Oggi come oggi sono convinto, dopo questa esperienza - che poi ho cercato di ripetere in altre situazioni più piccole, anche di giornalismo più hard - che una frase concepita in movimento è molto più musicale, è molto più bella, è molto più raccontabile di una frase concepita con le chiappe davanti al computer. Io credo che gran parte della memoria orale dell'umanità sia nata o davanti al fuoco nei racconti della sera, o comunque negli spostamenti nomadici dell'uomo. Detto questo, mi sono reso conto di una cosa: tutti questi straordinari effetti collaterali del viaggio lento e rasoterra, del volo radente sul territorio erano anche una grandissima strumentazione giornalistica.
Tutte le volte che un giornalista deve affrontare un evento che è accaduto quel giorno è chiaro che deve correre, ma quando deve fotografare una mutazione di lungo periodo, un grande fenomeno di costume, quando deve entrare nella profondità di un paese, della sua provincia, uscire da quello che è il palcoscenico luminoso dei talk show o delle grandi capitali, allora è quella l'andatura giusta.
Questa è stata la prima parte del mio discorsetto: volevo dire come, secondo me, noi portatori di un mestiere veloce dobbiamo, per certi aspetti, riscoprire la lentezza.

Nicoletta Dentico*

Un senso di spaesamento

Credo che questo elogio della lentezza e questa riscoperta del viaggio francescanosiano un monito, un richiamo per tutti noi, per la nostra quotidianità così fugace e frettolosa. Credo di dovere molto ai racconti sui monti Nuba che in maniera piuttosto pionieristica Kizito ci ha fatto negli anni in cui nessuno conosceva questa area del mondo e soltanto grazie al suo impegno, al suo coraggio, anche alla sua voglia, alla sua determinazione, abbiamo sentito parlare delle popolazioni dei Monti Nuba. Si tratta di una realtà molto particolare del Sudan che stava non nel sud, ma nell'area centro nord del Sudan, che viveva una situazione veramente di negazione.
Credo che non finirò mai di ringraziare abbastanza e non è piaggeria, l'Alberto Cairo che - in un periodo in cui della guerra dell'Afghanistan si aveva soltanto la visione militare urlata da una parte o altre visioni urlate che sono tipiche di matrice italiana - ci raccontava la gente, ci raccontava le persone, quindi veramente grazie a voi tre. S ono giornalista, ho un tesserino, ma non pratico il giornalismo, quello quotidiano, da tempo, non faccio gambe, non faccio braccia, non sono un'operatrice sul terreno, non insegno come si scrive la pace, cioè non ho un'esperienza diretta con il terreno e mentre voi parlavate mi chiedevo: ma io qui che ci sto a fare? Che cosa gli racconto? E allora non vi nego che non è una domanda a cui non mi sono data una risposta, sto cercando di andare più a braccio di quanto non avessi immaginato e allora sto cercando di identificare un senso della mia presenza qui e anche il senso della mia storia, del mio terra terra, in una chiave di sostanziale complementarietà con queste storie, con queste esperienze e anche con il senso e l'obiettivo che la metafora del volo radente vuole un po' richiamare per tutti noi.

Dico, innanzi tutto, che il discorso sul volo se vale per il giornalismo, vale anche per il mondo dell'umanitario, rispetto al quale se non altro, negli ultimi anni, mi sono impegnata più direttamente, pur non essendo affatto una mente umanitaria. Il mio entrare nel mondo umanitario voleva essere anche una sfida rispetto a quel mondo, una sfida a me stessa per capirlo, per comprenderlo, per capirne le pieghe più profonde.
Il volo radente è sicuramente emozionante, è rischioso, utile per far vedere le cose da vicino, ma può far anche perdere la prospettiva globale.
Se questo vale per il giornalista, può valere sicuramente anche per l'operatore umanitario, può essere troppo rapido e superficiale e può essere spesso un volo che ti fa perdere i dettagli e ti fa perdere anche il senso dell'ascolto. Devo dire che ho riscontrato anche stamattina nel corso del dibattito che abbiamo fatto sul giornalismo e pacifismo, un segno che trovo abbastanza spesso, abbastanza frequentemente quando mi capita di interagire con altri e cioè un generale senso di frustrazione, di solitudine.
Si parla con i giornalisti e c'è la loro solitudine: stamattina abbiamo sentito il loro appello "non ci lasciate soli, da solo nessuno può cambiare le cose, quindi non ci lasciate soli, lavoriamo insieme". Un grande senso di solitudine del mondo politico.
Per quanto mi riguarda il mio lavoro è un po' quello, attraverso campagne, attraverso mobilitazioni appunto della società civile qui in Italia, di far si che ci sia una forma d'incastro tra chi lavora in quelle terre lontane e chi qui cerca, in qualche modo, di cambiare le cose. Devo dire che la mia esperienza si è originata attraverso la mobilitazione per la messa al bando delle mine, quando ci sono approdata come giornalista: dopo aver scritto un tot di articoli sul problema delle mine - di cui tra l'altro non si era mai molto parlato in Italia - e vedendo che le cose rimbalzavano perfettamente all'opinione pubblica, ho deciso che forse scrivere era un'azione indispensabile ma non sufficiente. Per tutta una serie di belle coincidenze ho cominciato la campagna in Italia per la messa al bando delle mine, essendo fra l'altro l'Italia il terzo produttore ed esportatore di mine al mondo. Una campagna che è cominciata 10 anni fa, il primo dicembre del '93, fu lanciata in una terra di nessuno, in cui parlare di mine significava parlare assolutamente di una cosa tabù e dove c'era proprio da cominciare da zero perché, appunto, c'era anche un assetto imprenditoriale, un assetto politico, un problema dell'uso militare delle mine in Italia che non rendeva facile quest'operazione.
Io dicevo prima che mi sento ad incastro nel senso che il mio lavoro, la mia esperienza, il mio percorso, il mio viaggio. non so quanto francescano possa essere. però sicuramente nel tempo ho imparato che anche il viaggio della politica, anche il viaggio del cambiamento a gioco forza è un viaggio lento.
E' un grande viaggio di ascolto dove partire con gli slogan e partire con un'azione di sensibilizzazione orizzontale è soltanto il primo passo, ma si richiede invece una grande azione di comprensione delle argomentazioni di tutti, dello studio e dell'approfondimento anche di quello che inizialmente è formulato solo come slogan e spesso deve essere anche molto abile a recepire la flessibilità, le coincidenze, a cogliere l'attimo, perché talvolta smuovi un sassolino e da quello si crea un'oggettiva valanga, si può creare un effetto domino che cambia molto le cose, proprio mentre le stai facendo.

