Intervengono Walter Dondi, Fabio Falzea, Amedeo Piva, Marco Reggio. Conduce Ilaria Catastini
Walter DONDI
Consigliere delegato e direttore di Fondazione Unipolis oltre che dirigente del Gruppo Unipol dove ricopre l’incarico di responsabile etico e corporate social responsability. Tra le ultime iniziative coordinate, i bandi del concorso Culturability, l’Atlante delle Mafie e i rapporti annuali dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza. Giornalista, ha lavorato per oltre 20 anni a L’Unità. Ha scritto “Bologna, Italia”(Donzelli, 1998) e insieme a Pierluigi Stefanini “Le sfide della cooperazione” (Donzelli, 2008).
ultimo aggiornamento 06 novembre 2016
Marco REGGIO
Responsabile dell’Ufficio Comunicazione e Relazioni esterne di Federcasse (la Federazione Italiana delle Banche di Credito Cooperativo/BCC e Casse Rurali), è segretario della Fondazione Tertio Millennio Onlus per la quale, tra l’altro, ha curato la collana dei “Quaderni”. Tra gli ultimi pubblicati per la casa editrice Ecra, “Dal bene confiscato al bene comune” (2013); “Chi semina e chi raccoglie. Per una nuova cultura del territorio” (2014); “La dea bendata. Viaggio nella società dell’azzardo (2015); “La finanza ad impatto sociale” (2016).
Fabio FALZEA
Responsabile Corporate P.R. di Microsoft Italia.
Amedeo PIVA
Responsabile Funzione Politiche Sociali delle Ferrovie dello Stato.
Ilaria CATASTINI
Hill & Knowlton Gaia.
Vinicio Albanesi*
Noi viviamo le storie e voi le narrate
Quando noi facciamo questi workshop abbiamo sempre quest'obiettivo: da una parte viviamo la realtà, una realtà vera che è fatta di azioni internazionali, di psichiatria, di minori, di tossicodipendenti, ecc., dall'altra ci rendiamo conto - e questi sono i temi che ogni anno tendiamo a svolgere - di trovare un aggancio tra la storia che si vive e la comunicazione che si dà. Tenendo conto che noi viviamo le storie e voi le narrate, o le narrerete.
Puntiamo molto sulla vostra presenza perché almeno ci sia un obiettivo, la curiosità di andare a scoprire mondi complessi e molto spesso mondi sconosciuti. Questo vale per le carceri, vale per l'immigrazione, vale per la disabilità, vale per i movimenti internazionali, vale per tutto quello che è questo mondo, che sono mondi complessi.
Il rischio mortale è che uno fermandosi alla periferia poi viene colpito da ciò che questi eventi per prima cosa producono. Noi ci rendiamo conto che qualcuno di voi diventerà, non domani, ma poi domani, forse, direttore di giornale, redattore di rivista o direttore di programma, però quello che ci preme è darvi almeno questa radice di curiosità.
Scoprite i mondi e troverete mondi inesplorati. Per far questo occorre non esser soli, perché altrimenti è difficile percorrere la strada. Noi vorremmo proporci come guida non per dirvi che cosa avviene, ma per proporvi questo percorso, lasciando a voi poi la capacità, sensibilità e l'intelligenza di comunicare. Questo è uno sforzo micidiale, perché la realtà la conosciamo bene: molto del sociale va in cronaca nera o va nell'emotivo in genere, però è la sfida che stiamo conducendo da 10 anni. È un investimento che costa fatica ma è un investimento per noi preziosissimo e dovunque vado dico che questa esperienza è molto preziosa. Ed è preziosa a tal punto che quest'anno abbiamo dovuto rifiutare 30 iscrizioni per mancanza fisica di spazio, o per mancanza di spazio fisico.
Per la prima volta alcuni direttori di giornali mi hanno chiamato sul cellulare protestando di non essere stati invitati. Questo ci consola in questo lavoro e non per citare le frasi recenti, potremmo dire: non ci facciamo intimorire, proseguiamo per la nostra strada, che è quella di comunicare la connessione tra questi due mondi.
E l'agenzia, unica in Europa , scrivete per favore, unica in Europa, tra poco la traduciamo in inglese, francese, spagnolo e quindi diventa unica veramente in Europa, si prefigge questo obiettivo. È una nicchia inascoltata? Io posso dire che in 3 anni comincia ad essere ascoltata. Alcuni paginoni delle nostre principali testate giornalistiche sono copiate da Redattore Sociale e chi copia prende "0" diceva la vecchia maestra o il vecchio maestro. Però vi posso assicurare l'ultimo episodio è quello sulla proposta di legge sulla droga di Fini. Repubblica l'ha copiato...l'ha copiato e Stefano è stato fino alle 9 di sera, perché il giornalista, la giornalista dall'altra parte non capiva quello che scriveva o quello che copiava. Eh si, perché quando la materia è complessa poi gli occhi ti si "strabozzano" e quindi in qualche modo non raccapezzi.
Passiamo alla seconda parte della sessione speciale: chiamo sul tavolo Walter Dondi responsabile delle relazioni esterne della Coop Adriatica, Fabio Falsea, responsabile della Microsoft in Italia, Amedeo Piva, responsabile delle politiche sociali delle Ferrovie dello Stato e Marco Reggio, responsabile ufficio stampa delle banche di credito cooperativo. Conduce Ilaria Catastini della Hill & Knowlton. E' la prima volta che noi veniamo sponsorizzati: questi signori a nome delle loro aziende ci hanno dato soldi. È la prima volta in 10 anni che questo avviene. Facciamo riferimento esplicitamente alle loro aziende perché sono contento che questi signori siano qui, perché quando danno soldi li danno per motivi anche propri, giustamente, ma sono contento perché si rendano conto di che cosa stiamo facendo. Io mi aspetto che da questa sessione venga fuori: per cosa, perché loro sono qui e hanno sponsorizzato questo nostro seminario?
Ilaria Catastini*
Sono molto emozionata perché il tema della responsabilità sociale dell'impresa è un tema di cui io, come le persone che sono a questo tavolo, ci occupiamo molto. È un tema che in Italia è emerso da poco tempo rispetto agli altri paesi europei, rispetto agli Stati Uniti. E' un tema che in questo momento è un pochino di moda. C'è la regola che spesso la buona notizia non fa notizia.
Ovviamente chi nelle aziende deve promuovere gli interventi che vengono fatti sul fronte della responsabilità sociale deve comunicare buone notizie e quindi non sempre trova interlocutori disposti ad ascoltarlo, disposti a riflettere poi sugli organi d'informazione quello che l'azienda fa.
Non sempre questo è necessario, però è utile. E in questa tavola rotonda che ci accingiamo ad iniziare mi farebbe molto piacere capire e far capire perché è utile fare responsabilità sociale d'impresa e perché è utile comunicarlo e farlo sapere ai lettori, agli ascoltatori, ai telespettatori. Noi abbiamo oggi Walter Dondi, che è direttore delle politiche sociali della comunicazione di Coop Adriatica, ma parla anche per conto di Coop Nazionale. Abbiamo Amedeo Piva, responsabile delle politiche sociali delle Ferrovie dello Stato. Marco Reggio, che è responsabile dell'Ufficio Stampa delle Banche di credito cooperativo. E Fabio Falzea, che invece è direttore delle relazioni pubbliche istituzionali di Microsoft Italia.
