IX Redattore Sociale 6-8 dicembre 2002

Maschere

La vita il racconto il giornalismo: punti di incontro possibile - Dibattito

Interventi di Riccardo Iacona, Daniele Segre, Matteo Ghidoni (Studio Multiplicity)*. Conduce Maria Nadotti

Riccardo IACONA

Riccardo IACONA

Giornalista di Rai Tre, ha lavorato tra l’altro alle trasmissioni “Samarcanda”, “Il Rosso e il nero”, “Sciuscià”. Dal 2005 ha realizzato numerosi reportage per le serie di “W l’Italia” e, negli ultimi mesi, di “Presadiretta”, di cui è autore e conduttore.

ultimo aggiornamento 15 aprile 2010

Daniele SEGRE

Daniele SEGRE

Regista. 

ultimo aggiornamento 31 dicembre 2005

Maria NADOTTI

Maria NADOTTI

Giornalista, saggista, consulente editoriale e traduttrice. Ha curato il libro “10 in paura” (Epochè, 2010), dieci racconti di autori italiani.

ultimo aggiornamento 26 novembre 2010

Maria Nadotti*

Abbiamo tre persone che interverranno in quest'ordine: Riccardo Iacona, alla mia destra estrema, che sicuramente conoscete tutti. Televisione, Sciuscià, caratteristici documentari dai luoghi più impossibili della terra fatti in un modo molto suo. Poi ne parleremo. Dopo di lui interverrà Daniele Segre, regista torinese, che ha ormai alle spalle quanti anni? Quasi 30? Tanti. E quindi due di cinema. Che è anche lui molto riconoscibile, molto individuabile, di una coerenza assoluta, ha sempre fatto questo cinema che non definirei neanche documentario. Ha scelto un piccolo materiale da farci vedere e dalle cose che dirà e dalla presentazione di questo frammento di un suo lavoro partiranno delle riflessioni. E per ultimo Matteo Ghidoni, che lavora con questo gruppo milanese che si chiama "Multiplicity", che è un gruppo di architetti e non solo. Milanesi, veneziani e internazionali, di cui io personalmente ho visto quest'estate con estremo interesse a Kassel all'undicesima edizione di Documenta, un lavoro che ha molto a che vedere con quello che stiamo cercando di affrontare qui, che è come si racconta, con quali linguaggi, con quali stili, con quali intenti, la realtà. Naturalmente il fatto che abbiamo invitato qui un televisivo anomalo, un regista cinematografico e un rappresentante di un gruppo che fa in questo caso "videoarte" e ricerca quasi universitaria, dice in modo molto esplicito che vogliamo mettere a tema il fatto che se oggi un cittadino o una cittadina del mondo vuole sapere cosa succede in giro per la terra, o prende un aereo o un treno o a piedi e va a vedere i posti per conto suo, o forse deve affidarsi a questi linguaggi extra giornalistici, perché forse il giornalismo per ragioni infinite, non soltanto di proprietà delle testate e dei concentrazione dei media, quella verità che andiamo cercando e che è semplicemente il racconto della storia reale, non la racconta più. Questo almeno in Italia. Io chiederò a tutti e tre i nostri ospiti di tenere ben presente anche questo nella loro presentazione. Quanto gli sta a cuore, come fanno a investigare la realtà, quindi guardare, ascoltare e poi il momento finale che è quello del racconto. Quindi che rapporto hanno con quello che fanno, con le storie che vogliono raccontare e col pubblico evidentemente?

Riccardo Iacona*

"Fazio si"

Pensare la televisione

Grazie di avermi invitato. Sono molto contento di essere qui e non solo perché questo è un modo per noi di comunicare, visto che non ce ne è rimasto un altro. Da quando la trasmissione è stata chiusa, andiamo molto in giro per l'Italia, incontriamo la gente, cerchiamo di spiegare quello che ci sta succedendo. E vi ringrazio anche per questa forma diciamo seminariale, che per me è molto importante, perché ci consente di parlare un po' più a lungo, di andare un po' più in profondità nei problemi. Se vogliamo capire quello che sta succedendo, quello che ci sta succedendo, quello che vi sta succedendo, penso che dobbiamo fare uno sforzo di analisi un po' più grande, dobbiamo dedicarci un po' di tempo per capire, non sono sufficienti le griglie interpretative che leggiamo sui giornali e che son diventate un po' la vulgata della situazione in Rai. Sono necessarie ma non sufficienti. Noi non siamo solo una redazione che fa programmi, ma una redazione che pensa la televisione. Anzi, alla base dei nostri programmi c'è soprattutto un lavoro di analisi, un po' seminariale come fate voi. Per esempio pochi sanno che quando abbiamo varato l'ultima trasmissione, che è andata in onda l'anno scorso, che si chiamava "Sciuscià edizione straordinaria" eravamo ben consapevoli del tempo che stavamo vivendo. Avevamo percepito qualcosa, sapevamo che stavamo andando incontro a una situazione in cui sarebbe stato difficile navigare. Ebbene questo programma è stato il risultato di una lunga elaborazione redazionale, durata giorni e giorni, al punto di diventare quasi un'autocoscienza. Questo programma ha, infatti, degli elementi di novità enormi dal punto di vista della fattura. La "violenza" della politica che si è esercitata nei nostri confronti ha cancellato anche quelli che sono gli elementi tecnico-creativi del nostro lavoro. "Sciuscià edizione straordinaria" è un programma che non s'era mai visto come formato in Italia, un programma nuovo dal punto di vista del formato, è un'elaborazione originale creativa della Rai, di cui la Rai dovrebbe essere orgogliosa, perché portava il reportage in prima serata. Che vuol dire portare il reportage in prima serata? Vuol dire che alle nove di sera, quando c'è il massimo della competizione possibile, c'è il massimo dell'attenzione anche dal punto di vista delle scelte economiche, degli investimenti pubblicitari, si accende il segnale di Rai2 e a un certo punto, dopo una breve presentazione, vanno in onda, di filato, 40 minuti di un pezzo chiuso, concepito, girato, montato in saletta di montaggio, sul quale non è possibile intervenire. Questa, già di per sé, è un'enorme novità e anche una scelta molto coraggiosa, perché è di tutta evidenza che se per esempio sbagli l'argomento della settimana, la fattura dei reportages, o non incontri il favore del pubblico, non puoi più fare niente, devi aspettare comunque che il reportage finisca e eventualmente cercare di ritirare poi sulla trasmissione durante la diretta.

La televisione dell'equilibrio  

Quello a cui noi abbiamo rinunciato esplicitamente è un po' una furberia della bassa cucina dell'informazione in prima serata, che consiste in una fiducia estrema alle risorse del talk show, del dibattito, cioè a dire nelle capacità del conduttore, di rendere vivace l'esposizione, gli ospiti e ravvivare il confronto quando vede che sta morendo. Questo è uno strumento che ci siamo auto-tolti quest'anno per la prima volta, abbiamo concepito una trasmissione fatta in due parti, una parte dove la diretta non poteva assolutamente entrare, quindi tutta affidata al nostro lavoro, alla nostra capacità di raccontare la realtà, alla nostra sapienza, alla nostra capacità d'imporre al pubblico in prima serata anche argomenti difficili come reportages all'estero. Abbiamo affidato la parte del dibattito solo alla seconda serata. Questo per dirvi che già nella nostra elaborazione precedente nasceva all'interno della redazione un forte sospetto nei confronti della formula del talk show. Noi ritenevamo che questa formula non fosse più sufficiente a raccontare quello che stava succedendo, soprattutto ritenevamo che dietro questa formula ci fosse un imbroglio. Quest'imbroglio è diventato molto evidente all'indomani della nostra chiusura per due motivi: uno per le motivazioni della nostra chiusura, quelle vere diciamo, non quelle che fanno parte di procedimenti giudiziari, legali. E poi perché nella nostra assenza, comunque, sono nate delle situazioni televisive nuove, tutte guarda caso con grande fiducia nella formula del talk show. Cosa leggiamo noi invece dietro questa formula del talk show? Dove starebbe l'imbroglio? Vi vorrei fare riflettere sul fatto che si tratta di una cosa che non è ancora esplicitata a livello teorico, ma che funziona molto a livello operativo, cioè che rischia di buttare un'ipoteca sul futuro dell'informazione in Rai. Si dice che noi siamo faziosi, infatti io ho intitolato questo mio piccolo contributo "faziosi": non saremmo equilibrati nel raccontare la realtà, raccontiamo la realtà in modo non equilibrato, questa è la nostra colpa fondamentale, questo ha detto Berlusconi. "Uso criminoso della televisione di stato" vuol dire che a un certo punto c'è un gruppo di lavoro che passa il suo tempo a pensare come colpire lui e pur di colpire lui cancella la realtà, la piega a queste intenzioni, che non sarebbero intenzioni giornalistiche, ma sarebbero intenzioni politiche, o che comunque attingono ad altri ambiti, che non fanno parte del nostro mestiere. Ora invece si sostiene la televisione dell'equilibrio, si dice l'unica televisione, la televisione che non fa male, la televisione che non inquina, che non manipola le coscienze, la televisione che non grida e che spiega, è la televisione che riesce a ottenere il massimo equilibrio possibile fra punti di vista differenti. Ciò che sembra anche una banalità e apparentemente è abbastanza condivisibile, perché come fai a negare che per esempio gli schieramenti altrimenti costituitisi in Italia debbono avere libero accesso all'informazione?

