Dibattito con Angelo Agostini, Antonio Ramenghi, Roberto Morrione. Coordina Vinicio Albanesi
Angelo AGOSTINI
Giornalista, è docente e coordinatore del Master in giornalismo Università Iulm di Milano, dove ha coordinato il progetto multimediale Terre Liberate (www.terreliberate.it).
ultimo aggiornamento 28 aprile 2011
Antonio RAMENGHI
Vice direttore de L'Espresso.
Roberto MORRIONE
Giornalista, ha lavorato per 44 in Rai con ruoli di responsabilità in diverse testate. Dal ‘99 al 2006 ha diretto Rai News 24.
ultimo aggiornamento 01 dicembre 2006
Vinicio ALBANESI
Sacerdote, presidente della Comunità di Capodarco e di Redattore sociale. Dal 1988 ha ricoperto la carica di presidente del tribunale ecclesiastico delle Marche per 15 anni ed è stato direttore della Caritas diocesana di Fermo per altri dieci. Dal 1990 al 2002 è stato presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca).
Vinicio Albanesi*
Stamattina abbiamo tre persone che rappresentano, ciascuno per la sua parte, uno scenario abbastanza significativo del mondo della comunicazione.
Antonio Ramenghi, vicedirettore dell'Espresso, testata storica. Lavora a questo settimanale con responsabilità. Roberto Morrione, direttore di Rai News 24. Lo conoscete, lo vedete in chiaro, in satellitare. È un uomo che ha un lungo curriculum e una lunga onestà intellettuale. Mi diceva di essere direttore di 90-100 giornalisti, poi lo dirà lui più precisamente. Trasmette 24 ore su 24 ed ha una serie di prospettive davanti. Angelo Agostini è un docente, un teorico all'università di Bologna. È direttore della rivista "Problemi della comunicazione" del Mulino, quindi roba seria, roba tosta. Sono 3 persone che hanno punti di vista diversi, ma sono immersi totalmente nella comunicazione. Poco fa, quando ci siamo visti, ho proposto loro 3 questioni. La prima questione: la comunicazione è sempre più a traino, è sempre più merce, o non lo è? Questa è la prima, grande questione. Se è davvero merce voi capite bene che i mondi che rappresentiamo non sono appetibili, perché sono mondi a volte di dolore, a volte di contraddizioni, comunque non sono cieli tersi, ma sono come il mare di questi giorni, abbastanza minacciosi. Quindi, ci chiediamo, la comunicazione è una merce? Sempre più merce? Seconda questione: c'è possibilità di comunicare quello che chiamiamo sociale? Quali sono i nostri limiti interni ed esterni? Voglio dire, i limiti di chi produce notizie e chi le recepisce. Terzo grande problema: il sociale ha una prospettiva? È in qualche modo intuibile? È allargabile? Oppure, tendenzialmente, non avrà spazio? Invece di dividere le tre domande abbiamo così concordato di porle tutte e tre a ciascuno di loro. Io inizierei da Angelo Agostini, perché può darci le prime reazioni da studioso.
Angelo Agostini*
Mutamenti in corso
Ho cominciato a fare il giornalista - perché faccio pure il giornalista oltre ad essere teorico - 21 anni fa. La prima inchiesta che ho fatto è stata quella su una comunità di recupero per tossicodipendenti a Gradara. Però 21 anni fa - Antonio Ramenghi e Roberto Morrione lo ricordano perfettamente - queste erano cose assolutamente eccezionali. Oggi che cos'hai? Hai da 20 anni il coordinamento delle comunità di accoglienza, hai Redattore Sociale, a Torino quelli del gruppo Abele hanno il loro lavoro sulla droga e sulle mafie, ci sono comunità in giro per tutta l'Italia, quotidiani locali, anche piccoli, che hanno le pagine dedicate al sociale, all'handicap, ecc. Io non sto dicendo che vada tutto bene, sto dicendo semplicemente che il mondo, il nostro mondo giornalistico, negli ultimi 20 anni a me sembra radicalmente mutato. Certo che se mettiamo gli occhi soltanto su Bruno Vespa e sui palinsesti di Rai e Mediaste il panorama ci appare diverso. Ma non è possibile non rendersi conto che la società italiana è radicalmente mutata negli ultimi 20 anni, che ci sono presenze e soggetti sociali che sono stati capaci di sviluppare loro strumenti di comunicazione interna ed esterna. Certo, ci si arrabbia e ci si lamenta perché il lavoro di Capodarco, di Redattore Sociale, non sfonda sui mediamenstream. Se si prendono i grandi quotidiani, i temi del sociale ci sono, ma stanno in quell'ultima pagina prima dell'economia. poi, il giorno dopo, al posto del sociale c'è la nuova dieta dimagrante. Certo che è così! Ma il lavoro che voi fate qui a Capodarco con Redattore Sociale quante persone raggiunge? Il lavoro che ha fatto Indymedia su tutti i movimenti negli ultimi 2 anni, quanta gente raggiunge? A Bologna il mio amico Stefano Bonaga è stato preso in giro, nella primavera di quest'anno, perché s'è inventato una robina piccola, piccola, piccola, che si chiama "Orfeo TV". È una televisione di quartiere. Non è una televisione di quartiere, è una televisione che riesce a trasmettere il suo segnale nei buchi dei segnali delle grandi emittenti nel raggio di un quartiere. E tutti a prenderlo in giro e dire che cavolo stai facendo? Chi se ne frega di una televisione di quartiere? Bhe', si dà il caso che a Termini Merese abbiano fatto esattamente la stessa identica cosa, che nella fabbrica abbiano fatto una televisione, che raggiunge la fabbrica, raggiunge il quartiere intorno alla fabbrica, ma si da il caso che gli stessi materiali possano con la rete andare a Venezia, a Milano, a Torino. ovunque ci sia qualcun altro che li può ritrasmettere. Non è esattamente nello stesso identico modo che 25 anni fa sono partite le radio? Non è esattamente nello stesso identico modo che sono nate tutte le esperienze non d'informazione alternativa? A differenza dei mediamenstram, in questo tipo d'informazione giornalistica c'è comunicazione, perché c'è interazione fra le persone. La cosa che voglio aggiungere è che io, sinceramente, incomincio ad averne piene le tasche del lamento nei confronti dei grandi media, del lamento nei confronti della caricatura del sociale. Quello che vedo è esattamente questo: la moltiplicazione di strumenti d'informazione, di comunicazione da parte dei soggetti sociali. Il problema qual è? Il problema non è tanto trovare una pagina buona d'informazione sul sociale su Repubblica, ma porca miseria, il problema è politico nel senso che questa moltiplicazione di forme di comunicazione, questa moltiplicazione di forme di presenza sociale non trova rappresentanza politica. 20 anni fa non potevi girare l'Italia appoggiandoti a comunità, a reti, ad associazioni di persone che si occupassero del sociale. Oggi lo puoi fare. Ma dov'è la rappresentanza politica di tutto questo? Qual è il peso politico di tutto questo? Perché il lavoro che tu fai, don Vinicio, non è un tema del dibattito politico oggi in Italia? Questo è il punto. E io temo che su questo i giornali c'entrino poco, perché del tuo lavoro e del lavoro di tutte le comunità si sa, lo si conosce, non è ignoto, ma perché non ha rappresentanza politica? Questo a mio avviso è il punto.
Antonio Ramenghi*
La ricchezza della "socialità"
E' nel guardare al punto di caduta massima nella storia del secolo appena concluso. Bene, i punti di caduta sono risultati due. Uno si è avuto nel 1930, dopo la crisi del 29, la caduta di Wall Street e la grande crisi, la grande gelata dell'economia americana e il punto più basso è arrivato nel 2001 con previsione, lui diceva, di un'ulteriore caduta. Che vuol dire? Che al di là dell'11 settembre, della crisi economica la società americana si sta impoverendo di quello che lui dice essere il capitale fondamentale di una società: la socialità, il vivere insieme, lo scambiarsi, l'incontrarsi. Paradossalmente l'ultimo decennio è quello in cui la capacità d'informazione americana e italiana è stata massima. Televisioni, radio, giornali, internet, telefonini con i quali parli, ti mandi le foto. Il massimo della capacità di comunicazione coincide col minimo di vita sociale. Allora c'è qualcosa sotto a questo meccanismo. Come mai la nostra società degli anni 70 era socialmente più viva, più ricca di patrimonio sociale, di quanto non lo sia oggi? Più capace d'interagire, di parlarsi, di comunicare, di conoscersi, di aiutarsi a risolvere i problemi. Il meccanismo dell'informazione, così come lo stiamo concependo e praticando noi operatori, come lo stanno intendendo gli utenti, è un meccanismo che favorisce l'isolamento, porta al bowling alone. Bob Putnam fa il titolo e dice: "quando io ero ragazzo andavamo a giocare a bowling in compagnia, adesso l'americano - quando ci va - ci va da solo a giocare a bowling ed è il massimo della tristezza. C'è chi va a giocare a bowling da solo. E' il massimo della tristezza". Perché ho citato questa cosa? Mi chiedevo, ma è possibile che nel momento massimo di capacità di comunicazione siamo al minimo di vita sociale? Perché stiamo gestendo questi strumenti in modo a mio avviso sbagliato, o comunque non capace di creare, di alimentare, di mettere a reddito il capitale sociale della nostra società, che, rispetto a quella americana, non è ancora allevata a quei livelli. Lui in Santa Lucia, l'aula magna dell'università di Bologna, fece un test: c'erano 2000 persone e ha chiesto: "quanti di voi nell'ultimo mese hanno partecipato a una riunione di una qualsiasi associazione?". L'intera sala ha alzato la mano.
