Dibattito con Vittorio Roidi, Pietro Colonnella e Marco Vitale
Vittorio ROIDI
Segretario Ordine Giornalisti Italiani.
Pietro COLONNELLA
Presidente della Provincia di Ascoli Piceno.
Marco VITALE
Economista d'impresa.
Vinicio Albanesi*
Siamo con tre illustri interlocutori: il dott. Roidi - il segretario dell'ordine nazionale dei giornalisti - il prof. Marco Vitale - lui si definisce economista, in realtà insegna e fa consulenza, mette insieme la teoria e la pratica - e il presidente della provincia di Ascoli Piceno, Pietro Colonnella, che è presente non soltanto per dare i soliti saluti e auguri, ma per partecipare al dibattito. Sono 3 interlocutori estremamente significativi. Faremo un primo giro di discussione, poi sentiremo alcune reazioni e rifaremo un secondo giro di risposte e considerazioni. Al dott. Roidi chiedo: sembra che l'informazione sia sempre più dipendente da un'economia che è suggerita dagli imprenditori, non esiste più l'editore puro. Domanda secca da mille punti. dal suo punto di vista questo significa maggiore libertà? Maggiore creatività per l'informazione? Significa, come noi abbiamo detto, che oramai i giornalisti sono dei dipendenti? Sono la voce del padrone? Che cosa sta avvenendo nel versante dello scenario italiano tra risorse economiche e informazione?
Vittorio Roidi*
Un processo di trasformazione in atto
Un processo che, in qualche modo, si può intravedere. Se guardiamo indietro, nel passato, ci accorgiamo che i giornalisti erano molto più dipendenti di quanto lo siano oggi. Questa tanto vituperata legge che in Italia ha istituito la professione del giornalista e il tanto famigerato ordine, in realtà, prevedono che il giornalista sia dipendente, perché il giornalista professionista non può che essere dipendente per la legge. Tant'è vero che il praticantato si può fare solo quando un editore ti ha assunto. Allora io dico che, se guardiamo al passato, i giornalisti erano senza dubbio più dipendenti. Faceva il giornalista, ha fatto, fa il giornalista chi ha trovato qualcuno - e quindi un potere economico, principalmente, ma anche politico - che gli ha consentito di fare questo mestiere, con tutto quello ciò comporta, dal punto di vista dei condizionamenti veri e propri. E parlo di condizionamenti culturali prima ancora che quelli che vanno ad incidere sul modo di dare una notizia o sul fatto se darla o no. Io credo che qualcosa stia cambiando e non sono uno che crede a internet come se fosse la manna scesa dal cielo. E' indubbio, però, che internet ha spezzato questo iter perché consente di fare giornali, notiziari senza grandi mezzi. Non voglio dire che i giornali su internet non abbiano limiti, ma è certo che si hanno maggiori possibilità. E se sono bravo, se ci so fare, il mio giornale partito senza grosse pretese su internet può anche diventare credibile, molto credibile al cospetto dei lettori. E se mi do da fare posso anche trovare pubblicità che mi aiuti a crescere sempre più. Io non credo completamente che questa sia la soluzione a tutto, soprattutto perché internet è uno degli strumenti che si è aggiunto di recente a quelli tradizionali. Ma gli do comunque il merito di spezzare quel modo di essere del giornalismo italiano. C'è poi la "Free Press", la schiera dei giornali gratuiti, che tutti trattano male, come se fossero spazzatura ma alcuni dei quali sono proprio ben fatti. Sono, essi, un altro modo di spezzare quel legame. In realtà anche quelli sono fatti da editori e quindi da qualcuno che finanzia. Perché infondo il mondo del giornalismo trae origine dal mondo dell'alta finanza. In questo senso credo di poter dire che l'editore puro non c'è più anche se credo che anche questa sia una maschera: neanche i vecchi editori erano puri, perché nella vita facevano altro, facevano commerci in vari tipi d'industrie. Anche in passato l'informazione era, per questi editori, una seconda attività. Così come internet, anche i giornali gratuiti hanno spezzato, in un modo o nell'altro, il quadro che c'era in passato. E credo che era naturale che avvenisse. Perché si può fare una televisione senza farsi pagare e non si può fare un giornale stampato? Si fa anche un giornale stampato. Potrebbe aver dato fastidio a qualcuno all'inizio ma questo, tutto sommato, è stato poco rilevante. In realtà è stato aperto un canale nuovo, dando informazione anche a persone che prima non ne avevano affatto. E' bassissima la percentuale di quelli che prima compravano a Roma il Messaggero, adesso comprano Metro o Leggo.
