Daniele Iacopini, Perla Goseco-Savino, Carla Chiaramoni, Don Ettore Cannavera, Laura Badaracchi, Vinicio Albanesi
Daniele Iacopini*
Dal mio punto di vista si è trattato di un lavoro interessante, grazie anche alla presenza e ai dati portati da Perla dell'Ecpat. Abbiamo esaminato, anche attraverso la proiezione di spot delle diverse parti del mondo proiettati nelle televisioni, o a cura delle diverse agenzie di viaggi, il modo in cui si sta combattendo in questo momento il turismo sessuale. Ci siamo interrogati sul ruolo dell'informazione riguardo a questo problema. Abbiamo notato come, in realtà - anche di fronte all'emanazione di codici ad hoc da parte dei tour operators e dell'organizzazione internazionale di giornalismo - purtroppo l'informazione sia arrivata leggermente in ritardo rispetto alla tematica. Voglio dire che, sia i tour operators che gli stessi stati che hanno visto calare la presenza turistica in virtù dei fatti relativi allo sfruttamento sessuale dei minori, avevano già preso dei provvedimenti e spesso a noi, come organi di stampa, rimane il ruolo di notai di qualcosa che è già successo. Il rischio è quello di essere già stati scavalcati dagli avvenimenti, dalla cronaca stessa. Detto questo, ci si è interrogati sul come approcciare la materia, su quali difficoltà s'incontrano nel trattare una materia di questo tipo, anche e soprattutto in relazione a quella che era la tematica del workshop che è "maschere", appunto. "Maschere" è la tematica che contraddistingue tutto Redattore Sociale di quest'anno e ci riporta al concetto dal quale siamo partiti: "I fatti sono un velo dietro il quale la verità si nasconde". Da questo punto di vista, quindi, ci siamo interrogati su quali dovevano essere i canali di chi fa informazione per far cadere queste maschere e quali sono le maschere di fronte alle quali ci troviamo nello svolgimento della nostra attività, della nostra professione. Innanzitutto è stato sottolineato il dovere di raccontare bene ciò che succede. Apro una parentesi. Abbiamo notato che, in realtà, il problema dello sfruttamento sessuale dei minori e del turismo sessuale non compare praticamente sugli organi d'informazione con ciò che ne consegue. Oggi come oggi, ciò che non compare sugli organi d'informazione in realtà non esiste per l'opinione pubblica. Abbiamo visto, poi, che in realtà i codici deontologici che sono usciti, non ultimo quello della Federazione internazionale dei giornalisti, non mettono - è stato detto - radici sulle scrivanie. Ciò significa che tutto è lasciato alla coscienza del giornalista. Altro problema, questa volta tecnico, sollevato da parte di un collega, è quello dell'incapacità di far luce su alcune problematiche perché non c'è più, da parte dei mezzi d'informazione, la voglia, la capacità di fare inchieste. Inchieste che sono costose e impegnano parecchio. Molto spesso chi fa informazione sembra tralasciare questo genere di attività in realtà fondamentale. E poi il coraggio e la difficoltà, soprattutto per chi opera nel sociale, di far accettare determinate notizie a chi ha in mano il potere decisionale all'interno dei vari ambiti giornalistici. Abbiamo accennato anche alla difficoltà di parlare di alcune situazioni nel momento in cui il lettore che magari lascia un giornale nella hall dell'albergo dove si stava parlando del problema dello sfruttamento sessuale, esce dall'albergo e trova subito fuori la persona che gli propone magari la ragazza con cui fare sesso la sera. E' una difficoltà aggiuntiva per chi fa informazione, che si scontra quotidianamente con una realtà molto cruda, molto più grande di lui a volte. E' stato anche chiesto di depurare la notizia in ossequio a quello che chiedono i codici deontologici e cioè di rispettare sia il minore sia il lettore. Ci si è chiesti, poi, come le notizie devono essere presentate, in che modo e con l'uso di