Riscoprire il concetto di fratellanza
Perché lo dico qui dove ha sede Redattore Sociale? Perché sempre di più chi, come voi, agisce e opera secondo una visione che tenga conto della ricchezza principale - che è questa della socialità - diventa depositario e detentore del capitale sociale della nostra società. Voi come siete. Una banca del capitale, anzi di più. Siete l'investimento redditizio del capitale sociale di questo nostro paese. Credo che ci sia bisogno di fare un salto di qualità, diciamo anche un salto di aggressività maggiore. Le tensioni sono divaricanti: voi che, da una parte, praticate e andate in una direzione e il sistema dei grandi media governato da altre logiche che va da un'altra. Proprio perché l'informazione è diventata una merce, che segue logiche che non sono più quelle di una volta, ma sono molto tirate sul mercato, la nostra società ha bisogno di chi tiene conto di un altro tipo di capitale, di un altro tipo di merce. Probabilmente bisogna uscire, tentare di varcare la soglia che ci tiene legati, limitati dal fatto che noi ci occupiamo degli emarginati. No! Noi ci occupiamo della società. Chi fa l'informazione sociale oggi deve credere che bisogna spezzare il ghetto in cui, in qualche modo, si trova. Il vero problema della nostra società oggi non è l'handicap. Non sei tu un handicappato, sai chi sono gli handicappati? Sono i figli che tornano a casa e non cenano. Putnam documentava un'indagine. Quante volte cenate in famiglia? Stati Uniti: una volta alla settimana se va bene. Non si parlano neanche più in famiglia, non si vedono più. Il meccanismo è tale per cui hanno il telefonino, internet e padri e figli non riescono a parlare. E non dico che non riescono ad andare alle riunioni dell'associazione di volontariato, no, la cosa è peggiore, non parlano più né padri, né figli. Allora comunicazione sociale oggi è un ruolo decisivo, perché i disabili sono quelli che non hanno dialogo, che non hanno confronto, che sono soli. Diceva Putman, poi in tutta questa solitudine arrivano a casa, si mettono davanti alla televisione e qual è il programma che è più in voga in questo momento? Friends, Amici. Perché non ce li hanno, li guardano alla televisione. La nostra società è arrivata a perdere il concetto di fratellanza. E' un concetto difficile da capire: i ragazzini che non hanno fratelli non sanno cos'è la fratellanza. Gli si dice: ti devi comportare come un fratello. Ma tre quarti dei ragazzini di oggi non sanno che cos'è la fratellanza, non lo sanno! L'amicizia gli americani la vanno a scoprire su un programma televisivo. Allora c'è uno spazio enorme, e proprio per questo deve crescere l'aggressività nei confronti dei grandi media. Io non sono molto d'accordo con Angelo che dice: "queste realtà ci sono e tutti sanno". Non è vero, purtroppo non è vero. Allora ci vuole un'aggressività più forte. Sentendo ciò che è stato detto ieri dico che è necessario organizzare il dissenso nei confronti di certi meccanismi che stanno prendendo piede nella carta stampata, nella televisione. Non arrivo a dire di fare gli scioperi contro il "porta a porta", ma credo che sia necessario organizzare il dissenso, far capire, aiutare a comprendere che c'è un'altra via per informarsi davvero, per comunicare davvero. Il discorso della pubblicità che ho sentito fare ieri, in merito ad alcuni attacchi alla freepress, mi ha sollecitato un riflessione: la pubblicità è buona ed è cattiva. La pubblicità è buona perché fa si che si riesca a vivere, a far vivere gli strumenti d'informazione, compresa la grande stampa. E' cattiva quando supera il proprio ambito e pretende di determinare il contenuto. Io ho cominciato a lavorare ad Autosprint, pensate voi. Non sapevo neanche dov'era lo spinterogeno, però me la sono cavata. Poi ho fatto per 15 anni il capo a Bologna per Repubblica, il capo a Milano, il capo dell'Economia. Ho fatto 3000 mestieri, ho battuto tutti i marciapiedi. La pubblicità è buona o cattiva. Il fenomeno va ostacolato, va frenato e va spiegato che quando la pubblicità pretende di determinare il contenuto, andando oltre il fatto di apparire a fianco ad un contenuto, le cose non vanno. Questo è quello che sta succedendo nella televisione. Una volta in televisione i grandi utenti andavano e dicevano: voglio stare a quell'ora lì. Poi a quell'ora lì vorrei stare in quel programma lì. Adesso io ti do la pubblicità se tu a quell'ora mi fai quel programma di un certo tipo. il palinsesto ormai dei programmi televisivi viene determinato dalla committenza pubblicitaria. Morrione lo sa. Questo meccanismo che sulla televisione è arrivato un po' prima, sta arrivando nella carta stampata, sta arrivando nei giornali quotidiani, nei settimanali, nei mensili, in molti mensili è già arrivato. Lì è più facile, perché c'è più tempo, c'è meno possibilità del giornalista...
Roberto Morrione*
Allargare lo sguardo al mondo
Voglio riprendere un attimo una delle divertenti provocazioni di don Vinicio dicendo che io sono diventato direttore senza ammazzare nessuno, ma dopo almeno una decina di tentativi di omicidio nei miei confronti.. questo è un veloce pensiero che mi ha attraversato mentre. A me interessa molto venire ai seminari di Capodarco, non è il primo che faccio su Redattore Sociale. Più invecchio e più, in qualche modo, mi vengono chieste delle risposte. Io, in realtà, ogni volta colgo delle occasioni per arricchire la mia conoscenza e anche per fare a mia volta delle domande che poi si trasferiscono. E' un circuito che ritengo molto positivo anche su un piano personale. Detto questo, sentendo anche i dibattiti e partecipando a un lavoro di gruppo ieri mattina, mi è venuto in mente che una possibile risposta alla domanda che Vinicio poneva, quella cioè di come far si che l'informazione sociale diventi un protagonista o, comunque, esca da un ghetto, mi è venuto in mente che la risposta potrebbe essere nella necessità di allargare lo sguardo, allargarlo al mondo. Tutti noi che viviamo, che siamo qua dentro, in qualche modo abbiamo scelto di vivere il nostro tempo e di farlo ciascuno con la propria identità, il proprio know-how, la propria esperienza. Allora bisogna cercare di capire bene che cosa ci porta il nostro tempo e quello che abbiamo davanti, e con che cosa ci dobbiamo confrontare, perché altrimenti ognuno rimanere chiuso nella propria esperienza, non porta a dei risultati. Guardando a ciò che abbiamo di fronte - ve lo dico con grandissima preoccupazione - io ritengo che le cose andranno peggio di come stanno andando. Abbiamo una guerra alle porte, scusate lo schematismo di questi titoli, ma insomma noi viviamo in buona parte di questo mestiere, quindi capiamo quello che c'è dietro il titolo. C'è una guerra alle porte, che potrebbe essere devastante, con risvolti che non riusciamo in questo momento a immaginare. Dagli Stati Uniti è arrivato un esperto, non mi ricordo il nome, di quelli dello staff segreto del presidente americano e in un gruppo molto ristretto, di cui non facevo parte, gli è stato chiesto: ma se si arriva a un conflitto lei può dirci che viene escluso l'uso di ordigni nucleari? E lui tranquillamente ha risposto: no, non lo escludo affatto. Questa è la dimensione della guerra, un po' estremizzata ma per capirci. Poi ci sono i nuovi assetti del mondo. Queste guerre mica nascono per caso! C'è un confronto in atto che sta capovolgendo tutto. Pensate solo ad un anno fa, due anni fa, prima dell'11 settembre, quale poteva essere il rapporto, che ne so, Stati Uniti-Cina, Russia-Europa. Guardate quello che è adesso e vedete tutto capovolto. Ci sono risorse, equilibri che cambiano. Noi facemmo uno speciale, subito dopo l'11 settembre, a Rai News 24, uno speciale su web che era "Le vie del petrolio", dove veniva già colto. Ci fu uno sforzo di analisi in quei giorni niente affatto trascurabile e comunque del tutto insolito nella recente storia dell'informazione. Poi c'è l'Europa. Che cosa gioca l'Europa in questo confronto? Perché tutto ciò che avverrà in Italia sarà in parte condizionato da ciò che avverrà in Europa e da come l'Europa, in questo nuovo equilibrio, potrà essere protagonista oppure no. Qualcuno può dire: ma questo cosa c'entra con l'informazione sociale? C'entra, eccome se c'entra! Perché questi nuovi assetti, le nuove guerre, i nuovi equilibri porteranno, ad esempio, molti popoli verso l'Italia, verso la nostra società, verso la nostra vita.
"Contaminazioni"
Poi ci sono i problemi dell'Italia. È uscito adesso il rapporto del Censis, che è un rapporto di grandissima preoccupazione. E Ciampi - che forse non sarà quel capo di stato che molti di noi vorrebbero più attivo, più dinamico, più presente, ma che comunque è un uomo colto, intelligente, che ha vissuto le vicende dell'economia mondiale negli ultimi decenni - sa quello che dice quando sostiene: l'Italia rischia il declino. Questo è il quadro. Noi abbiamo, insieme, le tecnologie della società della comunicazione, i grandi motori che determinano poi i pesi con cui i protagonisti di questa scena mondiale potranno influire sul futuro. Il mondo della comunicazione consente un allargamento dello sguardo sul mondo straordinario. Rai News 24, ad esempio è stata - dopo quasi 40 anni di mie esperienze professionali, passate in tutte le testate televisive della Rai - una cavalcata molto complessa, ma è stata un'esperienza illuminante sotto questo profilo. Mentre l'Italia dorme, nel mondo accadono un sacco di cose e, seguendo il filo dei fusi orari, c'è la possibilità di aprire questo sguardo sul mondo e d'inserire i nostri problemi culturali, sociali, civili, professionali nel contesto di cui ho dato prima alcuni schematici titoli. In questa contraddizione tra tecnologie della comunicazione - sempre più in grado di far capire quali sono i problemi reali - e la ristrettezza, l'angustia che vive l'informazione nelle sue forme almeno tradizionali, sia audiovisive e sia di carta stampata, si pone il problema dell'informazione sociale. In che modo riuscire a cogliere questo fenomeno mondiale di un dinamismo pazzesco e anche estremamente pericoloso e come cercare di cogliere le proprie problematiche, attraverso le tecnologie dell'informazione, cercando di arrivare a quei punti che sono il motore del mondo e della realtà? Questo secondo me è questa la vera questione. Non è che a tal proposito io abbia delle risposte, però è chiaro che questo è il punto. Ieri, nel dibattito, ci sono stati alcuni spunti interessanti. Mi riferisco in particolare al secondo e a quello di Pasquinelli che tra l'altro è un ottimo tecnico dell'informatica. Ha parlato di "dominio pubblico" e l'ha in qualche modo contrapposto al concetto di servizio pubblico. In qualche misura lì c'è già un po' di risposta. È vero che c'è il commerciale che sta debordando, lo diceva anche Ramenghi a livelli maggiori, ma non è un fenomeno di oggi. La pubblicità è un segno di grande sviluppo di alcuni valori, ma per alcuni possono diventare dei disvalori che stanno segnando il nostro secolo, il secolo post fordismo, post rivoluzione industriale. La pubblicità è soltanto un segnale di alcuni grandi interessi forti che stanno condizionando, evidentemente, l'informazione. Diceva Pasquinelli, ma lo dicevano anche Jason Nardi e Gubitosa, dominio pubblico come elemento che consenta al sociale di auto organizzarsi, di riflettere. Io aggiungo di guardare al mondo e a ciò che sta accadendo, di coglierne i risvolti sui nostri problemi sociali, civili, economici. Ma perché contrapporlo al servizio pubblico? Il servizio pubblico si integra con il dominio pubblico. Io personalmente voglio essere contaminato. Qualcuno diceva: forse ci sarà una possibilità di contaminazione. Deve avvenire la contaminazione. A Rai News 24 cerchiamo di contaminarci, per quello che possiamo e per dove possiamo arrivare sistematicamente. Allora, mentre le tecnologie portano dall'audiovisivo, all'informatica, alla rivoluzione vera di internet, le piattaforme che consentono una pluralità di servizi e tutte le altre innovazioni di processo, come vengono chiamate dai tecnici, sotto questo profilo sono perfettamente integrabili. Il problema è anche di carattere politico, come giustamente si diceva in maniera un po' provocatoria, ma questa è solo una parte del problema... ma è una parte corretta, diceva Angelo Agostini. Bisogna che la nuova identità si costituisca e la contaminazione avvenga. Questo l'ho trovato un concetto molto interessante.