I giornali stampati, radioteletrasmessi, sono fatti dal potere
Un certo tipo di giornalismo - e vengo alla domanda - resta legato al potere forte, principalmente al potere economico. E' evidente che i giornalisti siano al servizio di un editore, intendendo "servizio" nel senso buono della parola. Per quanto da un giornalista possiamo pretendere che sia libero, autonomo, con la schiena dritta, comunque lo stipendio glielo dà un editore, proprio come uno che fabbrica le scarpe, che fabbrica gli occhiali, o che fabbrica le bottiglie di acqua minerale. Il giornalista completamente privo di legami quasi non esiste. Bisogna ricordarsi, però, che in Italia tutto ciò nasce dal modo in cui è partita l'impostazione iniziale. Com'è che da noi non ci sono molti free-lance? Perché non sono state fatte le norme a favore dei free-lance? Ora stanno aumentando perché le occasioni per i free-lance di lavorare sono di più e quindi finalmente si riesce anche a regolarizzare quel tipo di lavoro. Voglio dire che se mando un pezzo ad un giornale, perché quel giornale me lo ha chiesto, me lo deve pagare, non è che lo mette in un cassetto. Credere che in Italia il potere economico non controlli più il giornale, o comunque che ci sia un giornalismo privo di legami dal grande potere economico è eccessivo, anche se mi sembra che qualcosa stia cambiando.
Vinicio Albanesi
Presidente Colonnella è possibile che l'istituzione, proprio in quanto istituzione, possa produrre informazione generale, utile, disinteressata, non partitica, non orientata al consenso?
Pietro Colonnella*
Cittadini protagonisti
Lo ritengo auspicabile anche perché sta cambiando il modello di sviluppo. Da un modello centralistico dello stato, e quindi anche dell'informazione, ci si sta indirizzando verso un modello federale. Speriamo che questo federalismo poi sia cooperativo, solidale, che non comporti una rottura, una separazione del nostro paese, ma questo è un altro tema. Ritegno che quello che lei mi chiede sia possibile ed importante. Lo ritengo importante perché parlare d'informazione prodotta dal basso è un modo di pensare a cittadini che non siano solo i terminali di una propaganda fatta dal governo centrale o dai governi locali. Vuol dire pensare a cittadini che siano effettivamente protagonisti della vita politica, della vita sociale, cittadini che vogliono progettare il loro destino e che non vogliono essere solo dei consumatori ma protagonisti della storia e delle loro storie. Nel momento in cui questo avviene, si riesce anche a ribaltare quegli stereotipi di cui si parlava prima, come quelli, ad esempio, sull'immigrazione. Lo stereotipo impone di considerare l'immigrazione - tanto per restare in uno dei temi ai quali si è fatto riferimento - come problema. Chi vive sul campo, nei territori, sa che l'immigrazione è anche una straordinaria opportunità, una straordinaria risorsa non solo in senso economico. Basta guardare a molte nostre imprese del calzaturiero che non andrebbero avanti oggi se non avessero anche manodopera, spesso qualificata, arrivata da altri paesi. Mentre noi italiani non parliamo le lingue, molti immigrati parlano tante lingue e ciò permette loro di essere impiegati non solo nei lavori più umili ma anche in lavori di un certo rilievo. Una grande risorsa economica, dicevo, ma anche una grande risorsa culturale. Penso che anche Redattore Sociale porti all'attenzione anche degli enti pubblici suggerimenti, indicazioni su cui si può lavorare. Noi stiamo portando avanti un'esperienza nuova con un giornale che ieri vi è stato distribuito: è un'esperienza al primo anno di vita. Non volevamo fare un bollettino propagandistico ma un giornale che focalizzasse l'attenzione sui problemi, che guardasse all'economia non solo intesa come produttività economica, ma che tenesse conto anche di un concetto nuovo di produttività sociale. Ci siamo dati delle coordinate di questo tipo nel concepire tale giornale. poi naturalmente si può riuscire in questo intento oppure no.
Vinicio Albanesi
Professor Vitale, lei è un economista, un economista di quelli veri, che sta nei posti dove si decide, non dove si discute di economia. Lui è anche professore, ma soprattutto frequenta i posti in cui si decide. Domanda secca, da quanti punti non so. Che rapporto c'è, secondo lei, tra economia, no-profit ed, eventualmente, risposta sul versante dell'informazione?