Affrontare la realtà dal basso

Quello che diciamo rimane nascosto dietro la formuletta apparentemente neutra, è che i punti di vista che debbono essere rappresentati e il cui equilibrio va ricercato in maniera così certosina, così millimetrica, sono solo e sempre i punti di vista forti, cioè i punti di vista che già hanno una loro forza d'intervento sulla realtà, che derivano la loro legittimazione fuori dal sistema televisivo, che entrano nel sistema televisivo e pretendono lo stesso spazio. E i punti deboli? Quelli che non hanno accesso nell'agenda politica? Quelli che non hanno accesso al mercato dell'informazione? È come se non esistessero. Allora si dice: c'è l'immigrazione, c'è il problema dell'alluvione al nord, c'è il problema dell'acqua in Sicilia, ci sono Moretti e i Girotondi. Ci son tante cose che stanno succedendo nel nostro paese, ma quello che importa non è ciò che succede, ma la rappresentazione che se ne fa, quello che importa è che ci sia equilibrio nel modo in cui vengono raccontate l'alluvione. Moretti e Girotondi. Tant'è vero che per esempio un nostro collega che si chiama Deaglio che è andato in onda quasi in terza serata sulla terza rete, su una trasmissione fuori della campagna elettorale (non sottoposta alla par condicio) è stato aspramente criticato perché ha fatto un programma in cui ha intervistato Moretti e non gli ha contrapposto nessuno. Lui aveva nella sua idea di fare un programma su Moretti e giustamente lo ha intervistato. Sarebbe una sorta di estensione della par condicio 12 mesi l'anno, una specie di regola aurea, cui tutti dovrebbero regolarsi e che è un po' l'ancora di salvezza anche del giornalismo. Portare alle estreme conseguenze l'applicazione di questa regola aurea che ci vorrebbero imporre, significa che per esempio un allevatore siciliano, che inveisce contro il presidente della regione Sicilia perché il suo raccolto è andato a male perché non c'era l'acqua, ha meno forza di verità del presidente della regione che parla della situazione dell'acqua, perché le frasi, le invettive, il racconto che fa quest'allevatore va sempre contestualizzato all'interno delle iniziative prese dalla presidenza della regione Sicilia per risolvere il problema dell'acqua. Non importa che il problema dell'acqua non sia stato risolto e che l'acqua continui a mancare. Il punto di vista del presidente della regione in quanto istituzionale è più forte, merita più rispetto, ha più valore di verità della voce del contadino, dell'allevatore. Ora da noi è successo proprio il contrario, il nostro progetto editoriale, tutto inscritto nel nome che porta, Sciuscià (chi sono gli sciuscià? Sono i bambini che puliscono le scarpe, sono gli ultimi della terra, sono quelli che sanno di meno, non conoscono la politica, non sanno come andrà il mondo, sanno solo quello che devono fare, conoscono la strada, conoscono le loro relazioni sociali) afferma che anche l'ultimo degli sciuscià ha valore di verità come il primo della presidenza della regione. Da noi l'allevatore, quando va nelle nostre trasmissioni, è protagonista di quello che dice, ha la stessa forza, lo stesso impatto delle parole del presidente della regione. Il nostro modo di affrontare la realtà dal basso, permette alle persone che incontriamo non certo di dire una frasetta e di essere piegate a un'intenzione giornalistica preesistente. No! Sono la natura amorosa del nostro lavoro. Sono la ragione principale del nostro lavoro.

La verità oltre l'equilibrio dei punti di vista che contano

Questo lavoro ha ancora un senso per noi, perché c'è una verità, non è vero che non c'è una verità. C'è una verità da raggiungere, la si può raggiungere e una volta che l'hai raggiunta e sei stato capace di metterla in scena raggiungendo l'attenzione dell'opinione pubblica vedi come i punti di vista forti - i punti di vista politici, economici - non possono fare a meno di fare i conti con questa realtà. Ciò vuol dire che la verità c'è, non è vero che la verità è l'equilibrio fra i punti di vista forti, così come ci vogliono far credere adesso e vogliono imbavagliare lo strumento televisivo. Ciò a cui stiamo assistendo per me è motivo di sofferenza. Vorrei anche spendere una parola su questo. Non vorrei augurare al mio peggior nemico diciamo quello che sta succedendo a noi. Non c'è cosa peggiore del fatto che tu non possa comunicare pur avendo gli strumenti per farlo, pur avendo la legittimità a farlo, pur avendo un pubblico che ti aspetta e vedendo tutto quello che succede nel mondo tu devi star zitto! Vedi cosa fanno gli altri ed é qualcosa che ti colpisce direttamente all'apparato digerente. Il bisogno d'informazione come il bisogno del pane. Chiunque sia leggermente avvertito per le sorti del paese, chiunque legga una volta a settimana un giornale, oggi è capace accendendo la televisione di vedere la differenza, di vedere che cosa sta portando l'applicazione di questa regola aurea di cui vi parlavo prima, cioè questa sorta di par condicio lunga 12 mesi all'anno... sta letteralmente cancellando la realtà. C'è un esempio su tutti e su quello poi parlerò un po' più a lungo e vi farò vedere anche un contributo che ho voluto portare da Roma. Un esempio su tutti che può essere esportato bene, che secondo me è una buona premessa per capire quello che sta succedendo adesso e quello che ci potrà succedere ancora è il modello dell'informazione che è stato adottato, ob torto collo diciamo, in Afghanistan e che continua ad essere adottato anche nel futuro. A rivedere le tonnellate di carta stampata e le ore dei servizi che sono stati fatti all'indomani della liberazione di Kabul ti si drizzano i capelli in testa. Tutti sanno che l'Afghanistan è diviso in 4 parti, è un paese completamente spezzato, esiste la capitale, esiste il sud, esiste il nord, resiste un enclave talebana ai confini con il Pakistan, tutti sanno che le vie di collegamento sono interrotte, che in ognuna di queste 4 parti si sta sparando, persino Kharzai è un ostaggio delle forze alleate, visto che scorta personale di Kharzai è fatta dai soldati americani. Gli aiuti, i tanti aiuti, i tanti soldi che stiamo mandando in Afghanistan arrivano se va bene all'1% della popolazione e vanno per l'altra parte diritti nelle tasche dei signori della guerra, eppure abbiamo visto per ore in tutti i contenitori televisivi, anche in quelli meno adeguati, tipo i varietà, la glorificazione di quest'intervento, la gioia delle donne che potevano togliersi il burka, i bambini che finalmente giocavano con l'aquilone, gli uomini che si tagliavano la barba e le radio con la musica per le strade. Ora improvvisamente dell'Afghanistan non si parla più, è sceso come un silenzio irreale! Vedete che cosa provoca l'adesione a questa sorta di equilibrio che in realtà maschera la sottomissione dell'autonomia redazionale creativa dei giornalisti ai poteri forti? Arriva perfino a cancellarla la realtà. Oggi l'Afghanistan è stato cancellato, non esiste più. Tutta l'attenzione è volta naturalmente alla prossima guerra, ma le premesse di questa guerra, anche della futura stanno tutte lì. Eppure viene cancellato, perché è una realtà che non fa più comodo raccontare, perché certamente non puoi continuare a parlare dei bambini con l'aquilone, ti riderebbero dietro e allora non se ne parla più.