Allargare gli orizzonti
Come arriva l'informazione dal lato professionale a questo tipo di appuntamento? Ci arriva male. Cito un pensiero del sociologo francese Alain Accardo, il quale ha scritto una definizione lapidaria, ma straordinariamente lucida del giornalismo e dei giornalisti. Dice Alain Accardo: "I giornalisti, nell'insieme, non si preoccupano in modo machiavellico di manipolare il pubblico per il maggior profitto degli azionisti delle loro aziende. Se agiscono come condizionatori del pubblico a cui si rivolgono, non è tanto perché hanno una dichiarata volontà di condizionarlo, quanto perché essi stessi sono condizionati. E lo sono a un livello tale che la loro stragrande maggioranza non arriva nemmeno a sospettarlo. È sufficiente che nelle redazioni le redini del potere giornalistico siano affidati a uomini o donne accreditati generalmente come grandi professionisti. Il che vuol dire, in particolare, che essi hanno dato e continueranno a dare prova della loro adesione a una certa visione del mondo, della quale condividono esplicitamente o implicitamente, con i loro datori di lavoro, i dogmi fondamentali". Questa è la situazione di sintesi dei problemi che hanno i giornalisti. Concludo. Io credo che questa lucida definizione del sociologo francese sia una sfida che ci impone di spostare lo sguardo verso il mondo, cercando di capire che tutti i problemi del ponte di Calatrava sono i problemi che hanno tutti, tutto il mondo e che oggi non sarà più possibile sfuggire a questi problemi. La comunicazione è di per sé un potenziale e straordinario ponte per capire come proiettare i propri singoli problemi, quelli di gruppo, quello di condizione, di settori, verso l'esterno. Ieri si è accennato anche alla velocità. Ci sono state due correnti di pensiero. Una diceva: "che ci frega della velocità se dobbiamo informare?". Un'altra diceva: "no, la velocità ha la sua importanza". Io sono più per questo secondo pensiero. In questo mondo così globalizzato, così informato potenzialmente, dare informazioni in tempo reale o non darle, fa la differenza. Vi faccio qualche velocissimo esempio. Uno è quello delle Twin Towers. Non fu secondario dare nel mondo, in diretta, quello che accadeva. Potrei parlarvi a lungo di questo problema, sarà per un'altra volta.. quando quel piccolo aereo finì contro il Pirellone a Milano, a Rai News 24 avemmo un po' la fortuna di trovare una webcam milanese in un sito che era piazzata sul Pirellone, anche se da lontano. si vedeva questo grattacielo con il filo di fumo che usciva. Bhe', per 10 minuti su Rai News 24 - fu una bella soddisfazione confesso - noi monitoriamo sistematicamente Cnn, Al Jazeera e un sacco d'altri network mondiali. Bhe', su tutti i network di tutto il mondo da Al Jazeera a Cnn, alla Rai, a Mediaset, andò Rai News 24 con il suo logo e sullo sfondo c'era un piccolo aereo infilato nel grattacielo del Pirellone. In quel momento tutti avevano pensato alle Twin Towers. Poi, per fortuna, si è rivelata un'altra cosa. Allora la velocità è importante, però è importante se uno mantiene quel filo critico di conoscenza, di memoria, di capacità di dare alla gente, ai lettori, ai navigatori, agli ascoltatori, degli strumenti per vedere la realtà nella sua immensa complessità e cercare di rapportarla alla propria condizione di vita, alla propria condizione di lavoro, per avere una possibile chiave d'interpretazione. Questi sono i due elementi, io credo che i contenuti e le innovazioni tecnologiche insieme possano aiutare anche l'informazione sociale.
Dibattito e repliche*
Vinicio Albanesi
Rilancio qualche problema di quelli che abbiamo un po' trattato perché alcune domande mi si pongono anche più intense. Voi avete parlato della questione politica, della questione economica, della questione educativa, di una questione tecnologica. E poi si è detto: organizzate il dissenso, in modo tale che noi vi possiamo riprendere. Oppure potete fare dei canali informativi alternativi. Tutto questo innescato in una questione politica, che significa accettazione o rifiuto dei fenomeni o problematici, o comunque sociali. E con una questione economica che tende a mercificare e quindi a respingere problemi invece per dare sogni. Ed ancora con una questione tecnologica che poi è di alto investimento... Prima del dibattito io vi rilancio la palla per chiare non tanto le questioni, ma le connessioni. Un primo passaggio che qui è stato sottolineato, è quello di dire: uscite dal ghetto. Ed è vero, perché un ponte che fa transitare tutti è meglio del messaggio che transitasi sulle 4 ruote. Però abbiamo anche i nostri problemi. Se voi vedete la raccolta di fondi sulle malattie. Bhè si sono talmente moltiplicate che io, che sono del settore, ogni tanto mi trovo davanti una malattia strana che non conosco e sulla quale bisogna fare la raccolta fondi. Vendono le arance, gli alberelli. Di tutto e di più. Vendono Emergency. Gino Strada è certamente un grande comunicatore però, probabilmente, gli Afgani sono sempre più sull'orizzonte e tra poco scompariranno, perché a forza di focalizzare sul portatore di messaggio, poi l'obiettivo diventa il portatore di messaggio e non è più l'afgano che si va a tutelare. Allora io vi chiedo di unire queste connessioni, perché è evidente che c'è una questione politica.Ma se tu sei dissenziente, facendo parte di uno schema privato, ti bruciano e ti fanno morire di lenta asfissia. Perché alcuni gruppi stanno morendo in Italia, alcune comunità, perché? Perché se sei sufficientemente forte, nel momento in cui vai allo scontro e non dico solo di carattere politico, allora ti fanno fuori. Noi abbiamo avuto un'esperienza di un ragazzo che aveva fatto tutta una serie di vignette sull'handicap, talmente violenta, che l'ha dovuta ricorreggere, perché poi la provocazione non sempre produce effetti. E poi la questione educativa. Ai comunicatori, quali siete voi, si pone il problema di questa educazione... sta prevalendo la tesi che l'informazione non ha funzione educativa. Poi c'è la questione tecnologica. E' un'enfasi? È una realtà? Ma questa realtà è talmente attraversata da interessi della old economy, per cui la nuova tecnologia diventa - nel momento in cui è veramente nuova - inavvicinabile perché ad altissimi costi. Quando ci si arriva è già obsoleta e quindi superata. Sono questioni forti nelle quali però noi non possiamo perdere la dimensione del reale. Il reale cosa ci dice? Esistono 2 milioni di famiglie povere, 2 milioni e mezzo di disabili, 600 mila malati psichiatrici, 55 mila carcerati e 200 mila persone che fanno avanti e indietro, 50 mila con la malattia dell'aids... e fanno 10 milioni. Dieci milioni di che? 10 milioni di disperati? 10 milioni di persone portatori di valori? 10 milioni di persone che appellano? Perché poi nel vertice della piramide non è vero che in quanto a dignità tutti sono uguali, ma nella sostanza. Qui abbiamo un sindaco che è amico, lui sa bene che la spinta che hanno i commercianti non è uguale, in pari grado, alla spinta che ti fanno 10 famiglie delle case popolari, non c'è paragone. Allora?
Antonio Ramenghi*
Vedo stringersi sempre di più la piramide. Il 20% dell'umanità vive bene a spese del resto dell'80%. Di questo 20%, nel mondo che è ricco, occidentale, che rappresenta il 20% dell'umanità, in questo 20% la piramide si stringe ancora. La fetta di mercato, quella della pubblicità, tutti belli, tutti sani, è piccolissima. Il momento in cui stiamo vivendo noi che facciamo questo mestiere - e quindi ce l'abbiamo addosso e lo vediamo - è che la piramide si è stretta, si stringe. Dentro quel 20% dell'umanità ce n'è una percentuale ancora molto più piccola che muove il meccanismo, che tiene in mano il potere. Il potere d'informare, il potere di fare gli affari, il potere d'incidere sulle coscienze, sulle persone... poi vanno avanti i leaders, si affermano mode, vince un certo tipo di spettacolo, un certo tipo di letteratura. Però la piramide si va stringendo. Ora noi diciamo che dobbiamo attrezzarci ad affrontare l'integrazione, perché arrivano gli immigrati, gli extracomunitari. Adesso con la vicenda Fiat, qualcuno comincia a pensare che forse il problema non sono poi tanto e solo gli extracomunitari che arrivano, ma sono gli italiani che restano senza lavoro. Questo per dire che il meccanismo è arrivato, sta arrivando a un punto che è di grande potenza, di grande forza, ma anche di estrema debolezza. Il problema è che il sociale non riesce a organizzarsi. Qui ha ragione Angelo, è politico, intanto è politico. Il problema è di usare anche gli strumenti politici. Ed il problema è anche quello di infilarsi nelle contraddizioni che inevitabilmente avvengono. Qualcosa sta avvenendo, se voi avete notato, nella pubblicità, si sono accorti che un certo tipo di approccio, di modo di fare pubblicità, alla fine, quasi ti respinge invece che attrarti. Però ci sono degli interstizi in cui ci si può infilare per far capire agli stessi grandi inserzionisti, che certe strade. Voglio dire, confrontiamoci con l'uomo della Ferrero qui a Capodarco, con l'uomo della Barilla, con l'uomo del Nokia... anche Giovanni Rana, perché no? Perché c'è bisogno di farli riflettere. Non sono solo loro a determinare tutto, però in questo momento hanno un potere molto forte. E così pure gli editori, non solo i giornalisti, perché questo è un altro punto forte, importante.