Quello proposto, dicevamo, è un tema di cui si parla moltissimo, quest'anno se ne è parlato ancora di più, ma adesso siamo alla conclusione del semestre di presidenza italiana dell'Unione Europea, il ministro che ha ricevuto la delega per la responsabilità sociale d'impresa finalmente ha presentato a Venezia il 14 novembre il progetto sul quale ha lavorato in questi mesi con l'Università Bocconi, se ne è parlato e se ne è scritto moltissimo.
Forse adesso è giunto il momento di tirare i remi in barca e capire di che cosa si parla quando si parla di CSR, ovvero responsabilità sociale d'impresa. Facciamo un giro di tavolo, una chiacchierata veloce. M'interessa avere l'opinione di queste persone su questo tema e anche sul tema che viene immediatamente dopo ossia su che ruolo hanno gli organi d'informazione nel divulgare le pratiche d'impresa socialmente responsabili. Walter secondo te che cos'è la responsabilità sociale dell'impresa?
Walter Dondi*
"Che cos'è la responsabilità sociale?"
La domanda è, come si diceva una volta, da 100 milioni. Adesso 100 milioni sono diventati 100 miliardi quindi capite che l'importanza della domanda, il valore della domanda è ancora più alto. E' stato per me molto importante e significativo l'appuntamento di oggi, l'occasione di conoscere questa realtà e poi trovarmi a contatto con tanti giovani o meno giovani, insomma persone che operano nel mondo dell'informazione a diverso livello ed avendo io praticato il giornalismo per una ventina di anni prima di passare ad un'attività aziendale, per me è stato anche particolarmente utile e significativo capire cosa sta cambiando, come si sta muovendo il mondo dell'informazione.
Ora in un'accezione abbastanza banale - ma che sta un po' passando e che ha a che fare anche secondo me con quanto che tu citavi del progetto del ministro del welfare presentato recentemente a Venezia - la responsabilità sociale è quando un'impresa, un'azienda interviene sviluppando una serie di attività di carattere sociale appunto, di carattere benefico, devolvendo una parte della ricchezza dell'impresa in azione dell'attività sociale, sponsorizzando, sostenendo varie iniziative che hanno una valenza, un valore sociale.
Si parla di social marketing che sta per buone cause sociali, marketing delle buone cause e così via. Se, come credo, molti di voi ascoltano la pubblicità, noterà che ci sono campagne che se compri il tal prodotto per esempio un detersivo aiuti a fare la determinata cosa negli ospedali e così via. Tutte cose positive, per carità.
È meglio spendere per fare le ludoteche per i bambini in ospedale piuttosto comprare delle armi, o fare delle altre cose di questa natura oppure buttare i soldi in azioni pubblicitarie interessanti. Tuttavia io proverò a spiegare, dal mio punto di vista, che questa non è la responsabilità sociale d'impresa.
Può essere un pezzo della responsabilità sociale d'impresa ma non è questa l'accezione esatta del termine. La mia opinione è in linea con una specifica corrente di pensiero in tal senso che si sta impegnando per avere su questo tema un approccio serio.
L'intenzione è quella di affrontare il tema della responsabilità sociale tenendo conto del fatto che ha a che fare non tanto con la distribuzione della ricchezza che l'impresa produce, bensì con la creazione della ricchezza, con il modo in cui la ricchezza nell'impresa viene prodotta.
Cosa significa questo? Significa che l'impresa, quando sviluppa la sua attività, deve sviluppare l'attività economica ponendosi alcuni problemi a partire, per esempio, da quale tipo di impatto ambientale tale attività produce. E poi bisognerebbe chiedersi come i vertici dell'azienda si rapportano alle persone che vi lavorano, se oltre al rispetto delle leggi, vengono sviluppate delle azioni, delle attività che consentano a queste persone di trovare una maggiore soddisfazione nel loro lavoro e così via.
Voglio dire, si dovrebbe pensare anche a verificare se viene valorizzato il lavoro, se i dipendenti vengono realmente resi partecipi all'attività svolta e che non vengano considerati semplicemente degli esecutori di ordini, o di direttive, cioè dei numeri.
Io, imprenditore, per esempio, dovrei chiedermi se ho un atteggiamento di crescente trasparenza nei confronti dei fornitori, se intrattengo delle relazioni positive con il contesto sociale, economico, produttivo, con le comunità locali, con il territorio nel quale opero. Posso pensare di essere un'azienda responsabile se riesco, mentre sviluppo la mia attività economica, a relazionarmi, a stabilire delle relazioni positive con tutti questi soggetti e a sviluppare la mia attività dando soddisfazione non solo a me in quanto imprenditore perseguendo i miei obiettivi economici ma adempiendo anche a tutto il resto. Attenzione: non stiamo parlando di rinunciare alla missione dell'impresa, all'obiettivo di produrre reddito. I principi della sostenibilità partono dal presupposto che un'impresa deve essere economicamente redditizia, perché altrimenti l'impresa che è piena di debiti distrugge ricchezza, distrugge posti di lavoro, ma non farà mai azioni socialmente responsabili o a sviluppo sostenibile.
Non stiamo parlando di rinuncia, ma stiamo parlando delle modalità con le quali si deve produrre la ricchezza. Questo è l'approccio.
Tutta questa impostazione non ha nulla a che fare con il progetto di social committement del ministro Maroni. Perché? Perché al di là della costruzione, ancora tutta in divenire, degli indicatori che dovrebbero attestare la responsabilità sociale dell'impresa, in realtà, come abbiamo letto sui giornali, l'obiettivo finale che il ministro si è posto è quello di portare le imprese a destinare ad un fondo centrale nazionale dei contributi da gestire centralmente, da destinare ad alcune realtà specifiche peraltro indicate dal ministro anche su qualche articolo di giornale. Tutto questo, secondo me, non ha nulla a che fare con la responsabilità sociale.
Il rischio vero che io vedo, consentitemi la battuta, è quello che si voglia correre a dare alle imprese il bollino blu, o come dico io la patente, una sorta di patente a punti che ha, probabilmente, i punti direttamente proporzionali alla quantità di euro che l'impresa decide di destinare a questo mondo. Questo è l'approccio che però dimentica che le imprese sono, prima di tutto, imprese e che come tali devono fare il loro mestiere.
Un approccio, questo, che non so come possa essere interpretato dalle imprese, soprattutto dalle centinaia di migliaia di piccole imprese che magari nel loro territorio già fanno delle azioni sociali. Ma pensate davvero che un piccolo imprenditore di una valle marchigiana, visto che siamo nelle Marche, che magari alla fine dell'anno decide di destinare anche parecchi quattrini per comprare un'attrezzatura nell'ospedale del paese, della città, della propria città, del proprio paese, rinuncia a questo per destinarlo ad un fondo di cui non sa nulla, non sa dove quei soldi verranno destinati, per confondersi insieme a tutte le altre imprese? Personalmente è un approccio che considero sbagliato perché fa riferimento pressoché esclusivamente al tema della devoluzione, della donazione ma che non dice nulla sul comportamento che quell'azienda tiene nei confronti dei propri lavoratori, sul rispetto dell'ambiente e così via.
Non so se sono riuscito a spiegarmi ma secondo me questa è la differenza che corre fra un approccio alla responsabilità sociale d'impresa di tipo devolutivo e un approccio che invece fa riferimento alle modalità di creazione della ricchezza, quindi ha a che fare con la strategia e la gestione dell'impresa.
Ilaria Catastini
Amedeo Piva che cosa ne pensi di quello che dice Walter? Impresa socialmente responsabile. Cos'è un'impresa che fa filantropia, è un'impresa che fa bene, che produce bene il profitto, è un'impresa che partecipa al welfare pubblico? Che cos'è?