Spero che questo sia qualcosa di più di un volo radente. Talvolta rischia di essere effettivamente un volo assimilabile a quello degli aerei americani o britannici che sorvolano paesi sganciando bombe da 5000 metri. Certe volte ho questo sospetto: lavorando anche in una società come quella italiana che ha delle idiosincrasie tutte sue rispetto all'agire del giornalismo, o all'agire della politica e dove oggettivamente ne abbiamo sentito un assaggio anche oggi rispetto ai temi della guerra, della pace, rispetto ai temi insomma della politica internazionale, c'è molto terreno da dissodare. Allora io credo che ci sia bisogno dell'esperienza di tutti, che ci sia bisogno di riprendere questa frase del poeta Rio Can che dice: in questa ciotola c'è riso che viene da migliaia di famiglie. Ognuno di noi ci deve mettere il proprio chicco e ognuno di noi può partecipare a questo cambiamento. Io credo che oggi come oggi non abbiamo scelta: anche la società civile si sente spesso sola, isolata, anche come direttore di "Medici senza frontiere" che pure è un'organizzazione che ormai è una griffe, la sensazione rispetto alla stampa in Italia è stata spesso di estrema solitudine. Penso che ci sia un grande senso di solitudine, di abbandono, un grave disagio talvolta a dover essere noi, questo credo che sia Alberto che Renato lo sentano molto, forse stavolta l'unica presenza della comunità internazionale vicino alle popolazioni più remote da una parte e dall'altra a cercare in maniera spesso maldestra, spesso goffa di essere la loro voce. Spesso mi chiedo: ma quand'è che queste persone parleranno? Perché dobbiamo essere noi la loro voce?

Queste sono pennellate di idee, non avevo nessuna pretesa di essere esaustiva, ma ad una conclusione posso arrivare: se tutti ci sentiamo soli, se tutti ci sentiamo frustrati, se tutti ci sentiamo oppressi da una macchina, da un sistema più grosso del nostro e invece poi tutti facciamo parte di questa macchina e di questo sistema, mi piacerebbe che unissimo almeno le nostre solitudini e che trovassimo da un appuntamento come questo così ricco, così carico di sollecitazioni, un modo per continuare questo percorso, per non farne soltanto ed esclusivamente un appuntamento annuale, ma per farne anche piccoli momenti d'incontro tra i vari mondi, della stampa, degli operatori, di coloro che poi interagiscono con il palazzo o con i palazzi... Vi ricordate quanto ci siamo attivati per la salvaguardia della legge italiana sul commercio delle armi, la 185 una delle migliori leggi che regola la materia della produzione e del commercio delle armi in Europa, che è stata soppiantata da un disegno di armonizzazione europeo? Credo che una delle peggiori sconfitte che ho avvertito come portavoce della campagna è stata il fatto che sui più grandi organi di stampa abbiamo dovuto comprare lo spazio per avere un minimo di voce, perché sui più grandi organi di stampa non è stato minimamente possibile parlare di questa cosa.
E allora oggi perché è tabù parlare di armi? Perché è tabù parlare di disarmo? Perché, come è successo 3 giorni fa, siamo stati 2 ore e mezza a cercare di trovare un nome giusto per questa coalizione per attirare il nome della stampa, perché al di là dell'argomento che è già abbastanza complesso ci sia un logo, un nome, un appiglio abbastanza sexy, interessante perché poi gli altri ne parlino di noi?

Dibattito e repliche*

Giovanni De Mauro

Volevo cominciare da Renato Kizito. Quando parlavi della situazione africana, di internet ecc., mi veniva in mente una cosa che si cita spesso cioè che esemplificare la distanza che c'è: che il numero di linee telefoniche di tutto il continente africano è uguale al numero di linee telefoniche del centro di Manhattan. E c'è un'altra cosa che si racconta: che metà della popolazione mondiale non ha mai fatto una telefonata in vita sua e che quindi quando parliamo di innovazione tecnologica, internet, ecc., comunque parliamo di mezzi straordinari, ma che oggi ancora riguardano una minoranza di persone.
Al tempo stesso, qualche anno fa uscì su un mensile americano un articolo che partiva proprio da questo, era un lungo reportage in Africa che raccontava come una situazione di oggettiva arretratezza tecnologica, come quella in cui si trova l'Africa, possa in realtà, se orientata in maniera intelligente anche con i giusti finanziamenti, trasformarsi in una straordinaria opportunità di sviluppo.
Nel campo delle tecnologie, per esempio, l'ultimo che arriva è generalmente quello che utilizza l'ultima tecnologia e quindi la più avanzata, la più elastica, la più economica, la più flessibile.
Ciò si collega al discorso di come sia possibile che una situazione di oggettiva e indiscutibile arretratezza si possa capovolgere per farne uno strumento di forza e uno strumento di sviluppo importante, non rimanendo a piangersi addosso su quanto si è indietro, su quanta strada c'è da fare. È qualcosa che ha un senso anche rispetto alla tua esperienza quotidiana?

Padre Renato Kizito Sesana*

Problema di finanziamenti, non di capacità

Penso che potrebbe essere possibile, con investimenti adeguati, fare il salto per cui per esempio si passa ad usare i telefonini in Africa senza passare attraverso le linee via terra. Il problema è che non ci sono, c'è un problema di finanziamenti, non c'è un problema di capacità.
Noi abbiamo trovato subito, dall'inizio, del personale che poi abbiamo formato e che è capace di gestire le tecnologie più avanzate. Magari non stiamo facendo le cose all'ultimissimo grido: per esempio adesso stiamo per aprire a Nairobi una scuola, sarà la prima a Nairobi, per insegnare Linux; ma credo che il problema sia alla radice, non sia un problema di tecnologie. Lei parlava di dar voce a chi non ha voce: in realtà noi non ascoltiamo perché, per esempio, la nostra esperienza nella pubblicazione di News from Africa è che le reazioni che riceviamo al di fuori dall'Africa sono minime.
Oggi abbiamo Redattore Sociale che è da quasi un anno che pubblica regolarmente, che ci chiede delle storie sui temi che trova interessanti e le pubblica, ma questo è uno, ci sono pochissime altre reazioni. A me sembra che il problema fondamentale non sia quello delle tecnologie, ma quello che non si vuole ascoltare quello che gli altri hanno da dire.