Siamo vissuti in una fase in cui i giornalisti lavoravano in giornali prevalentemente posseduti da petrolieri, zuccherieri, palazzinari e venditori d'automobili. Vogliamo parlare della Fiat? Ok? Questi usavano molto il giornale come strumento politico nei confronti dello stesso mondo politico e anche nei confronti della società civile. Mandavano messaggi di un certo tipo. La classe giornalistica, i giornalisti, per lungo tempo lavoravano in questi giornali e nessuno si preoccupava di sapere quanti erano. Avevano un buon stipendio, una buona posizione sociale, cosa che sta calando nella nostra categoria. Nella considerazione sociale i giornalisti stanno subendo la stessa parabola che hanno avuto gli insegnanti di liceo negli anni 50 e dei bancari negli anni 70. E' la stessa parabola. Poi improvvisamente la cosa è cambiata: anche i giornali sono delle aziende! È vero. Qualcuno ha cominciato a dire che era come le saponette, qualcuno ha detto che era un po' esagerato prendere i giornali come le saponette, però, insomma sono delle imprese. Allora i giornalisti si sono fatti carico giustamente - ed è stata una cosa positiva - dell'equilibrio economico del loro giornale. Sempre più nei giornali ci si chiede: ma quanto vendiamo? Ma la pubblicità c'è? E' cresciuta questa consapevolezza del fatto che l'impresa editoriale deve avere i conti a posto. Una consapevolezza, questa, che è stata in qualche modo indotta anche dalle crisi che hanno avuto i giornali e dal fatto che poi i giornali, quando chiudevano, chiudevano perché non avevano i conti a posto. Ora la fase attuale è al punto in cui la categoria, i giornalisti, devono passare a un livello di consapevolezza e di attenzione molto più forte che nel passato, perché nei giornali sono avvenute delle trasformazioni che apparentemente non sono niente di tragico, ma che hanno avuto la loro incidenza. Basta guardare i periodici, settimanali, mensili. Da bambino mi dicevano che la pagina di destra è la pagina di rispetto. Adesso la pagina di destra è la pagina della pubblicità, è il testo che è a sinistra, perché l'occhio, sfogliando, deve cadere prima sulla pubblicità, quindi a destra. Niente di male, per amor di Dio, però siamo davanti ad è un segnale che dimostra come sia avvenuta una trasformazione. Ci vuole una forte dose di consapevolezza intanto nel capire che cos'è quello che scrivo a sinistra rispetto a quello che c'è a destra e via di questo passo.
Il problema non è tanto il fatto che ci si chieda quante copie vengono vendute. Il problema è come io combino il testo, come metto in relazione il mio lavoro redazionale con il mondo pubblicitario, con il potere economico e politico, che sta dietro a certi fenomeni. Il problema sta nel capire questa invasione, questa invasività. Oggi ci sono dei giornali che sembra siano gli esercizi delle parole crociate. Non fanno altro che riempire gli spazi liberi lasciati dalla pubblicità. Non bisogna guardare quelli che non fanno opinione pubblica ma quelli che sono diffusi, che stanno dal dentista, quelli che - in un modo o nell'altro - l'opinione pubblica la fanno. Tu hai fatto bene ad andare a Verissimo, hai detto ieri che sei andato a Verissimo. Io ti dico: porta qua e confrontati con i grandi investitori della pubblicità, con qualche editore vero, dicendo loro - ed è questa la funzione che secondo me in questo momento manca in Italia - le cose che ci stiamo dicendo tra noi. Sul tema dell'informazione, che è il nodo cruciale in questo momento della nostra società, non c'è una tensione che viene dai consumatori, dal basso, dagli utenti. Non c'è. Non sono molto d'accordo con Morrione sulla velocità. Io ci ho pensato bene prima di lasciare Repubblica per andare all'Espresso, ma l'ho fatto anche perché avevo bisogno di tirarmi fuori dall'angoscia dell'ora, della notizia incalzante e di poter veder le cose con un minimo di riflessione, pensarci almeno due minuti. Va bene le Twin Towers in diretta in tutto il mondo, ma ci sono molti errori che facciamo noi nel fare informazione che sono indotti dalla velocità e sono errori che poi pagano gli altri. Noi abbiamo fretta, abbiamo anche voglia di fare degli scoop e la fretta e la voglia di fare degli scoop, alla fine, creano dei danni a delle persone. Secondo me chi fa informazione sociale oggi, oltre a informare sulle aree di sua competenza, deve secondo me stare col fiato sul collo agli editori, bisogna essere pronti ad azzannarli tutte le volte che fanno boiate e purtroppo ne facciamo.
Angelo Agostini*
Sono perfettamente d'accordo con quanto detto da Antonio Ramenghi e per dire qualche cosa di diverso da ciò che ha detto lui provo a semplificare la definizione di giornalista riportata da Morrione. Ce n'è una molto più semplice, molto più vecchia: "giornalista è colui che vende molte tonnellate di parole per pochi chilogrammi di pane", autore Carlo Collodi. Incominciamo a mettere le cose a posto? Allora il creatore di Pinocchio definisce il giornalista, quello che il giornalista è sempre stato per lunghi e lunghi decenni, come un lavoratore salariato, uno che fa un mestiere per portare a casa uno stipendio. Questo almeno, quando ho cominciato io - che non era il secolo scorso - era così per tutti. Non si dava la possibilità di fare il giornalista in Italia 20 anni fa se non si era alle dipendenze di un editore in un giornale. Mi è capitato di dirigere per 10 anni una scuola di giornalismo e vedo qui amici, colleghi, gli ex allievi tra i quali il mio amico Mauro Sarti, o il mio amico Luca Baldazzi. Sono persone che, un giorno, hanno detto basta! Io del giornale mi sono rotto e adesso faccio il giornalista per conto mio, metto insieme uno studio insieme ad altri colleghi e cerco degli spazi miei. Perché dico questo? Perché è vero dall'inizio alla fine quel che ha detto Antonio Ramenghi, ma guardiamoci un poco intorno per cortesia. Certo che i primi giornalisti free lance sono stati costretti al lavoro autonomo e chi se lo dimentica questo. È certo che è una fatica da bestie lavorare da giornalisti per conto proprio e non come salariati. Però accanto a questo ce ne sono state tante altre di cose negli ultimi 20 anni. Ma un Urp di un'Asl che cos'è secondo voi? Lo so che ci sono quelli che fanno schifo e che funzionano male, ma ci sono pure quelli che funzionano bene. Che cos'è secondo voi un Urp di un'Asl se non esattamente il prodotto di 20 anni, di 30 anni di lavoro di giornalisti, di operatori della comunicazione, di movimenti che hanno dato alla società italiana la capacità di organizzare propri strumenti di comunicazione? Don Vinicio, tu te lo ricordi il lavoro fatto con il gruppo di Fiesole? Roberto se lo ricorda perfettamente perché ci stavamo assieme. Ma che cosa è stato per 15 anni il lavoro dei giornalisti del gruppo di Fiesole se non l'incontro dei giornalisti con i soggetti sociali, con i disabili, con chi nel sociale lavorava? Vogliamo dirlo che qualche cosa in 20 anni lo abbiamo costruito e qualche cosa è cambiato? Che cosa sono state, negli ultimi 6 anni, le reti civiche in Italia se non la capacità della società di organizzare propri strumenti di comunicazione e di costringere anche le amministrazioni a metterci dei quattrini? Lo so che c'è Mentana, lo so che c'è Vespa, ma ci sono anche queste cose qui. Mi spiegate come fanno a stare in piedi le reti, i negozi e i distributori del commercio equo e solidale? Non si sono dati strumenti di comunicazione loro? Non riescono a comunicare tra di loro anche se non stanno nei media mainstream? Lo so che tutto questo non cancella "Sorrisi & canzoni tv", lo so perfettamente che c'è anche "Sorrisi & canzoni Tv", ma ci sono pure queste cose e vogliamo dimenticarcelo sempre?
Ora siccome non voglio scappare alla tua domanda, ci sono anche comunità che stanno rischiando di morire perché le stanno asfissiando. Ritorno al punto di prima, la questione è politica. Socialità e solidarietà sono parole politiche oggi in Italia? Sono parole che animano il dibattito politico? E non sto pensando, sia chiaro, al presidente operaio, posso tranquillamente immaginare, ritengo di avere l'intelligenza sufficiente per sapere che al suo vocabolario socialità e solidarietà non appartengono. Questione assolutamente elementare. Voi ricordate l'ultimo presidente del consiglio espresso dal centro sinistra dove è andato a raccontare: non sarò io il candidato del centro sinistra alle prossime elezioni politiche? Ve lo ricordate tutti quanti. Nel salotto di Vespa. Il primo presidente del consiglio espresso dal centro sinistra aveva le televisioni a favore quando nel febbraio del '95 ha deciso di candidarsi? Aveva una rete televisiva che lo supportasse? Ne aveva 6 contro e che cosa diavolo ha fatto? È salito su un pullman e che cos'è un pullman? Non è uno strumento di comunicazione?
Roberto Morrione*
Per cercare delle risposte bisogna inevitabilmente porsi delle domande, poi non è detto che le risposte arrivino, o arrivino subito. Volevo ritornare alla proposta operativa di Ramenghi, rispetto al quesito posto da don Vinicio su come fare materialmente per uscire dal ghetto, o per lo meno allargare le possibilità di comunicazione incisiva per il mondo degli invisibili o quasi. Ecco, l'idea di confrontarsi con dei pubblicitari ha una sua validità, perché vuol dire prendere atto di un elemento oramai fondante della comunicazione nel nostro paese e comunque si tratta di protagonisti di grande interesse e di peso per qualunque decisione futura rispetto al problema della comunicazione. Tuttavia non è, secondo me, un punto nodale. Voi ricorderete che meno di un anno fa ci fu un G8 a New York, contemporaneamente a un social forum, mi sembra quello di Portalegre. Bhe' fu estremamente istruttivo, a mio parere, anche molto importante, perché per la prima volta sulla scia di quello che era accaduto con le Twin Towers, con il conflitto in Afghanistan e tutto questo scenario mondiale in movimento e con la forza che i social forum riuscivano a mettere in campo, a New York ci fu una ristrettissima équipe del gota del capitalismo mondiale. Ricordo dichiarazioni di Bill Gates, ricordo una presa di posizione firmata da 15 mi sembra o 20 delle più grandi multinazionali del mondo, con dentro soggetti che si chiamavano Deutsche Bank, General Motors, ecc., i quali dissero: basta con questo volto della globalizzazione aggressivo che di fatto spaventa, emargina, riduce addirittura il campo del consumo. Adesso, le grandi multinazionali, il gotha del capitalismo mondiale e quindi i motori dello sviluppo mondiale e dell'economia, devono rivolgersi a coloro che scendono in strada e chiedono la difesa dell'ambiente, che chiedono i cibi genuini, a tutti coloro che costituiscono il mondo dei nostri consumatori. I nostri messaggi cambieranno. Il modo e i meccanismi del mercato mondiale oramai sono tali che possono anche impadronirsi e metabolizzare spinte, tensioni opposte e così via. Su questo bisogna ragionare, perché ciò non toglie che poter avere un suggerimento ad esempio di natura pubblicitaria di qualche spot, o al limite avere, che ne so, qualcuno come Pirella... butto lì, perché è un pubblicitario intelligente che mantiene un suo livello d'impegno civile e che comunque può essere evidentemente un interlocutore importante. ma il meccanismo rimane lo stesso. Bisogna misurarsi con le contraddizioni che si vivono, cercare di fare i propri percorsi. Il punto è cercare di portare ancora più avanti non solo la capacità di analisi, di comprensione dei problemi che già è una cosa molto importante - lo abbiamo visto proprio qui durante il dibattito in cui si parlava di rifugiati politici, tanto per fare un esempio - ma serve un programma di azione e di capacità di penetrazione, di pervasione, di idee, che abbiano un loro contenuto, una loro dignità e che riescano a cogliere tutte le contraddizioni che le situazioni pongono. Questo vale per gli operatori dell'informazione e vale per gli operatori del sociale. Non esiste ad esempio, a mio parere, centro o comunità che non abbia dei suoi potenziali interlocutori sul territorio dell'informazione. E penso all'emittenza locale, alla stampa locale, significa anche in primo luogo il servizio pubblico radiotelevisivo. E a questo riguardo io non posso non lanciare un enorme allarme. Credo che la Rai abbia imboccato e stia imboccando una strada che potrebbe essere senza ritorno, rispetto alla possibilità della centralità del servizio pubblico in questa enorme partita che stiamo giocando. Recentemente mi sono trovato in un'altra circostanza. Ho avuto una specie di scatto della memoria. Nel '68 lavoravo già da alcuni anni alla Rai, ero nella redazione di TV7. Quando nelle università occupate se si vedeva una troupe televisiva, c'era solo la Rai all'epoca, quindi una troupe di monopolio diciamo, si chiedeva come prima cosa: di chi siete? Se la troupe o il giornalista in questione rispondeva "telegiornale" non veniva fatto entrare, se rispondeva "TV7", almeno nel primo periodo, entrava. Questo mi è capitato personalmente in alcune facoltà occupate dell'epoca.