Amedeo Piva*
La mia esperienza
Vi racconto semplicemente l'esperienza di questi ultimi 3 anni della mia vita, da quando nel 2001 l'ingegner Cimoli, amministratore delegato delle ferrovie, mi invita ad entrare nelle Ferrovie dello Stato per costituire la direzione delle politiche sociali nell'azienda.
Idea forse illuminata, però per fare che cosa? Vi racconto quali sono stati i ragionamenti che una grande impresa come le ferrovie ha fatto in questi 3 anni per cercare di giustificare, forse, un impegno di politiche sociali in una società come quella attuale che passa per il controllo dei bilanci e così via discorrendo.
Quando sono arrivato ricordo che c'è stata perfino una protesta da parte di sindacati marginali, dicendo: "Come? In una società esasperata per far quadrare il bilancio, l'amministratore delegato si sogna di creare la direzione politiche sociali? Cosa c'è sotto?". E' da qui che vorrebbe partire il mio racconto perché credo che le politiche sociali in un'impresa siano importanti. Ed è più o meno il racconto che ho fatto al consiglio di amministrazione quando ho presentato il programma.
Due sono i motivi di fondo. Le politiche sociali in un'impresa sono importanti perché l'impresa vive nella società e deve capirlo. Deve capire che vive situata in un territorio, in un contesto territoriale, in un contesto di paese.
Deve prendere coscienza del fatto che non è isolata ma vive in una società.
Il secondo motivo per cui deve avere questa attenzione al sociale è perché gli conviene. Questi sono secondo me i motivi di fondo: perché vive in un contesto e perché gli conviene fare politiche sociali. Cerco di puntualizzare meglio. Allora perché dico che bisogna che l'impresa partecipi ad un'attenzione sociale? Dai primi anni del '90 ci siamo accorti che il modello di welfare state è un modello fallito, non regge.
La consapevolezza di tale fallimento, per quelli che s'interessavano di sociale, ha alimentato un po' di panico. Ci si è posti l'interrogativo di cosa si dovesse fare a fronte di tale fallimento. Qualcuno ha proposto di sottoscrivere un'assicurazione. I modelli già esistono, modelli che hanno però delle grandi debolezze, perché anche nei paesi avanzati dove fondamentalmente uno garantisce il momento della sua debolezza attraverso un'assicurazione, il sistema così concepito tiene poco.
Lo stato garantisce la mensa, garantisce il dormitorio, poco più e l'assicurazione spesso arriva fin tanto che non ce n'è bisogno. Alla luce di ciò, per fortuna, c'è stato un rilancio di impegno.
Da welfare state le nuove parole d'ordine erano diventate welfare society, welfare comunity. La garanzia di tutela nel momento della debolezza non è demandata esclusivamente all'organizzazione dello stato, ma della società nel suo insieme, è una responsabilità della società.
E allora ecco il nuovo interrogativo: chi è la società? Siamo noi singoli cittadini, però sono anche le organizzazioni dei cittadini e sono anche le imprese. Ed ecco riaffiorare la necessità che le imprese debbano capire che vivono in un contesto sociale di questo genere. Il cittadino per andare a lavorare anche serenamente, tranquillo, ha bisogno di sentire queste sicurezze che non gli derivano direttamente dallo Stato, ma dalla società nel suo insieme. A questo punto ci sono anche degli slogan che declinano una novità di tal genere. Uno che non mi piace del tutto e mi pare anche superato era quello che diceva: "Più società, meno Stato". Si tratta di uno slogan che vuol dire qualche cosa ma che introduce anche una certa ambiguità perché deresponsabilizza lo stato. Dice: caro Stato tirati da parte che la società si arrangia ad organizzare e a dare sostegno alle debolezze.
Questa è l'interpretazione che mi sento di dare ma che non condivido.
Ce n'è un altro che si avvicina a queste nuove esigenze , che mi sembra il più opportuno, quello che dice: "Più società nello Stato". Introduce il concetto di "insieme", programmiamo insieme, gestiamo insieme, cittadini e Stato. Non deresponsabilizziamo lo Stato, non aspettiamo le risposte esclusivamente dallo Stato. Ecco dove va ritrovato, secondo il mio punto di vista, il motivo per cui l'impresa debba avere un'attenzione di responsabilità sociale: perché vive in un contesto. Se vivesse sulla luna potrebbe disinteressarsi.
Non vive sulla luna, ma vive concretamente a Roma, a Milano, in Italia, a Parigi, per cui deve organizzarsi di conseguenza. Il secondo motivo - e questo è proprio tutta esperienza aziendale - è dato dalla seconda risposta all'interrogativo "Perché un'impresa deve pensare a questa attenzione, a questa responsabilità sociale?". Ma perché gli conviene!
E anche qui cerco di dare alcune idee, forse provocatorie più che schematiche e razionali.
Nelle ferrovie c'è una tradizione di sostegno sociale molto forte: forse voi siete tutti giovani, ma quelli che sono più vecchiotti di noi si ricordano come l'immagine delle ferrovie veniva anche con il dopo lavoro ferroviario. Io mi ricordo l'invidia che avevo nei miei amici alle elementari perché loro si che potevano fare le vacanze, loro si che avevano tutta questa rete di sostegno. Le ferrovie, da questo punto di vista, hanno sempre avuto un'attenzione al sociale. Per fortuna anche i figli dei ferrovieri non vanno più in vacanza con gli amici del papà, ma vanno con i propri amici. E' cambiata la società, però è rimasto questo sottofondo di buonismo all'interno delle ferrovie, che io ritenevo una cosa veramente, per un impegno sociale e attuale, negativo. E allora ecco che il primo discorso che ho fatto al consiglio di amministrazione delle ferrovie è stato quello di dire: "Vediamo un po' dove si collocano le ferrovie?". Noi abbiamo come un simbolo di presenza: le stazioni.
Stazioni che, però, erano arrivate ad essere un non luogo, perché si vive il treno, non la stazione. Nella stazione si transita, si passa, non ci si accorge che esiste e da non luogo a terra di nessuno il passaggio è rapido.
E allora ecco su questo stiamo ragionando.
Però questo mi ha imposto subito di cercare di sconfiggere il buonismo definendo il disagio nelle stazioni per un'impresa. Qual è il disagio, la figura di disagio emblematica? Il barbone.. che poi non sono i barboni storici. in questo caso si parla di immigrazione, di tossicodipendenza, di prostituzione, di zingari. E allora quando ho cercato di dire: ma guardate chi è il barbone per il ferroviere, per l'impresa? Chi è il barbone? Allora il barbone secondo un'impresa non deve essere - e qui forse ho scandalizzato loro, forse scandalizzerò anche voi, però fatemi finire il discorso - non è un cittadino in difficoltà. Perché è tale per l'assessore, perché se lo fosse anche per il ferroviere, cosa bisognerebbe fare? Alzare il telefono e si chiama il volontariato, la Croce Rossa. Vieni, prendi il barbone e portatelo via è compito tuo. Il mio compito di ferroviere è far transitare dignitosamente, bene il passeggero. E allora a questo punto il barbone è un intralcio al passeggero.
Non vi nego che ho trovato una reazione non così delicata come la vostra. Quando l'ho detto in consiglio di amministrazione ho registrato una grande reazione. Ma come... anche noi abbiamo un cuore! Senz'altro.
Però se andiamo nella linea del buonismo, l'impresa si ferma su questi temi. Invece il barbone deve essere definito un intralcio al passeggero. E allora vediamo. nostra missione non è fare l'offerta al barbone, ma spostare l'intralcio. E ci sono 3 metodi per spostare un intralcio. Primo metodo: la ruspa. Non è ammessa per legge, quindi non apriamo neanche il dibattito. Secondo metodo: le forze dell'ordine.