Credo veramente che nella nostra cultura europea: c'è un profondo razzismo, soprattutto nei confronti dell'Africa e degli africani, non si crede che ci siano dei giornalisti africani che siano altrettanto bravi quanto i nostri, non si vuole dare loro responsabilità, è un cammino ancora lunghissimo da farsi. Io non è che stimi particolarmente il giornalismo inglese, però per esempio la BBC da oltre 2 anni ha come responsabile delle trasmissioni sull'Africa a Londra un keniano, non un inglese. Pensare che in Italia ci siano nelle nostre testate elettroniche o di stampa degli africani che scrivono sull'Africa, mi sembra un sogno ancora irraggiungibile. C'è qualche rarissimo giornalista africano. Questo non è altro che un atteggiamento di non ascolto, di credersi superiori. Secondo me è qualcosa cui dobbiamo guardare in faccia con grande onestà: siamo profondamente razzisti. Io sono rimasto sconvolto anche adesso e vi faccio un esempio che non viene dal giornalismo.
A Nairobi abbiamo tre coppie italiane che sono venute ad adottare dei bambini keniani, quindi uno si aspetta che da parte di queste persone ci sia accettazione, infondo vengono ad adottare un bambino keniano. Tutto l'atteggiamento con cui si pongono di fronte al Kenya, devo dire, è un atteggiamento che ha delle pesanti connotazioni razziste. È veramente dentro di noi. Ritengo che questa sia veramente una cosa gravissima, che non dà spazio, che non ci fa ascoltare. Lo vediamo in mille modi. Giornalisti che vengono in Africa. Io ho avuto l'opportunità di accompagnare molti giornalisti italiani e non italiani a visitare i Monti Nuba, a visitare il Kenya e vedo, poi leggo i loro articoli.
A parte le varie sezioni, si trovano sempre i soliti schemi, chi parla non è l'africano, l'intervistato non è l'africano, si intervista magari il missionario italiano, s'intervista l'operatore italiano sul posto, l'africano fa da sfondo di colore a ciò che viene detto nell'articolo. Spesso le notizie che vengono riportate sono le notizie che confermano il nostro senso di superiorità. Perché i giornali riportano dall'Africa solo di eccidi, i morti, la fame, le guerre? Secondo me la spiegazione è perché questi fatti ci aiutano a sentirci più bravi, confermano il nostro senso di superiorità, loro sono selvaggi, incapaci, primitivi. C'è dietro tutto questo atteggiamento in genere verso il terzo mondo, in particolare verso l'Africa. Non si tratta di cambiare quella società, di dotarli di strumenti tecnologici più moderni, non è solo quello il problema, il problema è un cambiamento nostro di mentalità. Il punto è chiedersi se vogliamo veramente ascoltare gli altri oppure siamo soddisfatti di ascoltare solo noi stessi.

Alberto Cairo*

Eliminare le distanze

La ragione per la quale ho dovuto disdire gli abbonamenti all'Espresso e Panorama soprattutto è Alba Parietti. Queste due riviste avevano l'abitudine, lo sapete, di mettere delle signorine non proprio molto vestite. In quel periodo a Kabul c'erano i talebani e la copertina si vedeva. Le riviste arrivavano in busta cellophanata e quindi non coperta, al che io ho scritto una lettera molto spiritosa, o meglio ho cercato di essere spiritoso, all'ufficio abbonamenti dicendo: per favore potreste mandarmi queste riviste in busta chiusa, perché ho qualche problema di censura? E questi mi hanno risposto freddi, freddi: non è un servizio che facciamo per i clienti! Al che io, per essere ancora più spiritoso ho scritto: guardate che mi costringete a disdire l'abbonamento e se lo disdico io con me perdete il 100% degli abbonati. Non mi hanno risposto. Al che ho disdetto l'abbonamento.
Del resto era successo un episodio molto buffo perché avevo questa signorina sulla scrivania quando la polizia religiosa talebana è entrata a fare l'ispezione.
Veniva molto spesso, non era una cosa eccezionale: già ci vedevano male perché per loro la croce della Croce Rossa è simbolo di proselitismo, non certo di aiuto, quindi già ci vedevano un pochino male con l'idea della croce, in più di essere accusato anche di pornografia, o di non so che cosa, sarebbe stato molto più difficile da digerire!
Quel giorno ricordo che mi aiutò molto il fatto che, per fortuna, dentro alla rivista c'era un'immagine particolare. Io cercavo di spiegare a quel signore che era davanti a me, quello della polizia talebana, che la croce non vuol dire proprio niente, è soltanto un simbolo di aiuto, di soccorso, vuol dire farmacia, vuol dire medicine, vuol dire tante cose... giro velocemente la copertina per coprire la signorina in copertina e dentro c'è un cane che conduce un cieco e sopra il cane c'era una bella croce. Voi sapete che in Afghanistan i cani non sono molto amati, sono viste come creature immonde, quindi gli ho spiegato velocemente: guardate la croce non vuol dire niente, la mettiamo anche sui cani. E questa era stata una cosa che li aveva convinti, si è tirato indietro e se ne è andato. Comunque, in merito al senso della distanza, ripeto un po' quello che ho detto prima, per anni l'Afghanistan nessuno se lo ricordava. Io ricordo un episodio in una libreria di Milano, una libreria un po' chic, dove c'era una signora coi capelli molto lunghi, li buttava sempre indietro, e parlava con una "r" moscia, non so se fosse naturale o finta. Ho ordinato dei libri, ho dato l'indirizzo, li ho fatti mandare a Ginevra alla sede della Croce Rossa Internazionale, con il sotto indirizzo Kabul. E quella mi dice: "Ohhh, come mai li manda a Kabul?". Ed io ho risposto che ci vivevo. Mi guarda e mi fa: "Ohhh l'Africa.. bellissima!!!". Non dico che automaticamente lavorare in una libreria significhi essere colti, però insomma un'infarinatura avrebbe dovuto averla. Ciò vi fa capire come l'Afghanistan proprio non se lo ricordasse nessuno.

Poi c'è stato il fatto delle torri gemelle: automaticamente si è capito subito, abbiamo capito tutti, eravamo nell'occhio del ciclone, nel senso cattivo della parola, e poi sono arrivati tanti giornalisti e l'Afghanistan lo conoscevano tutti. A volte me lo raccontano nei dettagli, non so come facciano ad averli, però.. Io la mia esperienza, quello che ho cercato di fare in quel periodo in cui ho scritto i diari per Repubblica, era far capire alla gente chi erano gli afgani. Molti credevano e credono ancora adesso, che gli afgani abbiano due teste, due code, una gamba sola, bhe', questo si... per altre ragioni, però. Cercavo di far capire che sono persone esattamente come noi, che s'innamorano, piangono, ridono, rubano come noi, si diverto, hanno voglia di prendersi in giro, prenderti in giro, sono molto astuti a capire, a intuire quello che vuoi sentire, quindi con molti giornalisti sono stati molto malandrini, perché hanno saputo perfettamente quello che volevano.

