Incontro con Ivano Liberati. Relazione di Silvia Montecchi
Ivano Liberati, giornalista del Giornale Radio Rai*
Grazie di aver scelto di partecipare a questo seminario dedicato alla Cooperazione Internazionale, anzi, come recita la brochure, alle tante facce della Cooperazione Internazionale. Proprio una presentazione rapidissima, anche per sapere chi vi trovate di fronte. Io mi chiamo Ivano Liberati, sono un giornalista della Rai, lavoro al giornale radio, mi occupo di cronaca e negli ultimi due anni mi sono dedicato, se non esclusivamente, quanto meno prevalentemente alla Cooperazione Internazionale. Ho fatto una proposta al mio direttore, ho detto: "Se mi fai seguire i progetti umanitari nei paesi del terzo mondo, nei paesi in via di sviluppo, prometto di costarti poco, nel senso che a parte il biglietto aereo mi faccio ospitare dalle organizzazioni non governative". Ha accettato questa proposta ed è nato così un modo di lavoro che, almeno a me, ha dato molte soddisfazioni personali. Mi è capitato di andare spesso in Africa, in Sierra Leone, ad occuparmi dei bambini soldato in una delle più grandi organizzazioni internazionali. Mi è capitato di andare in Angola ad occuparmi di sminamento umanitario, in Bangladesh a seguire un progetto di chirurgia plastica per le donne sfigurate dall'acido e quindi ancora Guinea, Kenia, Congo, Brasile, insomma una serie di paesi dove si è a contatto con quelli che qualcuno ha definito i "dannati della terra". Lei invece è Silvia Montevecchi, di Bologna, è una pedagogista. Anche lei è stata molto in Africa, ha visitato molti paesi, ha lavorato in molti paesi, dall'Uganda alla Tanzania, Madagascar, Sierra Leone, Somalia, è stata anche lei in Brasile. Essendo pedagogista si è occupata soprattutto di progetti di educazione per bambini ed anche progetti di formazione per insegnanti locali. Ha scritto molti libri, belli, questo ve lo dico non perché sia qui. L'ultimo è praticamente una raccolta di lettere che lei ha spedito quando si trovava in Burundi e poi in Somalia. Poi ne parleremo anche perché in questo libro ci sono scritte delle cose, a mio avviso, molto importanti, gravi anche, sotto un certo punto di vista quanto a denuncia. Noi non facciamo relazioni, questa vuole essere semplicemente una chiacchierata informale tra amici. Volevo cominciare facendo una piccola riflessione su una cosa che apparentemente, ma solo apparentemente, a mio avviso c'entra poco con l'argomento di cui stiamo parlando. Mi riferisco ad un avvenimento che si è verificato il 14 di ottobre. Era cominciata da una settimana la guerra, l'attacco militare all'Afghanistan e il 14 ottobre, una bella domenica di sole, si è svolta la marcia Perugia-Assisi. Ovviamente tutti quanti avete avuto modo di sentirne parlare, avete visto le immagini in televisione? Molto bella, molto folkloristica. Io ero lì per il giornale radio a fare servizi e collegamenti, avevo una postazione proprio nel Sacro Convento di Assisi e al di là di tutto quello che si è detto, credo che forse sia sfuggita una cosa o, almeno, io non ho avuto modo di vederla sui grandi mezzi di informazione. A mio avviso, è un'opinione del tutto personale, quel giorno è morto il pacifismo cattolico, o meglio le campane della Basilica di Assisi hanno proprio segnato il requiem per il pacifismo cattolico. Quella mattina durante la santa messa, il Papa non ha detto una parola sulla marcia della pace, non ha detto una parola, nella Santa Messa non c'è stata una parola. L'Osservatore Romano ha completamente censurato quell'avvenimento, non ne ha parlato proprio. L'Avvenire, quotidiano cattolico, ne ha parlato ma solamente per ospitare un'intervista a uno storico cattolico che si chiama Giorgio Rumi, che diceva più o meno questo: "Sono in gioco milioni di vite e noi stiamo qui a sventolare delle bandierine". Io ho avuto modo, in quei giorni, di intervistare per il giornale radio molti leader della così detta tavola della pace, del forum che ha organizzato la marcia, da Luigi Bobba delle Acli allo stesso Flavio Lotti che era il coordinatore della tavola della pace, Edoardo Patriarca del forum permanente del terzo settore, del responsabile dell'Agesci, della Fivol. Tutti quanti dicevano, ovviamente pur con le necessarie sfumature: "Non è possibile essere pregiudizialmente contrari alla guerra, all'intervento militare - dicevano - bisogna che tutto venga ricondotto sotto la protezione, sotto leggi delle nazioni unite, bisogna fare in modo che gli interventi siano mirati" ma nessuno si è detto pregiudizialmente contrario alla guerra, neanche i francescani del Sacro Convento. Padre Enzo Fortunato, che è il portavoce, parlava di sorella pace, ma anche sorella giustizia e quindi forse il detto evangelico "se ti danno uno schiaffo alla guancia destra, porgi anche la sinistra" o non vale più o a me è sfuggito qualche passaggio! Dicevo questo perché a me sembra un aspetto molto importante e che è stato ignorato dalla grande stampa. Quel giorno sono successe altre cose, secondo me, altrettanto importanti, anche queste passate sotto silenzio. I titoli dei giornali sono stati più o meno su qualche fischio più o meno dato a D'Alema, Rutelli che erano presenti, che pure avevano votato per l'intervento militare in Afghanistan. Cosa è sfuggito? Bhè, sono sfuggite le proposte concrete che sono arrivate dalla tavola della pace, perché nei giorni precedenti la marcia di Assisi, a Perugia, si è svolta la così detta assemblea dei popoli delle nazioni unite, un forum di oltre 600-700 organizzazioni Ong con esponenti e rappresentati di circa 