A volte, occasionalmente sono efficaci, indispensabili, però il giorno dopo, o dopo qualche giorno si ricomincia col problema. Terzo metodo: politiche sociali integrate di intervento per tentare di dare le risposte a questo problema.
Al che i vari amministratori delegati hanno detto: ma forse è proprio così che bisogna fare. Si sono sentiti rasserenati e quando io ho visto il loro sorriso ho detto: avete visto? Fa parte della missione aziendale questo intervento fuori il budget.
Ecco, da lì si parte. E allora abbiamo cominciato ad organizzare.
Abbiamo migliorato la stazione e abbiamo dato una risposta dignitosa anche a quelle persone. Se poi volete ci sono anche motivi che vanno un po' al di là della storia del barbone. Basta vedere l'esempio classico che colpisce anche nel mondo imprenditoriale, quando si dice: una disattenzione sociale nel 98 fa crollare in borsa la Nike.
In 6 mesi la Nike crolla di un terzo, il valore delle azioni della Nike crollano in borsa di un terzo del loro valore, non per reti di distribuzione, non per comunicazione, ma per una disattenzione sociale: sfruttamento dei bambini.
Allora ecco che la borsa si organizza e crea un nuovo indicatore Down Jones che misura la sicurezza delle azioni e crea il rischio di reputazione e quindi le imprese cominciano a misurare questo rischio.
Se volete, tradotto in ferrovie, questo rischio di reputazione, rende l'idea e noi lo chiamiamo rischio di "sputtanamento", un termine che, credo, renda l'idea.
Questi sono i meccanismi di difesa del perché. Poi qui si aprirebbe un altro capitolo non soltanto di difesa, ma anche di assalto al mercato. Il 70% degli europei, 72% mi pare, sono disposti a spendere qualche cosa di più se il prodotto oltre ad avere una bella veste ha alle spalle ha un'impresa attenta al sociale e quindi ne vale la pena.
Ilaria Catastini
Fabio, voi siete un pochino meno distratti della Nike? O comunque, Amedeo Piva diceva che fare responsabilità sociale conviene all'impresa. Come si pongono impegno sociale e business secondo te?
Sono mondi separati? Si sovrappongono? Si incrociano?
Qual è la vostra filosofia su questo punto?
Fabio Falzea*
Responsabilità sociale: fondamentale
Rappresento la Microsoft e mi occupo della comunicazione dell'azienda. Ringrazio tra l'altro la Comunità di Capodarco per avermi dato questa opportunità di stare qua oggi.
Dire che non abbiamo gli stessi rischi della Nike non lo so. Prego tutti i giorni di no nel senso che quando uno ha un marchio... noi abbiamo il primo, il secondo marchio in termini di riconoscimento del marchio... siamo noi e la Coca Cola. Abbiamo delle responsabilità forti. Quando iniziamo a percepire che in certe aree ci possa essere anche vagamente un rischio, chiudiamo la linea di produzione.
È già successo. Se voi notate la storia della Microsoft, non vi dirò quali linee di produzione abbiamo chiuso, ma noi abbiamo smesso di fare delle cose.
Noi ci occupiamo di software, che è una cosa intangibile , che è una cosa dove la produzione c'entra un po' di meno. Abbiamo rischi enormi da un altro punto di vista però e si vedono anche. Basta leggere i giornali e si vede che la Microsoft è un'azienda che ha un'immagine controversa nel migliore dei casi. Stiamo parlando di ferro, di silicio, di software, roba che è difficile da spiegare. Io non sono mai riuscito a spiegare a mia mamma cosa facevo. A mia nonna proprio non ci ho mai pensato nemmeno lontanamente... io sono stato il primo tecnico della Microsoft in Italia e in quegli anni lì proprio non ci pensavo minimamente. Adesso più o meno dico: parlo coi giornalisti, vedo gente, faccio cose, mi pagano e mi va bene. La mamma è contenta e i figli pure.
Per un'azienda come la nostra la responsabilità sociale è fondamentale ed io concordo molto con le cose che sono state dette dal collega delle ferrovie prima di me. È fondamentale e ci conviene. Come voi sapete noi abbiamo una causa in corso in questi giorni, da qualche anno a dire il vero, con la Comunità Europea. Rischiamo di dover pagare una multa che è più o meno di 4 miliardi di $, che è una cifra che richiede il suo bel rispetto, insomma in vecchie lire sono 8 mila miliardi! Abbiamo ucciso qualcuno? È stato distrutto qualche palazzo? No. Antitrust.. Comportamento anticompetitivo, che vuol dire? Cosa abbiamo fatto? Abbiamo messo delle bombe? No.
Comportamento anticompetitivo vuol dire che un'azienda che ha una grossa penetrazione in un certo mercato mette in atto delle operazioni per impedire l'arrivo di altri concorrenti, o quanto meno per fare in modo che altri concorrenti possano arrivare in quel mercato lì.
E uno dice: caspita è una cosa brutta! Dall'altra parte però io vengo dal mondo dell'informatica ad esempio che non era come il mondo attuale.
Oggi noi viviamo in un mondo abbastanza roseo, dove non mi chiedo più nemmeno che sistema operativo sto usando, perché so che se faccio windows bene o male campo felice.
Chi sviluppa software ha davanti un mercato potenziale di milioni di pezzi e quindi un mercato. Allora, da una parte abbiamo detto che c'è tutto questo svantaggio del monopolio, dall'altra parte c'è questo vantaggio di aprire un mercato, chi ha ragione? È difficile dirlo e francamente non dovete chiederlo a me. Vi faccio un esempio: immaginate che faccia telefonini. Come costruttore di telefonini devo rilasciare le specifiche su come sono fatte le batterie del mio telefonino, così che - per ipotesi - possa nascere un produttore indipendente di batterie. Questo è previsto dalla legge.
Il produttore di batterie però dice: attenzione. Siccome il tuo telefonino è molto bello, molto sofisticato, io voglio che la mia batteria parli meglio col telefonino per durare di più, quindi tu mi devi dire come è fatto il telefonino dentro. Io dico: "Cavolo, scusa, ci campo facendo telefonini!". Però siccome tu sei quello che vende più telefonini me lo devi dire. Tutto ciò senza interessarti minimamente del fatto che, recependo le tue indicazioni, qualcun altro possa usare quella conoscenza per sviluppare un miglior telefonino e un domani insediare il tuo mercato.
Io non ce l'ho la risposta se è giusto o sbagliato, però certamente c'è un problema. Cosa c'entra questo con la CSR? La CSR è ascolto, è essere sul territorio, è fare le cose, è capire, come diceva il collega delle ferrovie, che le aziende, che spesso sviluppano poi un ecosistema proprio, delle teorie proprie, un'organizzazione che quasi si autodefinisce, vivono sul territorio, son fatte di persone. Le persone si arrabbiano.
Quanti di voi non si sono mai arrabbiati contro la Microsoft? Quando avete perso quel file nel 50% dei casi può darsi che noi non c'entrassimo niente, perché si è bloccato l'hardware, perché la scheda video si è bloccata, la tastiera, il mouse. C'è una quantità di cose che si possono bloccare in un Pc fantasmagorica e può darsi che si sia bloccato il software, ma voi vedete che cosa? Che si è bloccato windows e quindi colpa della Microsoft.
Allora occorre mantenere questa possibilità di ascolto, soprattutto quando si ha un'azienda che cambia un po' il modo di lavorare delle persone.