Marco Vitale*
L'informazione controllata
Prima di rispondere, se permettete, volevo fare un breve accenno sul tema dell'informazione. Mi ha colpito l'intervento di Roidi che ha parlato dell'informazione alternativa, dei nuovi giornali, di internet, della free press, di tutte queste forme belle, importanti che danno nuovo spazio, nuova utilità, nuove possibilità alla comunicazione. Ha evitato, però, di entrare un po' nella crudezza del momento di trasformazione che sta vivendo il nostro mondo della comunicazione. Dobbiamo dircelo con grande chiarezza: si tratta di un momento di estrema durezza. Vi faccio un esempio concreto. Io sono nel consiglio d'amministrazione di uno dei primi fondi etici italiani costituito da un gruppo di banche, rivolte anche alla banca etica. Questi organismi potranno investire solo in enti che passano il giudizio positivo di una serie di griglie - discutibili finché si vuole - ma frutto di 15 anni di studi, di raffinamenti e di apprendimenti, fatte da alcune agenzie di reti specializzate, poche, che nascono dal volontariato. In realtà queste agenzie da 15 anni hanno creato un filone di conoscenze significativo. Io sono nella lista d'azienda, ho visto queste analisi e le ho trovate sensate. Da una prima generazione in cui c'era l'approccio solo negativo a non investire nelle aziende che fanno armi, non investire nelle aziende che fanno alcool - che era un concetto un po' primitivo - si è arrivati a fare dei giudizi su come quell'azienda si rapporta al mondo del lavoro interno, con le istituzioni, con l'ambiente. E ne vengono fuori giudizi seri. Accanto alle aziende ci sono delle griglie che classificano gli stati che emettono dei titoli. Sui mercati mondiali i titoli emessi dagli stati sono sempre la quota maggiore e i fondi investono sempre una quota molto ampia nei titoli emessi dallo stato. Bhe'. abbiamo cominciato a vedere su chi potevamo investire, su chi non potevamo investire. Cito qualche esempio. Possiamo investire sulla Merloni, è una delle italiane accreditate - credo che possa far piacere qua - non possiamo investire sullo stato italiano. Non possiamo sottoscrivere Bot allo stato italiano, perché è classificato molto in basso nella scala della civiltà, fuori dalla linea di rottura. Fino al 17° posto c'è una certa linea, lo stato italiano è 34°. Questa classifica, lo ripeto, non è frutto di bizzarria ma di misure che saranno pure rozze, ma hanno la loro verità. Mi sono rimaste in testa una decina di griglie relative proprio ai temi di cui siamo riuniti a parlare. Per esempio è importante che uno stato assicuri un certo livello di libertà di stampa. L'Italia è, tra i paesi sviluppati, quello che ha di gran lunga la maggior concentrazione del controllo degli strumenti di comunicazione. Non esiste altro paese al mondo che abbia una concentrazione del controllo della pubblicità di questo tipo. Sulla classifica che parte da tale elemento, quindi, l'Italia va all'ultimo posto. Un altro punto importante è il riconoscimento e la tutela dei diritti dei cittadini. Qui possiamo fare tanta filosofia, poi ci sono alcune misure. Una delle misure più semplici da tenere in considerazione è la durata dei processi. L'Italia ha la durata dei processi più lunga di tutto il mondo sviluppato. E si piazza ultima in classifica. L'insieme di queste classifiche fanno che l'insieme "Italia" non sia degno di essere oggetto d'investimento da parte di un fondo etico.