140 paesi, che hanno approvato, hanno elaborato un documento molto concreto. Non qualcosa di ideale così, campato in aria, i soliti slogan. No, hanno approvato qualcosa di concreto. Io mi sono appuntato qui alcune cose, ho segnato alcuni punti di questo documento approvato praticamente il giorno prima della marcia della pace Perugia-Assisi. Vi leggo alcuni passaggi. "Democratizzare le nazioni unite abolendo il diritto di veto delle grandi potenze". Bhè, è una cosa molto concreta, al di là del fatto che poi si riesca a fare o meno, secondo me no, però è una cosa molto concreta. "Assicurare il diritto al cibo per tutti". Vorrei ricordare che lo slogan della marcia della pace è "cibo, acqua e lavoro per tutti", una frase poi ripresa dall'enciclica di Papa Giovanni. "Cancellare il debito estero dei paesi poveri. Modificare le regole del commercio internazionale che impediscono il libero accesso ai mercati dei paesi poveri. Garantire a tutti l'accesso ai farmaci salvavita" compresa la produzione e la commercializzazione indipendentemente da chi detiene i brevetti e qualsiasi riferimento alla vicenda del Sud Africa è puramente voluta. "Rendere subito operativa la corte penale internazionale permanente", che non entra in vigore perché non ha raggiunto il numero minimo di ratifiche, Stati Uniti in testa. "Garantire la pace in medio oriente secondo il principio due popoli, due stati, applicando le risoluzioni delle Nazioni Unite". Riformare le grandi tecno strutture economiche, quelle che qualcuno chiama "la trinità globale", come il fondo monetario internazionale il WTO, cioè l'organizzazione mondiale del commercio o la banca mondiale in modo da rendere le loro politiche socialmente, umanamente, anche politicamente sostenibili. E poi un punto molto importante, al di là di tanti altri che sono stati approvati in questo documento nei giorni della marcia della pace, recita testualmente così, questo l'ho evidenziato, proprio perché a mio avviso è molto importante, "aumentare fino allo 0,7% del Pil, dunque del prodotto interno lordo, gli stanziamenti che i paesi ricchi destinano a quelli poveri, superando la logica dell'emergenza e promuovendo la cooperazione tra associazioni e comunità locali". L'obiettivo di destinare lo 0,7% del Pil ai paesi poveri è un obiettivo di vecchia data, risale ad almeno 30 anni fa, era il sogno delle Nazioni Unite, diciamo che a distanza di 30 anni questo obiettivo non è stato raggiunto, perché i paesi che veramente destinano lo 0,7% sono 4 nel mondo, sono la Svezia, la Norvegia, l'Olanda e la Danimarca, l'Italia è da anni ferma a uno 0,13%. Però, a mio avviso, questo punto è importante perché ha segnato un momento di svolta, cioè la cooperazione internazionale è stata vista come uno strumento per prevenire o risolvere i conflitti internazionali, cioè come un mezzo, uno dei tanti mezzi. Al di là della guerra, al di là dell'azione militare, che cosa si può fare concretamente per prevenire o risolvere i conflitti internazionali? Durante la marcia Perugia-Assisi è emersa questa proposta, che poi è stata fatta proprio nel documento, cioè usare come strumento la Cooperazione Internazionale. Questo, a mio avviso, è l'unica forma, ma è un'opinione personale, di pacifismo serio, consapevole, concreto, cioè un pacifismo che va al di là degli slogan e arriva dritto al cuore dei problemi. Qualcuno la chiama anche "non violenza attiva", perché certo, chi si occupa di Cooperazione Internazionale fa non violenza attiva, ci mancherebbe altro, ma fa anche molte cose concrete. Io credo che questa sia una strada percorribile. A mio avviso la regola d'oro di qualunque conflitto è che, da una parte, c'è gente che sta bene, dall'altra c'è gente che sta male, da una parte c'è gente che riesce a mangiare a pranzo e a cena, dall'altra c'è gente che spesso non riesce a mettere in bocca nulla. Io voglio fare solamente qualche esempio personale. Mi è capitato due volte di andare in Israele e in Palestina: qualcuno mi deve spiegare perché in Israele ci sono i pub e le discoteche, nei territori occupati e in Palestina no. Quando mi è capitato di parlare con alcuni esponenti di Hamas, uno dei movimenti più estremisti, mi hanno spiegato che quando qualcuno s'imbottisce di tritolo, si fa saltare in aria in un autobus, in una discoteca di Telaviv o Gerusalemme, non lo fa solamente perché gli dicono che così facendo lui va nel regno di Allah e magari dal suo corpo esala un odore profumato (così gli viene fatto credere). Non è solamente una motivazione di carattere religioso, c'è proprio una motivazione anche economica dietro. Poi mi è capitato di parlare anche con esponenti, nel sud del Libano, e mi hanno detto la stessa cosa. Lì garantiscono, oltre che al regno celeste, anche sostegno economico alla famiglia: il martire che si fa saltare in aria sa che una volta che non c'è più, mentre magari sta facendo 4 chiacchiere con Allah, c'è qualcuno che alla sua famiglia e ai suoi figli dà dei soldi. Questo ufficialmente non lo dicono. C'è chi fa studiare i figli, dà i soldi alla vedova, quindi dice: "Mah, perso per perso, vista la sfiga che caratterizza la mia vita, mi faccio saltare in aria perché così qualcuno almeno pensa alla mia famiglia". Allora la Cooperazione Internazionale è importante per questo. La cooperazione, ovviamente che funziona, perché poi in Italia abbiamo conosciuto un tipo di cooperazione degli anni '80 sulla quale, forse è meglio stendere un velo pietoso. Chi fa cooperazione internazionale, in Italia e nel mondo? Quali sono i soggetti che la fanno? In primo luogo sono gli