Noi siamo stati uno degli elementi del cambiamento anche sociale. Noi lavoriamo nel sociale per dimostrare cosa le macchine possono fare. Lavoriamo nella direzione di aiutare - per esempio - chi è fuori dal mondo del lavoro a capire che cosa possono fare le macchine.
Noi per esempio in Italia lavoriamo moltissimo sugli anziani. Faccio corsi per anziani praticamente in tutte le città d'Italia. A Roma abbiamo appena aperto 20 aule.
Un mio testimonial era Wilma De Angelis: vi assicuro che è una bomba atomica per come usa il computer. E questo perché gli cambia la vita. Tutti mi dicevano all'inizio. Oggi noi siamo a 14 mila in Italia e continuiamo ad andare avanti e continuiamo a fare corsi.
L'altro fronte su cui lavoriamo molto è sull'handicap , perché le macchine cambiano la vita delle persone. Un ragazzino sordomuto è perfettamente normale. Mediamente i maschi sordomuti usano quasi tutti i computer intorno ai 16-17 anni sapete perché? Per cuccare. Per chattare. In realtà io lo becco un ragazzino sordomuto che chatta.
Lo riconosco abbastanza facilmente, perché la costruzione della frase è molto semplice, perché tipicamente negli anni precedenti non è riuscito a sviluppare una conoscenza della lingua italiana articolata.
Adesso vi sto facendo degli esempi. Necessariamente generalizzo, ci sono dei sordomuti che scrivono molto meglio di me.
Comunque, se io riesco a lavorare presto con questi ragazzi, io gli cambio la vita ed è il motivo per il quale lavoriamo molto sulla scuola per cercare di insegnare le potenzialità che queste macchine hanno nel mondo della scuola e cercare di far capire che queste macchine sono più di uno strumento tecnico.
Per noi lavorare sul sociale è proprio questo. È semplificarci un po' la vita.
Se noi fossimo stati più attenti, più aperti all'ascolto. Noi siamo una società d'ingegneri, veniamo da un mondo molto tecnico. Se fossimo stati più aperti all'ascolto anni fa, forse i problemi che abbiamo avuto non si sarebbero presentati.
Ilaria Catastini
Nel settore della finanza e delle banche si fa molto parlare in questo momento di etica.
Il Cardinale Tettamanzi, recentemente, in un incontro con un gruppo di banchieri, ha sottolineato parecchio quest'aspetto: la finanza deve essere per l'uomo e non l'uomo per la finanza.
Come si sta muovendo secondo te, Marco, il settore delle banche?
C'è molta attenzione rispetto alla rendicontazione sociale, rispetto alle aziende in Italia che fanno il bilancio sociale a fine anno, il bilancio di sostenibilità, molte di queste sono banche, secondo te cosa si sta muovendo in questo settore?
Marco Reggio*
Un sistema finanziario "sano"
Mi ricollego solo a quello che hai detto del Cardinal Tettamanzi che, in realtà ha detto qualcosa di molto più profondo di quanto tu citavi. Ha paragonato il sistema finanziario al sistema di circolazione sanguigna in un corpo sano. Se funziona bene, se il corpo è sano allora tutto va bene, se ci stanno delle situazioni patologiche allora ci sono dei problemi. Ma soprattutto ha detto una frase che dovrebbe restare scolpita in chi fa oggi banca o finanza in Italia, cioè che l'intermediazione non deve essere a favore di pochi e a svantaggio di molti. Questo apre un orizzonte dal punto di vista della "eticità" di quello che deve essere il sistema finanziario sano nel nostro paese.
Quanta consapevolezza c'è, oggi, di quanto realmente l'intermediazione non debba essere vantaggiosa per pochi e svantaggiosa per molti? Forse non ce n'è molta nel sistema bancario almeno tradizionale come lo conosciamo noi oggi. Faccio degli esempi.
Io credo ci possano essere dei conflitti d'interesse, per usare un termine di moda, tra quello che è oggi l'interesse di un azionista di una grande banca Spa quotata in borsa e quello che è l'interesse quotidiano di una famiglia di una piccola impresa che vuole avere un accesso equo al credito. Ci sono delle grandi banche che danno ai loro addetti di sportello delle direttive ben precise: "La mattina quando accendete il computer dovete realizzare questo obiettivo, come lo realizzate non mi interessa, l'importante è che portiate a casa questi risultati che ci fanno, alla fine, conto economico". Faccio un altro esempio.
Un grande istituto di credito emiliano che apre a Barletta, raccoglie risparmi in quello stesso territorio, ma non lo reinveste lì. Spesso e volentieri lo reinveste lassù, dove ha il cuore, dove ha la mente, dove ha il consiglio di amministrazione.
Allora questo significa dare una risposta alla sollecitazione del Cardinal Tettamanzi per esempio, ma il Cardinale di Milano non faceva altro che ribadire quello che è, per esempio, sulla finanza, l'insegnamento di Giovanni Paolo II dal primo giorno del suo insediamento in poi, ogni volta che ha potuto parlare del settore creditizio. Allora su questo credo che si debba essere molto chiari, non essere ipocriti, ma vedere quello che realmente oggi può essere un sistema creditizio sano nel nostro paese. Cos'è la responsabilità sociale in tema d'imprese creditizie? Fare delle buone cose, delle buone pratiche.
Fare in modo che il credito possa essere realmente accessibile a molti, ma significa anche evitare che ci possano essere delle situazioni di abuso di questo stesso mestiere. Un'altra cosa che volevo dire è che ringrazio don Vinicio per la sua schiettezza.
Quando ci ha presentato diceva: questi sono qua perché ci hanno dato dei soldi. Si, questa è una cosa vera, ma - attenzione a questo passaggio - è vera perché serve a riuscire a trovare meccanismi per riuscire a comunicare storie, per mettermi in contatto con voi che siete operatori della comunicazione e per far vedere quello che diceva don Vinicio prima con una frase d'effetto: noi viviamo le storie, voi le raccontate. Allora questo nostro mondo, questo nostro sistema un po' distorto forse, oggi ci porta a trovare occasioni come queste, apparentemente estranee, per potersi conoscere a vicenda.
Io presento brevissimamente, ma perché è la realtà, è una realtà italiana , un sistema di 450 banche locali, che sono le Banche di Credito Cooperativo. Ieri abbiamo celebrato 120 anni dalla costituzione di questa prima cassa rurale che è nata in un paesino in provincia di Padova, a Lo Reggia, fondata da un signore che si chiama Leone Wollemborg, che non è sui libri di storia, ma che per noi è un grand'uomo, un grande personaggio. Queste sono banche cooperative, che oggi hanno una nuova tutela addirittura costituzionale molto forte.
Sapete che l'art. 45 della Costituzione difende, tutela e valorizza la cooperazione senza fini di speculazione privata e un anno e mezzo fa la riforma costituzionale, quella così detta dell'Ulivo, in forma federale, ha inserito addirittura il termine "cassa rurale", come si chiamavano fino alla riforma del testo unico bancario, come banche che sono degne di potestà legislativa concorrente da parte delle regioni.
Esiste qualcosa di realmente particolare e non faccio uno spot, un discorso di convenienza, cerco di presentare un sistema. Sono banche autonome, costituite da soci.
I soci sono persone che non hanno, a fine anno, una redditività economica. Gli utili non vengono ridistribuiti ai soci, la legge lo vieta, anzi il 70% degli utili che ogni banca di credito cooperativo realizza, deve essere rinvestito sul territorio. Questo significa che si dovrebbe innestare - e realmente questo succede, ce lo dicono anche gli ultimi dati di bilancio - un'economia che nel territorio vede il risparmio che nasce da lì, rinvestito negli operatori economici della zona. Per me questo è essere responsabili socialmente nell'essenza.