Daniele Segre*

Telecamera e "obiettivo"

Buonasera. Ringrazio per questo invito la Comunità di Capodarco, Redattore Sociale con cui si è già attivato un rapporto molto proficuo e spero di continuarlo a mantenere attraverso il festival del cinema indipendente di Bellaria, di cui sono co-direttore con Morando Morandini e Antonio Costa. Certo che fare il regista è meglio che fare il giornalista, nel senso che io quando mi affaccio alla realtà che voglio raccontare premetto sempre che per fortuna non sono un giornalista, ma sono un regista. Questo lo dico proprio per le corbellerie, le violenze che quotidianamente i giornalisti televisivi commettono sul territorio, per spettacolarizzare la sofferenza delle persone, che fra l'altro chiamano gente, non chiamano persone e questo è già un aspetto inquietante del profilo di certe professioni che puntano solo alla carriera, alla visibilità di una carriera priva di umanità, ma legata solo al bisogno dello share televisivo, della spettacolarizzazione, dell'uso della macchina da presa come strumento bellico, strumento di guerra, strumento violento. Io credo che, invece, debba esserci la consapevolezza che uno strumento così potente come è una telecamera debba essere trattato con grande senso di responsabilità, per capire anche quale può essere l'obiettivo da raggiungere attraverso il suo uso. Questa è una premessa che faccio sempre, anche perché molte volte incontro umanità travagliate, che purtroppo hanno avuto una disperante esperienza vitale, sentono suonare alla porta, malauguratamente la aprono e un flash televisivo illumina i loro interni e produce delle violenze inaudite. Da quel momento quelle persone sono traumatizzate, nel senso che poi le voci fuori campo dei giornalisti sono reali epitaffi per la loro morte civile. Violenza. È inutile poi fare un trafiletto con cui si rettifica, dicendo che quanto detto! Nell'opinione pubblica, nel controllo sociale del paese, ormai quelle persone sono bollate come degli appestati. Io diffido di questa televisione aggressiva, che prefabbrica le notizie e testimonia a volte delle verità prefabbricate, diciamo ideologiche. Io ragiono come un regista e cerco di capire intanto attraverso un punto di vista chiaro, che è il mio punto di vista, quale può essere l'approccio per costruire un racconto. Normalmente i film li faccio per me, quindi parto da dei miei bisogni reali di guardarmi allo specchio e di riconoscermi nell'altro, per trovare una chiave di approccio che possa testimoniare il senso di un incontro, per tramutarlo in racconto.

La responsabilità di un regista indipendente

È chiaro che il mio tempo di lavoro è diverso dal tempo di lavoro del giornalista, nel senso che io ho modo di preparare, studiare, montare, valutare e poi far vedere, rappresentare. Ho dei tempi molto diversi, non sono affrettato dal tempo di produzione industriale che può essere il tempo della televisione. Il tempo me lo do io. Normalmente cerco di trovare delle chiavi di rappresentazione che possono avere una grande durata nel tempo, non la breve stagione di una serata televisiva. Di quella non m'importa, non serve a niente, come non serve a niente una testimonianza sensazionale per fare del sensazionalismo. A me interessa scavare in profondità e cercare il senso di una vita, di un'esperienza, di un qualcosa che nel tempo rimane nel mio cuore e spero possa poi rimanere nel cuore degli spettatori che incontreranno il mio racconto, la mia storia. Questa è la premessa che vi faccio, perché è completamente diversa in termini di formazione di quella che può essere quella che definisco l' "aggressività giornalistica televisiva", quella che io considero assolutamente violenza, un qualcosa che considero molte volte anche se non sempre la mia controparte culturale. E' chiaro che nelle mie scelte di regista c'è anche una premessa che è stata fin dall'inizio una scelta di vita, quella di cercare di essere un regista indipendente e quindi di non fare né il portaborse, né la propaganda. Non credo che chi fa il portaborse e chiede il permesso al partito, oppure fa la propaganda sia un bravo regista, anzi proprio non è un regista! È un'altra condizione di appartenenza. Quest'indipendenza, però, significa anche scegliere dove andare, quando andare e cosa raccontare. Di ciò che faccio mi sono sempre preso le responsabilità, sono io che parlo, che racconto e scelgo io cosa raccontare. Questo a volte può comportare anche prezzi molto alti proprio dentro un contesto che apparentemente si dichiara democratico, ma da tanto tempo, non solo recentemente, democratico non lo è più. Dobbiamo chiarire queste cose, perché altrimenti c'è solo una verità molto parziale, opportunistica e molto strumentale.

Cinema per il cambiamento

Il cinema è un valore importante perché può permettere - se un regista vuole - di intervenire e modificare nel limite del possibile, le realtà in cui interviene. Poter ritardare la chiusura di una fabbrica, vuol dire dare visibilità a lavoratori in lotta che, malgrado occupazioni di centrali elettriche, o di piazze del municipio non hanno neanche un trafiletto di un giornale. Un regista può fare notizia. Sempre che poi lui stesso non venga censurato dagli amici giornalisti che, pur mettendo in pagina del giornale la notizia, prima che il giornale venga pubblicato, la notizia viene tolta. Mi è successo recentemente, non per una notizia politica, ma per un festival che ho vinto in Francia col mio ultimo film, o con un premio che ho vinto recentemente con un film sull'alzheimer. Un notissimo giornale molto importante italiano, democratico, da più di tre anni mi censura, ecco. Repubblica. Non vede, non sente, non parla. Parla solamente in un modo spropositato di chi gli pare, oppure di quelli che io chiamo "borghesia di partito". E' una situazione dura e non solo in merito alla redazione di Sciuscià. Una situazione che non riguarda solo la destra, ma riguarda anche la sinistra che ha incominciato a corrompere la stabilità di una televisione di stato che non ha più fatto il servizio pubblico. Tutto ciò non si può negare. Occorre chiarire come stanno le cose, non ci sono i buoni e i cattivi. "I fatti sono un velo dietro il quale la verità si nasconde". E' molto bella questa frase perché svela problematiche inquietanti che si riflettono poi rispetto all'identità, alla personalità dell'autore giornalista o regista che sia, che si confronta proprio con questi fatti e con i veli che cercano continuamente di accumulare e attutire le verità. Bisogna capire, saper interpretare e saper leggere. Come regista io ho fatto la scelta di raccontare la realtà. Non me l'ha consigliato il medico, diciamo che ho scelto di intervenire, di portare la mia testimonianza e il mio contributo. Ci sono film che definisco film di utilità pubblica, film che ho fatto appunto come quello sulla condizione dell'alzheimer, "Come prima, più di prima t'amerò", un film sulla condizione della sieropositività e dell'aids, sull'affettività dei ragazzi down che s'intitola "A proposito di sentimenti, ecc. ecc.". Altri film invece sono d'intervento diretto nella realtà, come la chiusura del giornale l'Unità, film più censurato drammaticamente da una sinistra democratica. Film su chiusura delle fabbriche e battaglie di occupazioni di miniere, dove in 5 minuti ho deciso, attraverso delle immagini televisive che personalmente mi hanno molto indignato, di partire alla volta di quelle località. Sono andato a Crotone nei giorni della rivolta a Villa Cidro, in occasione della chiusura drammatica di una fabbrica dove hanno licenziato 152 operai. E poi un cinema di finzione, dove invece voglio raccontare delle storie che magari hanno come spunto la realtà, ma si allontanano da essa cercando di trovare delle chiavi, delle forme di linguaggi della rappresentazione per andare oltre. Recentemente ho fatto un film che s'intitola "Vecchie", che è stato a Venezia e nel fare il quale mi son divertito molto. L'ho fatto proprio per superare la noia di questa condizione così descritta bene da Iacona, di avere a che fare con il nulla che avanza, un nulla che degrada il senso della vita, delle espressioni, della ricerca. "Vecchie" è nato così ed è stato clamoroso perché adesso avrò la possibilità anche di portarlo in teatro.