I "limiti" dell'indipendenza
Ho visto tanti giornalisti veramente cialtroni, come ho visto tanti economisti cialtroni. E poi ho visto tantissimi giornalisti che, al di là del fatto che il loro editore fosse puro, erano fior di professionisti che facevano il loro mestiere molto seriamente. Lo stesso è anche nel campo degli editori. Ci sono editori che, pur essendo depositari di poteri forti, hanno conservato quel minimo di rispetto verso il loro media, verso il loro giornale, verso la professionalità del loro direttore, che li porta ad interferire pochissimo rispetto al lavoro giornalistico. E ci sono casi come Il Corriere della Sera che è riuscito miracolosamente a conservare un orientamento non di partito, non di parte. Questo è un patrimonio per tutti. Questo patrimonio, pochi giorni fa, stava per essere attaccato. C'è stata un'iniziativa virulenta, giocata sul fronte delle azioni, che mirava a introdurre nuovi soci nel sindacato di controllo, che avevano l'obiettivo di cambiare il direttore, la linea del giornale e di farlo diventare un giornale più allineato. C'è stato uno scontro di persone di economia, di imprenditori. Chi ha votato no, chi ha bloccato questo pericoloso meccanismo si chiama Bazzoli - è bene che ce lo diciamo - e con lui altre 2 persone. Se queste due persone votavano si, Il Corriere della Sera nella sua attuale limitata indipendenza - perché, è bene ricordarlo - l'indipendenza è sempre limitata per tutti, sarebbe crollato e sarebbe stato un impoverimento per tutti noi. Almeno questo secondo il mio punto di vista. Tutto questo per dire che le partite si stanno giocando su un livello molto pesante e sono partite durissime. Concedetemi un altro esempio. Uno dei più bei giornali italiani degli ultimi 20 anni è stato il "Il sole 24 ore". È iniziato a essere bello quando l'allora giovane direttore, Gianni Locatelli, firmò un contratto col presidente della Confindustria di allora. Vidi questo contratto perché fu lo stesso Gianni Locatelli a mostrarmelo. Lui si era impegnato a sviluppare un giornale che fosse non la voce della Confindustria, ma la voce dell'economia italiana. A questa missione Locatelli e chi l'ha seguito sono stati fedeli, hanno fatto un gran servizio all'economia italiana, hanno fatto un gran servizio al giornale, che è diventato un giornale di grande successo. Tutto questo è finito. Oggi chi lavora al "Il sole 24 ore" sa che non può scrivere se non ha il nulla osta della Confindustria, stiamo ritornando alla velina. Il sole 24 ore è ritornato un giornale velinaro. Mio figlio, che è un giornalista di professione, che era in quel giornale da 10 anni e che è una persona dignitosa, ha dato le dimissioni e insieme a lui tanti giovani che, quando hanno una possibilità, se ne vanno. Il giornale sta perdendo qualità e, grazie al cielo, la forza del mercato, la moralità del mercato che i preti non vogliono mai accettare ma che io ho sempre sbandiero, sta facendo in modo che quel giornale - diverso da quello che era all'origine - stia perdendo decine di migliaia di copie.
Un momento difficile
Tutte le vie nuove e il recupero di una dignità più ampia anche sui grandi giornali è un tema al quale noi dobbiamo credere come collettività.... Il no profit non ha una buona stampa in Italia. Attenzione. Non ha una stampa cattiva. Dico che non ha una stampa che lo descrive per quello che è. Non ha una stampa che penetra la complessità di questo mondo, la forza che c'è in questo mondo e le debolezze di questo mondo.
Se uno parla del no profit deve essere sempre perfetto. Non è vero, ci sono tante organizzazioni che hanno il timbro di no profit e che non vanno bene, come ha detto il Cardinal Martini in una delle sue ultime uscite a Milano. C'è il no profit mascherato, c'è il no profit pasticcione, ci sono tante cose che non vanno bene in questo mondo che però è, e resta, un mondo grande e importante. Non è un mondo marginale. Purtroppo è la stampa, quella cattiva, che lo tratta come un mondo marginale. Ma perché ciò accade? Perché a lui si pensa ancora proprio come ad un mondo marginale. Non ci sarà mai una stampa adeguata fino a quando il mondo no profit non interiorizza, non pensa, non elabora la sua nuova realtà che è così cresciuta negli ultimi 10-15 anni. È appena uscito un libro che vi raccomando: "Il no profit italiano al bivio", guidato dal Zamani - uno studioso molto serio della materia - che dice: "L'esuberante mondo delle organizzazioni della società civile vive oggi una vera e propria crisi d'identità, è da tutti riconosciuto e soprattutto da quelli che in essi operano. Ciò non deve sorprendere né impensierire, giacché si tratta di qualcosa di positivo". Si tratta di una crisi di crescita vera questa. E' un mondo pieno di contraddizioni, è un mondo nel quale si ritrovano gli egoismi italiani di sempre.
Le grandi Ong hanno paura dei piccoli. I piccoli hanno paura di essere soffocati dai grandi. Non si riesce a fare sistema tra 4 gatti che fanno lo stesso mestiere. Dobbiamo dirle queste cose. Voi dovete dirle al mondo no profit per aiutarlo a crescere. Io ho visto un bellissimo lavoro di una vostra collega che sul tema dell'imprenditorialità è andata a Bergamo dagli immigrati a raccontare 10 storie.