Prima sentendo gli altri relatori a questo tavolo ragionavo sull'interrogativo: cosa fa un'azienda? Le banche cooperative non nascono come aziende che poi si occupano anche di sociale: queste banche nascono in sé esattamente con questo tipo di obiettivo.
Per tornare all'esempio di prima. per una banca Spa l'obiettivo di fondo è quello di dare redditività all'azionista, negli statuti delle aziende di credito cooperativo c'è scritto che l'obiettivo è quello di far crescere il territorio dal punto di vista culturale, sociale ed economico e questo non credo che si possa leggere in altri istituti di credito. Visto che qui gli altri amici hanno portato delle esperienze vorrei portarne anche una io. Un mese fa sono stato in Ecuador, un paese poverissimo molto lontano da qua.
Ho portato 5 dei vostri colleghi che erano più o meno interessati a rivedere questa realtà. Noi non facciamo convention, non offriamo crociere ai giornalisti, alle loro mogli o ai loro mariti però siamo andati in Ecuador e che cosa succede laggiù? Da 2 anni abbiamo scoperto che ci sono le stesse condizioni che c'erano in Italia 120 anni fa. Povertà estrema, contadini che vivono nella condizione di latifondo, letteralmente soffocati da quelli che sono gli usurai di quel posto. Con buona volontà e qualche cooperatore italiano noi abbiamo trovato un sistema di sovvenzione, di finanziamento a una banca di quel posto. Il presidente è un italiano, un veneto, si chiama Giuseppe Tonello, è in quel posto da 30 anni ed è diventato anche cittadino ecuadoriano, si è sposato, ha dei figli.
Lui si ricordava che il suo papà era socio di una Cassa rurale del trevigiano. Tre anni fa è venuto in Italia, ha cercato questa banca, ha bussato lì, ha parlato col direttore: senti io vorrei far nascere qualche piccola cassa rurale sulle Ande, che possiamo fare? C'è la possibilità? Dopo 2 anni ci sono circa 700 piccole casse rurali sulle montagne in situazioni che voi forse non immaginate neanche, posti inaccessibili, a distanza di ore di strada sterrata l'una dall'altra. Ebbene in 2 anni e mezzo si è innestato un modo diverso di fare economia, di avere un circuito finanziario reale. 60 mila sono le famiglie che beneficiano di piccoli prestiti erogati a un tasso che va dal 12 % al 17%.
Non è tanto se pensate che il tasso medio ecuadoriano supera il 35%. I soldi sono messi a disposizione dalle casse rurali, banche di credito cooperativo italiano in un plafond di finanziamento che viene sovvenzionato da 2 anni a questa parte.
Perché vi ho fatto questo esempio? Perché queste sono storie che dimostrano come si può realmente creare un sistema finanziario alternativo e soprattutto come si deve riuscire a farlo conoscere, a comunicarlo. Questi 5 colleghi che sono venuti con me prima di partire erano molto scettici e devo dire che alla fine di questo viaggio il loro atteggiamento è cambiato moltissimo. Queste sono storie e voi dovreste raccontarle, credo che abbiate una funzione sociale molto importante da questo punto di vista per far girare cultura.
Dibattito e repliche*
Ettore Colombo
Volevo fare una domanda a Walter Dondi. C'è un grande problema: quello del denaro più che altro in imprese. In armamenti diciamo leggeri e pesanti, adesso rete Lilliput lancerà una campagna contro Banca Intesa su questo. Volevo chiedere Coop Adriatica come si pone di fronte a problemi simili? Inoltre, visto che si rappresenta una realtà anche di consumatori, qual è il potere negoziale che una Coop può avere nei confronti delle grandi multinazionali? Io ho una figlia che ha scritto alla direttrice della scuola dicendo che non vuole mangiare gli yogurt della Nestlè perché la Nestlè ogni giorno ha un tot di miliardi di bambini che vengono uccisi a causa del latte artificiale. Vorrei capire come si concilia questa politica di responsabilità sociale credibile, sincera della Coop con il rapporto con le multinazionali, grazie.
Walter Dondi*
Confine tra responsabilità sociale e pubblicità
Etichettatura dei prodotti a marchio Coop. Con il rinnovo dell'immagine del prodotto a marchio Coop è stato tolto, è vero, nell'etichetta il riferimento all'azienda che produce il prodotto. Questo perché Coop si assume integralmente la responsabilità di quello che è in quella confezione. Vorrei ricordare a questo proposito che tutti i prodotti a marchio Coop sono certificati SA8000. Coop è stata la prima in Italia nel 1998 ad ottenere la certificazione SA8000 - tra l'altro è una certificazione nata negli Stati Uniti - che stabilisce che per la produzione di quel tipo di prodotto non viene usato lavoro minorile, viene fatto nel rispetto pieno dei diritti umani e dei lavoratori, ecc. Questo elemento ha portato Coop a fare la scelta di togliere la provenienza dei prodotti, garantendo in prima persona.
Noi abbiamo una certificazione terza, fatta da un soggetto internazionale che è il Sai, che dice che noi diamo questo tipo di garanzia, non solo sociale, poi ci sono le garanzie di carattere qualitativo, ecc. Tuttavia, visto che questo problema è stato sollevato non solo qui, ma una parte di consumatori ci ha contestato questa cosa, stiamo esaminando la possibilità di ritornare all'informazione completa.
Comunque il motivo non è quello di essere meno trasparenti , ma è legato essenzialmente a questo fatto, cioè che Coop - stiamo parlando di prodotti a marchio Coop - si assume interamente la responsabilità di ciò che viene messo nella confezione, questo è il primo problema. Confine tra responsabilità sociale e pubblicità... ho cercato di dirlo prima, poi qualcosa ha detto Ilaria. Il problema non è l'immagine, l'immagine semmai è il risultato.
Il problema è costruire la reputazione di un'azienda con comportamenti coerenti tra strategia, impegni, azioni e comunicazione. La responsabilità sociale è un modo di essere dell'impresa, è assumere una strategia finalizzata alla responsabilità sociale. Successivamente avviene la comunicazione, perché è del tutto evidente che ci sono due modi di fare la comunicazione: c'è anche la comunicazione interna, comunicare ai propri lavoratori come si è significa informarli e coinvolgerli direttamente nel modo di fare l'impresa.
I nostri commessi, i nostri lavoratori che sono al punto vendita devono essere informati delle strategie, delle scelte dell'azienda, perché sono a contatto con i cittadini, con le persone, con i consumatori. Ormai la definizione di consumatore comincia ad esserci un po' stretta, dobbiamo sempre di più parlare di persone, di cittadini che sono anche dei consumatori, ma sempre di più sono delle persone e vanno considerate come tali. Il tema della comunicazione è un derivato della strategia d'impresa che punta a costruire la propria reputazione. Sul riciclaggio di denaro, in questo caso non parlo in generale di Coop, ma insomma parlo di Coop Adriatica.
Nel regolamento finanziario - che concerne l'utilizzo del denaro che viene prestato dai soci - la previsione di investimenti a brevissimo termine, a vista, cioè con buoni del tesoro. Non possiamo per regolamento investire in imprese, in soggetti che trafficano armi, tabacco e cose di questo genere. Nelle ultime settimane abbiamo deciso di cominciare ad investire in fondi etici, certificati da banca etica, Etibel, che non è uno dei tanti fondi etici che sono nati, ma crediamo che abbia una garanzia in più. L'ultima domanda è quella di Nicoletta.. come conciliamo il fatto di vendere Nestlè con la nostra strategia di responsabilità sociale, di sostenibilità? Qui sarebbe molto semplice poter dire che siamo una grande impresa di distribuzione, dobbiamo mettere in vendita i prodotti che troviamo sul mercato.