Scelta indipendente, uguale solitudine

Mi sono reso conto che in fondo le cose che io volevo dire attraverso la mediazione della rappresentazione, della finzione, sono ancora più esplosive e sono ancora più libero di poterle dire. Certo mi faranno pagare altri prezzi. Il prezzo normale è la solitudine. E i funzionari che sono fuori porta, o hanno la diarrea o son tutti a prendere con abbonamento il cappuccino. Dal 96, da quando è arrivato il governo Prodi per me son tutti fuori stanza, per farvi capire. Ecco, la drammaticità di una solitudine riferita alla scelta indipendente. E questo bisogna dirlo, in questo contesto legato a una riflessione sull'informazione. Bisogna chiedersi anche: chi è libero oggi di poter dire quello che pensa? Credo pochi. E che prezzo pagano queste persone per poter dire quello che pensano? Io conosco molti registi che prima di andare a Genova per filmare il G8 hanno chiesto il permesso al partito. Quella non è libertà, quella è qualcosa che io considero molto pericolosa, un qualcosa che va contro i valori di riferimento che deve avere un alto giornalismo, o un alto lavoro di un regista che sceglie di intervenire nella realtà. Però ragazzi il prezzo da pagare è altissimo, dovete saperlo. È un onore poterlo pagare quel prezzo, però è chiaro che bisogna saper resistere, resistere, resistere. Non solo da una parte, ma anche dall'altra, perché ci sono delle combinazioni micidiali che ti annullano, ti feriscono e quel brontolio allo stomaco che è un buco doloroso viene fuori e produce effetti devastanti fino alla depressione, all'annullamento e alla disistima di sé stesso, come se tu non fossi più capace di fare il tuo mestiere. Forse in quel momento dovresti renderti conto, ma ci devi lavorare tanto, che tu il mestiere lo sai fare molto bene ed è per quello che ti annientano con il sorriso del buonismo, perché va di moda adesso il sorriso del buonismo. Quelli sono i più cattivi. Bisogna diffidare da quel buonismo, è pericoloso, inquietante. Io posso testimoniarlo, l'ho vissuto in prima persona. Questo è lo scenario dentro il quale oggi ci confrontiamo con il diritto di parola, la libertà di esprimerci e poter contribuire alla necessaria valorizzazione del senso della nostra identità. Io faccio il cinema per questo, non lo faccio per altro, lo faccio per testimoniare e per lottare, per rafforzare i nostri valori che sono la base per costruire il futuro dei nostri figli.

Il cinema può farlo, credo anche il giornalismo

Sinceramente, vista la premessa che ho fatto, voi potete ben immaginare cosa penso attualmente del giornalismo. Non mi fido, sarei bugiardo a dirvi il contrario. I giornalisti mi agitano e li temo. Io, facendo il regista, facendo anche il montaggio dei miei film so come posso istruire una pratica comunicativa, cosa posso mettere e cosa non posso mettere, o come posso impasticcare uno che parla in modo da fargli dire quello che voglio io e non quello che voleva dire lui. Strumentale, volgare, violenza: questi sono dei rischi che sono la costante quotidiana del nostro presente. La televisione ha visto negli ultimi anni un degrado inquietante, qualcosa di spaventoso. Io non la vedo più, prima la vedevo.. non la vedo più perché m'inquina la sensibilità, sono ritornato ad ascoltare la radio, molta radio.. Ce ne sono tante indipendenti dove si riesce a mantenere una vivacità intellettuale perché c'è ancora una fiducia nel futuro. Però è chiaro che la condizione della libertà non è un diritto, è una conquista che bisogna fare giorno per giorno, senza rinunciare mai al coraggio di essere presenti e dire quello che si pensa. Dovete sapere che il prezzo è molto alto. Non vi voglio illudere. Da quando io ho iniziato a lavorare, e qui chiudo la mia parte d'intervento, ho sempre capito. Ma l'ho capito sempre e ogni volta ci casco che ci sono dei periodi in cui qualcuno che tu non riesci a intuire chi è, accende la luce nella stanza in cui sei e c'è la luce. Vuol dire che come le piante tu produci risorse, maturi, le tue foglie spuntano e improvvisamente il momento più alto, maturo della tua ricerca, quindi quando ti senti migliorato e senti che stai avanzando nella tua ricerca, zacchete. Ti spengono la luce. Non capisci perché ti hanno spento la luce, non lo capisci, perché tu fai un ragionamento, una riflessione, un'analisi anche condizionato da questo gesto della luce che si spegne. Cosa ho fatto? Perché mi hanno spento la luce? Non riesci a trovare una risposta con tutta la buona volontà, anche mettendoti in discussione, facendo anche auto critica, non lo riesci a capire. Poi improvvisamente come si è spenta, tacchete, la luce si riaccende. E' un casino! Se tu non sei dotato di un'identità forte e di una personalità coraggiosa nel credere in te stesso e in quello che fai, vai in crisi. È una forma di aggressione psicologica nei tuoi confronti, è una forma d'indebolimento della tua integrità, è una forma per entrare in rapporto di compromesso.

Un grido "fuori stanza"

Chiudo con una citazione di un mio film, che s'intitola "Manila paloma blanca", un film di finzione però nato dalla realtà. Il personaggio, attore, protagonista del film, Carlo Contaghi, quando l'ho conosciuto era un ex attore con gravi problemi psichiatrici. Io ho lavorato con lui per 7 anni per riportarlo in scena. Abbiamo poi scritto la sceneggiatura e a un certo punto in questa storia c'è il doppio. Il nostro personaggio ha problemi di schizofrenia, quindi una parte girata a colori e una parte girata in bianco e nero. Ad un certo punto il personaggio in bianco e nero parla di un suo amico che era stato in manicomio. Parlava, sapeva quello che diceva, ma non sapeva con chi parlava. E questo è un altro problema, che a volte malgrado la forza, il coraggio di dire le verità, il silenzio che si scontra con il tuo parlare è di una violenza inaudita e anche quella è una forma di destabilizzazione, per mettere in crisi la forza della tua ricerca, o il coraggio, o anche l'entusiasmo di andare magari in un posto per voler raccontare una storia. Ecco, il silenzio drammatico di quelli che sono "fuori stanza". Sono nella stanza, ma non ti vogliono rispondere, perché sono dei burocrati, fanno parte dell'apparato del partito che li ha messi lì, ma a loro di televisione, di cinema non importa niente e non ci capiscono niente. Ecco. Quel silenzio è drammatico. Vi lascio alla vostra riflessione. Parlare e non sapere con chi stai parlando è una cosa molto, molto inquietante. Non voglio spaventarvi, però è meglio che voi sappiate com'è il territorio nel momento in cui scenderete in campo anche voi, per sapere anche come attrezzarvi per reagire a queste aggressioni alla vostra voglia di vedere, di sentire e possibilmente anche di raccontare.

Matteo Ghidoni*

Vi ringrazio per l'invito, per aver invitato Multiplicity che qui rappresento. Io sono un architetto, per cui quello che cercherò di fare è di parlare, di collegarmi a questo tema della maschera e della visibilità, parlando dal punto di vista di chi si occupa dello spazio fisico.

Dibattito e repliche

Intervento

Io trovo molto difficile fare il giornalista in questo momento, un po' per la sindrome da fortino assediato di Samarcanda. Lavoro in Rai e mi dispiace per quelli di Sciuscià, però onestamente non ci sono solo loro e sembra che la libertà dell'informazione della Rai passi solo ed esclusivamente da Santoro e Biagi. Questo mi sembra un discorso un po' limitante e mi hanno colpito molto gli interventi di Segre e di Ghidoni, proprio perché al di là della sindrome da fortino assediato, vediamo che non è il governo di centro destra che assedia l'informazione con un presidente del consiglio proprietario dei mezzi d'informazione, ma che è un continuum. C'è stato un governo di centro sinistra che ha fatto della censura, che della Rai ha fatto strame quando era al governo e ha fatto quello che voleva, lasciando alcuni spazi sicuramente, però la degradazione dei telegiornali è una cosa che va avanti da almeno 6-7-8 anni. Non lo so. Fermarsi adesso e fare un'analisi, una fotografia dal satellite e dire che la situazione fa schifo... forse bisognava svegliarsi un po' prima! Vedo e condivido la paura dei giornalisti di Segre. I giornalisti vivono senza memoria, purtroppo è un problema anche produttivo. Troppo spesso la qualità del personale giornalistico è scarsa e quindi al di là della velocità di produzione della durata di un servizio da telegiornale un minuto, un minuto e mezzo al massimo, si ha un prodotto che cade nell'oblio. Molto spesso i giornalisti vivono nell'oblio, come dire, non hanno memoria di sé stessi e non hanno memoria storica. Questo lo trovo molto grave, per cui va benissimo difendere Sciuscià nel momento in cui rischia la chiusura, però bisognerebbe fare forse anche un po' di auto critica e un po' di analisi più profonda su quello che è stato. Voglio dire, quando il salotto di Santoro funzionava nello stesso modo in cui funziona Vespa adesso, nessuno si è mai permesso di dire che gli altri erano trascurati. Funzionava da salotto della politica, la politica si faceva da Santoro, Berlusconi telefonava in diretta e andava benissimo. Adesso le stesse cose le fa Vespa, non va più bene. A me non andava bene Santoro, non va bene neanche Vespa.