stati. Ogni stato attraverso il suo Ministero degli esteri ha un dipartimento che si occupa di cooperazione allo sviluppo. Poi sono le organizzazioni internazionali, in primo luogo le agenzie delle nazioni unite, l'UNHCR, l'alto commissariato che c'è per i rifugiati, l'Unicef, il programma alimentare mondiale, che pure non è un'agenzia, ma è più importante di un'agenzia, l'organizzazione internazionale del lavoro, l'organizzazione internazionale per l'emigrazione. Ce ne sono tante. Poi ci sono le ONG, le organizzazioni non governative. Si chiamano non governative però perché si distinguono e si differenziano dalle prime che invece, essendo organizzazioni di stati, sono organizzazioni governative. In Italia ce ne sono circa 200, più o meno, ma raggruppate in 3 grandi federazioni, ed ognuna di queste ha dei connotati ideologici ben delimitati, ben precisi. Le Ong in Italia, che sono della più varia natura, si occupano di varie cose. C'è chi si occupa di pozzi d'acqua, chi di sanità, chi di sostegno all'agricoltura. Hanno in genere finanziamenti che derivano da 4 fonti, da 4 sorgenti: i fondi che arrivano dalle agenzie dell'Onu, che sono a loro volta finanziatori dell'Ong, fondi che arrivano dall'Unione Europea, a Bruxelles c'è proprio un ufficio per gli aiuti umanitari che si chiama Ico, fondi che arrivano dal ministero degli esteri, dalla cooperazione allo sviluppo. Ultimamente in Italia sono quelli che forse hanno subìto un maggior giro di vite. Poi ci sono ovviamente donazioni private che possono arrivare da persone, da enti, da comunità e così via. Noi oggi parliamo della Cooperazione Internazionale e delle tante facce, dei tanti volti che può assumere questa cooperazione. Silvia Montevecchi, che vi ho presentato prima, ha avuto modo di lavorare sia con organizzazioni internazionali come l'Unicef in Borundi, sia nello stesso paese con organizzazioni non governative come Intersons, che è una delle Ong più grandi in Italia almeno in termini di bilancio, di estrazione sindacale. Gli azionisti di Intersos sono Cgil, Cisl e Uil. Lei ha avuto modo di lavorare su tutti e due i fronti, quindi almeno due facce di questa Cooperazione Internazionale le ha conosciute. Io la prima domanda che vorrei fare, poi ovviamente passo il microfono a voi, perché vorrei che anche voi faceste delle domande, è questa. Visto che hai avuto modo di lavorare su tutti e due i fronti, chi è più bravo? Chi è stato più bravo, almeno? Io poi mi riservo il diritto di interromperti per farti delle domande quando magari lo riterrò opportuno, sperando di non essere troppo invasivo.
Silvia Montevecchi, pedagogista*
E' una domanda che mi viene fatta spesso, che piace molto, perché viene probabilmente spontaneo, a chi ne è fuori, voler sapere come vanno le cose. Il mondo della cooperazione a grandi linee diviso tra buoni e cattivi, o comunque tra più buoni o più cattivi. Io questa distinzione forse non la facevo prima di lavorarci, lavorandoci la faccio ancora meno. Vedo le cose sempre più con sfaccettature di grigi e darò una risposta forse banale, che è legata a quella che è stata la mia esperienza, a quello che ho visto sul territorio: non è che le une siano più brave, le altre sono più cattive, che una cooperazione sia migliore, l'altra peggiore. Non so se dire purtroppo o per fortuna, comunque di fatto alla fine, ripeto, forse è banale dirlo, ma non lo è nella pratica, è sempre e solo una questione di persone, perché comunque le une e le altre, sia le grandi agenzie, sia le piccole Ong, sono gestite e portate avanti da persone. I progetti dipendono dalle persone. Io sono sempre la stessa persona, sia che lavori in una Ong, sia che lavori in una grande agenzia. Io ho lavorato appunto per le une e per le altre, ho lavorato per diverse Ong, prima in Italia, da 20 anni lavoro e ho lavorato nelle Ong, quindi ne ho fatte tante, ne ho bazzicate tante delle varie aree, dalla sinistra a quelle più cristiane, e poi ho lavorato per l'Unicef e per l'Unione Europea in Somalia e quindi ne ho viste tante di sfaccettature. Si pensa che la cooperazione dell'Ong sia alternativa, che abbia dei valori diversi. In realtà, secondo me, non è così nella misura in cui sono comunque le persone che fanno le cose. Io sono sempre io, sia che lavori per una piccola Ong, che sia pagata una cifra, sia che vada da un'altra parte e sia pagata un'altra cifra; tra l'altro teniamo presente che c'è tantissima mobilità tra le due cose, c'è tanta gente nelle grandi agenzie che viene dalla cooperazione delle Ong e viceversa. C'è anche tanta gente, forse meno, che dalle grandi agenzie poi ritorna nel mondo delle Ong. Questo, secondo me, è da tenere ben presente, perché tra l'altro, quando si lavora sul campo, la responsabilità che si ha in mano è enorme. Gli espatriati che lavorano sui progetti, cioè quelli che non sono del luogo insomma (gli stranieri che arrivano vengono detti in gergo espatriati, che da casa loro sono espatriati, quindi sono degli immigrati in realtà) gli espatriati sono lì in generale con dei ruoli di grande responsabilità, ad eccezione di quelle situazioni di volontariato, che non sono più neanche tanto nelle Ong di cooperazione, di piccoli gruppi che vanno a fare campi di lavoro, ecc. In quel caso può andare giù anche il manovale. Nella cooperazione gli espatriati che lavorano sono persone che vanno giù come capi progetto o capi programma paese, ecc. E' la persona nella sua qualità, nel suo modo di lavorare che ha tantissima responsabilità e io ho visto le cose più disparate sia nelle piccole Ong, sia nelle grandi agenzie.