Allora noi siamo di nuovo a quel punto. Diciamo che, simbolicamente - non prendetemi alla lettera - se ad esempio nella manifestazione di Firenze dove c'erano 800 mila persone, c'era il meglio che un paese, una società esprime - i giovani, quelli che si battono, che hanno ancora delle idee, degli ideali anche, magari, con poca esperienza e facendo degli errori, ma che comunque rappresentano l'investimento di fondo di una società - se si sentiva da qualche parte la Rai, c'era un ululato e una protesta generalizzata, perché non c'era la diretta, non c'erano le telecamere, non c'era un sacco di roba.
Se si sentiva Rai News 24 - io avevo due giornalisti lì che lavoravano con i telefonini cellulari, come abbiamo fatto al G8, come abbiamo fatto in tutte le manifestazioni che ci sono state - c'era un elemento di approvazione e di applauso, esattamente come per TV7 30 anni fa! Se i telegiornali della Rai, del servizio pubblico sono arrivati a questo punto di rigetto, di non comunicazione, di distacco rispetto all'opinione pubblica, allora vuol dire che il rischio che il servizio pubblico non abbia più un'identità centrale nel panorama dell'audiovisivo, della telecomunicazione - a mio parere è fortissimo -
Lasciamo stare altri fenomeni che hanno attraversato recentemente anche i programmi. Io quando ho visto il primo numero di Excalibur ho sentito un filo di ghiaccio lungo la spina dorsale, non tanto perché era fatto male, perché lo era, ma per il tipo di agghiacciante integralismo che comunicava. Ora Santoro può avere un sacco di difetti e ce li ha. Io quand'ero al Tg3, perché nei miei vari percorsi ho lavorato anche per un po' al Tg3, con Santoro ho litigato un sacco di volte, non abbiamo le stesse idee.. però vedevi Santoro, potevi anche non condividere alcune delle sue cose, che ci fosse un elemento un po' fazioso è vero, che ci fosse un elemento rissaiolo anche è vero come nodo di quel tipo d'informazione, però Santoro è un signor professionista, che comunque non solo garantiva quel tipo di livello e di professionalità che tanti altri programmi della Rai ormai hanno largamente dimenticato, ma ti dava il senso della realtà, ti faceva confrontare con le cose. Il fatto che oggi ci sia questo giovane collega dallo sguardo inquietante e non ci sia più Santoro, francamente mi spaventa. lo sguardo può essere un elemento genetico, ma deve essere ravvivato dal pensiero... cosa che non ha. Ora, guardate, io non ho niente contro Socci, che per altro era anche più bravo quando scriveva, di quando oggi commenta. Mi piace anche l'intelligenza di Ferrara, ma che siamo oggi costretti a vederci quella diabolica trappola che Ferrara gestisce su LA7, è una diabolica trappola, che è riuscito addirittura a metabolizzare Gad Lerner, facendogli fare sistematicamente la figura dell'utile idiota, o del punchingball, perché a questo serviva a Ferrara la presenza di Lerner, oggi lo fa Sofri, altro ragazzo intelligente. Ma è evidente che tutto è costruito per un programmatico pensiero, perché lui il pensiero ce l'ha di Ferrara.
Voglio ricongiungermi alla domanda che poneva Vinicio. Non ho risposte di tipo innovativo. Questo tipo di seminario mi sembra corretto, va nella direzione giusta, coglie alcune connessioni. Tu chiedevi delle connessioni, probabilmente se ne possono inventare delle altre, anche quella magari di invitare Pirella che forse potrebbe avere pure la voglia di venire e magari spiegare non tanto come uscire dal ghetto, quanto la misura in cui messaggi del suo mondo, dei suoi interessi, possono essere e sono funzionali a meccanismi di sviluppo, meccanismi globali, di consumo. Lui potrebbe portare un know how specifico. Continuiamo allora ciascuno col proprio livello di responsabilità a fare quello che sarà possibile. Personalmente non credo che la risposta politica auspicata e chiesta da Angelo sia la risposta. Essendo stato uno di quelli che hanno fatto muovere quei pullman nel '96 e in un periodo in cui avevo una stanza sulla collina a Saxa Rubra perché non avevo un incarico specifico, quindi mi sono potuto dedicare con maggiore divertimento ad altre esperienze, avendo poi vissuto la Rai così detta dell'Ulivo negli anni successivi, io vi dico che il problema politico c'è, ma non è la chiave per risolvere la questione. E' una parte di questo panorama molto più vasto, perché errori di mancata elaborazione, mancata progettazione, utilizzazione di rendita d'informazione del servizio pubblico, furono compiuti numerose volte in maniera gravissima e a volte devastante anche nel periodo del governo dell'Ulivo, in particolare non nei primi due anni, ma nei due secondi anni, tanto per essere chiari. Certamente anche quello è parte di un problema politico, però la politica non dà tutto rispetto a questi problemi. Rimangono dei terreni vastissimi di natura culturale, politica, ma in senso di geopolitica, come ho cercato di accennare prima, professionale e credo che ciascuno all'interno dei percorsi che ha a disposizione, possa fare qualche cosa. Capisco di non averti dato una chiave innovativa, risolutiva, ma al di là di questo oggi non riesco ad arrivare.
Saturnino Di Ruscio - Sindaco di Fermo*
Comincio dalla fine e ringrazio don Vinicio dell'invito a quest'iniziativa. Vengo sempre volentieri, perché come diceva qualche relatore, c'è molto da imparare. Gli spunti sono stati tanti così come le problematiche. Tu hai collegato il problema dell'informazione alla politica, all'economia, alle tecnologie. Questi legami ci sono e sono forti, non dobbiamo nasconderlo. Io porto qualche esempio, non dico personale, ma nello svolgimento della mia attività comunque questi problemi vengono fuori in qualche modo. La nostra amministrazione appena insediata adottò un provvedimento molto forte nel campo dell'urbanistica, un provvedimento di carattere generale che andava a limitare una rendita economica forte di un'impresa privata. Debbo dire che qui, quando si parla di queste, cose non esiste né destra, né sinistra, perché tutti sono molto sensibili al problema economico però, a prescindere da questa cosa, poi ho notato la presenza nei mesi successivi e ancora oggi sulla stampa locale di intere pagine pubblicitarie di questa grossa impresa. Inspiegabile, perché un'impresa di quei livelli che lavora prevalentemente con ministeri, perché fa edifici pubblici, non aveva sicuramente interesse a fare pubblicità a livello locale. Contestualmente ho notato anche in maniera molto sottile, anche un atteggiamento diverso da parte della stampa locale nei confronti dell'amministrazione comunale e quindi come si diceva prima è un comportamento inconscio perché non c'è una relazione diretta, però sicuramente ci sono dei meccanismi che in qualche modo fanno sì che molto spesso l'informazione non sia perfettamente corretta.
Ieri mattina a Fermo abbiamo fatto un piccolo "incontro con la storia" e abbiamo avuto alcuni storici che hanno ridisegnato la figura di Oliverotto, un signore fermano del 1502 che viene citato dal Machiavelli ne "Il principe" appunto come un politico dell'epoca. La versione che dava il Machiavelli, che davano i cronisti dell'epoca era di questo condottiero che prese il potere a Fermo in una cena uccidendo tutti i potenti fermani di allora, poi a sua volta lui stesso il 31 dicembre dello stesso anno, 1502, fu ucciso a Senigallia con lo stesso sistema. La figura di un personaggio, dunque, che viene descritto come il classico condottiero che aveva distrutto questa città di Fermo, il fermano, ecc. Uno storico locale invece, Tomei, ha fatto una ricostruzione basata non come il Machiavelli su resoconti dei cronisti dell'epoca, ma andando a prendere tutti i documenti, gli atti, le lettere, gli atti amministrativi dei priori dell'epoca, le lettere che scriveva questo Oliverotto e ne ha fatto un ritratto completamente diverso. Ne venne fuori il primo signore fermano che introdusse un'indennità per quelle famiglie che le cui mogli avevano perso il marito in guerra, aveva riportato l'industria laniera nel fermano e stava lottando per costituire una signoria, in antitesi un po' con il Papa, con Borgia, che doveva essere suo amico, invece gli lavorava contro, poi alla fine lo fece uccidere. Un personaggio che voleva un po' ricostituire questo territorio. In embrione c'era un po' questa provincia del fermano. E' stata data una descrizione completamente diversa da che del Machiavelli. Questo per dire l'informazione non è mai oggettiva, perché ognuno ci mette del suo, però se non cerca di mirare alla maggiore oggettività possibile, rischia di dare una versione dei fatti sicuramente diversa da quella che è nella realtà. Erano queste, un po', le considerazioni che volevo fare io. C'è un collegamento forte tra l'economia, politica e l'informazione. Il problema fondamentale, però, secondo me, è quello dei valori. Oggi quali sono i valori reali di una società? Oggi per i giovani un valore è il telefonino, invece il telefonino è uno strumento di comunicazione, quindi abbiamo rovesciato un po' tutto, abbiamo messo gli strumenti come valori e questi ultimi non sono più riconosciuti come tali. Secondo me lo sforzo maggiore da fare da parte di tutti noi, almeno da chi crede in un futuro di questa società, è di dare valori, è di educare i giovani ai valori reali, veri, che sono quelli che poi ci possono consentire un futuro migliore. Grazie di avermi invitato.