quali termini. E' stato sottolineato che sì, è vero, c'è la necessità di depurare la notizia, di presentarla in una maniera rispettosa, ma ci si è anche chiesti nel groviglio dell'informazione quotidiana quali possibilità - nella quantità abnorme di notizie che ogni giorno escono sui giornali - abbia l'informazione di un certo tipo di centrare l'obiettivo. Potrei andare avanti ma concludo soltanto dicendo dove erano i punti di contatto con quella che era la tematica principale, le maschere. Le maschere con cui il giornalista si trova in questo caso a scontrarsi sono moltissime, quelle dietro cui si nascondono i fatti, si nasconde la verità. Parliamo dalle grandi baggianate che in questo caso si dicono: la prima maschera è quando si afferma che in realtà le minori sfruttate o i minori sfruttati non soffrono perché questo fa parte della loro cultura. Si tratta di quelle maschere intese come tutte quelle scuse, quelle attenuanti a cui ciascuno si appella quando ci si trova ad affrontare problematiche di questo tipo. Il secondo tipo di maschere, oggettivamente più semplice da comprendere, è quello dietro cui si nascondono i turisti sessuali, i pedofili. Intendiamo la maschera dell'uomo d'affari o del turista che in compagnia di amici va in una di queste località amene per poi fare i propri comodi. È stato sottolineato che, in realtà, anche noi, nel nostro paese, abbiamo una realtà altrettanto scomoda. E poi abbiamo parlato delle maschere che si mettono sul volto del minore, magari in un servizio televisivo quando si vuol celare la sua identità. Sono maschere necessarie, doverose direi per chi fa informazione, ma che forse non esauriscono completamente il discorso del rispetto del bambino per chi, invece, deve andare in fondo alla verità dei fatti. Questo è quanto.
Perla Goseco Savino*
Parlando di maschere abbiamo elencato i luoghi comuni uno dei quali sarebbe: le donne dei Carabi pensano solo al sesso. Prima maschera. Seconda maschera: la prostituzione di bambini e bambine, adolescenti fa parte della cultura asiatica. E' proprio una balla. Terza maschera: pagare una bambina cubana è aiutare il paese attanagliato da un embargo pazzesco. Quarta maschera: l'abuso non traumatizza i bambini educati in queste culture così diverse dalla nostra. Quinta maschera: il sacrificio di minori prostituiti garantisce il loro futuro e quello della loro famiglia. E questo dimenticando che chi guadagna sono gli sfruttatori, i commercianti del sesso, i grandi mafiosi internazionali che non si sporcano le mani esattamente come i signori della droga. Infatti l'Interpool ci dice che, ormai, i guadagni del traffico dei minori ha superato quello della droga. Sembra strano però è più facile trafficare esseri umani che trafficare la droga, perché la droga fa paura a tutti, ma trafficare esseri umani è ancora una cosa troppo nuova e l'Interpool sta ancora cercando di migliorare il suointelligents per aiutare le polizie locali. Abbiamo parlato anche del fenomeno in tutto il mondo, la differenza fra il fenomeno in Asia, che è nelle mani della criminalità organizzata, ma anche nell'Europa dell'est. Abbiamo parlato della differenza tra questo e il fenomeno nei Caraibi. Abbiamo fatto un profilo di coloro che abusano dei bambini. Non si tratta soltanto del pedofilo, un malato psicosessuale recidivo che ha anche bisogno di aiuto e non viene punito se mette in atto la sua malattia. L'essere pedofilo non è un crimine in quanto malattia ma quando si arriva ad abusare di un bambino allora scatta la punizione. Lui preferisce bambini e bambini prepuberali. Secondo profilo: l'abusatore preferenziale abituale. Si tratta di una persona che preferisce minorenni post-puberali, ragazzini e ragazzine. Non è malato - questo è grave - quindi non avrebbe neanche come attenuante la malattia. Terzo profilo: l'abusatore occasionale. Si tratta di viaggiatori giovani