Daniela De Robert - Tg2 Rai*

Alcune cose m'infastidiscono. Per prima cosa m'infastidisce guardare la Rai come dal satellite. C'è qualcuno che va a fondo, c'è qualcuno che naviga, c'è qualcuno che fa il marinaio, c'è qualcuno che fa il pescatore. Cerchiamo di non essere superficiali anche qui. Il servizio pubblico sta attraversando un periodo, e non solo da adesso, di grande difficoltà, perché sta diventando sempre meno servizio pubblico, o rischia di diventare sempre meno servizio pubblico e sempre di più Tv del consumo. Non facciamo di ogni erba un fascio. Ci sono state e ci sono delle eccezioni ottime. Io sto al Tg2. All'interno del Tg2, che è un Tg che ha sofferto molto in questi anni, in termini proprio di libertà d'informazione si parla di ultime mode. Come tagliarsi i capelli o come truccarsi. Si fa un'informazione che lega cultura e consumo. Prima si parlava di talk show. Molto spesso i talk show diventano degli orribili circhi, dove il mondo è mascherato. Io penso al circo di Costanzo, di cui si parla anche come una grande oasi di libertà. Viene fuori un mondo orribile da là dentro. I mostri che vengono portati lì in situazioni estreme. Non credo che la realtà sia quella che ci viene rappresentata, cercherei di salvaguardare quelle ottime isole che ci sono anche all'interno della Rai. Credo ci sia ancora "C'era una volta", c'è ancora quella trasmissione? Ogni tanto va in onda. Fanno delle cose interessantissime a notte fonda. Protestiamo! Quello di cui io ho sentito profondamente la mancanza, quando all'interno di un Tg2 di Mimun, in pochi devo dirlo, ma cercavamo di resistere e di protestare e alzare la voce, quello di cui ho sentito e sento ancora la mancanza è la voce della società civile. Eravamo soli, la politica non s'interessa del Tg2, perché conta il Tg1, ma la società civile? Non ci stava. Io non ho sentito e non sento le voci delle donne e degli uomini offesi per come le donne vengono trattate nei telegiornali. O sono calendari, o si stanno spogliando, o si stanno per spogliare, io credo che l'immagine che viene fuori è un'altra maschera. Stiamo facendo dei passi indietro. Credo di essere stata confusa, ma credo di aver dato degli elementi. Non trovo corretto questo processo che viene fatto. Ci siamo tutti dentro qui. C'è la società civile, perché la Rai è sua e spero che lo rimanga a lungo, spero che non venga privatizzata e deve combattere perché continui ad essere un servizio pubblico. Ci sono delle oasi, ci sono degli spazi d'informazione che vengono fatti e che vanno salvaguardati, c'è qualcosa da cambiare e nei confronti della quale forse bisogna alzare un po' più la voce.

Giovanna Rossiello - Tg1 Rai*

Provo a fare un passo in avanti. Credo che, per esempio, un elemento di riflessione potrebbe essere questo: cerchiamo di unire i poli di una televisione generalista, ma ci metto dentro l'informazione in genere, perché una riflessione sul senso della comunicazione, credo che la debbano fare tutti, giornalisti della carta stampata, noi che in un qualche modo cerchiamo di fare resistenza nel nostro piccolo, nel nostro essere invisibile, cercando di dare voce alle persone che non sono visibili e che però sono la spina dorsale, la parte forte, la parte sana della società. Una società civile che però si fida molto di più dell'informazione in rete. In merito a ciò che si diceva sulla verità polifonica, credo che un punto d'incontro sia la sintesi tra televisione generalista - dove il pluralismo non ha più tanto spazio e dove le voci scomode non sono visibili - e l'informazione sana che fa servizio. Nel mio piccolo, nel primo giorno in cui l'Ulivo è caduto, al primo giorno in cui è entrato il nuovo direttore Mimun, ho curato con il collega Da Mosso "Tg1 storie", che era una sfida, perché all'interno del Tg1 delle 13.30, una volta a settimana, in 3 minuti volevamo raccogliere esempi di civismo, esempi di persone che, come tanti presenti qui in sala, cercano di fare qualcosa nonostante la politica, nonostante gli ostacoli che fanno sentire assolutamente inutile, invisibile il proprio lavoro. Trovarmi qui a parlare la stessa lingua è un invito. Andiamo avanti e cerchiamo di fare un ponte tra chi opera da dentro il sistema e tra chi sta fuori, grazie. C'è bisogno di voi.

Riccardo Iacona*

Non sono qui perché devo chiedere la solidarietà per la chiusura di Sciuscià, non è questo l'argomento che ho posto. Io sono partito dalla chiusura di Sciuscià per darvi quello che noi pensiamo sia una chiave d'interpretazione di ciò che ci sta succedendo. Pensiamo che capire bene ciò che sta succedendo impedirà, forse, o comunque consentirà di costruire un percorso di battaglia, che forse ci porterà fuori da questa situazione. Non è semplicemente l'orizzonte della censura che riesce a spiegare quello che sta succedendo. Ci sono non solo decine di persone importanti che prima lavoravano per l'azienda pubblica ed ora non lo fanno più: se si facesse l'elenco di queste persone si potrebbe fare il palinsesto di una televisione generalista, di una nuova televisione generalista, solo con quelli che son rimasti fuori dall'azienda pubblica di stato. La posta in gioco deve essere importante se tiene fuori dall'azienda pubblica di stato delle persone che, da sole, per raccolta pubblicitaria e per ascolti, possono costruire un'altra televisione fuori ma che non possono farlo perché viviamo nella cappa del monopolio. Colpiscono il più famoso, magari Santoro, per poi poter colpire te nel silenzio. Colpiscono il più famoso, perché lanciano un messaggio d'intimidazione e questo messaggio d'intimidazione passa e passa veloce. Se sono riusciti a chiudere la bocca a uno come Santoro che è un rompiscatole, uno che guadagna un sacco di soldi e se riescono a chiudere la bocca a uno come Biagi, che ha una storia pazzesca alle spalle, che è il nonno della comunicazione, che nessuno dovrebbe considerare toccabile, lo fanno per dire a tutti gli altri, a tutti voi, a tutti noi nel futuro: state attenti, quegli spazi di libertà nei quali voi siete cresciuti, nei quali voi avete conquistato pubblico, nei quali voi siete diventati famosi, quegli spazi di libertà non esistono più, non sono più dati come condizione e pre condizione del nostro lavoro! E ricordatevi che il nostro lavoro è precisamente questo. Il giornalista non ha padrone! Non lo ha per contratto! Può avere un direttore, deve seguire una linea editoriale, ma il giornalista e specialmente il giornalista che ha una faccia e questa faccia la spende nei confronti di un pubblico, specialmente il giornalista che cammina, che va nelle situazioni, che deve render conto di quello che fa, non ha padrone. Ha un solo padrone, ha un solo spessore etico al quale deve render conto, la linea editoriale dell'azienda per la quale lavora da una parte e il pubblico al quale si rivolge. Naturalmente questo segnale serve precisamente a questo, a ricordare al giornalista che, invece, la situazione è cambiata. Prima di tutto il giornalista che lavora oggi deve avere un padrone.

Non sono un catastrofista, io la amo la Rai, amo la televisione, penso che è ancora l'oggetto del mio amore e l'oggetto delle mie energie. Leggo per esempio e questo sta succedendo non solo in Italia - in Italia ancora di più perché c'è un effetto nausea, è evidente, ci sono delle cose che gridano vendetta - che la gente ha come unico gesto di ribellione che le è rimasto nelle mani è il telecomando. Piuttosto la spengo! E c'è questa disaffezione al marchio Rai. Guardate io son sensibile, c'ho il naso lungo per questo, è la mia maggiore qualità dal punto di vista professionale, la sensibilità, cioè saper leggere delle cose che magari non sono così esplicite. E vi dico che c'è la disaffezione per il marchio Rai. C'è una disaffezione soprattutto nei ceti medi intellettuali, nei ceti ricchi, nei ceti che possono contare in questo paese e considero una iattura il fatto che i ceti più intellettuali, i ceti che possono muovere questo paese, che lo possono far crescere, abbiano la repulsione per la televisione. La considero una iattura pazzesca, perché consegniamo uno strumento potentissimo in mano a delle persone che l'orienteranno verso un target popolare, un target che ha meno strumenti per difendersi dalla volgarità, dalla violenza quando c'è - e ce n'è tanta - la Tv diventa così uno strumento potentissimo che seguirà soprattutto e solo la costruzione del consenso politico attorno agli schieramenti altrimenti costituitesi. Tutto ciò nasce da persone che odiano la televisione. Cosa odiano della televisione? La capacità in mezzo ai lacci e laccioli, alle commissioni dell'authority, la par condicio, di accendersi sui fatti. Ogni tanto si accende una luce e improvvisamente la televisione incomincia a diventare vera e in quello spazio, nello spazio di un istante, abbiamo visto una cosa che non sapevamo che esistesse. Ad esempio è stato difficile tirar fuori la cosa di Porto Palo, ma una volta che è uscita nessuno se la scorda più. E' diventata acquisita parte della storia di questo paese. Allora di cosa si ha paura? Della libertà che la televisione esprime quando riesce ad essere televisione.