Ricordo un signore francese, un giornalista francese, abbastanza serio credo, scriveva sulle mine, voleva sapere la ragione per cui le persone erano amputate, cos'era successo loro e ricordo che venne al centro ortopedico e intervistò un certo Daud. Costui, lo ricordo benissimo, è un signore che era stato amputato una dozzina di anni fa e improvvisamente, invece, raccontò: "Mi hanno catturato i talebani una sera, mi hanno preso e mi hanno portato in un posto al buio - l'elettricità a Kabul non c'era.. però lui non lo poteva sapere, quindi "al buio" faceva un certo effetto - mi hanno portato nello scantinato e mi hanno picchiato e poi ancora picchiato..". Insomma una cosa. Una descrizione del sangue che schizzava sui muri - e questo che scriveva, scriveva. E non era vero niente.
Questo signore aveva perso la gamba tanti anni prima credo in un incidente stradale. Per carità, perdere la gamba in un incidente stradale o per i talebani alla fin fine il risultato è lo stesso, però capite. Questo giornalista scriveva, scriveva e non si faceva nessuna domanda. Le date, le cose che questo gli raccontava, non faceva un minimo collegamento per cercare di capire se erano verosimili o no. Scriveva, scriveva e scriveva. E alla fine quando il giornalista se n'è andato gli ho detto: "Ma Daud perché hai raccontato queste bugie?".
E lui: "Hai visto come gli è piaciuta?". La mia esperienza, nel breve periodo in cui ho scritto, era quella di cercare di far capire a volo radente e lento, quello che veramente capissero dell'Afghanistan, del mio mondo, del mondo che vedo io, non assolutamente i grandi conflitti, le grandi ideologie, le grandi problematiche, volevo che lo intuissero attraverso i racconti, attraverso i racconti di vita.
Ho cercato, per quello che potevo, di rompere, di eliminare questa grande distanza, quello che c'era tra la signora della libreria che vedeva l'Afghanistan in Africa e il mondo che invece era quello reale, il mondo di tutti i giorni.

Giovanni De Mauro*

Paolo Rumiz ci ha lasciato come Matrix 1, Matrix 2, Matrix 3. Siamo in sospeso con il tuo racconto, però c'è una cosa che vorrei chiederti, spero che non ti porti fuori strada rispetto al seguito.
C'è un grande giornalista francese che lavora per Liberation e ha seguito la Bosnia, dove tra l'altro ha perso una gamba, che ha scritto due libri formidabili sul Ruanda, l'ultimo dei quali è uscito qualche mese fa e ha già vinto una serie di premi in Francia, ormai abbastanza unanimemente considerati come le testimonianze e i racconti più efficaci di quello che è stato il genocidio ruandese, e che ha chiesto alla sua casa editrice che questo libro venisse pubblicato nella collana della narrativa della Fiction. Pur avendo alle spalle quello che era sostanzialmente un lavoro di tipo giornalistico, lui è andato in Ruanda, ha intervistato persone ed ha realizzato un libro che raccoglie testimonianze. Per una serie di ragioni anche legate al fatto che non voleva che gli venisse rinfacciata una qualche forma di deformazione ha fatto questa scelta.
Mi chiedo: il mestiere di giornalista presuppone una selezione, presuppone delle scelte e quindi in qualche misura una deformazione dell'ipotetica realtà.
Qual è il rapporto con l'aderenza, qual è il limite fra la fiction e la cronaca giornalistica? È giusto che ci sia? Non è giusto? È un limite deontologico, o un limite solo tecnico, narrativo?

Paolo Rumiz*

Nel pendolarismo il giusto equilibrio

Mi sembra che le domande siano due. Quanto di fiction può essere tollerabile nel mestiere? Non nel momento in cui si scrive un libro, ma nel momento in cui si scrivono degli articoli. E l'altra domanda è quali sono i limiti dell'immersione totale? Quindi l'assenza di distacco. Evidentemente questi limiti esistono. Partiamo dalla seconda cosa. Quando ero a Sarajevo sotto i bombardamenti sono diventato sarajevese. Scrivevo pesantemente pro bosniaci, il che mi ha portato a una scelta quasi ideologica, a trascurare, a non ascoltare, non mi interessava la voce di quelli che mi bombardavano.
Perché dovevo andare a fargli propaganda o ad ascoltarli? Ma per quanto riguarda la seconda cosa, io credo che quello che manchi oggi sia un racconto della verità di ciò che un giornalista incontra cioè non l'articolo distaccato, ma l'articolo partecipato di un giornalista che racconta proprio quello che si diceva prima del suo spaesamento, della sua solitudine di fronte a certe cose. Io credo che spaesamento e solitudine siano due grandi motori di ricerca nella mente del giornalista, non degli elementi di handicap. Vi ricordate i serenissimi terroristi che avevano assalito il campanile di San Marco? Uno di loro finì in modo assolutamente assurdo in galera e ne usciva ripetutamente a distanza di 6-7 mesi visto che ogni volta ritrovavano una scusa per rimetterlo dentro.
A un certo punto feci una chiacchierata con lui e mi disse una cosa che proprio mi colpì. Mi disse: "Tu non hai un'idea dello spaesamento che provo ogni volta che esco, perché anche se esco dopo 6 mesi soltanto noto una quantità di cambiamenti nelle cose intorno a me, che chi vive immerso nella realtà non vede più". Ecco, lui aveva fotografato in pieno qual è il mestiere del giornalista, quello dell'inviato soprattutto, cioè quello di arrivare in un luogo al quale tutti si sono abituati e riesce a vedere delle cose che chi è immerso in quella realtà non vede. Questo è un vantaggio del venire dal di fuori, cioè di non essere immersi nella realtà, è un po' una sconfessione del discorso che facevo prima su Sarajevo.