Noi cerchiamo di rendere possibile l'esercizio di una libertà di scelta al consumatore,ma quest'anno abbiamo provato e ci stiamo provando, cosa molto complessa, un progetto sottoposto a tutti i nostri fornitori non a marchio, cioè a tutti. Multinazionali, nazionali, ecc., per costruire insieme una filiera socialmente responsabile.
Cerchiamo di utilizzare il potere che ci arriva dall'essere la principale catena di distribuzione in Italia, per fare fondamentalmente due cose: innanzitutto fare in modo che nei nostri scaffali ci siano sempre di più prodotti di qualità e italiani, non per un malcelato nazionalismo, ma perché, come sapete, ormai la gran parte della grande distribuzione italiana è in mani straniere. Questo è un elemento.
Il secondo è una filiera socialmente responsabile che vuol dire costruire insieme dei progetti per fare in modo che le imprese assumano una serie di impegni di carattere sociale. Faccio questo esempio che aprirebbe tutto un mondo. Noi siamo stati in Italia la prima impresa ad essere certificata SA8000. Sull'esempio di Coop alcune decine di fornitori hanno deciso di certificarsi autonomamente come impresa in quanto tale. Abbiamo avviato un percorso.
Vittoria Jacovella*
La mia domanda è rivolta al responsabile della Microsoft.
Io volevo sapere se veramente crede in ciò che dice quando vuole sminuire la responsabilità dell'aver creato un monopolio, di quest'accusa che c'è, se veramente questa per lei non è una bomba.
Forse vi conviene, fa parte della vostra immagine, ma non mi venga a dire che voi fate la rivoluzione, che voi siete amici dei sordomuti e per favore non sminuiamo la questione del monopolio, perché non è che avete fatto una bomba di terrorismo, avete fatto di peggio per me.
Fabio Falzea
La direzione dell'ascolto
Allora sul fatto se convenga o meno alle aziende fare attività sociale l'ho già detto, io credo di si e ne sono orgoglioso. Non la metto nemmeno su un problema di tasse o meno, è il problema che un'azienda che non ascolta il territorio dove si muove prima o poi la paga.
Abbiamo una quantità di esempi grandissima; ci sono cose che non capisco.
E' come se mi dicessero che domani mattina voi lavorate tutti gratis. Non solo lavorate tutti gratis, ma io ho pure il diritto di prendere un articolo, uno qualsiasi che avete scritto voi, me lo cambio un po' perché non è che proprio tutte le parole mi piacciano, l'italiano magari lo so meglio, e lo pubblico a mio nome. Questa è una roba che io non capisco, scusatemi è proprio un mio limite mentale, anche perché ve l'ho detto prima, io mi sono mantenuto quando andavo a scuola vendendo i software che io stesso facevo, non sono diventato ricco, però mi ci sono mantenuto. Tutto questo per dire che a questo lavoro ci tengo, ci ho passato tante notti e riconosco il valore della proprietà intellettuale se volete.
Potrei fare lo stesso discorso in merito al monopolio. Non vi so dare la risposta giusta e ci sono esperti ben più esperti di me. Io ho fatto economia e commercio, qualcosa di monopolio ne so.
Quanto a Microsoft - ammesso che esista - il monopolio di Microsoft se sia buono o cattivo, io non lo so. Ora vi faccio una domanda: quant'è il peso di Microsoft sul mercato IT Italiano? O mondiale secondo voi? Quanto in percentuale, quanto può essere? Provate a dire una cifra. Il 70%? Siete tutti d'accordo? 80? Nella pubblica amministrazione secondo voi noi quanto contiamo? Nei primi 25 fornitori della pubblica amministrazione europea, lasciamo perdere quella americana la Microsoft a che posto è? La Microsoft nel mercato IT mondiale conta per meno del 2%, non è presente tra i primi 25 fornitori della pubblica amministrazione. Mi piace fare l'attività sul sociale, vi assicuro che sono amico dei sordomuti e mi piace lavorarci insieme, lavorare con gli anziani. Non ho qua la Wilma De Angelis oggi, ma se avessi qua la Wilma De Angelis vi assicuro che vi convincerebbe di quanto il computer le ha cambiato la vita e credo che le aziende debbano muoversi un po' in questa direzione. Non credo che sia è una direzione assolutistica, ma è la direzione dell'ascolto, del prendersi i pesci in faccia quando è giusto prenderseli, imparare.
Giovanni Vella - Giornalista Rai Net*
Una domanda breve ad Amedeo Piva. Vorrei incrociare il suo intervento con quello iniziale di Dondi il quale ci ha spiegato bene che prima di parlare di responsabilità sociale dell'impresa c'è tutto un ampio parametro di rispetto delle compatibilità interne all'azienda, ampliamento di diritti sindacali, qualità. Mi domando. Ci sono dei progetti per quanto riguarda i diritti sociali del viaggiatore, i diritti del turista? Mi immagino per esempio l'ampliamento dello spostamento su binari, su rotaie piuttosto che su gomma per quanto riguarda il trasporto delle merci che equivarrebbe a disingolfare le vie del traffico stradale, quant'altro riguardi proprio il diritto del passeggero, grazie.
Stefano Campolo
Una domanda per Amedeo Piva. Parlava prima di ostacoli riferendosi ai barboni. Volevo chiedergli se un intralcio alla circolazione sono anche le persone disabili e se intendono rimuovere questo intralcio disincentivando la loro circolazione, grazie.
Amedeo Piva
E' possibile o no un lavoro comune tra impresa e no-profit?
Mi sembra molto significativo, invece, quell'interrogativo sui portatori di handicap: sono un intralcio? Sono un problema sociale? La mia risposta sarà provocatoria.. Può darsi. Vi dico che non è così che viene vissuto e che dovrebbe essere vissuto almeno dalle ferrovie.
Qualche anno fa c'è stata una ricerca fatta dalle Coin, dal consorzio di cooperative integrate, su "Viaggiare tutti". Più o meno era questo titolo. Quali sono i dati che emergono da questa ricerca fatta per la presidenza del consiglio e pubblicata dalla presidenza del consiglio? Ci sono in Europa 60 milioni di cittadini con ridotta mobilità. 60 milioni, quindi non è un fatto marginale. Di questi, sempre in quella ricerca, emerge che ben 35 milioni sono viaggiatori potenziali. Di questi 35 milioni, 5 viaggiano, 30 sono viaggiatori potenziali. Allora fatemi utilizzare il discorso non di politiche sociali, ma un discorso commerciale di un'impresa che fa trasporto: ci sono 30 milioni di potenziali clienti.
Questa è la modalità corretta di approccio al problema. Certo, è un target difficile che non può essere affrontato semplicemente da un'impresa con una propria giustificazione di bilancio, deve essere un impegno che va al di là della singola impresa.
E su questo nell'anno del disabile che cosa le ferrovie hanno tentato di fare? Noi avevamo 180 stazioni accessibili e servite. Io ritengo servite anche salvo eccezioni, servite bene, dove con una prenotazione arriva un disabile. Anche se uno si rompe la gamba sciando. Uno che ha difficoltà motorie, prenota e trova accoglienza dal taxi fino alla salita in carrozza e poi anche alla stazione di arrivo. Erano 180: in quest'anno riusciamo, al 31 dicembre, a portarle a 220. Da un punto di vista di ferrovie significa che noi abbiamo coperto queste 220 stazioni. Il problema non è risolto: dobbiamo trovare delle soluzioni per tutte, le tantissime altre stazioni, perché non è giusto che un disabile possa sapere se può partire, da dove può partire, però è costretto a scendere semplicemente nelle stazioni servite.