Questo è fare giornalismo. Allora, andare a vedere che questo mondo è pieno di contraddizioni. E' una cosa essenziale per poter poi pensare a un'evoluzione e uscire da questo bivio in chiave positiva. Vi faccio due flash. Leggo che uno tra i maggiori esponenti della cooperazione sociale veneta, dice - La Repubblica del 4 maggio 2002 - "con il mondo del volontariato non abbiamo niente a che fare, anzi il volontariato è un limite allo sviluppo dell'impresa sociale. In sostanza del volontariato non c'è più bisogno". E non l'ha detto Bossi, lo ha detto uno degli esponenti di questo mondo, si chiama Sandro Salviato. Un altro invece, che è un uomo di cui ho grandissima stima e al quale il mondo del no profit deve grandissima riconoscenza per il grande lavoro che fa, è proprio l'amico carissimo di stamane. Lui ha preso una posizione fondamentalista, io lo chiamo talebano quando sostiene "o volontariato, o niente!". Il volontariato non può sporcarsi le mani con qualcuno che prende un compenso. Allora viene fuori questa visione astratta, impossibile del volontariato che non esiste in nessuna parte del mondo. Il volontariato - e credo che qui si verifichi la stessa cosa - ha una grande molla interiore. Questa deve essere la sua caratteristica. Ha delle persone che donano gratuitamente il proprio tempo, se possono farlo, ma che si coniuga con persone che portano professionalità, competenza e che sono giustamente pagati in modo civile. Come dice il Cardinal Martini, gli stipendi devono esser sempre modesti in questo mondo, non devono mai essere stravaganti, ma questa combinazione tra l'aspetto del volontariato e la capacità di organizzare enti che non possono vivere solo sulla gratuità è un'altra verità essenziale dalla quale bisogna passare in tutti i modi.
Il valore del capitale sociale
Il terzo punto è legato ad un'altra dichiarazione di un esponente di questo mondo: "è possibile creare un tessuto economico efficiente salvaguardando i principi fondamentali della socialità". Qui siamo veramente molto indietro. Il governo inglese ha appena fatto fare uno studio approfondito sul mondo del volontariato, del no profit inglese, che è molto avanzato. Noi abbiamo appena avuto i dati Istat, che hanno detto che abbiamo 220 mila enti del no profit nei quali c'è dentro tutto. Poi bisogna andare a distinguere ma resta una cifra che ci ha impressionato. In Inghilterra ce ne sono 660 mila registrati ai quali se ne sommano 30 mila non registrati. Di fronte a questo mondo così ricco e così complesso, frutto di accumulazioni, di storie di ogni tipo, il governo inglese ha fatto fare questo studio che ha poi mandato in giro in Inghilterra e non solo, visto che è arrivato anche sul mio tavolo. E' stato inviato in giro per raccogliere pareri e informazioni. E' stato presentato da due paginette firmate da Tony Blair, che iniziano con queste parole: "Nel mondo moderno è semplicemente impossibile avere una società dinamica e vibrante ed un'economia dinamica e vibrante, senza un settore del volontariato dinamico e vibrante". Questa è la visione corretta, positiva. Non è un fatto marginale, è un fatto essenziale per la tenuta di una società civile, per la creazione di quel capitale sociale che è il bene più scarso che abbiamo oggi e che sta disperdendosi dietro la spinta degli egoismi e delle fatiche della nostra vita e che deve essere continuamente ricostruito. Noi, questa visione, l'avevamo ricchissima nelle nostre città medioevali. Le Misericordie non nascono in Inghilterra, ma nascono nelle nostre città. I grandi orfanotrofi per i bambini abbandonati nascono a Firenze, le scuole per le orfanelle che cantavano con Vivaldi nascono a Venezia, l'ospedale Maggiore - il più grande esempio di grande ospedale all'avanguardia nel 1500 - nasce a Milano, con le orfanelle che venivano istruite e tirate su e quando poi si sposavano gli davano anche la dote. Quindi nel nostro DNA, nella nostra storia, sappiamo cos'è il valore del capitale sociale, ma l'abbiamo perso di vista, l'abbiamo perso di vista soprattutto negli ultimi 50 anni. Un punto di svolta e chiudo. E' stato nella Costituzione. C'è stato un passaggio fondamentale nel momento in cui la commissione che discuteva l'articolo 2 della Costituzione, quando un gruppo rappresentato dall'allora giovanissimo Rossetti, presentò un ordine del giorno nel quale chiedevano che fosse inserito il principio della sussidiarietà orizzontale. È da lì che il volontariato italiano pian piano si è rinsecchito e poi ha dovuto rinascere andando a cercare gli interstizi in tutti i campi in cui lo stato falliva. Perché è attraverso il fallimento dello stato che il volontariato ha rilanciato la sua presenza.