Ivano Liberati
Ti devo fermare perché ti devo fare una domanda precisa. Tu ti sei descritta in modo molto efficace, secondo me, nel tuo libro: una moderna befana che porta gli aiuti umanitari, che anziché arrivare sulla scopa arriva in toyota, in pikup, che è il mezzo più usato visto che le strade sono poco asfaltate e in quei paesi si arriva in Toyota. Tu, leggo testualmente quindi non m'invento niente, fai una denuncia che a mio avviso è molto grave e io credo che sia anche un po' ingenerosa: "Dei tanti miliardi che girano negli aiuti umanitari alla gente, cioè ai destinatari, restano solamente le gocce, non certo i miliardi stanziati che noi sentiamo decantare dalla Tv, dall'Unione Europea, da questo o quel governo. Non mi riferisco, scrive Silvia Montevecchi, solo alle grosse agenzie, al sistema delle Nazioni Unite, ma anche alle piccole Ong, che si vantano tanto di essere alternative. Credo, dice ancora, che se qualcuno avviasse un'inchiesta seria su tutto questo, scoppierebbe qualcosa di scandaloso più di tangentopoli, perché, aggiunge, se fa schifo chiedere mazzette di miliardi per accaparrarsi questo o quell'appalto, fa ancora più schifo, leggo testualmente, speculare sui soldi destinati a gente che non ha niente, a gente che ha bisogno di aiuti. La fauna degli aiuti umanitari è davvero pazzesca tanto nelle grandi strutture delle Nazioni Unite, quanto nelle piccole Ong, si trova davvero di tutto. Voglio dire, si trovano molte persone serie, preparate professionalmente, ma si trova anche una marea di pazzi, psicopatici, nulla facenti e quant'altro. Trovi gente di 30 o 40 anni fatta alle 10 di sera di alcool, fumo, cocaina, trovi quelli che magari con i soldi dei progetti si pagano le prostitute e non si preoccupano neppure di nasconderlo. In una Ong cristiana c'è persino uno che ha fama di pedofilo". A me la domanda che viene spontaneo farti è questa: quando sei tornata in Italia hai denunciato uno di questi casi? Perché qui ci sono reati. Se qualcuno si appropria dei soldi dei progetti per andare con le prostitute è un reato, hai denunciato qualcuno di questi casi?
Silvia Montevecchi
No, io sono stata un po' indecisa se farlo quando ero là, non potevo farlo quando ero qua. Questi, qui, non avevano più nulla, poi qui a chi denunci? Le cose devono essere fatte in loco. Anche perché servono delle prove per farlo. Avrei potuto farlo in un caso. Non l'ho fatto. E' difficile fare queste scelte, quando sei in una posizione del genere, con tutto quello che c'è dietro. Non è che la situazione fosse sconosciuta, non è che la conoscevo solo io, era tutto palese agli occhi di tante persone, e la denuncia si riduceva ad un atto formale. Come si diceva per tangentopoli, quando si facevano le mazzette (che poi non è che non si facciano più) in Italia tutti sapevano che si usavano certe cose no? Ecco, nel mondo della cooperazione non è che questo non esiste, si sa che ci sono dei raggiri ma va bene così, funziona così.