La questione del talk show, che io qui vi ho posto solo è per rendervi conto di un lavoro di cucina che facciamo quando prepariamo i programmi. Il nostro programma è nato come massima esaltazione del talk come momento di diretta. Noi eravamo, siamo quelli che hanno inventato - perché è così - la televisione in diretta. Abbiamo annullato le mediazioni, quelle che oggi stiamo recuperando. Abbiamo detto: questo è il momento, questa è la televisione che manca, questo è uno strumento straordinario che, non a caso, per esempio si esprime al massimo delle sue potenzialità nei confronti magari di una partita di calcio in diretta. La partita di calcio in diretta andrebbe analizzata, è un grande spettacolo in diretta: non sai il risultato finale, può vincere l'uno, può vincere l'altro, sei partecipe, è come se giocassi in campo anche tu. Abbiamo detto: ci sono temi della società, ci sono personaggi protagonisti sociali che vengono cancellati da questa televisione. Era la televisione dell'88, dove si era aperta la possibilità della terza rete, ma sostanzialmente era la televisione ancora bicolore, mono e bicolore e abbiamo introdotto questa iniezione di verità con tutte le sue contraddizioni. La nostra mediazione non era mai cancellata, non era mai nascosta, era presente, Michele Santoro stava lì. Potevi dire quello è antipatico, ha fatto male a togliergli la domanda, ha fatto male a interromperlo, se ne assume la responsabilità. Ha fatto parlare quell'altro, ma quell'altro ha parlato veramente e nessuno parlava in televisione a quelle condizioni lì, con quella dignità, parità di dignità, punti di vista forti.

Noi lavoriamo sul terreno narrativo della costruzione del reportage: la volontà è di cominciare un percorso di trasformazione del nostro format che era iniziato solo quest'anno e che avrebbe dovuto continuare con una diversa costruzione della seconda parte della trasmissione che avrebbe dovuto essere più legata al reportage, ma ancora una televisione in diretta. Anche quando faccio il reportage dall'Afghanistan, la nostra idea è che avrei dovuto andare in trasmissione, presentare i materiali e continuavamo la discussione. Io avrei dovuto essere il certificatore, quello che doveva dire: non puoi far finta che non esiste quell'uomo che abbiamo incontrato nel Panshir, chiunque tu sia politico, sindacalista, operaio, soldato della forza dell'Isaf, devi fare i conti con quello che abbiamo fatto. Perché due sono le cose. Io ho visto la realtà così, tu mi devi dire perché quello che ho visto secondo te è sbagliato o è giusto. E' questo il lavoro che è stato interrotto. Non c'è nessun odio nei confronti del talk show, c'è solo un riequilibrio delle parti e l'annullamento dell'imbroglio, quell'imbroglio che ci vogliono far fare adesso, perché dicono cosa fare e come. Il punto che viene messo in dubbio è ancora una volta l'autonomia editoriale degli autori e dei giornalisti, che è precisamente l'unico terreno sul quale utilmente il nostro mestiere può andare avanti. Poi ci sono alcuni colleghi della Rai che sono intervenuti sulla questione del pluralismo politico. Ripeto, il problema per me è più grave di quello che sta succedendo, è vero, noi abbiamo una battaglia, poi vedremo se abbiamo torto o abbiamo ragione, se abbiamo sbagliato, il mondo sarà migliore senza di noi. Io spero che veramente la chiave di lettura sia quella di una vendetta personale politica. Un uomo politico potente che è stato maltrattato dalla nostra trasmissione, come dice lui gli abbiamo fatto perdere dei voti, e lui si vendica e ci chiude. Magari fosse così! Perché se così fosse il problema dovrebbe essere risolto dal nostro allontanamento, che non è poi così grave, è una trasmissione, in fondo, di gente - che spesso ci ricordano - ben pagata che forse troverà altrove. Io non ci credo, perché nel frattempo è scattato un clima di monopolio che impedisce anche di fare le cose fuori dalle aziende. A questo punto, eliminati gli estremisti, dovremmo ritornare nella massima libertà. E invece quello che sta succedendo è precisamente l'opposto: una volta abbattute le barriere di Sciuscià e di Biagi si procede avanti, mai come adesso il sistema dei partiti, tutto, anche quello della sinistra, mette bocca sui programmi Rai. Noi dobbiamo assistere a politici che a titolo del loro partito danno le pagelle alle trasmissioni, cosa che pochi anni fa sarebbe stata considerata un'enormità. Dicono che quel programma è squilibrato, o è fazioso. Loro che sono capi di fazioni, loro che sono faziosi per definizione. Abbiamo sentito Berlusconi all'ultima conferenza stampa - chiamiamola conferenza stampa - la presentazione che ha fatto Bruno Vespa nel suo libro con Silvio Berlusconi. Io non credo ai miei occhi.. quello ha un libro e lo fa col presidente del consiglio. Comunque Berlusconi ha potuto dire che Rai3 ha un problema. Ha detto: Rai2 e Rai1 le abbiamo sistemate, Rai3 è ancora squilibrata, è faziosa e squilibrata a sinistra e anche questa enormità è passata nel silenzio. Nessuno ha preso carta e penna e ha scritto, ha chiesto a Berlusconi: ma rispetto a quale criterio, a quale metodo di equilibrio tu consideri Rai3 squilibrata? Rispetto a quali codici deontologici gente come Santoro, Biagi, Fazio, Serena Dandini, ma ce ne sono tanti, non possono più lavorare alla terza rete. Luttazzi. Rispetto a quali criteri? Qual è il punto di equilibrio e chi è che decide questo punto di equilibrio? È tutta lì la battaglia. Allora noi moriremo, d'accordo, tanto abbiamo lavorato tanto, troveremo una sistemazione, non è un problema, ci dicono in Rai che dovremo fare due puntate di fiction su Salvatore Giuliano, sulla nostra proposta sperimentale che facemmo 3 anni fa. Allora siccome gli è rimasta solo questa proposta qui, non sanno che dire, noi gli stiamo facendo causa e quindi sono venuti gli avvocati della Rai e sono andati lì a dire, allora il giudice, un ragazzino di 30 anni, guarda questi avvocati e dice: ma scusate, ma perché Santoro non lavora? No, Santoro lavora, infatti deve fare la fiction di Salvatore Giuliano. Allora noi siamo arrivati al punto che adesso sono gli avvocati della Rai, sono il consiglio di amministrazione e persino i direttori - che non hanno questa competenza - che devono dire ai singoli autori della Rai, che sono un patrimonio prezioso per quell'azienda, cosa devono fare. Questo non era mai successo, non fa parte delle competenze di un direttore di rete. Gli autori sono autori! O sono autori, o non sono autori, se sono autori devono essere liberi, se non sono liberi non sono capaci di essere autori perché farebbero un altro mestiere, cioè farebbero gli esecutori.

Quindi ragazzi la partita è grossa ed è più grossa di noi, noi lo stiamo ripetendo da 7 mesi. A chi invece diceva, sempre il collega il Rai News24, che diceva bisognava dirlo prima. Bhè, noi l'abbiamo sempre detto! Tutti i nostri interventi pubblici, tutta la nostra grande elaborazione redazionale che facciamo, perché ci rompiamo la testa da anni - ogni volta siamo i più grandi rompiscatole che ci sono sulla scena - noi lo avevamo già detto. Avevamo accusato il centro sinistra, che la politica che stavano facendo sulla Rai, stava mediasettizzando, che stava passando il pensiero unico, che sarebbe stato difficile risalire la china, che quando distruggi poi è difficile ricostruire. Ha ragione Roberto Natale che ho sentito prima: la cosa più grave nel togliere Biagi è la perdita di senso del servizio pubblico. La Tv pubblica si va avvicinando sempre più presto a Mediaset. E se per caso i due mostri, la Rai e Mediaset, si abbracciano e uno tira l'altro sotto, il sistema crolla. Mediaset non deve spendere soldi perché sono in difficoltà e quindi mandano il telefilm al terzo passaggio contro il programma fatto dalla Rai, fatto male, che non deve spendere soldi perché sta andando male l'ascolto. Il sistema crolla, il sistema non c'è. Capite che non c'è una soglia? Se la Rai esce fuori dall'affezione del pubblico, quel pubblico fa la differenza, quel 50% di italiani che non ha aderito al sogno berlusconiano. Quando prendi a calci in faccia quel pubblico, gli dici che i tuoi sogni, i tuoi bisogni, il tuo modo di vedere il mondo non contano niente, gli dici che le trasmissioni preferite le chiudiamo.