E non a caso i dati Istat ce lo dimostrano con chiarezza: la maggior parte delle istituzioni del volontariato si sviluppano negli ultimi 15 anni parallelamente all'inchiodarsi, all'inefficienza dello stato. Negli ultimi 10 anni quest'impostazione costituzionale che ha premuto su tutta la nostra città per 50 anni si è frantumata e il legislatore se ne è anche reso conto, perché ha incominciato a emettere delle leggi che riconoscevano un ruolo importante al volontariato e al no profit, fino al rifacimento dell'art. 5 della Costituzione, dove bene o male - forse più male che bene - il principio di sussidiarietà è entrato in modo esplicito. Allora questa rivoluzione che c'è nelle leggi deve prima diventare una rivoluzione culturale del terzo settore per poter essere poi comunicata e per poter determinare un impegno privato molto più forte di quello che oggi i cittadini italiani assumono.
Noi continuiamo a dire "italiani brava gente". Brava gente quando c'è il terremoto, brava gente quando c'è il Kosovo, quando c'è un grande fatto emotivo non c'è nessuno generoso come gli italiani. Ma negli altri paesi dove questa rivoluzione culturale è avvenuta, queste persone sono sempre lì, sono sempre presenti a creare scuole, a sostenere ospedali, a sostenere orchestre, a sostenere centri per handicappati non solo quando ci sono catastrofi. E la presenza della società civile con azioni di denaro o di volontariato gratuito - che non è solo di chi lavora, ma anche di chi comanda, di chi porta del pensiero, di chi sacrifica parte dell'attività professionale per dare contributi di pensiero, di esperienza, di strategia, di organizzazione - è molto più avanti. Ecco, dunque, noi siamo molto indietro e bisogna farlo capire al settore no profit. Alcune delle loro associazioni, come tutte le associazioni di questo mondo, sono soffocanti e danno una rappresentazione miserabile di cosa il no profit è realmente in un'economia moderna e cosa deve essere. Devono imparare a comunicare. Ieri ho ricevuto il bilancio di una delle più importanti Ong italiane. È difficile immaginare un documento più grigio, più illeggibile, più scostante di quello. Saranno anche bravi, ma bisogna comunicare e per comunicare dati oggi ci sono degli stili, delle tecniche, delle metodologie che vanno adottate. Non è che perché sei una Ong devi fare una roba schifosa. Devi comunque presentare qualche cosa di gradevole per chi la prende in mano, la legge, senza essere un pazzo come me che l'ha letta lo stesso.
Dibattito e repliche*
Vinicio Albanesi
Ora vi chiedo un passaggio magari più breve e più secco.
A Roidi chiedo: è possibile un'informazione sociale così definita? Perché qualcuno negli anni precedenti ci ha detto: è una sciocchezza.
Al presidente della provincia chiedo: è possibile che la funzione sociale, per definizione, che è l'istituzione, possa aiutare questa vivibilità, questa connessione anche attraverso un'informazione sociale?
E al professor Vitale chiedo: visto che occorre una rivoluzione culturale del terzo settore, ci vuole dire, in 3 o in 5 punti, i capisaldi di questa rivoluzione?
Vittorio Roidi
Non so chi negli anni scorsi vi abbia detto che un'informazione sociale non è possibile, però posso capire, se erano giornalisti veri, può darsi che fossero degli splendidi giornalisti. Per me lo splendido giornalista è quello che riesce ad avvicinarsi alla verità, che poi sia direttore o no non me ne importa nulla.
Dicevo, posso capire il ragionamento che quei giornalisti hanno fatto, perché c'è una parte di questo ragionamento che faccio anch'io.
Che cosa fa il giornalista? Che cosa deve fare il giornalista? Anche prima ho sentito alcuni amici che parlavano sulla base delle discussioni che avete fatto nelle ore precedenti e dicevano il giornalista dovrebbe. Il giornalista deve. Il giornalista deve pensare a quali saranno le conseguenze di quello che scrive. Io vi dico no, mi dispiace, ma questa non è un'impostazione corretta. Il giornalista può essere islamico, musulmano, cattolico, ortodosso, quello che volete voi. Se è un buon giornalista non si preoccupa delle conseguenze di quello che pubblica. Se è un buon giornalista quale che sia il suo grado, se è libero nel senso che non è dipendente, o se è dipendente ma sa fare bene il suo mestiere, usando gli spazi di libertà che riesce a conquistarsi, riesce a dare un'informazione il più possibile vicina alla verità.
Non c'è peggiore giornalista di quello che non pubblica, di quello che sa che la notizia è vera e la mette nel cassetto. Però io sono convinto che si possa diventare giornalisti migliori. Mano a mano che il giornalista è migliore, perché è migliore la sua preparazione, perché è migliore la sua cultura, perché è migliore la sua coscienza.ce la metto la coscienza, mica che non ce la metto.