Poi c'è la solitudine. Io credo che la solitudine sia un enorme vantaggio . Nel momento in cui chi fa questo mestiere esce dal branco, molla la banda degli uomini con telecamera e con traduttori e se ne va solo soletto, anche sapendo poco la lingua del paese che attraversa, imparerà mille cose di più. Mi raccontò Kapuscinski, che credo molti di voi hanno conosciuto qui, che un anno lo chiamò il re di Norvegia per invitarlo a una cena a casa sua con alcuni grandi personaggi dell'economia mondiale. Lui accettò perché sapeva che questa cosa poteva essere un'anticipazione di un Nobel che credo finiranno per dargli - opinione mia personale - lui andò, accettò quest'invito, cosa che non fa mai perché è un uomo più da taverna che da situazioni ufficiali, più da treno che da aereo.
In questo caso prese l'aereo e andò ad Oslo. E mi raccontò che quando si trovò di fronte ad un tavolo con 8 persone, 7 delle quali concentravano in sé il 22% della ricchezza mondiale, del prodotto interno lordo mondiale e quando cominciò a parlare sulla sua visione del mondo, vide quasi allarmato dipingersi su questi volti lo stupore di fronte a un mondo che questi padroni del mondo non conoscevano. Si rese conto che lui, solitario viaggiatore lento, era infinitamente superiore a loro. Mi raccontò che alla fine di questa cena andarono in processione da lui con il cappello in mano a chiedergli che cosa potevano fare per migliorare la situazione del mondo con gli assegni pronti. Credo che il distacco sia importante, credo che l'immersione sia importante, credo che nostro dovere civico, soprattutto di questi tempi in cui tutto ci incita ad ascoltare solo chi grida e a esacerbare e a sottolineare tutti i discorsi che riguardano lo scontro di civiltà, sia quello di dar voce a tutti quelli che stanno in mezzo, tra le due parti. Quando ti dicono: vai a sentire l'Imam di Carmagnola. Ok, lo sentirai, però devi raccontare tutto quello che c'è intorno. Devi raccontare tutto l'Islam tollerante che abbiamo in casa a cui nessuno dà voce. Nessuno racconta degli ebrei che convivono con i palestinesi, nessuno racconta l'altra faccia di Israele, non quella di Sharon.

L'ascolto di chi opera sul territorio è importantissimo. Io devo al volontariato italiano, al Cnca un mio salto professionale. Quando fui invitato a Firenze agli stati generali del Cnca, fu invitato anche Prodi e l'allora ministro Fazio. Avevo appena concluso la mia esperienza bosniaca e avevo dato alle stampe un libro e in quell'occasione decine e decine di volontari del Cnca attaccarono bottone per dirmi: "Noi siamo stati in Bosnia, siamo stati in Jugoslavia, abbiamo visto quello che hai visto tu, adesso è ora che tu vieni in Italia a vedere quello che succede in Italia". Erano i mesi della secessione, della minacciata secessione di Bossi. Bastò riportare su un'agenda i nomi di queste persone e i loro numeri di telefono, riportarli su una mappa d'Italia per disegnare l'itinerario di un viaggio che mi portò nella pancia profonda del paese e mi fece fare un secondo libro, che nacque proprio da quei volontari che confrontando la situazione internazionale, quindi la Bosnia, con la situazione del loro paese, del paese profondo, della provincia italiana. Mi fecero capire che qualcosa bolliva in pentola. Vedete, il lavoro è una continua alternanza di distacchi dalla situazione e poi di immersione. Credo che in questo pendolarismo stia l'equilibrio giusto.

Giovanni De Mauro*

Nicoletta tu ci hai spiegato come ti trovi al crocevia fra politica, società civile e operatori umanitari sul campo. Una cosa che mi chiedo spesso è come ti sei trovata e ti trovi ancora oggi? Se ci sono e quali sono i rischi da cui difendersi rispetto alla politica? Cioè, la politica può, e se lo fa in che modo, influenzare, orientare il lavoro degli operatori e di chi si trova al crocevia? C'è questo rischio? È una cosa che succede, che ti è successa? Ti è capitato personalmente? E se si, come ci si difende? Come si stabiliscono delle distanze che servono, in questo caso, anche a fare meglio il proprio lavoro?

Nicoletta Dentico*

Il rischio dell'autoreferenzialità

Credo che questa sia una domanda molto pertinente, direi anche che tocca una delle pieghe più delicate di questo posizionamento un po' ambiguo, un po' contorto. La società civile secondo me si trova oggi un po' intrappolata tra due poli, che vedo entrambi abbastanza rischiosi. Da un lato c'è un fortissimo rischio di captazione - questo lo sento e l'ho percepito in alcune allusioni più che specifiche, dichiarazioni della sessione precedente - vedo questo rischio di cooptazione della società civile. C'è il rischio che la società civile si presti ad una gestione del residuale in senso ampio, che può garantire anche un tornaconto, diciamocelo in maniera molto onesta, in termini finanziari.
Non è un segreto per nessuno che durante la guerra del Kosovo diverse realtà italiane, e non solo, si sono rimpolpate bene le tasche e lo stesso dicasi per l'Afghanistan, meno per l'Iraq. Per l'Iraq la lezione è un'altra: la società civile quasi non serve più perché tutto è subappaltato alle aziende private, anche l'assistenza umanitaria. Forse qualche cosa un po' è cambiato con l'Iraq: nelle precedenti guerre, mi riferisco soprattutto al Kosovo e all'Afghanistan, ho visto molta voglia di far parte della suddivisione della torta, ho visto molta voglia di essere visibili, presenti, di essere protagonisti.

Secondo me in Italia ci sono delle particolari derive del vippismo umanitario che sono uno dei fenomeni su cui paghiamo anche lo scotto del nostro provincialismo. Da un lato ci vuole una cooptazione, diventare una parte integrante di un sistema, dall'altro ci vedo invece il rischio dell'urlo anche qui, dello sbraitamento, degli slogan urlati, permettetemi. una certa forma di berlusconismo con un segno diverso. Credo che bisogna stare molto attenti a queste due derive, a queste due manifestazioni, perché non aiutano la causa, non aiutano il cambiamento e anzi esasperano il clima impedendo poi ogni forma di azione.
Io credo che sempre più pressantemente scopriamo - e vorrei che non fosse percepito come arroganza, perché dietro tutto questo ci sta un grandissimo lavoro - che spesso nella società civile risiedono molte competenze che la politica non ha. Mi è capitato più volte, e non solo a me, che il parlamentare, o addirittura il rappresentante del governo venisse a chiedermi documenti che non erano disponibili per lui, o che il parlamentare, o il politico, o il funzionario delle ambasciate, mi venisse a chiedere se avessi notizie, o avessi documenti, o testi, o qualcosa che documentasse un passaggio di cui lui aveva voce.
Questo secondo me è emerso in maniera molto forte a Cancùn per altro, dove l'Unione Europea e l'Italia in particolare è arrivata con una forma di spaesamento assolutamente sorprendente, anche inquietante per tanti aspetti.
I rischi da cui difenderci sono l'approssimazione talvolta, questa superficialità dell'analisi della politica. In questo periodo sto lavorando con la commissione dei diritti umani del senato, per redigere un libro bianco sui centri di permanenza temporanei, che sono questi non luoghi, queste realtà ibride, che per altro sono in continua proliferazione anche nel nostro paese dove, come sapete, vanno a finire una serie di persone - irregolari, clandestini, ex detenuti - e c'è tutta una serie di problemi, non soltanto di violazione dei diritti umani, non soltanto di carattere legale, ma anche di carattere umanitario, sanitario.