Ivano Liberati - Giornale Radio Rai*
Volevo fare un'osservazione di 20 secondi su una cosa che ha detto Morrione, poi la domanda in realtà vorrei farla a Ramenghi. Su Morrione vorrei dire che a me non dispiace affatto che ci sia la trasmissione di Socci. Può piacere o non piacere, ma credo che la destra avesse diritto ad uno spazio di comunicazione, di libertà e vedere la Madonna di Medjugorie a me non dà alcun fastidio. Quello che dà fastidio è che questo abbia escluso esattamente gli altri. Se questa direzione, questa dirigenza Rai, fosse stata un poco più accorta, avrebbe fatto lavorare accanto a Socci anche gli altri esclusi, avrebbe detto ai loro predecessori: voi censuravate Socci che esprimeva una cultura che a voi dava fastidio, noi invece facciamo lavorare sia l'uno che l'altro, secondo me il vero errore strategico è stato questo. La domanda a Ramenghi. Tu saresti stato un ottimo vicedirettore di Famiglia Cristiana, perché tra ciò che hai detto e ciò che vedo propinarci tutte le settimane dall'Espresso, che io leggo - o meglio, che leggevo più prima - ho notato una grande contraddizione. Ti chiedo: quanto conti tu nel tuo giornale? Una domanda, questa, che va spiegata. Tu prima hai parlato di malattia, questa malattia che ha contagiato un po' tutti, pubblicità invasiva, la pubblicità che ormai detta i contenuti. Io una settimana si e una settimana no vedo sulla copertina del tuo settimanale la velina scosciata di turno. Io non ti chiedo perché questo accade. Voglio sapere quando comincerete la terapia, perché altrimenti prima o poi qualcuno v'imporrà un trattamento sanitario obbligatorio e questo qualcuno sono i lettori, un ricovero coatto.
Antonio Ramenghi*
Intanto questa cosa di Famiglia Cristiana mi ha colpito al cuore, perché è uno dei giornali che io leggo da sempre e che mi piacciono di più. Quello che dici è giustissimo. io ti devo dire. conto per quello che faccio. dicevo prima a don Vinicio, io ho fatto il giornalista non per fare un mestiere - perché io insegnavo, avevo vinto la borsa di studio, facevo il glottologo, pensa te - ma io, come tanti amici, l'ho fatto un po' come surrogato della politica, diciamocelo chiaramente. a quell'epoca, 68-70, eravamo lì a decidere se buttarci a far politica o utilizzare il mestiere del giornalista per far passare le nostre idee, per "missione" diciamo così. Ho fatto questo mestiere per tanti anni. Pensate, ho partecipato alla fondazione di un giornale che si chiamava "Il Foglio", che voi non sapete cos'è giustamente, perché siete tutti giovani. Era un quotidiano fondato da Luigi Pedrazzi e Ermanno Corrieri, all'epoca i cattolici del dissenso, che nacque tra Bologna e Modena e io lì ho cominciato a fare il giornalista vero. Prima avevo lavorato ad "Autosprint", mi divertivo. Ed era il 75, poi Repubblica, ecc. Essendo un cristiano e avendo molto presente i limiti e gli errori, portato anche a guardare molto quello che faccio, io credo che uno conta per quello che fa. Di quanto fatto da quando faccio questo mestiere, pur con tanti errori, però non ho niente da vergognarmi. eEquesto viene da mio padre, che è stato un insegnamento. Oggi tra l'altro è l'anniversario della sua morte. Ho imparato da mio padre a fare il mestiere che faccio con grande onestà intellettuale verso me stesso, poi degli errori ne faccio.
In riferimento all'Espresso, intanto vi faccio notare che da 8-9 mesi è cambiato tutto, sta cambiando, sta cercando una formula che non è ancora definita, perché i news magazines, così come sono stati fatti finora probabilmente hanno avuto una grande stagione, ma oggi probabilmente hanno bisogno di essere ripensati, rivisitati ed è quello che stiamo facendo. C'è stata una fase lunga dell'Espresso che non mi ha visto partecipe, perché io sono all'Espresso da 2 anni e mezzo, quindi non è che sono uno storico dell'Espresso. Una in cui c'era veramente, sembrava ci fosse questa gara a chi la metteva più nuda in copertina, tra Panorama e l'Espresso. Ragioni varie. Io non mi sento neppure di criticare i direttori che facevano, che hanno fatto quelle scelte, perché poi complessivamente uno leggendo l'Espresso ci trovava e ci trova delle cose che, pur con tutta la tua critica, non sono paragonabili a quelle di Panorama. Però ti dico è vero, c'è stato un periodo di un certo tipo. Un periodo che io non mi sento di criticare perché poi ciascuno risponde per quello che fa. Io non dico che quello che sto facendo attualmente mi soddisfi pienamente. E' un percorso che stiamo facendo di considerazione del modo di fare informazione, della scelta degli argomenti, del modo di approcciarli che probabilmente porterà ad un'ulteriore evoluzione. Tu cos'è che mi chiedevi? Mi fanno un TSO i lettori? Io credo, almeno dal riscontro che ho, mentre avevo critiche e subivo diciamo appunti nel passato, ultimamente con le modifiche che abbiamo fatto, con il tentativo che stiamo cercando di portare avanti di un ripensamento della formula, non credo che il lettori dell'Espresso mi porteranno a un TSO. Probabilmente i lettori dell'Espresso saranno sempre più pretenziosi e sempre più esigenti di quanto non lo siano stati nel passato. Io non ti ho mai sentito dirmi queste cose, ma se avessi alzato il telefono Ramenghi dall'altra parte all'Espresso l'avresti trovato e Ramenghi ne avrebbe tenuto conto, come ne tiene conto adesso che lo hai detto. Io sono molto convinto del controllo del dominio, non tanto dei mezzi, ma sui mezzi, della possibilità di dominio non tanto dei mezzi, ma sui mezzi, dominio sociale voglio dire. Perché una lettera che ti critica, che è nel giusto e ti dice: guarda hai scritto una stupidaggine, le cose non stanno così. Bhe' a me almeno fa un effetto pazzesco. Io sono per esempio uno che quando mi dicono: c'è una smentita. La pubblichiamo poi ci mettiamo le tre righe dietro. Io non sono per fare la replica. Hai scritto un pezzo? Quello dice una tua cosa? Lasciala senza replica, perché devi replicare? Perchè devi sempre avere l'ultima parola? Poi è chiaro, quando uno ti dice che hai sbagliato quando c'hai azzeccato allora no. Se hai toppato, capita, tieniti la toppata e tieniti la sgridata, con lo stesso atteggiamento prendo le tue critiche e ne faccio tesoro.
Franco Bomprezzi*
Volevo fare 3 considerazioni. Essere un po' più in rete come comunicatori sociali: chi fa informazione sociale in luoghi diversi e con modalità diverse da domani provi a guardare cosa fanno gli altri, a trovare degli spunti per il proprio lavoro, perché allora la massa critica aumenta. Se di carcere si occupano soltanto quelli che si occupano sempre di carcere, tutti gli altri ignorano il loro lavoro e non hanno poi quella massa critica, che potrebbe andare a incidere sulle scelte dell'Espresso, per esempio, dal punto di vista dei contenuti. Credo che sia un problema anche nostro, di relazioni interne e di buona comunicazione, buona circolazione delle notizie. La seconda cosa è quella della pubblicità. Quello che ha detto prima Antonio, l'avevamo detto con Marco Vitale. Ti ricordi questa stessa proposta? Di avere qui chi fa la pubblicità, chi la decide e chi la fa, per ragionare insieme. Oggi stavo facendo vedere ad Agostini un esempio perverso e credo sia anche questa una notizia, se aprite l'ultima pagina del Corriere, di Repubblica, dei quotidiani principali. Telecom mi manda un messaggio vecchio di 20 anni sulla disabilità, mette questo tremendo simbolo della carrozzina che non voglio più vedere nemmeno sulla mia macchina, lo mette lì e dice: "aiutaci a mettere insieme un sogno". Ora a parte che non voglio essere messo in piedi l'ho già detto ieri... è veramente un messaggio delirante dal punto di vista della comunicazione sulla disabilità. Dove è stato l'errore?
Il creativo di Telecom, in questo caso, credo in buona fede, ha pensato che questo era un messaggio forte e che raggiungeva i donatori che impietositi da questo messaggio avrebbero dato una mano. Presumo che ci siano sempre più campagne sociali per giustificare l'eticità dell'azienda e questo è un discorso che ieri è venuto fuori con grande forza. Credo che sia un obiettivo forte da costruire da qui a un anno, cioè come avvicinare sistematicamente i grandi produttori di campagne pubblicitarie che probabilmente saranno sempre più campagne destinate ad un messaggio etico. E il terzo messaggio forse è rivolto proprio a chi fa scuola di giornalismo, contaminare sempre di più nei corsi pubblici, privati, nelle scuole, nei momenti di approfondimento, anche DSE della Rai voglio dire, inventiamoci degli spazi laddove ci sono, piccoli, grandi o medi, nei quali poter portare dei contenuti, che sono quelli della vita reale di tutti i giorni di chi lavora nell'informazione sociale, portarli in altri luoghi, cioè farli uscire, fare quel ponte di cui si parlava prima, perché il ponte è veramente un grande simbolo. Vedo che l'avete usato tutti. Del resto Brooklin con la gomma.ne sapeva qualcosa.
Nanni Vella - Rai Net News*
Non so se sono d'accordo con la metafora del ghetto, non so se l'ho capita. Domanda: il problema è la poca informazione di sociale, o il problema è una corretta rappresentazione del sociale? Io credo che Ramenghi una risposta l'abbia già data, cioè c'è un iper rappresentazione del sociale che non ci convince, o per lo meno che ci lascia in un ghetto di troppa rappresentazione. Trasmissioni come quella della De Filippi, o come I Fatti Vostri, dove ci sono persone sofferenti, gli sfigati che ogni volta sono lì e raccontano le proprie storie, in verità ci lasciano il ghetto, ci sono, sono presenti, entrano nel circuito mediatico, ma rimandano a una logica di bisogno di assistenza, non si fanno promotori di un diritto. Il problema non è uscire da un ghetto di poche notizie, ma il problema è uscire da un ghetto in cui siamo iper rappresentati come sociale, ma non nel modo giusto. E poi ancora, io vi pongo il problema che ho nelle scuole. Io sono un giornalista strano, un giornalista on line, che presta il suo ingegno a tagliare, cucire, incollare notizie di agenzia. Ora, però, mi accorgo le poche volte che insegno giornalismo nelle scuole, mi accade, mi sembra di riscoprire la vera passione del giornalista, cioè la capacità di far capire ai ragazzi - nel caso specifico diciottenni, che fanno l'esame di stato - dove si trovano rispetto a quello che accade e quello che trovano sui giornali. Il caso di Erika e Omar. Io ci ho messo una lezione intera a far uscire fuori qualche cosa che non fosse la mera ripetizione di due o tre titoli di giornali. Loro erano giovani, 18 anni, Erika e Omar ci siamo. 16-17 anni e c'è chi sosteneva che fossero pazzi. Forse non è esattamente così. A un certo punto quando siamo riusciti, un po' più avanti, qualcuno mi ha detto: "professò ma lei non se pensa che mia madre ogni tanto pure la vorrei strozzare?". A quel punto la cosa è diventata interessante, perché è ovvio che, in questo caso, la storia di chi poi la uccide a coltellate non sono dei pazzi, sono persone che hanno superato un livello di rabbia, di vendicatività. Ora il problema è - e qui la pongo a tutti e tre la domanda - è avere tanta informazione sociale o avere mediatori, persone che facciano un lavoro che è anche, non solamente, giornalismo vecchio stampo, ma capaci di far capire qual è la tua posizione, chi sei tu dentro questa storia mediatica? Il problema è inventarsi un percorso per uscire da questo ghetto, se di ghetto si tratta, in un modo che consenta non tanto di dare più notizie, ma di dare, offrire percorsi d'identificazione. Non so se è una cosa condivisibile o no.