Però questa crescita del giornalista è e deve essere basata su qualche cosa, deve essere basata su una formazione, deve aver avuto, scusate se lo dico, dei buoni maestri. Mano a mano che in questo paese - che non è il peggiore dei paesi - i giornalisti italiani cresceranno, saranno migliori come preparazione, come bagaglio culturale, come sensibilità, anche come coscienza, allora potranno diventare più sociali.
Vinicio Albanesi
Presidente Colonnella, quale rapporto rispetto alla costruzione di una convivenza civile tra istituzioni, informazioni e convivenza civile?
Pietro Colonnella
Mi sembra che questo primo giro abbia evidenziato la centralità delle politiche sociali. Politiche sociali non come un settore a latere, ma come qualcosa di centrale anche nelle stesse politiche di sviluppo economico. E questa a me sembra un'asserzione fondamentale che ci parla anche di questo nostro paese che è in difficoltà, che sta perdendo colpi come dice Ciampi, sta perdendo competitività a livello internazionale, il caso Fiat, ma non solo il caso Fiat. La produzione industriale che è caduta del 7-8% in un anno. Come possiamo pensare a questo paese? Come vincere le nuove sfide che abbiamo? Io penso che dobbiamo rilanciare i valori di fondo che venivano detti anche negli altri interventi. La solidarietà, la coesione, la concertazione, la condivisione. Questa è una grande risorsa che l'Italia può mettere in campo. Senza questo c'è la divisione, c'è la rottura, c'è un'informazione come propaganda, c'è un'informazione che mentre crolla la Fiat, crolla l'industria, parla di presidenzialismo nel giro di 6 mesi, parla di falsi problemi e di falsi obiettivi. Quando penso a una concertazione non penso solo a mettere insieme il sindacato, gli imprenditori, le associazioni di categoria - che sono pure tanta parte di questo nostro paese - ma parlo anche delle 220 mila, che potrebbero anche essere di più, di questo grande patrimonio di civiltà, di cultura, che ha il centro del nostro paese. Da qui dobbiamo ripartire e l'informazione in questo senso, che non è propaganda, può essere una grande risorsa dei territori, risorsa del nostro paese, un'informazione che rende protagonisti, che fa scattare anche una passione civile prima che politica. Io penso che solo in questo modo possiamo rilanciare questo nostro paese, questa nostra Italia. Penso che ci siano tutte le possibilità e anche i tanti giovani che vedo qui presenti - ma che sono oggi sfiduciati, ai margini - possono essere protagonisti di questa nuova stagione che possiamo costruire. Sono fiducioso in questo senso e penso che anche Redattore Sociale possa dare un contributo a questa speranza da costruire insieme.
Marco Vitale
Sarò brevissimo questa volta perché sono stato molto prolisso nel primo intervento. Questo giova per la conclusione, perché che le cose che dirò derivano da quello che ho già detto. Al primo punto metto una rinnovata, più consapevole, più realistica consapevolezza del proprio ruolo da parte del no profit. Secondo punto una battaglia politica che abbiamo iniziato a Milano 2 giorni fa. Noi siamo il paese che praticamente non ammette detrazione fiscale per le donazioni delle persone fisiche a enti no profit, sociali, o culturali, o di ogni genere. In Inghilterra la detrazione è al 100% con alcuni limiti, ma il concetto è la detrazione. Stessa cosa in America così come in altri pesi. Noi siamo indietro, perché? Per due motivi. Il primo è ideologico, legato a quella scelta costituzionale che dicevo prima. Lo stato statalista che vuol fare tutto lui dice: ma non rompermi le scatole con la detrazione, ci penso io, che cosa vuoi? Tu dai i soldi a me con le tasse e poi penso io a far le cose. È una scelta precisa. Io sono un grande amico di Visco, siamo stati assistenti universitari tanti anni fa e so bene come ragiona. Andare a chiedere la detrazione a Visco è andargli a chiedere una cosa contro natura. Perché per lui era una sofferenza sovrumana pensare che si potesse rompere questo schema sovietico. Ci pensa lo stato. Finito. Ora che questo schema sovietico non c'è più è il momento di fare una battaglia che sembra coerente anche con l'impostazione, o certe impostazioni, di questa maggioranza. Subentra il timore di perdere troppo gettito. Qui bisogna fargli capire che è un errore tecnico, perché il gettito non è in aggiunta alla spesa pubblica, il gettito è sostitutivo della spesa pubblica, perché se non c'è il centro che aiuta i disabili, cosa facciamo? Li lasciamo per la strada? Qualcuno dovrà farlo. Chi lo fa? Ogni volta che ho fatto i confronti con quello che abbiamo fatto noi, in Kosovo, e quello che ha fatto la protezione civile, ho sempre notato che la protezione civile costava il 50% in più ogni cosa, sempre. Allora con la detrazione fiscale e affidando al volontariato dei compiti ai quali altrimenti lo stato dovrebbe comunque assolvere e che - di fatto - non deve fare, lo stato ci guadagna in termini di gettito. Smettiamo di andare là col cappello in mano a chiedere l'elemosina, andiamo a fargli questo discorso, confrontiamoci su questo.