che vanno all'estero per il mare, per il sole e poi quando gli viene offerta una ragazzina di 13-14 anni dicono: perché no? Il branco del why not? Perché no? Non si riesce a capire perché i giovani da 22 anni in su, anche 20 anni, vanno all'estero per comprare sesso: adesso si sta cercando di capire perché si sta abbassando l'età. Un gruppo emergente, se si può chiamare così, sono le donne tra i 25 e i 50 anni che cercano soddisfazione sessuale con i beach boys dello Sri Lanka e i ragazzini della Repubblica Domenicana. E infine una figura tanto invisibile quanto pericolosa: lo sfruttatore che non si sporca le mani. Si tratta del grande mandante, del grande mafioso che guadagna miliardi di euro e assolda la manovalanza. Poi abbiamo parlato del ruolo dell'industria turistica e qui chiudo. È stata dura la lotta per averli con noi in prima linea. Voi avete una lista di quelli che hanno firmato il codice di condotta dell'industria turistica italiana, sono i tour operators, le agenzie di viaggio della Confindustria, Confesercenti, la Fiavet, linee aeree e Crs. Per averli con noi abbiamo impiegato 3 anni prima di arrivare a una conclusione. Il codice di condotta di cui sto parlando non è solo una lista di buone intenzioni che poi si dimentica. C'è una sanzione. L'art. 4 dice "qualora dovesse succedere lo sfruttamento sessuale in un albergo, in un paese di destinazione con la complicità di quell'albergo, il tour operator, come I Viaggi del Ventaglio per esempio, non rinnova più quel contratto con quell'albergo". E quello è un grosso deterrente. Poi le legislazioni. Abbiamo detto che la legge italiana è considerata come un modello. La 269 del '98 non è una legge perfetta, però è considerata un modello perché è l'unica legge che ha preso in considerazione la legge del mercato, domanda e offerta. Se non c'è domanda, non c'è offerta, se cade la domanda, cade anche l'offerta, per cui quando è caduta la domanda da parte dei turisti italiani che andavano a Cuba nel 99, le autorità turistiche cubane in Italia hanno commissionato una ricerca del mercato serio, professionale per sapere il perché. Dopo 4 mesi è uscito un dossier con una lista di cause. Numero 1: il turista italiano non vuole essere identificato con il turismo sessuale che sfrutta i bambini. Da quel momento le autorità cubane hanno chiesto ai tour operators che hanno firmato il codice di condotta, di aiutarli a confezionare un nuovo prodotto e poi naturalmente cambiare le immagini, a rivolgersi ad un nuovo target che adesso sono le famiglie. E' un discorso anche economicamente più sostenibile, sono 4, 3, invece di una persona. Coppie, fidanzati e poi anche quelli che vanno in luna di miele insomma. La legge italiana anche con l'art. 16 avverte il viaggiatore, sul retro di ogni catalogo c'è scritto: "la legge italiana punisce chiunque abusa di un bambino anche quando questo è commesso all'estero" che non può dire: io non lo sapevo, il viaggiatore è avvisato. Mi sembra che sia tutto. Quando si dice la verità, per quanto riguarda lo sfruttamento sessuale dei minori, dei bambini, per favore dite tutta la verità, perché un bambino non è mai un prostituto, è sempre prostituito da un adulto. Un bambino o una bambina che ha degli atteggiamenti seducenti sono stati ammaestrati da qualcuno. Pur non condividendo quel comportamenti, poi, dovremo cercare di capire l'estrema situazione di povertà che porta alla prostituzione dei minori. Non lo capiremo mai appieno, perché mangiamo tre volte al giorno. Ma dobbiamo tentare di capire un padre che magari ha dei bambini che non mangiano più, allora la prima cosa che fa è di dare la bambina per una notte, per due ore e guadagna più di un professore in qualche paese. Poi per favore mettere una mascherina questa volta sui volti dei bambini e adolescenti quando si raccontano gli abusi da loro subiti, per non perpetuare quell'abuso.