Medici senza frontiere, come sapete, sta lavorando a Lampedusa da qualche tempo e questa è un po' un'eredità del mio precedente lavoro. Quello che si scopre imbarcandosi in queste iniziative è la necessità della formazione del mondo politico, la necessità d'informare il mondo politico, di raccontare a coloro che poi votano le leggi come la Bossi-Fini, o la Turco-Napolitano. C'è un divario, una forbice, una distanza sempre più macroscopica e preoccupante tra l'analisi del problema e la soluzione che viene identificata. E io credo che appunto - ho ribaltato un po' la prospettiva - il rischio da cui difenderci è questa approssimazione, è uno spazio sempre più stretto d'intervento, quindi c'è una necessità di essere sempre molto in allerta, di essere sempre molto attenti.
Ci ritroviamo tutti, dialoghiamo, ma in fondo c'è il rischio di una autoreferenzialità che non tiene conto della realtà vera delle cose, che non tiene conto della complessità dei problemi sui quali ci dobbiamo anche cimentare. Io credo che una grandissima lezione che ho acquisito dentro un'organizzazione un po' tutta sua, un po' particolare di Medici senza frontiere, che non entra nei grandi coordinamenti, che ha tutto un modo suo di operare è che oltre all'importanza dell'essere con questa gente, l'importanza dell'essere in questi paesi, dell'importanza dell'essere molto attivamente impegnati, c'è anche un inquieto pragmatismo. Essere pragmatici talvolta non è una deviazione negativa: essere impegnati in maniera inquieta, non accondiscendente, non accomodante, secondo me, oggi come oggi, può essere un'intelligente risposta al cinismo di coloro che pensano che i pacifisti siano anime belle, che il pacifismo sia un'utopia.
Ho apprezzato molto stamattina padre Lavagna che parlava della non violenza come appannaggio di tutti. Pace non come utopia, ma come cosa che si può costruire e che implica estrema competenza, estrema professionalità, tanta voglia di mettersi in gioco e la volontà di costruire alleanze talvolta strane, talvolta inaspettate.
Oggi, la situazione attuale implica anche delle chiavi interpretative, delle capacità di analisi che non diano proprio niente per scontato. Credo che come società civile dovremmo combattere quel modo di interpretare ciò che accade in maniera assolutamente scontata dando per certo di aver capito tutto, di sapere tutto del mondo. Credo che questa sia una dinamica da combattere.

Marina Piccone*

Sono stata in Somalia due anni fa. Come sapete la situazione della Somalia è particolarissima: è molto difficoltoso il viaggio, si entra dal Kenya solamente con i piccoli aerei della cooperazione internazionale. Io sono entrata grazie ad un'Ong che gestisce lì un ospedale da 10 anni.
Tra le altre cose sono stata fortunata perché, in quel periodo, proprio nel centro sud della Somalia c'era la totale anarchia: non c'è niente, non ci sono scuole, non ci sono ospedali, non c'è stato, non c'è governo, non c'è niente. In quel periodo si era insediato un uomo che è andato in quella piccola regione, quella regione del centro sud vicino a Mogadiscio dicendo: "Da oggi in poi il vostro capo sono io!". Aveva cominciato una serie di riforme, aveva messo delle regole, aveva requisito tutto l'arsenale, tutte le armi, ecc.
Faccio questo reportage, torno in Italia e siccome sono molto lenta, ci metto un po' a scrivere quest'articolo e questa lentezza mi è stata fatale, perché sto per consegnare l'articolo a settembre e sopraggiunge l'attacco alle torri gemelle. In quel momento non si è più potuto parlare di nient'altro. Il capo redattore di "Diario" mi ha detto: "Guarda Marina, non so se e quando potrò pubblicare questo articolo perché non si può parlare di nient'altro, ci sono 2000 morti in America!". Ed io: "Ma in Somalia veramente sono milioni di morti. Sono 10 anni che stanno in uno stato di anarchia totale". Tutto ciò non importa. Era molto infastidito e mi ha detto: "Guarda non lo so". Sono una freelance, per cui mi sono rivolta a tutti i giornali con cui collaboro normalmente. Approdo all'Espresso e la responsabile degli esteri mi dice: "Io ho fatto parte, sono stata ai tempi della Missione 1, insomma ecc., ecc.". Allora ho pensato di aver trovato l'aggancio giusto, invece mi dice: "Ma sai qual è la verità? Che della Somalia non importa niente a nessuno e diciamola tutta i somali se la sono voluta". Per cui niente, io comunque scrivo, ho scritto questo articolo, lo consegno a "Diario" alla fine perché era l'unico che mi aveva dato una possibilità. Tra parentesi ero stata con un fotografo di "Contrasto" che aveva fatto delle foto bellissime, per cui poteva uscire un bel reportage. Dopo mesi scopro che "Diario" ha pubblicato l'articolo, 6 pagine di articolo, di reportage senza foto titolandolo: "Se Bush fosse andato in Somalia ecco che cosa avrebbe trovato. Perché comunque doveva per forza contestualizzare la cosa." Piccola nota: successivamente ho sentito questo fotografo il quale mi ha detto di aver venduto le foto al National Geographic perché qui non trovava comunque chi gliele pubblicasse, e mi ha detto: "Non te lo dico neanche quanto ho guadagnato". Perché comunque erano cifre altissime. Io per questo reportage ho preso 500 mila lire. Questo per dire. Io lavoro all'assessorato alle politiche per le periferie del comune di Roma, che è un lavoro che mi permette il lusso di fare la giornalista, altrimenti sarebbe veramente impossibile.

Vito Giannulo*

Anzitutto a Nicoletta Dentico, molto brevemente, una risposta alla sua domanda che ci faccio qui, se è al posto giusto. Quando io ero un giornalista alle prime armi a Rai International è stata lei ad insegnare a me e a molti come me agli inizi che cos'era la campagna contro le mine, chi ci lavorava, a chi dovevamo rivolgerci, quali numeri comporre per avere le notizie, quindi diciamo che sei al posto giusto.
Una domanda per Paolo Rumiz. Noi lo conosciamo come autore del reportage del viaggio in bicicletta, ma anche di Lingua blu, non so se si riferiva a questo quando parlava di pendolarismo, fra il dentro e fuori l'Italia. Al di là di questo, quando ritieni di essere più incisivo, più efficace in senso etimologico, più dentro la tua realtà? Poi una domanda a padre Renato, mi scuso se può apparire terra terra, ma sono assediato dalle richieste di parlare del fenomeno molto diffuso delle adozioni a distanza. Volevo sapere che cosa ne pensa in linea di principio e anche in linea di fatto, se ne è a conoscenza.