Maria Nadotti*

Vorrei fare una domanda a Segre e a Ghidoni. Io soffro sempre un po' questa invasività della televisione, so che cattura più di altri mezzi, quindi è inevitabile, è più spettacolare. La mia domanda è questa: il discorso di Iacona tratteggia uno scenario molto, molto inquietante, assolutamente inquietante. Quando Iacona parla di erosione della libertà lancia un grido di allarme e dice: muovetevi! Parlando a quel 50% non berlusconiano. Io voglio porre agli altri due nostri ospiti una domanda: è vero che l'erosione della libertà è in corso, ma stranamente da alcuni anni a questa parte è in corso anche un incredibile risveglio di libertà, che ha percorsi strani, sotterranei, meno spettacolari, appunto non passa nelle televisioni, passa poco sulla carta stampata, però si sta creando tutta una serie di strumenti alternativi. Sta crescendo non solo la coscienza, ma stanno crescendo anche dei fatti, dei mezzi, dei linguaggi. Quanto al fatto di sentirsi un po' soli, che mi sembra di capire Icona denuncia, credo che vada fatta un po' di autocritica. Siete un po' soli perché, per esempio, la gente come me ve la siete persa molto tempo fa. Non voi di Sciuscià, se l'è persa la televisione italiana. Per me, francamente, non fa tanta differenza che la faccia Santoro, o Biagi, o Maurizio Costanzo comunque non funziona, è una televisione molto al di sotto del potenziale del mezzo televisivo. Io penso che il televisore sia un mezzo formidabile. Ci sono esempi nel mondo clamorosi, come mai in Italia non ci si riesce? E siccome non ci si riesce, come sappiamo benissimo per una serie di ragioni extra televisive, e non solo, a me interessa guardare altrove. Allora, chiedo, dobbiamo per l'ennesima volta occuparci solo di televisione, o possiamo parlare anche di quello che sta succedendo tra di voi, nella società civile, nel cinema, nell'arte?

Matteo Ghidoni*

Sono arrivato qui da architetto, quindi già un po' fuori luogo, poi son diventato ragazzo, adesso mi sento anche un po' pesce fuor d'acqua. Perché mi è sembrato di essere invitato a celebrare il funerale Rai e non sapevo quale sarebbe dovuto essere il mio contributo. Il titolo che ho letto a me suonava in modo molto progettuale e forse questa è una distorsione che ho da architetto, da progettista. Da parte nostra ci sentiamo di dover dire qualcosa e partecipare alla vita della società civile. Da questo punto di vista la ricerca per noi è importantissima. La ricerca è un tipo di attività fondamentalmente diversa dal progetto, questo me lo ha insegnato Stefano Boeri: il progetto necessita di un'attività di tipo esclusivo, cioè alla fine bisogna arrivare ad una determinata soluzione, ad un determinato approccio al problema ed è quello. La ricerca, invece, ha tutt'altro tipo di strategia, è inclusivo, tiene conto di moltissimi punti di vista diversi, fattori diversi e soprattutto di fondo una grandissima fiducia in questa idea di interdisciplinarietà di cui tanto si parla e che a nostro modo abbiamo cercato di mettere in campo effettivamente. Il gruppo di Multiplicity è una vera e propria rete che è formata da architetti ma anche da sociologi, da cartografi, da videomaker, da un sacco di figure professionali diverse e questo è il tipo di prodotto che abbiamo visto. Non so a quale di queste figure appartiene di più. L'altra strategia di fondo, per noi della ricerca, è quella di osservare dei panorami complessi con gli strumenti propri (ad esempio dell'architettura, dell'urbanistica e della cartografia cercando di cogliere con uno sguardo un panorama molto ampio in modo sintetico), però nel momento in cui c'è una situazione che ci sembra valga la pena di approfondire procediamo per sorte di carotaggi, quasi con una latitudine di un archeologo che cerca di sprofondare a fondo nel terreno in un punto specifico e vedere lì cosa succede. Ciò presuppone un punto di vista sulla realtà locale che non è semplicemente un pretesto per descrivere un fenomeno molto più ampio, oppure una moda, o qualcosa, ma è un punto di vista secondo noi fertilissimo quello dell'essere dentro la situazione per poterla guardare da dentro insomma.

Forse il modo in cui è iniziato il prossimo progetto di Multiplicity è completamente diverso dagli altri ed è anche nato in un ambiente diverso che è quello delle facoltà di architettura dell'università ed ha forse ancora alle spalle ha una matrice giornalistica. Tutto parte da un articolo di Stefano Boeri sulla pagina culturale del Sole 24 ore, che cerca di ragionare sull'idea di confine tra Israele e Palestina e di ampliare il punto di vista. Abbiamo iniziato a chiederci se era possibile pensare a forme diverse di confini, se era possibile che questi confini potessero diventare in qualche modo fluidi, mobili o biodegradabili, che in qualche modo potessero sparire nel tempo. Stiamo cercando di muoverci in alcuni scenari di riferimento che sono gli scenari di cui poi hanno parlato intellettuali come Said, stiamo tentando di esplorare questo tema fino a livello progettuale o metaprogettuale, cercando d'imparare dai confini e di proporre dispositivi di confine che siano altro.

Daniele Segre*

Credo che tu Maria sia stata un po' romantica nel fare la domanda. Mi chiedo erano coloro che adesso improvvisamente hanno scoperto la libertà? Mi sembra un romanticismo un po' decadente il tuo e m'impressiona, m'imbarazza. Non è così. Forse vedi la realtà attraverso delle lenti un po' strane. Magari con nel cuore una grande speranza. Questa situazione di oppressione viene da lontano, quando Iacona parla di questa situazione che lui definisce drammatica, io vedo un conflitto tra faziosi, i faziosi di prima e i faziosi di oggi. Insomma è un'umanità triste, un po' volgare. Ognuno cerca di lottare e impegnarsi per valorizzare il senso delle scelte che ha fatto e nelle quali crede, poi è una battaglia per rendersi visibile, magari quelli che ti erano amici diventano la tua controparte e viceversa, quindi è una situazione in movimento. Adesso ogni volta cerco d'inventarmi delle strategie per superare la condizione dell'oppressione della mancanza di risorse: quella creatività, quella ricerca dell'invenzione di come fare un film senza soldi ogni volta è un parto incredibile! Vivo la maternità in modo faticoso, ma sono felice. In questo momento per me libertà è poter fare il lavoro di formazione coi giovani. Quello è il momento più alto della mia vita personale e professionale, perché cerco di trovare un equilibrio per comunicare il valore di credere in qualcosa e di lottare per portare avanti un proprio progetto. Questo per me è il territorio in cui mi sento un grande senso di responsabilità.