Minori in carcere, e fuori*
Resoconto workshop
Carla Chiaramoni
Questa mattina erano presenti don Ettore Cannavera, che è il cappellano dell'istituto penale minorile di Cagliari e c'era anche Ugo Pastore, che è il procuratore del tribunale dei minori di Ancona. Paradossalmente - ma non tanto in realtà - erano molto d'accordo e quindi si è potuto sviluppare un discorso molto ampio e ben articolato. Nel workshop c'erano non solo giornalisti, ma anche operatori, persone che concretamente lavorano tutti i giorni con i minori e questo ha dato una possibilità in più di capire quanto sia importante lavorare in rete. Si è partiti dal titolo di questi seminari della mattina che erano il male e il suo racconto, per spiegare, che il male non è il ragazzo che commette il crimine, ma è il fallimento educativo dell'adulto che non riesce ad ascoltare il ragazzo lasciandolo solo. Questo ha dato il taglio a tutto il discorso perché, a questo punto, il senso del processo, il senso dell'incontro del minore che delinque, che incontra a un certo punto la giustizia, è visto come un'occasione di crescita, un momento per cambiare la sua vita. Se invece guardiamo al minore che delinque e al carcere come un momento punitivo, abbiamo sbagliato obiettivo. Abbiamo poi visto che per i ragazzi il discorso del reato è spesso episodico: non si ruba perché si ha bisogno di soldi, il più delle volte questo gesto è legato alla necessità di esprimere un bisogno, un bisogno di essere ascoltati. Si arriva a delinquere quando non si sa più come farsi ascoltare. Questa, probabilmente, è una prima maschera caduta. Di solito siamo abituati a pensare che casi gravi, anche casi di omicidi, come quello di Erika e Omar sono casi "simbolo", casi in cui il minore è irrecuperabile. Paradossalmente, questa mattina, è stato detto invece che chi compie questi delitti così efferati, chi si macchia di un crimine così forte, ha più possibilità di un recupero di ragazzi che entrano ed escono dagli istituti, dai carceri, perché in realtà non sono inseribili, in quel caso, in un percorso di recupero. Paradossalmente chi compie il delitto, chi compie il gesto più efferato è forse la persona meno pericolosa. Questa è un'altra grossa maschera che è caduta stamattina, un grosso velo che è andato a cadere, perché una delle rappresentazioni tipiche del giornalista che parla del minore che delinque è proprio quello di tracciare ormai un quadro d'irreversibilità di fronte a questi fenomeni, a questi atti così sanguinosi. È stato anche detto, a questo punto, che occorre ripensare al concetto di responsabilità. Quello che probabilmente manca sono dei punti di riferimento forti in questo senso. Il procuratore ha sottolineato il fatto che non importa quello che diciamo, ma quello che facciamo, perché se non siamo in grado di dare un esempio concreto, punti fermi, regole, allora il minore potrà sempre dirci: "ma se tu non lo fai perché dovrei farlo io?". Questo senso di responsabilità deve essere recuperato nelle famiglie, ma anche nelle istituzioni e negli operatori. Dicevo prima che era importante il fatto che ci fossero degli educatori tra noi, non solo giornalisti, perché questo ha permesso di mettere in discussione la necessità che si operi in rete. Molto spesso si è detto che una parte non sa cosa fa l'altra: si creano, anche non volendo, delle difficoltà, perché si procede rispetto a uno stesso minore in direzioni diverse. È stato più volte detto, suffragato con delle cifre, che in Italia non esiste un