Ivano Liberati
Non è che io voglia fare l'avvocato dell'Ong, però credo che sia un giudizio un po' ingeneroso. Anch'io ho visto tante cose, ho visto uno spreco e già nell'arco di quei 7-8 giorni in cui di solito mi trattengo nei paesi del terzo mondo. Non sono stato anni come te ma mi è capitato di vedere tanti sprechi sia da parte delle agenzie delle nazioni unite, sia da parte delle Ong. Non voglio escludere che ci siano anche casi di furto, ci mancherebbe altro, però forse dare un'immagine di Ong come se si parlasse di un'associazione a delinquere mi sembra un po' troppo. Quando mi è capitato, per esempio, di andare in Angola ho visto gente che curava persone che avevano gambe spappolate dalle mine, mi spiace non aver portato le foto qui. Quando sono stato in Bangladesh ho visto ragazze sfregiate, sfigurate dall'acido alle quali venivano applicati degli orecchi di plastica o comunque veniva ricostruita la mascella, la mandibola per consentire loro di mangiare. Certo, ci sono anche quei casi ma mi auguro che chi li vede arrivi a denunciarli, perché altrimenti si riproduce in scala più piccola o più grande, quello che è successo per tangentopoli. Lì tutti, quando andavano in tribunale, dicevano: "Siccome rubavano, era il sistema, lo sapevano tutti, perché dovevo denunciarlo?". Secondo me, quando qualcuno ha cominciato a denunciare, poi il marcio è venuto a galla. Vorrei introdurre un secondo argomento, che secondo me è molto importante. Proprio in quel punto che vi ho letto, approvato a Perugia, nella tavola della pace, quando si fa riferimento alla necessità per gli stati ricchi di aumentare fino allo 0,7% la quota del Pil da destinare ai paesi poveri, si dice anche che bisogna superare la logica dell'emergenza. Questa è una cosa molto importante. Nella fase che stiamo vivendo vediamo alcune Ong che ormai sono su tutte le pagine dei giornali. Il caso di Emergency è solamente uno: quando si fa politica di emergenza è molto facile far parlare di sé, è molto facile andare sui giornali, andare in televisione. Solamente c'è un fatto che pochi prendono in seria considerazione; l'emergenza sì serve, ma è un'emergenza, e in quanto tale mette una toppa, copre un buco, poi i problemi restano. Allora qual è l'aspetto della cooperazione che invece bisognerebbe privilegiare? Quello che forse produce effetti di lungo periodo? E' la cooperazione allo sviluppo, quella più silenziosa, quella che forse non fa parlare di sé, che può andare dal sostegno ai contadini poveri senza terra di Rio De Janeiro del Brasile o all'approvvigionamento idrico di qualche villaggio dell'Etiopia. Questi sono progetti, mi rendo conto, che non hanno un appeal mediatico. Quando sono andato in Etiopia c'era la guerra con l'Eritrea, facevo dei pezzi sui pozzi d'acqua, ero con una Ong che si occupava di pozzi d'acqua. Il mio capo redattore dice: "Hai mandato tre pezzi sui pozzi d'acqua, però magari adesso facci qualche pezzo sulle cannonate, chi salta in aria sui bombardamenti!". Così come quando sono andato in Brasile, a Rio De Janeiro, a luglio ho fatto dei pezzi sui contadini senza terra. Il caporedattore mi dice: "Vatti a fare un giro a Copa Capana e parlaci del traffico di organi", perché lì c'è il traffico di organi. Magari non ci sono le prove, ma c'è. Questo per dire che dopo un po' certi argomenti che hanno approcci di lungo periodo interessano poco. Forse il settore di cui si occupa Silvia, pedagogista, è uno di quelli più sfigati in assoluto, perché mentre magari un pozzo d'acqua dopo un mese si vede, lavorare nell'educazione dei bambini, nella formazione degli insegnanti, spesso dà risultati dopo 2-3-4 anni, quando magari chi ha avviato questi progetti è tornato in Italia e fa tutt'altro. Questa è la vera cooperazione che fa la differenza, la cooperazione allo sviluppo, non cooperazione di emergenza. E' quella che produce effetti stabili di lungo periodo. Io vorrei che tu parlassi proprio di questo. Non si riesce a far capire l'importanza della cooperazione ordinaria, chiamiamola così e invece si parla solamente di quella di emergenza, perché forse fa notizia.
Silvia Montevecchi
Ritorno alla prima domanda. Io sono d'accordo con te su quello che hai detto, ma spero bene che questa non sia l'immagine che esce dal mio libro, perché io non è che volessi dire che le Ong facciano attività a delinquere, per carità! Non ho assolutamente detto questo, o scritto questo. Però vorrei precisare che non è che il mondo delle Ong sia fatto da angeli come si dice in televisione. Non dico che le Ong rubano, per carità, questo sia chiaro. Le Ong sono tantissime e ci sono quelle più serie e quelle meno serie. Poi c'è anche il discorso della qualità del lavoro. Io sono d'accordissimo sul fatto che ci sono delle persone meravigliose, tanto nelle Ong, quanto nelle grandi agenzie, che si fanno un mazzo di tante ore al giorno lavorando in condizioni allucinanti. Si fa una vita molto sacrificata e c'è gente che lo fa con grande professionalità, ovviamente, con grande coscienza umanitaria e politica. Voglio dire, però, che ci sono le une e le altre cose. Era questo che volevo dire, perché è vero. Poi quello che io dico più avanti nel libro è che comunque, di tanti soldi che vengono spesi, quello che arriva è poco. Io non ho detto questo nel senso che i soldi vengono rubati. Volevo dire che le