Il resto è un gioco difficile da gestire anche l'esperienza del G8 io l'ho fatta con entusiasmo, poi mi sono confrontato con Maselli che è tutt'altro che democrazia e, parliamoci chiaro, l'ho mandato a quel paese. Quindi c'è stato un motivo iniziale di grande voglia di dare un contributo, ma poi mi son scontrato contro il muro di Berlino a quel punto lì ho detto: calma ragazzi! Non mi va di fare il pettegolezzo. Spiego solo che io sono un regista e voglio mantenermi un grado di autonomia intellettuale importante. E' necessario per il mio futuro di persona, poi anche di artista. Lì l'arte non c'è, è un qualcosa che mi fa paura. Io ho dato un contributo leale, ma poi non c'è stato un confronto democratico per la costruzione del prodotto e quella non è libertà, quello è regime. Io non voglio più sposare niente, voglio divertirmi, fare il cinema in cui credo, ma non voglio più dare la mano a tutti e comunque, non ho voglia neanche più di gridare. Non a caso sull'ultimo film che ho fatto - fatto per superare la noia della realtà che io racconto, ma la realtà delle persone con cui avevo a che fare che mi disgustavano - ho fatto una scelta di finzione. Ho fatto un film con due splendide, straordinarie attrici che adesso va in teatro. Nei prossimi 10 anni vorrei scrivere delle storie e fare dei film e, se ho voglia, intervenire nella realtà, non voglio più perdere tempo, come quando ho perso dietro a rivendicare il diritto che la Rai torni ad essere un servizio pubblico. Libertà per me è andare nelle scuole, proiettare i miei film, vedere che i miei film vengono usati come strumenti di formazione e di utilità pubblica. Mi sento un privilegiato per poter far un mestiere in cui credo e avere anche una ricaduta di utilità, d'impegnarmi e di scegliere, ma non ho più voglia di essere tradito. Il motivo per cui parlo in questo modo è che ho vissuto dei tradimenti veramente laceranti, probabilmente farebbe piacere farvi vedere il film che ho fatto sulla chiusura del giornale l'Unità. Questo è l'esempio di come è stata negata la visibilità e c'è stata una violenza inaudita, censoria, drammatica. Anche di questo dobbiam parlare, o non bisogna parlare? Io ho occupato per 10 giorni il festival di Venezia con quel film, ma poi ho avuto anche delle minacce mafiose, mi hanno chiuso tutte le porte. Cerco di far vedere il mio cinema. non impostiamola come una questione sull'ipocrisia.

Intervento

Le volevo fare una domanda precisa. Alla quale può anche non rispondere. Allora non è stato davvero un film collettivo? Cioè c'è stata l'imposizione dal punto di vista di Maselli su Monicelli, Cola, Tognazzi.
- Glielo vada a chiedere a loro, io mi sono reso conto che comunque il livello di confronto era retorico e non reale, quindi si son create delle condizioni non democratiche, che non mi hanno permesso di continuare la collaborazione con quel gruppo.

Intervento

Ma che fine ha fatto il suo girato, visto che avete girato tantissimo? Ce l'ha? Lo presenterà il suo punto di vista?
- Non mi va di fare la passerella. Nel momento in cui sono entrato in quella redazione ho firmato una liberatoria in cui ero disponibile a vivere quell'esperienza gratuitamente, il materiale che io ho girato con Luca Bigazzi l'ho dato immediatamente al produttore, dopo 2 anni l'ho chiesto per il mio archivio e ce l'ho a disposizione, mi è stato dato, ma non m'interessa lavorarci.

Intervento

La mia domanda era un'altra. Il film collettivo per esempio quello sull'11 settembre che è stato fatto era un film collettivo da un certo punto di vista, in realtà non lo era, perché gli 11 autori hanno dato ognuno il proprio punto di vista, senza neanche sapere che cosa stesse facendo l'altro, poteva esserci addirittura anche il rischio di un doppione. Erano 11 registi molto diversi per cultura, religione, ecc. Il film sul G8, ma anche altre cose che recentemente ha fatto in Palestina, è stato un film collettivo perché è girato non tutti insieme, ma con intenti tutto sommato comuni.
- Che io da un punto di vista proprio personale politico non condivido

Intervento

Volevo sapere se lei ha avuto modo di tirar fuori il suo punto di vista, o se.
- No

Intervento

Troppo omogeneo quindi questo lavoro?
- No, non c'è stata la possibilità di un confronto leale, trasparente, che permettesse a tutti di esprimere un diritto di parola.

Intervento

E lei non ha sentito il bisogno di far vedere anche il suo punto di vista?
- Sono andato a Genova perché ero curioso d'incontrare questa gioventù che m'interessava molto, perché non conoscevo. Purtroppo mi son trovato in una situazione molto drammatica, che ci ha ferito molto tutti quanti. Mi ha colpito e mi ha aiutato a comprendere tante cose che a livello personale poi elaborerò, però ero andato anche dopo tanto tempo, perché credevo nella necessità di un lavoro di gruppo e credo che sia importante, il gruppo non era il gruppo giusto. Probabilmente la colpa è stata la mia.

Maria Nadotti

Mi ribello a questo commento. Perché quella cosa che dici tu va certamente nella direzione della non libertà e tuttavia un po' di libertà di segno nuovo, che certo non andrei a cercare in Citto Maselli, o giù di là. Però c'è ed è innegabile, bisogna saperla vedere.

Intervento

Sono due o tre volte che si parla di Genova, dei registi che sono andati a Genova, dei giornalisti che sono andati a Genova, ma a Napoli, a Losanna. Forse questa sensibilità è venuta con Genova, perché a Genova si diceva che si sarebbe rotta la zona rossa, perché a Genova si era annunciato che ci sarebbero stati disordini, cioè che la porta sarebbe stata varcata in qualche modo. Ecco allora l'interesse per il movimento, ecco allora che il movimento viene visto come qualcosa... questo nuovo spirito. Ma lo spirito c'era anche prima. Non sa lei quanto ci siamo sentiti soli in quei momenti quando passavamo per pazzi, quelli che volevano veramente distruggere l'ordine costituito da un'orda di barbari!

Daniele Segre*

Il discorso, almeno per quello che mi riguarda è più semplice rispetto alla storia del cinema italiano, rispetto a esperienze collettive che per certi lunghi tempi sono andati avanti e poi si sono interrotte. Con Genova c'è stato un embrione di un'iniziativa collettiva che è stata interessante e non posso negare che al momento dell'esperienza diretta sul campo è stata molto vitale anche sul piano del confronto al nostro interno. Purtroppo poi si sono evidenziati elementi sclerotici di mentalità che personalmente non mi appartengono. Io ho firmato il film, ma non mi sento di appartenere a quel gruppo, perché non condivido alcuni pensieri. Culturalmente non m'interessano. Faccio un esempio. La signora ha detto prima che sono andato in Palestina. Io dico che sono andato anche in Israele, loro la chiamano Palestina, io la chiamo anche Israele. Come dire. Personalmente ci sono dei problemi, dei punti di vista molto diversi che non condivido e che assolutamente non mi permettevano poi di far parte del gruppo si tratta proprio di storie diverse, culture diverse e concezioni di libertà totalmente diverse. Poi certo. Lei ha ragione, diciamo che il così detto movimento dei registi si è mosso con grande ritardo, però è già stato un miracolo il fatto che da lì almeno un gruppo di registi ha valutato di rimettersi insieme. Tenga conto che la cosa che mi ha emozionato di più di Genova, a parte le drammatiche cose che ho visto è stato Monicelli, che a 88 anni era un grillo incredibile, veramente un maestro del cinema italiano con grande entusiasmo e con una concentrazione e un impegno straordinari. Quella è stata una bellissima cosa per me come esperienza. Non condivido, non accetto chi non è democratico nel pensiero e non permette il confronto leale. Io personalmente che per tanti anni ho lavorato da solo, pensavo che valeva la pena lavorare in compagnia forse - e qui faccio, come dire, un mea culpa - ho sbagliato compagnia. Quando me ne sono reso conto me ne son tolto, punto e basta, è finita lì. Non è una risposta la mia, però cerco di dare il mio contributo, ma dentro un pensiero dove non ho voglia di essere schiacciato. La mia controparte culturale, politica non l'accetto e non l'accetterò mai assolutamente.

Riccardo Iacona*

Non dico che tutto quello che succede, succede dentro la scatola televisiva. Solo un pazzo lo potrebbe pensare. È chiaro che esiste la realtà. A te non piace la televisione e ne puoi fare a meno. Tu dici che la tua vita senza Biagi e Santoro non cambia. Son felice per te, son felice che non vivi come un trauma il fatto di non poter vedere una trasmissione, perché evidentemente non facevi parte del gruppo di quelle persone che guardavano questa trasmissione, la vedevi casualmente, oppure quando la vedevi ti faceva arrabbiare, una trasmissione che non ti piaceva, ti stava antipatico Santoro, ci sono mille motivi. La televisione ha a che fare più con la categoria dello spirito che con la politica. La televisione nei suoi momenti più alti, tipo la partita di calcio, è un modo per stare tutti assieme. Quindi bisogna anche entrarci, può darsi che io non ci entro, perché ho un mio territorio emotivo in quel momento lì, che non affido a quello spazio televisivo, lo affido ad altri spazi televisivi che mi piacciono di più, mi vado a cercare la cosetta a mezzanotte. Sarà difficile trovare anche la cosetta a mezzanotte, di questo di voglio avvertire!


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.