allarme minori. Questo è un altro velo che cade. Siamo abituati a pensare che ormai i minori delinquono e cresce il numero di reati a carico di minori, soprattutto i più gravi. In realtà stamattina si è detto che non è così: sono all'incirca 460-470 i minori che sono attualmente, al novembre di quest'anno, negli istituti penali. Il problema non è così allarmistico come la stampa lo descrive. È stato anche sottolineato il fatto che, quando c'è un fallimento rispetto ai minori, si tratta molto spesso di mancanza di risorse, non è stato investito abbastanza. Le leggi ci sono, gli strumenti ci sono, probabilmente mancano risorse, non si è lavorato abbastanza in una direzione. Questo nella prima parte. Nella seconda parte invece si è guardato più all'aspetto dell'informazione, cioè come riuscire a parlare di quei minori che stanno in carcere, superando quelli che sono i luoghi comuni. C'erano colleghi della carta stampata, della televisione che hanno ovviamente sollevato problemi diversi. Uno dei primi che è venuto fuori è quello delle fonti. Quando parliamo di minori che in qualche modo si avviano a un processo, sono in carcere, o comunque hanno commesso un reato, la difficoltà più grande è quella di capire con chi parliamo, se non vogliamo dare soltanto il fatto nudo e crudo. Allora ci sono dei problemi oggettivi perché il giudice non può dire più di tanto, non può andare oltre la sentenza, non può dare maggiori informazioni. Gli assistenti sociali non parlano più di tanto. Gli operatori di comunità spesso sono imbrigliati anche loro, quindi non hanno voglia di raccontare. Questo vuol dire che non solo è difficile per il giornalista avere il coraggio di rompere una linea editoriale - ieri si è parlato di coraggio, di affrontare alcuni temi - il problema è che anche le altre parti in causa sono in qualche modo legate e imbrigliate. I giornalisti hanno fatto presente proprio questa difficoltà di raggiungere le fonti. Se ho un fatto di cronaca grosso e devo parlarne, se non trovo in quello stesso giorno una persona disposta a chiarirmi la situazione, affinché possa inserire nel pezzo qualche elemento in più, il giorno dopo, anche se lo trovo, non mi è più utile. È stato fatto presente anche che il linguaggio che parlano le altre parti in causa è spesso incomprensibile. Anche quando raggiungo un operatore di comunità per minori e magari gli chiedo un dettaglio, un'informazione, spesso lui parla un linguaggio che non è adatto ai tempi della televisione, o non è comprensibile per i giornali. È stata anche sottolineata una sorta d'ipocrisia dell'informazione. Diceva stamattina il procuratore che è inutile non dire il nome di un minore coinvolto, mettere la targhetta sugli occhi e sul viso per non farlo riconoscere, per poi dire come si chiamano i genitori, dove abitano e in quale città vive. Questo ci dà anche il metro di giudizio. Ultima cosa che è stata detta è quella dell'importanza - sollevata soprattutto da don Ettore e anche dal procuratore - del modo in cui parlare di minori che sono in carcere, che hanno problemi di questo tipo. E' stato suggerito di capire sempre il contesto in cui si sviluppa un reato, di non parlare del fatto in se. È stato anche sottolineato che ieri si è parlato molto di coraggio, del coraggio che dovrebbero avere i giornalisti, di rompere delle logiche di redazione. In realtà stamattina si è anche detto che non è facile. Già solo doversi adeguare alla linea editoriale molto spesso compromette la libertà del giornalista.