Luigi Vaccai*
Vengo da Modena, da un centro che fa analisi sulla comunicazione. Volevo partire dall'inizio, da quella logica micro a cui accennava Agostini. Si parlava di Orfeo, delle Tv di quartiere, delle Tv di fabbrica come strumenti per superare la caricatura del sociale che tanto spesso passa nei media universalistici. Mi chiedo se questi strumenti possano essere anche l'occasione per superare l'isolamento che si diceva nel secondo intervento, per recuperare relazioni sociali tra le persone, per superare quella dicotomia tra massimo di mediatizzazione e minimo di socializzazione che è tipica dei tempi moderni, assolutamente mediatizzati, per essere reti d'integrazione tra le persone, per recuperare una dimensione del sociale che sembra un po' sfuggirci di mano in quegli alveari di città in cui viviam, in cui non ci accorgiamo del vicino di casa e dei suoi problemi. A Modena, ad esempio, stiamo lavorando sul tema della comunicazione multimediale nelle scuole. Ad esempio sviluppando forme innovative, penso alla radio d'istituto, oltre ai tradizionali giornalini scolastici, con il duplice obiettivo da un lato di educare ai media - non con i media, differenza di preposizione, ma che cambia completamente la sostanza - e contemporaneamente far uscire la scuola dal ghetto delle quattro mura nelle quali spesso è relegata, per creare occasioni di ponte tra il mondo degli studenti e il territorio. Mi chiedo se questi strumenti di comunicazione possono arrivare a superare l'isolamento, essere occasioni di integrazione sociale. Un'ultima battuta. Questa dimensione di comunicazione micro, può essere valida anche sull'informazione on line? Assolutamente in crisi per scarsa redditività, che potrebbe però recuperare fortemente anche in termini d'investimento insomma, nell'ambito dell'informazione di quartiere, siti internet d'informazione, quindi con un taglio giornalistico, ma su una dimensione molto micro. Questo potrebbe essere il futuro dell'informazione on line?
Giorgio Morbello - Redattore Sociale*
Parto con una comunicazione che mi è stata data e che faccio a tutti, però mi serve anche per introdurre una cosa che volevo dire. Sabato 14 dicembre il Genoa social forum ha indetto una manifestazione nazionale contro gli arresti ordinati dal tribunale di Genova per i fatti del G8. Al di là della comunicazione dell'appuntamento - che può anche interessare a qualcuno che è qui - volevo riferirmi a qualche cosa di abbastanza importante che si sta muovendo e sta attraversando la nostra società. E' qualche cosa che, secondo me, in questi giorni è stata vista da più parti: sono gli ultimi, sono gli esclusi quelli che se ne stanno occupando... Sono d'accordo con Agostini e quello che sta accadendo non è poco, perché se sommiamo tutti i singoli lettori di questa realtà frammentaria, tutto questo mondo di piccola informazione ha creato una certa quantità d'informazioni. Il discorso che si debba uscire dal ghetto, che si è autoreferenziali e ghettizzati. bhè, a me sta un po' stretto.. perché dal ghetto dovete uscirci voi, più che noi.
Intervento
Ho collaborato per un periodo con un giornale che si occupa di comunicazione, marketing in particolare. M'interessava quel discorso della pubblicità. Ramenghi ha detto: la società sta implodendo, il 20% di ricchi sta diventando sempre minore, bisogna aiutarla a farla implodere e poi ha detto che bisognerebbe dialogare con i pubblicitari e che questi ultimi probabilmente possono cogliere i cambiamenti della società. Ho partecipato a un'incontro di una di queste grosse agenzie in cui si parlava, appunto, di questi cambiamenti della società, in particolare si parlava dei nuovi vecchi. I nuovi vecchi che, siccome la società sta invecchiando, bisogna cercare di coinvolgerli, di rappresentarli. Ma come li rappresentavano? Come i nuovi vecchi che vanno in barca, che non vogliono più stare a casa a fare i nonni come potevano essere i miei nonni, ma vogliono andare al mare, vogliono andare negli alberghi di lusso, ecc. Si dava l'idea di una società idilliaca anche lì. Mi chiedo, come si può pensare che i pubblicitari vengano qui, magari a questo convegno, senza che ci si rappresentino come tante belle persone che parlano di comunicazione. Insomma in modo realistico, non filtrato.
Vincenzo Spagnolo*
Lavoro per la televisione satellitare e scrivo per il quotidiano Avvenire. Ieri, nel gruppo di lavoro, una ragazza ha detto: mio padre che è artigiano, fa il falegname, non si riconosce più nella televisione. Vede la televisione, accende e dice che quella è pressoché schifezza - riassumo, sintetizzo - e non si riconosce, vorrebbe altri contenuti. Uno degli ultimi interventi pare ribadire questa cosa: leggo l'Espresso, non m'interessa. Una volta ci si chiedeva cosa il potenziale lettore, o telespettatore potesse gradire, che cosa gli interessava. Oggi la direzione è quella di chiedersi quanto mi rende, che cosa posso veicolare per poi vendere. Io torno a chiedere: ci si chiede ancora cosa interessa al mio lettore? Si ha la consapevolezza che il giornalismo è un servizio? E che il servizio pubblico, nel caso specifico, è proprio un servizio? Se non è così si va nella direzione sbagliata. Montanelli diceva col lettore ci vado anche a letto. Adesso io temo che con l'inserzionista si vada anche a letto, scusatemi la durezza.
Marco Damilano*
Visto che Antonio parlava del libro "Bowling alone", un film assolutamente da vedere sull'informazione è un film che si chiama "Bowling a Columbine", che è un film di un regista americano che si chiama Michael Moore, sul traffico delle armi. Parte dall'episodio in cui due ragazzi fecero una strage nella loro scuola, a Columbine, ma racconta soprattutto come l'informazione delle news americane martellanti, anziché creare un innalzamento dell'informazione, del tasso di conoscenza di tutti e creare un servizio alla democrazia, crea un abbassamento del grado di conoscenza, un abbassamento del tessuto democratico e genera soprattutto paura. Paura dell'altro che sta a scuola, paura dell'Iraq, paura degli altri paesi, ecc. Stavo pensando a questa cosa perché il dibattito di ieri pomeriggio, a me che faccio di lavoro il cronista politico, mi stimolava alcuni paralleli con quello che vedo tutti giorni. Qui il problema mi sembra radicalmente quello della democrazia. Mi sembra che, nel secolo scorso, nel 900, la stampa e poi la televisione così come l'abbiamo conosciuta fosse la faccia del sistema democratico. Non c'era ancora il suffragio universale, partiti e sindacati dovevano farsi ammazzare nelle piazze semplicemente per esserci e al tempo stesso i giornali non erano scontati, i giornalisti si facevano ammazzare o portare in carcere anche loro per scrivere. Fino agli anni 70-80 del secolo scorso, stampa da una parte, partiti e sindacati dall'altra si palleggiavano, entrambi cercavano di rendere un servizio alla democrazia, così andando ovviamente a spanne ed è anche questa una storia conflittuale. Adesso, da un lato, io vedo tutti i giorni partiti in crisi, con una classe dirigente oligarchica - non faccio distinzioni né di destra, né di sinistra, generalizzo - mi sembra che nuotino in uno stagno sempre più ridotto. Noi come giornalisti li attacchiamo tutti i giorni, questa cosa la scriviamo tutti i giorni, noi tutte le settimane, ma spesso non ci rendiamo conto che noi stessi siamo parte della stessa crisi. Mi veniva da pensare ieri, adesso c'è stato un intervento che mi ha preceduto che l'ha detto bene, che come i movimenti no global hanno messo in crisi definitivamente alcune forme di partecipazione, così c'è un tipo d'informazione, un modo di fare informazione, alcuni strumenti nuovi di fare informazione, che mettono in crisi noi che siamo probabilmente altrettanto rinsecchitti, asfittici, quanto i partiti di cui noi siamo pungolo o anche specchio. Alla fine ai partiti lasciano quello che è il sale della democrazia, che è il consenso, ma rischia di diventare un simulacro vuoto se non c'è il resto, così a noi non ci contendono copie vendute, perché sul piano delle copie vendute noi teniamo botta insomma. E' impensabile che Redattore Sociale, se diventasse un settimanale, possa fare concorrenza a Famiglia Cristiana, all'Espresso o a Panorama, però ci contendono tante altre cose come la credibilità, la passione per le notizie, l'approfondimento. Noi rischiamo, anche lì, di avere si le copie vendute, ma poi ci manca il resto. le copie vendute rischiano diventare il simulacro vuoto di qualcosa che non riusciamo più a dire. La mattinata di oggi, in qualche modo, mi consola un po' nel senso che dall'altra parte della barricata che rappresentate voi, che rappresentiamo noi, si dice parliamo, facciamoci contaminare, però non mi sembra una storia facile e buonista. Anzi, mi sembra un conflitto, una storia conflittuale di cui è imprevedibile l'esito. Molto dipenderà anche, sicuramente, dalla formazione delle giovani generazioni. E visto che qui ci sono anche tanti che frequentano scuole di giornalismo, vorrei lanciare un'ultima provocazione: attenzione a un giornalismo professionalmente molto corretto, ma dal punto di vista dei valori sterilizzato, che poi anche qui - scusate se riporto anche qui la mia esperienza di cronista politico - è un'esperienza che si vede nei giovani dirigenti politici. Si vedono giovani dirigenti molto bravi, bravissimi a parlare in televisione, competenti, che hanno imparato bene la regoletta, che devi dire un solo messaggio in 27 secondi per il Tg, ma sostanzialmente non comunicano più niente e, di fatto, non sanno fare più politica. Allora anche lì attenzione a giornalisti professionalmente molto preparati, ma serializzati, attenzione ai serial giornalist.