Voi capite bene che nelle piccole stazioni bisogna avere un'organizzazione diversa dalle grandi stazioni. Stiamo vedendo adesso con alcune convenzioni di risolvere i problemi anche in queste stazioni. Non è semplice. Ho provato a rispondere.
Non ritengo che sia il problema sociale per eccellenza, ma è un problema anche sociale quello dell'attenzione ai disabili.
Dal dialogo che è emerso mi è sembrato di cogliere un interrogativo: è possibile o non è possibile un lavoro comune tra impresa e no-profit? Con quali atteggiamenti? Io come formazione vengo dal mondo del no-profit - mi è molto piaciuto l'intervento sull'Ecuador, perché quando nasceva quell'esperienza io ero volontario in Ecuador con Bepitonello - per cui io quell'esperienza l'ho seguita tutta. Penso di capire anche abbastanza bene questa diversità di mondi. A proposito di ciò che chiedeva don Franco, circa l'approccio del no-profit con le imprese, direi: difendetevi! Il mio invito sarebbe quello di collaborazione, si, ma prima di tutto sarebbe un invito all'attenzione. Difendetevi! Ci sono approcci diversi, necessariamente e per fortuna, diversi. Ad esempio, con le imprese è diverso condividere un progetto da parte del no-profit, che condividere degli interessi.
Il progetto si può condividere, sugli interessi bisogna prestare molta attenzione.
Il progetto della gestione delle stazioni, del trasporto dei disabili, di alcune iniziative si può condividere. Gli interessi dell'impresa quali sono? Ad esempio avere una defiscalizzazione in tutte queste attività, questo è l'interesse, vedere come risparmiare. Io direi: attenzione al no-profit. Difendetevi da questo, perché se l'unione con le imprese è intorno all'interesse fra poco sarete tutti fregati. E mi spiego. Se la gestione della stazione trova un dialogo col no-profit, perché le FS dello Stato risparmiano sulla tassazione, ma chi mi impedisce fra un po' di creare ferrovie solidali onlus e farlo tutto per conto mio? Impoverirei Ferrovie, perché la sensibilità dell'impresa non potrà mai essere quella del no-profit, però se il dialogo è sull'interesse, non sul programma il rischio è proprio questo.
Marco Reggio*
Creare cultura, favorire l'identità sociale e la partecipazione
Mi vorrei ricollegare a una domanda che ha fatto un amico in fondo alla sala. Il libro che gli ha regalato quel banchiere è quello di Feltrinelli "Il banchiere dei poveri". Oramai da 3 anni non si parla che di lui dal punto di vista delle qualità del micro credito.
C'è un motivo per cui se ne parla tanto secondo me: perché sta in Bangladesh, perché è una cosa simpatica, innovativa per i paesi poveri, ma forse non può essere trapiantata qui. Prima si citava un grande banchiere, l'amministratore delegato di Unicredito, ma quando questo banchiere siede nel consiglio di amministrazione della Rizzoli, Corriere della Sera, secondo voi c'è spazio per poter parlare di forme alternative di accesso al credito?
Io vi assicuro - da responsabile di questo ufficio stampa - che è difficile e questo è un muro che dobbiamo abbattere anche attraverso voi.
Apro una parentesi poi torno alla chiusura velocissimo. È vero che non è un cattolico ad aver fondato queste casse rurali in Bangladesh, ma in Italia abbiamo avuto gente che voi non conoscete, come don Cerruti, don Rizzo in Sicilia, lo stesso Sturzo, Giuseppe Toniolo, che hanno costituito delle casse rurali nei paesi dove allora non c'era nulla e che oggi sono diventate banche moderne.
È evidente che sono banche moderne, devono stare sul mercato, devono fare utili, non possono andare in perdita, però sono banche che hanno un'anima.
Un'ultima cosa, non abbiamo affrontato l'ultimo aspetto della nostra tavola rotonda: perché crederci? Non perché mi siete davanti, ma io penso che il vostro mestiere sia il più bello e delicato del mondo, prima di tutto perché dovete fare da collegamento tra quelli che sono i fatti e la gente e la stessa gente che non ha la possibilità di vedere quello che vedete voi. Nella situazione attuale dell'informazione in Italia, voi dovete contribuire a fare 3 cose secondo me: a creare cultura, a favorire l'identità sociale e a favorire la partecipazione. Questi sono i 3 elementi che costituiscono il tessuto della democrazia moderna di cui oggi c'è assolutamente bisogno. C'è un direttore di un grande settimanale che non cito, ma ve lo faccio vedere qui, che nelle sue riunioni di redazione dice ai suoi colleghi: sono 3 le cose di cui dovete parlare cioè sesso, soldi e sangue.
Andiamo a vedere: "Ludmila la ragazza scandalo" poi in alto "Così i fedajn di Saddam attaccano gli aerei" e sotto "Stipendi in calo c'era una volta la classe media". Sesso, soldi, sangue. Spero che voi possiate avere una coscienza diversa per affrontare le storie che in questo paese meritano di essere conosciute.
Ilaria Catastini
Io mi occupo anche di un'associazione che è nata in seno a Confindustria con il compito di divulgare i temi della responsabilità sociale delle imprese che si chiama "Anima" e ha sede a Roma. Noi spesso parliamo con il mondo del sociale, con i giornalisti, con le imprese e spesso ci sentiamo dire: "Questa cosa della responsabilità sociale dell'impresa è una roba che le aziende usano per rifarsi il look, per farsi immagine, per fare pubblicità, per dare una patina di verde, o di grigio visto che non si parla solo di ambiente, ma si parla anche di sociale. Una roba più di facciata che di sostanza".
Io non entro nel merito, perché tra l'altro sono situazioni molto diverse, eterogenee, nessuna azienda è uguale all'altra, però io penso sostanzialmente - e credo che sia un po' il motivo per cui c'è tanta attenzione rispetto a questo tema - che è meglio un'azienda che fa delle iniziative sociali, che porta avanti una politica sociale, che una che non lo fa.
Perché un'azienda che decide di intraprendere questo percorso avvia un circuito virtuoso all'interno e pian piano si pone in un modo talmente trasparente nei confronti dell'opinione pubblica, che alla fine non può più tirarsi indietro.
Questa cosa della responsabilità sociale dell'impresa è una strada senza ritorno ed è un effetto boomerang, perché una volta che si è avviato il dialogo e ci si è messi in una situazione di farsi giudicare, poi non si può che fare iniziative che correggano gli errori che eventualmente ogni azienda, come ogni essere umano, fa. Questa era semplicemente una parentesi per dire che è giusto che ci sia, anche curiosità, interesse e voglia di giudicare soprattutto da parte di chi, come voi, fa un mestiere difficile, che è quello di fare da filtro tra la fonte d'informazione e chi poi si deve fare un'opinione.
Quindi ben venga la voglia di sapere, la voglia di giudicare, però dobbiamo cercare di essere laici anche nel modo di vedere quello che l'azienda fa e come lo fa, perché è indubbio che ci sia un vantaggio d'immagine, ma ben venga, ben vengano le aziende che vogliono intraprendere cose, investire i soldi nel sociale e fare del bene anche per avere un vantaggio d'immagine.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche, se non diversamente specificato, si riferiscono al momento del seminario.