Don Ettore Cannavera*
Per completare quanto ha detto Carla riassumo in 3 punti la sintesi del discorso di stamattina. Minori in carcere, minori fuori, informazione minori. Abbiamo richiamato spesso una situazione un po' delicata che stiamo vivendo nella giustizia minorile, che è la proposta di legge del nostro ministro della giustizia Castelli, già approvata nel consiglio dei ministri il 1° marzo di quest'anno e che da un giorno all'altro potrebbe finire in parlamento per essere approvata. La cosa che ci preoccupa di più di questa proposta di legge è l'aumento di pena per i minori dai 16 ai 18 anni, l'impossibilità della messa alla prova per chi commette certi reati e soprattutto i minori: gli ultra diciottenni che attualmente possono restare in carcere fino al 21° anno, dopo che hanno commesso il reato nella minore età, andrebbero subito al carcere per gli adulti. Allora attenti: carcere, no grazie. Il carcere non paga. Lo voglio dire con le parole di un ragazzo del carcere minorile, ormai ultra diciottenne. "L'educazione cos'è? Per molti di noi detenuti, se non per la totalità, questa parola non ha senso, del resto se fosse possibile educare ci sarebbero sicuramente meno recidivi, possiamo invece parlare di un'altra educazione". Voi sapete che circa il 50% dei ragazzi che finiscono nel carcere per gli adulti sono prima passati nel carcere minorile. Questo vuol dire che l'intervento del carcere non è efficace. Educazione in carcere.. si, ma al crimine! Questo è reale. Un esempio tanto banale quanto vero: si entrare in carcere per un semplice furto e si esce sapendo come poter fare una rapina. Per i detenuti c'è scambio d'informazioni su atti illegali. E' normale. Visto l'ambiente promiscuo in cui si vive. Educazione si.. a corazzarsi contro il senso d'impotenza, contro l'impossibilità di scaricare impulsi emotivi, che portano rabbia e un'aggressività che va controllata e per controllare la quale ci vuole razionalità. Bisogna costruirsi dei muri a difesa della propria sopravvivenza. Ognuno, ovviamente, ha i suoi metodi. Chi si chiude, chi diventa iperattivo, chi piange, chi diventa amorfo, chi s'impasticca e si fa scivolare addosso il periodo di detenzione. Tutto questo per dire no, caro ministro. No al carcere per i minori, non è questa la risposta perché quello che viene detto nella relazione introduttiva alla legge è del tutto falso circa il fatto che c'è un aumento della criminalità minorile. Carcere: ragazzi fuori. Questo si. La risposta più efficace è la misura alternativa. Ormai la procedura penale minorile offre tante misure sostitutive alternative alla detenzione. Il carcere deve rimanere del tutto residuale per casi rari. Fuori si, perché? Perché mentre il carcere deresponsabilizza, educa all'aggressività, all'omertà, al rapporto falso, la comunità fuori dal carcere educa alla responsabilità. Ed è questo l'obiettivo principale che dobbiamo avere parlando dei minori, aiutarli a crescere assumendo le loro responsabilità, passare dalla dichiarazione di responsabilità, all'assunzione di responsabilità. Un tribunale dichiara che un ragazzo è responsabile dell'atto che ha commesso invece noi dobbiamo aiutarlo ad assumersi la responsabilità di tale atto criminoso che ha compiuto. Da lì inizia il recupero del riscatto. L'esperienza, che accenno appena, della nostra comunità in Sardegna per ragazzi dai 18 ai 25 anni, dove su 18 ragazzi, 6 condannati per omicidio, uno addirittura per sequestro di persona - coinvolto con altri adulti - hanno fatto un recupero dignitoso. Quattro di questi hanno già finito di scontare la pena, sono pienamente reinseriti nella società, altri 2 stanno per completare il loro percorso. E poi informazione e minori. Attenti all'informazione. Quando un giornalista deve dare una notizia del compimento di un reato del minore, deve porsi questo problema: che effetto avrà? Che ripercussione avrà sul ragazzo che ha commesso il reato? Io racconto spesso di un nostro ragazzo condannato per aver commesso degli scippi. Nel giornale erroneamente appare che ha commesso 20-22 scippi. Bene, questo ragazzo si ritaglia il pezzo del giornale e lo mette sulla testata del letto in comunità dicendo a tutti: ecco chi sono io! È il giornale che gli dà l'identità. In un momento così delicato di formazione di un'identità, un'identità che in quel momento è negativa, la notizia può accentuare questa disistima di sé e questa identità negativa come delinquente. No a questa informazione che non affronta il problema in modo serio e approfondito, perché ricade negativamente sull'opinione pubblica che si fa un'idea, una rappresentazione dei reati dei minorenni molto emotiva. Si va ad incidere sul problema della sicurezza, della paura di questi ragazzi e questo purtroppo va a ricadere sulla visione che i politici hanno del problema. Ecco perché è venuta fuori questa proposta di legge del nostro ministro, che rispecchia l'opinione pubblica che, in nome della sicurezza, vuole accentuare la repressione. Invece noi vogliamo meno carcere e una qualità più seria di interventi verso i minori per poter riprendere il loro cammino evolutivo.