Paolo Rumiz*

L'efficacia che io percepisco o quella che registro nei lettori? Quando ritengo di essere più incisivo nella realtà?... Dipende da quello che devo fare, perché ogni tipo di servizio richiede una sua categoria di racconto. Se devo raccontare, smontare lo scandalo del vaccino della Lingua blu non farò un racconto, farò quasi un referto autoptico, una ricetta, scriverò qualcosa di molto martellante in cui i fatti sono condensati il più possibile.
Quando devo raccontare, per esempio, il fondale paesaggistico o umano di un evento, allora la cosa è completamente diversa, puoi lasciarti andare ad una dimensione più scritta, più narrata, con frasi più lunghe. Credo che ogni articolo, ogni cosa che devi fare ha il suo taglio. Per esempio ci sono delle interviste che vengono molto bene una riga la domanda e una riga la risposta. Ce ne sono altre che invece richiedono 10-15 righe.
E' un discorso molto stilistico, non credo che esista una categoria di efficacia. L'intelligenza del giornalista è quella di sapersi adattare, di trovare lo schema giusto per ogni tipo di racconto. Dovrei parlare molto, non è un discorso che posso liquidare così.

Padre Renato Kizito Sesana*

Veniamo alle adozioni a distanza: io credo che debbano rispettare il principio fondamentale che è il rispetto del bambino. Noi abbiamo due case per bambini, ex bambini e bambine di strada a Nairobi. Abbiamo un po' ingenuamente accettato le adozioni a distanza e ci siamo trovati in situazioni in cui ci sembrava indecente, indecorosa la corrispondenza che avveniva fra gli adottanti e il bambino e quindi abbiamo sospeso preferendo chiedere alla gente di adottare non il bambino, ma il progetto per evitare che il bambino venga usato come merce per raccogliere fondi. Presentiamo il progetto e non facciamo l'adozione a distanza del bambino particolare con nome, cognome e fotografia.
D'altra parte è una forma che aiuta molte realtà positive ad operare in tanti paesi, quindi bisogna stare attenti, secondo me, alla modalità che si sceglie. Ciascuno, poi, è responsabile per quello che fa. Io penso che ci siano tanti altri che usano la formula dell'adozione a distanza per fare progetti seri, efficaci e che aiutano veramente l'infanzia. Ci possono essere invece delle situazioni che non sono corrette, che non sono giuste.

Matteo Chiari*

Volevo fare una domanda a Paolo Rumiz. Se lei avesse 28 anni, iniziasse a fare il giornalista, lavorasse in un giornale non di settore, un giornale generalista, medio-grande, si trovasse a dover impastare delle agenzie di fretta e ad essere insomma l'ultimo anello della catena, come farebbe emergere la sua sensibilità su certi temi se non potesse sceglierle? Qual è quel qualcosa che le può scattare, che può dare un valore aggiunto anche in un contesto che non è quello in cui posso scegliere di partire, prendermi dei tempi lenti, o di raccontare i fatti in un certo modo?

Paolo Rumiz*

Per poter seguire la rivoluzione in Romania nell'89 ho dovuto mettermi in ferie, poi finì che fui il primo giornalista italiano ad entrare in Romania. Diciamo che c'è sempre stato questo problema, per cui ci sono dei redattori magari scomodi che vengono tenuti al desk e la cui voce non viene intesa. E' sempre accaduto. Dovendo guardare all'oggi malgrado il lavoro di desk sia molto più pesante di qualche tempo fa, quindi la possibilità di scavarsi del tempo, di tesaurizzare il tempo per accumulare un valore aggiunto di ricerca e di racconto è più difficile, credo che se c'è la passione lo si fa. Ci vuole l'intelligenza di movimento.
Oggi non credo che i grandi racconti o la costruzione di una professionalità di settore, cioè di farsi riconoscere come bravo in questo o in quel tema, nasca tanto nell'andare all'estero e guardare le cose lontane. Oggi la grande incognita, il grande territorio vergine è l'Italia. Tutti i settimanali illustrati, tutti i giornali ti dicono la stessa cosa: ci manca roba italiana.
E credo che ci sia un motivo preciso per cui ciò accade. Da una parte l'Italia è sentita come provincia per cui togli Roma, togli Torino e togli Milano, tutto il resto del paese viene affidato a piccoli anonimi giornalisti di provincia che non hanno mai visto il mondo.
Al contrario, i giornalisti che hanno fatto carriera ritengono che il top della carriera sia quello di andare all'estero, per cui l'Italia rimane sempre non coperta.
Questa è una grande stupidaggine, perché non c'è niente di più bello che tornare ad occuparsi della situazione nazionale, addirittura di quella locale, provinciale, dei piccoli paesi di provincia dopo aver visto il mondo, perché così li riesci a leggere molto meglio e a capirli molto meglio.

Per esempio un ragazzino che voleva imparare il mestiere mi ha chiesto cosa poteva fare di interessante senza muoversi troppo. Gli ho detto: "Guarda, non occorre che tu guardi il mondo, è il mondo che è venuto da noi, perché viviamo in una situazione di multiculturalità, basta che tu giri la Lombardia e guardi quante tribù esistono in Lombardia, "tribù" tra virgolette. Racconta, per ciascuna di queste nazioni, per ciascuno di questi luoghi di provenienza, un loro menù, un loro piatto, come lo fanno, dove vanno a comprare le cose, da quale tradizione viene, dove viene mangiato e con chi. Vedrai quanto questa cosa t'impegnerà, che sforzo di semplificazione dovrai fare, poi quante cose scoprirai". È stato un lavoro interessantissimo. Questo ragazzo è partito scrivendo delle quasi scemenze ma è stato mandato continuamente fuori ad approfondire, a chiarire e alla fine è venuta una cosa che tutti hanno letto, anche quelli che non avrebbero mai preso in mano qualcosa che riguardava il mondo sfigato degli extracomunitari. Perché? Perché c'era il menù, perché c'era questa cosa allegra. Tra l'altro qui apro una parentesi.
Tutte queste cose, secondo me, che riguardano il volontariato, l'immigrazione, gli aiuti al terzo mondo, soffrono di un grave handicap: quello di non aver mai trovato un registro allegro per essere raccontato. Questo è un grande limite, secondo me, di chi opera sul territorio. Una delle cose che mi sono piaciute di Alberto Cairo è stata proprio questa, che quando sono entrato nel suo ospedale, nel posto che avrebbe dovuto essere il posto più sfigato, del luogo più sfigato, della nazione più sfigata del mondo in quel momento, era invece il posto più allegro che avevo mai visto prima, perché tutti operavano in modo così motivato che seminavano un'energia, irradiavano un'energia positiva che contagiava chiunque entrava. Queste cose vanno raccontate.