strutture costano tantissimo, perché comunque anche le Ong che fanno questi progetti in ogni caso prendono i soldi dalle strutture pubbliche, che sia un paese, un governo, che sia l'unione europea, che siano i soldi delle Nazioni Unite. Sono poche le Ong, soprattutto italiane, che hanno fondi propri. La singola Ong da dove prende i soldi? Ha la sua struttura, quindi paga i suoi affitti, i suoi guardiani, le sue macchine, le sue bollette, le cuoche, ovviamente noi che siamo lì. Questa Ong dove prende i soldi? Li prende dall'Unicef, che ha il suo palazzo che paga i suoi guardiani, le sue macchine, i suoi affitti e così via. L'Unicef da dove prende i soldi? Alcuni soldi vengono dall'Unione Europea che ha i suoi rappresentanti, il suo palazzo, le sue macchine, ecc. Più le spese di pubblicità, le spese di formazione, le spese dei viaggi internazionali, le spese dei materiali che vengono stampati, ecc. Cioè si fanno miliardi. La cooperazione è questo. E' fatta da una marea di persone che sono sul campo per fare delle cose, poi si potrebbe entrare anche nel discorso degli scoordinamenti che ci sono, per cui le agenzie dell'Onu sono tantissime e ci si ritrova a disperdere molto su un territorio. Insomma, c'è una marea di persone che costano molto e tutta la struttura costa. Sull'emergenza, allora! Dunque la cooperazione è nata come cooperazione allo sviluppo. Io ti do una risposta per quello che penso riguardo, soprattutto, al panorama italiano, non so se negli altri paesi esattamente è così. Il discorso delle emergenze è venuto fuori negli ultimi 10 anni. La cooperazione è nata per essere una cooperazione di sviluppo, poi cosa è successo? Si sono chiusi i rubinetti per i progetti di cooperazione e tantissime Ong si sono buttate o sono nate appositamente per poter avere i fondi dell'emergenza. I progetti per l'emergenza li presenti ed hai la risposta in pochissimo tempo, perché ovviamente se c'è un'emergenza non può arrivare la risposta dopo un anno. I progetti di cooperazione li presenti, se poi non ti vengono approvati, devi cambiare le cose e poi le ripresenti e poi passano altri due mesi per avere una risposta. Spesso, poi, la risposta al finanziamento ce l'hai dopo un anno, un anno e mezzo. Poi ci sono altre motivazioni più politiche. E' anche vero, questo l'ho scoperto in Burundi, che a certe situazioni conviene essere in emergenza, perché se c'è l'emergenza arrivano i soldi, se non c'è l'emergenza non arrivano, quindi ogni tanto bisogna sparacchiare, ammazzarsi, così si può continuare a dire di essere in emergenza.
Ivano Liberati
Io adesso vorrei affrontare con due flash, legati a ricordi personali, altri due argomenti che mi auguro poi siano anche oggetto di discussione. Quante volte sentiamo parlare in televisione, alla radio, lo leggiamo sui giornali "adottiamo un bambino a distanza". E' una politica che fanno moltissime Ong. Ora a me è capitato questo. A fine Aprile ero in Angola e sono andato a visitare la discarica di Boa Vista che è a Luanda, la capitale alla periferia di Ruanda. Ci vivono 30 mila persone praticamente riciclando rifiuti di ogni genere, si nutrono, si vestono, abitano proprio con i rifiuti prodotti dal ventre della città. C'era una scuola dove una mattina uscivano dei bambini praticamente scalzi, con pochi stracci addosso, avevano sacchi di juta e tra loro, invece, ce n'era uno carino, vestito bene, col grembiulino, con lo zainetto, non firmato, comunque aveva lo zainetto, allora pensavo fosse il figlio di qualche persona importante. Poi mi sembrava strano perché insomma, una persona importante non vive dentro una discarica. No, mi hanno spiegato che quel bambino è più fortunato degli altri perché è stato adottato a distanza. Dice: "Vedi? Non volendo, guardate un po' che discriminazione che si crea!". Cioè, al momento in cui all'interno di una comunità viene adottato un bambino per cui arrivano dei soldi e per cui vengono comprate scarpe, zainetti, grembiulini, calzini, magliettine pulite, bhè', quel bambino diventa diverso dagli altri e viene visto in un altro modo. Si crea una discriminazione senza volerlo. Ora, lungi da me l'idea di voler scoraggiare chi vuole fare l'adozione a distanza, però mi sono informato con si chi occupa da più tempo di me di questi problemi e mi hanno spiegato: "Forse tu non lo sai, forse pochi lo sanno, ma da molto tempo sono nati programmi alternativi all'adozione a distanza che si chiamano: "sostegno a distanza", cioè versando praticamente la stessa quota anziché adottare un bambino, una persona, si adotta una comunità, che può essere una comunità minima come una famiglia, una comunità un po' più grossa come una scuola o addirittura una comunità allargata come un intero villaggio". Così facendo, con gli stessi soldi, perché non è che si sborsa di più, si fa in modo che il sostegno che arriva venga diviso in quote uguali per tutti i membri della comunità. Immaginate un'adozione a distanza di un bambino che poi ha altri tre fratelli che vanno in giro scalzi e vedono il fratello con le scarpe. Ecco questa è un'altra cosa che mi piaceva affrontare, che io faccio rientrare in un "capitolo mentale" che chiamo "alcune scelte sbagliate". Perché non si privilegia il sostegno a distanza rispetto all'adozione a distanza? Poi voglio dire, tu sei pedagogista, ti sei occupata di programmi di formazione.