Rifugiati in fuga da violenza e conflitti: un diritto condizionato?*
Resoconto workshop
Laura Badaracchi
Rifugiati in fuga da violenze e conflitti: un diritto condizionato? È emerso proprio questo, che il diritto dei rifugiati è molto condizionato. Diceva Padre Francesco De Luccia, responsabile del centro Astalli di Roma - che purtroppo è dovuto partire, perché aveva un incontro proprio con i volontari questo pomeriggio - che i rifugiati hanno soltanto il diritto di esistere e nulla più. Gli vengono negati il diritto al lavoro, il diritto ai ricongiungimenti, hanno diritto all'assistenza sanitaria, ma molti altri diritti sono negati. È stato un gruppo molto partecipato, ci sono state molte domande. Padre Francesco ha presentato qual è l'iter che segue un richiedente asilo dal suo arrivo in Italia spesso drammatico, attraverso sbarchi, o attraversamenti fortunosi delle frontiere, fino all'ottenimento dello status di rifugiato, oppure al diniego da parte della commissione di questo status con conseguente rimpatrio, oppure alla concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. In questo caso non si ha un vero e proprio riconoscimento dello status, perché si tratta di un permesso che dura soltanto un anno, dopo il quale il richiedente asilo viene di nuovo ascoltato dalla commissione che può anche ritenere di rimpatriarlo perché sono cessati i motivi del permesso umanitari. Con la nuova legge, ci ha spiegato Padre Francesco, le cose cambieranno di molto, è una legge più restrittiva, che comporterà molti problemi, anche perché i fondi che sono a disposizione, come ricordava anche ieri don Vinicio per l'integrazione di queste persone, sono veramente molto, molto scarsi. Quali sono le maschere? Ci siamo chiesti quali sono le maschere che scendono sul volto di questi richiedenti asilo. Una di queste è il fatto di considerarli tutti clandestini. Quando ci sono degli sbarchi la parola che sentiamo, che vediamo sui giornali, nella grande informazione, è quella di clandestino. Diceva Padre Francesco che è una parola ormai talmente usata che è diventata quasi una categoria quella del clandestino. Altri interventi sottolineavano come il richiedente asilo viene considerato un immigrato, e che non c'è distinzione tra immigrati e richiedenti asilo. Un'altra maschera è quella di chiamarli extracomunitari. Un'altra maschera ancora è che queste persone diventano invisibili: dopo il soggiorno nei centri di residenza temporanea, o nei centri d'identificazione, o nei centri di accoglienza, o di prima accoglienza, di moltissime di queste persone si perdono le tracce. Ciò accade o perché vanno in altri paesi dell'Europa, soprattutto Germania e Olanda, oppure perché effettivamente diventano dei senza dimora, dormono per la strada e non hanno un rifugio, un posto dove andare. Non c'è un progetto che li accompagna anche se hanno un permesso di soggiorno per motivi umanitari, o un riconoscimento di status di rifugiati in tasca. Queste sono alcune delle maschere di cui abbiamo parlato e quindi ci siamo chiesti come può l'informazione farle cadere. Ci sono stati dati alcuni suggerimenti. Uno di questi è un contatto più stretto tra le associazioni e il mondo dell'informazione. Tra noi c'erano molti operatori delle associazioni. E' stato detto che sono chiamati a contattare i giornalisti locali in modo da poter dare informazioni positive sui richiedenti asilo che non sono appunto clandestini, o criminali come spesso la grande informazione ci vuole far credere, ma sono