Chi prende in mano questo mestiere deve trovare il modo di raccontare l'Italia, la piccola Italia di provincia nel cui stomaco però nascono cose che cambiano il paese: la nascita della Lega, il capitalismo molecolare, l'immigrazione, la microcriminalità, mille cose, in modo semplice, intelligente e soprattutto non triste. Credo che se si sa fare questo e se si ha anche l'intelligenza di saper abbinare le immagini giuste al racconto, si avrà mercato ovunque. Prendere per esempio un pullman, girare attraverso un pullman le valli della Lombardia, vedere chi sale e chi scende, raccontare le cose che sono dette, prendere i treni di seconda classe, queste sono le cose che mancano, perché ormai il computer ha talmente schiavizzato la categoria che ha lasciato degli spazi enormi a chiunque vuole occuparsi di altro. In realtà l'Italia è una prateria immensa di cose da fare, da raccontare, da vedere.

Padre Renato Kizito Sesana*

Io vivo in Africa e il perché bisogna comprare degli spazi per parlare di certe cose probabilmente è semplicemente perché queste cose non interessano, non sono considerate importanti, non sono considerate cose che fanno vendere i giornali e quindi per forza di cose bisogna comprare degli spazi per parlarne. È un problema di educazione e di crescita della società civile se vogliamo che si parli delle armi e di come contrastare la vendita delle armi. Troviamo lo stesso problema, lo vedo avvenire a Nairobi.
A Nairobi ci sono delle associazioni che parlano di questi temi e le loro risoluzioni, i loro incontri, le loro proteste non vengono quasi mai riportate dalla stampa locale.
Con la differenza che a Nairobi queste associazioni non hanno neanche la possibilità di comprare lo spazio per far parlare, per informare la gente. Credo che le cause siano molte. Dipende dalla mentalità dei direttori di giornale, dipende magari dalla proprietà, ma magari non è neanche un complotto per non parlare di queste cose, manca proprio la sensibilità anche da parte della gente, da parte del potenziale lettore, per cui i direttori dei giornali non credono necessario, non credono sia conveniente per loro affrontare certi problemi. La situazione, da questo punto di vista, si ripete un po' in tutto il mondo.
Devo dire che spesso è anche responsabilità dei giornalisti. Io sul giornale in cui scrivo a Nairobi, in cui scrivevo, il Nation, di proprietà di un gruppo che sostanzialmente appartiene all'Agacan, non sono mai stato censurato. Per 5 anni ho scritto di qualsiasi tema senza nessuna forma di censura e forse, per esempio, io in questi 5 anni non ho mai scritto di questo argomento. È anche colpa nostra, è anche molto spesso colpa di pigrizia mentale, di non riuscire a vedere un problema. Se avessi scritto di questo argomento avrebbero pubblicato qualcosa. Quindi c'è tutta una serie di corresponsabilità.

Paolo Rumiz*

La storia delle torri gemelle. Noi non abbiamo cominciato ad occuparci di quel tema se non nel momento esplosivo, considerando che quello fosse l'inizio della storia, ma nel momento stesso in cui noi consideriamo il crollo delle torri gemelle come l'inizio della storia ci impediamo di capire. In realtà quello fu la fine semmai, il momento esplosivo di qualcosa che è cominciato con un piccolo scricchiolio, con una crepa molto tempo prima. Le grandi mutazioni della storia non cominciano mai con un crollo di una Torre di Babele, cominciano con tutto quello che l'ha preparata. Abbiamo riflettuto su questo? No.
Quindi non solo non interessa il dopo, ma non interessa neanche il prima come fattore di costruzione degli eventi. Ormai andiamo su un andamento epidemico della notizia, cioè abbiamo una grande ondata, fattore esplosivo poi si va avanti con lo strascico. Io mi ricordo la storia di "mucca pazza" che, secondo me, è esemplare.

L'andamento diciamo epidemico delle notizie, per cui tutto il resto viene azzerato, è utile a qualcuno. È chiaro che nel momento in cui esiste una notizia che domina tutto il resto, chi muove il mondo e muove le economie può fare un sacco di manovre senza che nessuno se ne accorga. Addirittura viene il sospetto che proprio questo andamento epidemico sia mosso da coloro che traggono vantaggio dal medesimo.
Ad esempio, lo sterminio da mucca pazza e l'isteria da mucca pazza, perché isteria fu, servì a qualcuno, servì alla concentrazione degli allevamenti italiani in mano di alcuni. Mentre le telescriventi battevano le notizie provenienti dall'Inghilterra, per cui la cosa era ritornata fuori, la stessa Inghilterra mandava e vendeva all'Italia del pollame avvelenato che non ebbe il minimo risalto sui giornali. Allora io mi domando, i padroni dell'economia, che molto spesso sono i padroni dei telegiornali, non hanno altro che da governare questo andamento up and down delle emozioni collettive, per fare assolutamente quello che vogliono dei mercati e di noi poveri consumatori.

Federico Russo*

Volevo fare una domanda brevissima al dottor Cairo. Nel giornalismo di settore che si occupa del sociale, si dice che è anche l'aiuto umanitario che va a volo radente, che si occupa delle emergenze, per poi lasciarle subito dopo. Volevo sapere se questo era avvenuto e in che misura in Afghanistan o se invece è un'altra superficialità, un altro luogo comune del nostro giornalismo .

Alberto Cairo*

Si, purtroppo questo si è verificato. Lo vediamo adesso, stanno chiudendo una dopo l'altra molte piccole Ong che avevano dei programmi niente male, molto puntuali, molto precisi e stanno chiudendo perché l'Afghanistan non è più considerato in fase di emergenza e non ci sono stati fondi per passare dall'emergenza a quello che è lo sviluppo.
Quello in Afghanistan, come in molti altri posti, è stato un intervento umanitario di emergenza che poi è finito.
Per quanto l'emergenza in qualche modo, in molte parti in Afghanistan, esista ancora, ufficialmente l'Afghanistan non è più in una fase di emergenza, quindi tutto quello che era stato inviato sotto quell'etichetta, con quell'etichetta è sparito. Si fa giornalismo a volo radente, si fanno interventi molto rapidi e immediati quando si dichiara l'emergenza e poi si abbandona, si abbandonano progetti lasciati incominciati, lasciati veramente a metà.
Ci sono delle cose che fanno rabbia, ma purtroppo è così. Adesso in Afghanistan sentiamo di nuovo la sindrome da abbandono. Forse in per un certo periodo siamo stati viziati dai giornali, dall'interesse della comunità internazionale, adesso tutto ciò è sparito di nuovo.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche, se non diversamente specificato, si riferiscono al momento del seminario.