Silvia Montevecchi
Qui è difficile dare una risposta complessiva perché le realtà di adozione a distanza sono tantissime, proprio tante. In Italia ogni tanto ne scopro altre di associazioni, mai sentite prima e hanno filosofie a volte molto diverse tra loro. Io credo che, in realtà, la differenza tra adozione e sostegno sia più che altro una differenza di termini, perché in realtà ci sono situazioni che vengono dette adozioni a distanza, poi in realtà non è che i soldi vadano a un singolo bambino. Sicuramente mi fai venire in mente una cosa che poi si riallaccia anche al discorso, della cooperazione buona o cattiva, come hai detto all'inizio, della cooperazione che funziona. Mi fai venire in mente una situazione che ho visto sempre in Burundi di Village SoS, che è una fondazione tedesca che è in tutto il mondo e che io ho conosciuto in alcuni posti. In ogni posto è diverso, però in Burundi per esempio si concretava con la fortissima discriminazione etnica. L'asilo con l'orfanotrofio, finanziato appunto, prendendo molti soldi anche dalle adozioni e dai finanziamenti in generale di questa fondazione era gestita come la maggior parte delle cose del resto in Burundi dai Tutsi. Il direttore della scuola era un tutsi, insomma tutte le maestre erano tutsi e quindi cosa succedeva? Che quindi prendevano solo i bambini tutsi. Era un ulteriore modo di creare un ghetto in positivo per loro naturalmente, un loro sistema per creare questa piccola isola di formazione di futuri bei tutsi che nella prospettiva dovevano continuare a gestire il potere. Avevano una scuola più bella rispetto ai canoni e i bambini erano già selezionati proprio all'ingresso, bambini di 2-3 anni in su. Avevano la loro scuolina, era bella. Quando ci sono andata l'ho utilizzata per fare dei corsi di formazione per la gente con cui lavoravo. Anche io ho fatto un'adozione a distanza, in Madagascar. Ci ho vissuto più di un anno e tra le varie cose ho conosciuto una missione che si avvale di questi fondi delle adozioni a distanza. Ho visto come vengono usati i fondi e non è che vengono usati per rendere questo bambino più bellino degli altri. Queste 50 mila lire che vengono mandate al mese aiutano una famiglia, i soldi vengono gestiti in modo da fare del microcredito in sostanza. Una famiglia si è messa su piano piano il forno e poi si è resa autonoma, un'altra può comprare una macchina da cucire con cui poi mettere su la sartoria, un'altra ancora ha la ragazza madre che viene aiutata a mettere su le cose per fare il mercato, perché senza quei soldi non avrebbe neanche la possibilità di comprarsi il tavolo e l'ombrellone come si usa nei mercati di Tanà. Io non vedo così male questo tipo di adozione a distanza però io l'ho vista sul territorio. Tra l'altro questa non è neanche un'associazione italiana i soldi vengono dati direttamente là, non ci sono spese di strutture intermedie, vengono gestiti da lì. Di certe cose ci si rende conto solo sul posto e dare suggerimenti a distanza non è possibile.
Ivano Liberati
Vorrei raccontarvi di altri casi, a mio avviso, di scelte sbagliate. Una caratteristica di tutte le Ong italiane, ma anche straniere, quando operano in questi paesi del terzo mondo, è che si appoggiano a Ong locali. Lavorano tramite Ong locali per fare anche formazione del personale e perché questo risponde a un principio molto corretto: un giorno che la Ong straniera va via, ovviamente gente del posto riesce a portare avanti il progetto. Estate del '99, era appena finita la guerra del Kosovo, l'avevo seguita per due mesi e una mattina andai a trovare a Tirana una signora italiana, Natalina Cea, una funzionaria europea che era presidente di una commissione per l'assistenza doganale, alle dogane albanesi. Stavano cercando di rimettere in piedi le dogane. Vado lì e vengo fermato quattro volte da uomini della sua scorta. Dico: "Mah, strano, si occupa di assistenza doganale e vive sotto scorta. Quando mi ha ricevuto, mi ha spiegato il perché e l'ho ben capito. Cosa aveva scoperto Natalina Cea nella sua commissione per l'assistenza alle dogane albanesi? Che da quando era scoppiata la guerra, l'Albania aveva praticamente smesso di importare beni di prima necessità che non produce, come thè, miele, caffè, zucchero. Come mai? Non è che la gente improvvisamente abbia scelto di prendere il caffè amaro! Lo zucchero, così come gli altri beni, veniva sottratto agli aiuti umanitari, non tanto quelli della missione Arcobaleno, che vi garantisco, al di là di quello che poi si è detto o si è scritto, forse è stata la missione che è riuscita a far arrivare a destinazione almeno l'80% dei fondi ma soprattutto a quelli tedeschi e di altri paesi europei che venivano intercettati. Da chi, vi chiederete. Da una serie di Ong locali che erano nate per l'occasione Si tratta di una ventina di associazioni nate per truffare e, quindi, di fatto, questi aiuti umanitari anziché finire nei campi profughi finivano al mercato nero. Questo con grave danno anche per le dogane, perché mentre gli aiuti umanitari entravano esentasse, senza dazi, se l'Albania li avesse importati ci sarebbero stati soldi anche per le casse dello stato, anche per le dogane. Allora la domanda che io ti voglio fare al di là di questi casi estremi che forse si sono verificati là e magari non si sono verificati in altri posti del mondo, ma quando una Ong italiana sceglie la Ong partner locale, che tipo di valutazione fa? Si prende quello che passa il convento, il regime, la dittatura piccola o grande che sia? Cerchiamo anche di ricordare in quali paesi si opera, non è che siamo in grandi democrazie occidentali, spesso si opera in veri e propri regimi, anche piuttosto corrotti, quindi ci si accontenta di ciò che passa il convento o c'è un'analisi a monte per fare in modo che la Ong sulla quale ci si appoggia e alla quale poi verrà lasciata l'eredità, dia il maggior numero di garanzie possibili?