persone che spesso hanno delle lauree, conoscono più lingue, che erano attivisti politici, o imprenditori nei loro paesi, professori universitari. Si è parlato, dunque, di un maggiore contatto tra associazioni e mondo del giornalismo, ma allo stesso tempo un contatto dei giornalisti con queste fonti, perché spesso le grandi agenzie non riportano queste notizie, si fermano soltanto sulle notizie di emergenza e non raccontano le storie di queste persone. A questo proposito, Padre Francesco ci ha raccontato dell'esperienza che stanno facendo al Centro Astalli: un progetto "finestre", cioè l'incontro dei rifugiati in 1500 scuole di tutta Italia. Ci diceva come questo incontro tra i ragazzi, soprattutto i ragazzi di classi in cui sono presenti alunni immigrati, prevedono il racconto di un rifugiato che racconta la sua storia. E' un'esperienza che apre le menti di questi ragazzi, degli insegnanti e di conseguenza anche delle famiglie. Anche in questo modo si fa un'informazione capillare sul territorio. A questo dovrebbe essere chiamata anche l'informazione "alternativa", che va a raccontare queste storie e a cogliere il positivo che c'è, le risorse, le altre culture. Dai partecipanti è stato anche formulato un appello a combattere i pregiudizi e anche a non trattare le notizie di agenzia così, nude e crude, ma a rielaborarle. C'è stato l'invito a fare attenzione a non usare la parola clandestino, la parola extracomunitario, ma a conoscere bene e distinguere il richiedente asilo, rifugiato, profugo, a far capire quali sono gli iter, i drammi che ci sono dietro le storie di queste persone. Un'altra obiezione che è stata sollevata, è che, mentre per dare un'informazione corretta su questi temi occorrono tempi lunghi, occorre approfondire, spesso nelle redazioni domina la fretta. Allora come fare? Si è detto che avendo delle fonti sul territorio, anche sapendo usare bene le nuove tecnologie della rete - seppur il giornalista on the road sia insostituibile - si possono dare delle informazioni corrette, ma soprattutto bisogna dare voce a questi protagonisti e far emergere le loro storie. Non esiste attualmente in Italia una ricerca che faccia vedere come i media fanno apparire i richiedenti asilo, i rifugiati. Sono state fatte delle ricerche sugli immigrati, una recentissima, presentata la scorsa settimana, dalla quale gli immigrati ne escono malissimo, con un'immagine estremamente negativa. Vengono presentati sempre come assistiti, raramente, in rarissimi casi viene data loro la parola. A tutti, ai giornalisti che vogliono imparare a fare questo mestiere, è stato chiesto di impegnarsi a dare la parola a queste persone, alle loro storie e a dare voce a quelle realtà che restano spesso invisibili.
Vinicio Albanesi*
Approfitto per ringraziare sia don Ettore che Padre Francesco che è partito. Interessava farci capire come questi mondi siano da esplorare. Molto spesso vengono etichettati in termini sbrigativi. Invece occorre conoscerli. Credo che questi 3 workshop abbiano ottenuto dei risultati.
Ora passiamo alla parte sui dati, alla realtà dell'immigrazione "la maschera della realtà" con l'intervento di Franco Pittau e Ugo Melchionda. Io dico soltanto che l'unico rapporto degno di fede e degno di questo nome in Italia è fatto dalla Caritas.
Lo ha iniziato Franco Pittau e lo porta avanti anno dopo anno.
Non c'è nemmeno un rapporto di tipo governativo o europeo che regga la serietà di questa ricerca, di questa fotografia della realtà.
* Testo non rivisto dall'autore.