Intervento
Volevo partire dall'analisi che ha fatto Morrione e cioè lo scenario più largo, quello geopolitico ed economico, perché mi sembra che abbia dato, tra le conseguenze, anche quella del crollo del mercato pubblicitario e, di conseguenza, forse anche dell'informazione mercificata. Io volevo chiedere: lanciando uno scenario più ottimistico è possibile che alla fine pur essendo il secolo degli americani - questo è vero ma mi sembra che sia anche il secolo dei popoli che sono stati ai margini fino a questo momento e quindi anche delle tematiche sociali, più che di altro tipo - è possibile che il sociale, a questo punto, si prenda il suo spazio? Ci saranno alcune tematiche, per esempio l'immigrazione, che s'imporranno in maniera trasversale. Forse il mainstream che ha ignorato questa tematica, come altre tematiche sociali, alla fine ne verrà escluso, proprio perché non ha saputo leggere i tempi e capire che c'è, alla fine, un'inversione di tendenza. Poi, mi sembra che si sia detto che non si tratta tanto di un problema dell'informazione in senso stretto, quanto di un problema politico più allargato. Però ritengo che l'informazione, in questo senso mainstream, possa avere anche un ruolo nel sottolineare questa contraddizione, cioè il fatto che il mondo politico lasci il sociale ai margini. Forse il suo ruolo potrebbe essere proprio quello di mettere il riflettore su questa situazione paradossale..
Intervento
Volevo rivolgermi a Morrione. I mezzi di comunicazione aiutano la gente ad avere la capacità di capire, di ragionare, o invece hanno invertito questa capacità?
Roberto Morrione*
Le domande sono state complesse, non è possibile rispondere a tutte. Cerco di cogliere qualche riflessione veloce. Ieri sono rimasto molto colpito nella mattinata, in quel lavoro di gruppo, da una risposta di don Francesco. Lui ha detto: noi con la nostra associazione portiamo nelle scuole periodicamente un rifugiato politico e gli facciamo raccontare la sua storia. E l'esito di questo tipo di esperienza è sempre positivo, cioè troviamo nei coetanei - perché portano ovviamente dei ragazzi della stessa età dei ragazzi che hanno di fronte - l'esito è estremamente interessante. Avvertono il cambiamento, avvertono un'attenzione, una sensibilità. Questo è un mezzo di comunicazione che aumenta la capacità critica, anche per rispondere all'ultimo intervento. Marco Da Milano ha fatto un intervento interessante. Sostanzialmente condivido le cose che ha detto e penso che ci siano dei problemi molto alti che si pongono per chi vive di questo mestiere, per chi lo fa professionalmente e anche per un certo tipo di cultura dell'informazione. In qualche modo, però, questo mestiere può ricevere da queste realtà nuove degli elementi di vitalità estremamente importanti, di contaminazione, come è stato detto ieri. Emergency il 10 dicembre credo debba fare la sua giornata nazionale sulla pace - che è anche una buona occasione per Gino Strada di uscire da un cliché protagonistico al quale faceva riferimento e non posso che condividere - e ci saranno 120 manifestazioni per la pace. A Rai News 24 faremo in diretta qualcosa sulla giornata di Emergency, sulla pace e la guerra, che è un modo di gettare uno sguardo sul mondo e su quelle prospettive dalle quali sono partito. Concludo solo dicendo che trovo molto positivo che ci siano momenti come questo. Non credo che in Italia ci siano molte altre occasioni per riflettere sul nostro mestiere, per confrontarci tra generazioni anche professionali diverse e ritengo che la memoria sia uno straordinario patrimonio, di cui c'è uno straordinario bisogno. Oggi la nostra epoca ha dei meccanismi che colpiscono la memoria, l'annullano. Ma io credo che memoria e conoscenza siano le due strade principali su cui cercare di avviare la comunicazione. Il fatto di riuscire ad avere dei momenti di riflessione su questo credo che sia un fatto molto positivo.
Angelo Agostini*
Credo avesse perfettamente ragione quella ragazza, prima, nel dire che se i grandi media non mettono il sociale tra i temi rilevanti nel dibattito collettivo la politica riesce a sottrarsi più agevolmente a un intervento sul sociale. Detto questo, ho l'impressione che complessivamente facciamo fatica a liberarci di una cultura, di una prospettiva, di una visione dei media che a me sembra irrimediabilmente datata agli anni '60. L'ho già detto due volte, quindi non mi ripeto, della moltiplicazione differenziazione dei soggetti sociali e della loro capacità di esprimersi e di creare reti di comunicazione. Dico soltanto questo perché è tardi e voglio essere davvero breve. C'è stato una volta un segretario di partito che è arrivato alla massima teorizzazione di questa vecchia concezione dei media? Non soltanto quel segretario di partito aveva invitato a lasciare i giornali nelle edicole - perché le iene dattilografe, ovviamente, dovevano essere punite - ma quel segretario di partito è stato talmente imbecille da dire che quando lui ha bisogno di dire qualche cosa agli italiani non ha bisogno di dirglielo attraverso la mediazione di un giornalista. Lui va in televisione da Costanzo e glielo dice direttamente agli italiani. Avete visto come è finito quel genio? Avete visto che cosa ha fatto del governo che aveva preso? Allora se non si capisce che quello che dicevate voi prima - cioè costruire delle reti di mediazione, costruire delle reti di relazione con le persone - se non si capisce che è questa la chiave per fare insieme informazione e politica, abbiamo perduto in partenza, perché la migliore espressione della cultura contrapposta dei media è il più grosso imprenditore mediatico italiano che oggi è alla presidenza del consiglio. Vogliamo fare anche noi così? Io personalmente non ne ho la minima voglia.
Antonio Ramenghi*
Ho avuto alcune sollecitazioni dirette su quanto riguarda il giornale.. da ultimo quello dell'amico che ha fatto l'annuncio della manifestazione per gli arresti. A te dico che, probabilmente, non ti capita spesso di vederlo. Vedilo più spesso! Poi può darsi che arrivi alle stesse conclusioni, compri un altro giornale ed io non ho da rimproverarti di questo, ma almeno lo vedi. C'erano alcuni interventi in merito al rapporto mercato-contenuto. Si è parlato del problema della pubblicità e anche del target dei lettori. Non ho la presunzione di fare un settimanale che vada bene a tutti i lettori italiani, cerco di conquistarne il più possibile e cerco di farlo meglio che posso perché sono convinto che così riesco a conquistare audience. Poi è vero che c'è il problema del mercato e del contenuto. So che devo confrontarmi col mercato e credo che sia anche uno dei problemi dell'informazione sociale. Proprio questo punto, che è molto delicato, va gestito con le briglia sempre tenute, perché è il punto chiave, un punto delicatissimo. O fai informazione, oppure vendi e il tuo fare informazione e ciò diventa uno strumento di chi, poi, deve vendere qualche cosa che informazione non è. Volevo accennare al discorso di ciò che interessa al mio lettore. Io farei fatica a fare un giornale che verta su cosa interessa al mio lettore. Noi facciamo sondaggi, facciamo focus groups, non abbiamo abbandonato i lettori, li monitoriamo continuamente. Ci chiudiamo in una stanza e chiediamo, diamo il giornale da vedere. sono lettori storici, sono lettori nuovi, sono non lettori. Gli editori, giustamente, vogliono sentire il polso della situazione. Io però devo dire che, nel fare il mio mestiere, poche volte mi sono lasciato condizionare dalla domanda: che cosa interessa al mio lettore? Io vado più su che cosa interessa a me, cosa leggerei io, quale approfondimento secondo me richiede quell'argomento e che, magari, fino ad ora non c'è stato. Ovviamente non avendo un ruolo di terza fila poi alla fine decido anche. Così facendo, decido anche in larga parte, anche se il giornale discute molto, a volte anche troppo su cosa fare e cosa mettere... discutiamo moltissimo su come fare le cose, su come mettere gli argomenti sul giornale... Però il mix che alla fine salta fuori, verte sull'argomento importante in quel momento, sul tema sul quale dobbiamo fare un approfondimento. I lettori li andiamo a vedere un po' dopo. Questa è stata l'origine, per esempio, del fatto che per un certo periodo andavano le ragazzette nude e forse, anzi posso proprio dire che sia così, vanno ancora. E' un'operazione molto delicata quella che stiamo facendo nel togliere le copertine mitiche dell'Espresso, classiche dell'Espresso. E' un'operazione molto a rischio, perché voi che lavorate sulla rete lo sapete meglio di me, è inutile che ci neghiamo l'evidenza. La rete è soprattutto uno strumento di veicolazione della pornografia in questo momento. Anzi, dico quasi esclusivamente, perché nel mare magnum degli accessi alla rete - noi li vediamo perché abbiamo kataweb e abbiamo tutti i siti Espresso, Repubblica, ecc. - non c'è niente da fare. Il problema non è né di negare la pubblicità, né di negare il mercato, ma è quello di stare dentro - perché non si può star fuori a questo gioco - cercando di approfittare di tutti gli interstizi, di tutte le possibilità che questo meccanismo... e, onestamente, non è quello che tu hai sognato. Perché io non è che ho sognato di fare il giornalista per riempire degli spazi lasciati liberi dalla pubblicità, manco per niente! Anzi in questo momento stiamo facendo il incontrario. Stiamo cercando di riempire di contenuti forti, più forti possibile, un giornale che però, per poter fare quella roba lì, si deve portar dietro la pubblicità. Molta pubblicità è di mero consumismo mentre altra è pubblicità che poi, alla fine, ha un contenuto, un certo tasso d'informazione. Io non sono per demonizzare la pubblicità in assoluto. Ritengo che molta pubblicità abbia contenuti informativi che, molto spesso, sono quasi superiori a quelli di certi articoli. Non si può fare di tutta un'erba un fascio. Ed è su questo piano che ci si deve misurare. Io dico: stiamo sul mercato, pensiamo ai lettori, li monitoriamo, sentiamo cosa dicono. Secondo me un giornale, soprattutto un settimanale che ha più tempo, deve ascoltarli tutti... quelli che rompono le scatole, quelli che vogliono darti una notizia, quelli che vogliono farti una critica. Su questo, è vero, noi siamo una categoria che ha sempre un po' snobbato il dialogo con il lettore. Quanto poi alla collaborazione che i giornali debbono avere con la comunicazione sociale, ben venga. Io non mi tiro indietro. Dietro c'è, più che una collaborazione, il rischio di andare a un conflitto. Ma dai conflitti nascono delle cose buone solitamente se il conflitto è fatto in modo positivo e costruttivo. Io non temo che dal mondo dell'informazione sociale vengano degli stimoli anche forti, così come sono venuti già stamattina. Io ho capito benissimo che ero qui in una posizione delicata e pericolosa. ma va benissimo, ci sto, ci sono, ben venga. Credo che sarebbe peggio se ci si ignorasse, se credessimo di poter andare avanti noi per la nostra strada e voi per la vostra. Poi chi sarà ghettizzato dei due? Non lo so, è una gara che al limite m'interessa anche poco. M'interessa invece quello che abbiamo detto da ieri ad oggi in merito alla contaminazione forte, magari a seguito di un bello e costruttivo scontro.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.