Terzo punto: la trasparenza assoluta. Oggi nel mondo la trasparenza è fondamentale. Vi racconto una storia bellissima, per dire le contraddizioni di questo mondo. Il Senato della Repubblica, da parte di senatori che rappresentano tutto lo schieramento politico trasversale, ha presentato un progetto di legge basato su questi concetti. Negli ultimi anni sono via via cresciuti gli esempi di creazione di organismi di tipo associativo, tra i quali si sono distinte in particolare le organizzazioni operanti nel campo della solidarietà, della promozione e dell'integrazione sociale dei portatori di handicap, del volontariato.
Questo fiorire di iniziative ha tuttavia generato un fenomeno di superfetazione di associazioni di varia natura, di scarsa o nessuna esponenzialità che, anziché portare giovamento alle cause delle categorie di riferimento, generano confusione nel rappresentare le istanze. Tutta questa superfetazione deve andare a casa. Ci sono solo questi enti: associazione nazionale mutilati e invalidi civili, associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, ente nazionale sordomuti, unione italiana ciechi e unione nazionale mutilati per servizio. A questi bisogna dare l'8 per mille e tutti gli altri a casa. Senato della repubblica, anno 2002! Attenzione. Perché questi enti? Perché sono enti morali. Con la morale ragazzi non si scherza! Allora io telefono e dico. Anzi prima guardo su internet e vedo sul loro sito se c'è un bilancio. Non c'è un bilancio. Questi enti morali il loro bilancio non lo pubblicano, anche se c'è una legge che obbliga alla trasparenza. Non c'è il bilancio! Io ho mandato un ragazzo a chiederglielo, il bilancio. Gli hanno detto: ma lei è pazzo! Non gli daremo mai il bilancio. Su cinque enti siamo riusciti ad averne uno... questa cosa mi era successa nel 78 con la Federconsorzi né più né meno due anni prima che fallisse. Allora quando questi enti morali non ti danno i bilanci, vuol dire che sono associazioni pericolose. Questa è la premessa anche per suscitare maggiori donazioni da parte dei privati.
Quarto e ultimo punto: ci vuole il coinvolgimento. Questa è la grande tendenza oggi nel mondo. Se andiamo a vedere in America, vediamo che ha avuto negli anni 90 un boom delle donazioni incredibile e ha un trend di crescita spaventoso. Erano 110 miliardi di dollari nel 90 da privati, sono diventati 164 miliardi di dollari nel 2001. Una crescita del 50%. Però il nuovo patto tra i donatori e chi riceve è basato non più solo sulla trasparenza, ma sul coinvolgimento. Chi dona vuol sapere a cosa serve, vuol vedere i risultati, vuole essere presente. Questo è il nuovo schema della donation nel mondo. Quella di essere presenti. E credo che sia un concetto molto utile.
Questi sono i privati: consapevolezza, battaglia politica, trasparenza, coinvolgimento. Il coinvolgimento è fondamentale per non dipendere sempre e solo dallo stato, perché poi se dipendi sempre e solo dallo stato giochi le partite che ti danno le burocrazie statali. C'è poco da fare. E allora cerchiamo di rendere questi enti più - non per snobbare lo stato, per l'amor di Dio, è sempre fondamentale, gli accordi con lo stato, i servizi che con lo stato si fanno importantissimi - però cerchiamo di renderli più ricchi, più solidi, più flessibili, più autonomi. Dobbiamo guardare avanti. Chiudo con un'immagine.
Questo è Bush accanto a due generali che guarda con un grande binocolo, guarda le grandi manovre, guarda avanti, guarda verso l'Iraq. non si sa dove guarda. A noi piacciono i capi che guardano lontano col binocolo anzi, bisogna essere capi che guardano lontano col binocolo. Peccato che il binocolo è tappato! Allora vogliamo i capi che guardano lontano ma col binocolo aperto!
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.