Silvia Montevecchi
(.) Le situazioni sono diversissime da paese a paese, a volte si prende anche quello che passa il convento, perché poi le Ong locali non è che siano molto ben strutturate, spesso ci si deve adoperare proprio per aiutare la struttura di base. Nei casi di emergenza, però, non è che si lavori molto in questo senso, perché i progetti di emergenza in quanto tali, non hanno tra le loro finalità quella di creare degli omologhi. La loro finalità è quella di rispondere all'emergenza. In Sierra Leone noi ci siamo inizialmente appoggiati a una struttura che già esisteva per l'accoglienza dei bambini soldato, per il loro recupero, dopo di che, chiaramente, appoggiandoci a questa associazione, che già esisteva in forma molto piccola, è chiaro che anche loro si sono dovuti dare tutta un'altra organizzazione. Con questo progetto hanno a che fare con tanti soldi, cosa che prima non avveniva. E' stato un grosso lavoro di rafforzamento, però non è che tutti i progetti siano strutturati così. In Somalia ho lavorato ad un progetto di sviluppo, un altro obiettivo importante dei progetti di sviluppo era il rafforzamento proprio delle strutture politiche governative locali. La Somalia praticamente non ne ha, perché è distrutta da anni e anni di guerra prima, di anarchia dopo, non c'è il governo, quindi. ci sono delle Ong ma delle cose molto piccole, delle piccole associazioni e comunque essendo un progetto educativo lavorava proprio per il rafforzamento delle strutture pubbliche e il coinvolgimento della comunità. In certi paesi è molto difficile, per questo bisogna essere molto, molto tecnici, molto professionali per poter scegliere le persone con cui lavorare, perché in alcuni posti la selezione del personale è una di quelle cose che ti fanno rischiare la pelle. Quando decidi di fare un annuncio, perché c'è il posto X nel progetto, che sia da contabile, da ingegnere, da amministratore, da insegnante, da direttore scolastico, da medico, ecc., devi stare molto attento a chi e come selezioni. La situazione è molto diversa da paese a paese, da cultura a cultura, insomma. Non si può fare un discorso generico.
Ivano Liberati
Tu hai citato prima un paese, la Sierra Leone. Io l'ho visitata a gennaio con il Coopi, i bambini soldato. Lì ho conosciuto una ragazza italiana di origine iraniana che lavorava per l'Unicef e si occupava del recupero di questi bambini soldato che venivano rilasciati dal fronte rivoluzionario della Sierra Leone. In genere tutti questi bambini avevano delle grosse cicatrici sul volto, perché venivano drogati, venivano fatte delle cicatrici in testa o sugli zigomi, venivano imbottiti di cocaina e ricoperte con un cerotto e questo era un po' il segno distintivo, spesso alcuni subivano anche mutilazioni se cercavano di scappare. Sovente il primo battesimo di fuoco consisteva nel mandarli a massacrare la propria famiglia nei villaggi, perché si voleva, così facendo, interrompere, recidere qualunque legame con il loro passato. Bhè, mi raccontava questa ragazza dell'Unicef, che molti di questi bambini che arrivavano nei loro campi, nelle loro strutture, con la guerra civile non avevano avuto mai niente a che fare. Non erano mai stati rapiti dai guerriglieri, non erano mai stati mandati a combattere, a fare massacri, non erano mai stati drogati, erano dei bambini che si facevano dei bruttissimi tagli sulla testa, spesso con infezioni purulente, si facevano degli squarci sugli zigomi proprio per spacciarsi per bambini soldato, essere accolti e aver qualcosa da mangiare. Alla fine l'Unicef ha cambiato progetto alla luce del fatto che, probabilmente, qui da recuperare non ci sono solo i bambini soldato, ma tutti i bambini della Sierra Leone che vivono in condizioni di estrema povertà, di estrema precarietà. Questo per dare un'idea di quanto poi è difficile fare cooperazione in certi contesti, di come poi anche gli obiettivi vengono di volta in volta aggiornati secondo il contesto locale, secondo quello che si vede, secondo quello che accade.
Davide Sighele*
Lavoro per un centro di ricerche di raccolte di informazioni sui Balcani, si chiama "Osservatorio sui Balcani". Il centro per cui lavoro sta cercando di promuovere una riflessione su cosa sono stati anche questi 10 anni di cooperazione allo sviluppo ed interventi di emergenza nell'area del sud est Europa. Vorrei proprio ritornare ad uno degli argomenti toccati all'inizio. Si diceva che la cooperazione internazionale può essere un pacifismo, si è detto quasi un'alternativa alla guerra. Ho molti dubbi in merito a questo, nel senso che spesso si sente parlare di guerra umanitaria. È un concetto molto spinto che ha implicazioni anche molto concrete. Due esempi su tutti. Il Kosovo: se si analizzano i compiti della missione internazionale militare in Kosovo, le competenze di tale organismo si stanno allargando e adesso riguardano anche l'intervento nel settore umanitario. Implementano dei piccoli progetti direttamente loro, danno supporto logistico, ma non solo questo. Poi l'Afghanistan: gli stessi aerei che lanciano le bombe si sono messi a lanciare anche gli aiuti umanitari, anche tragicamente, non seguendo delle piccole accortezze, quella di diversificare almeno il colore di queste scatole! Chiedevo, appunto, se in realtà la Cooperazione Internazionale in questi ultimi anni non stia diventando di più di un'alternativa complementare.
Gianni Toma*
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.