Dibattito con Goffredo Fofi, Roberto Koch, Roberto Natale, Andrea Rauch. Coordinato da Maria Nadotti
Roberto Koch, fotografo, responsabile Agenzia Contrasto*
Ho seguito da vicino l'evolversi di tutto il lavoro dal titolo "In cammino" e anche le scelte che Sebastiao ha fatto nelle modalità con cui questo lavoro è stato presentato. Questo lavoro sugli spostamenti delle popolazioni, sul senso dell'essere in movimento, ma allo stesso tempo sulla drammaticità e le tragedie di alcuni movimenti forzati, segue un altro grande lavoro di Salgado che era quello dal titolo "La mano dell'uomo", incentrato sul lavoro dell'uomo nei differenti paesi alla fine di questo secolo. Sono due progetti che nascono da un fotografo che riassume nella sua persona diverse, incredibili capacità. La prima è senz'altro una capacità di progettare e realizzare un'inchiesta che fa parte della grande tradizione del giornalismo. Nasce da una sua formazione di economista che lo ha portato a studiare poi una serie di meccanismi, analizzare i fenomeni per cui si sviluppano e nascono determinati eventi. Il fatto poi che abbia scelto di utilizzare la fotografia per comunicare quello che aveva tentato di comunicare in altre forme, con il lavoro di studio, di analisi e soprattutto di consulenza evidentemente lo ha portato a fare delle scelte consequenziali. Se le fotografie comunicano meglio o, potenzialmente, come sensazione, possono comunicare meglio tutto questo è perché un'immagine fissa fa riflettere, perché un'immagine fissa riporta ad altre immagini fisse. Salgado sa come suscitare e come immettere delle informazioni nelle sue immagini, stimolare chi osserva le sue immagini, rimandandole ad altre immagini. In più lui aggiunge un progetto comunicativo molto particolare. Cerco di essere breve. Prima si chiedeva: come si fa a comunicare una notizia? Perché? Qual'è il linguaggio? Perché una buona notizia non passa? Perché alcune cose vengono cestinate? Qui c'è una scelta. Le notizie che porta Salgado normalmente non passerebbero, perché c'è una difficoltà oggettiva da parte del mondo dell'informazione a trattare, soprattutto con continuità dei temi che, secondo la logica di come son fatti i giornali, allontanano i lettori. C'è invece un motivo per cui il modo in cui propone argomenti Salgado passa: c'è un progetto comunicativo molto preciso. Io rimasi affascinato e con me tutti quelli che ne toccarono le modalità, da come il tema, per esempio, dei senza terra brasiliani abbia avuto un successo mondiale. E' un tema importantissimo per il Brasile, per la mancata riforma agraria, non solo nel sud America. Tutto questo era diventato un progetto comunicativo con libri tradotti in tutte le lingue possibili e immaginabili, esauriti, una mostra fotografica organizzata sotto forma di poster di cui ancora oggi continua a circolare una serie. Tutto questo fa parte di una specie di pacchetto comunicativo che poi si basa ovviamente sulla sua grande passione, sulla sua grande determinazione nel voler raccontare delle cose e soprattutto aggiungere alle immagini le informazioni di base che servono per accogliere queste immagini. Si è sentita spesso nel film l'idea di accogliere le immagini per poterle far proprie, anche se nessuno di noi poi può contribuire a dare una soluzione. Seguendo da vicino e contribuendo alla comunicazione di tutto ciò, credo sia molto importante che ogni singolo passo di questo progetto venga deciso a seconda delle modalità che appartengono a Sebastiao e ogni aspetto di questo progetto, in collaborazione con tutte le persone che poi partecipano, viene seguito in maniera dettagliata. Mi ricordo una sua insistenza, per esempio, particolarmente forte sulla mostra di Roma, che pure era presentata all'interno della cornice più forte possibile, forte in termini di diffusione, di pubblico e ricordo una sua forte irritazione per il fatto che una delle componenti della mostra, i ritagli dei giornali che avevano in questi anni progressivamente pubblicato le sue fotografie, non venissero esposti. C'era un problema tecnico e anche di volontà da parte degli organizzatori ad esporli e questo per lui diminuiva fortemente l'impatto della mostra, quindi ogni singolo aspetto studiato. Tutto questo per dire che nel film che abbiamo appena visto c'è sicuramente un impatto emotivo molto forte, dato anche dal fatto che, come credo avete potuto notare in questa occasione, il formato televisivo, orizzontale, cinematografico, è uno dei mezzi migliori per vedere delle fotografie. Prima ti permette di notare quello che ti attrae immediatamente, per poi continuare a leggerne tutti i suoi molteplici aspetti. Questo dal punto di vista del filmato mi sembra molto ben riuscito. Ho la sensazione, però, che ci fossero due disagi in questo film. Uno è il disagio di Salgado che è abituato ad essere regista di sé stesso. D'altro canto il discorso di John Berger, che pure ha offerto degli stimoli di grande profondità, mi sembra che facesse un lavoro opposto a quello di Salgado. Il progetto di Salgado è: ti faccio vedere delle immagini che sono complete, sono complete perché ho studiato tutto quello che ci deve essere prima di andare, poi sono andato e ho cercato di fare il più possibile. Apro una parentesi...una sua ambizione è che questo libro non contenesse 350 fotografie, ma 2000, 3000, se fosse possibile, allargare il più possibile. Aggiungo delle informazioni e poi non so che succede, ma aspetto, io passo un messaggio, sei tu a doverci riflettere, a dover eventualmente prendere delle iniziative, ripensare alla tua vita o a parte della tua vita.
Maria Nadotti, scrittrice, critica letteraria e cinematografica*
Vorrei chiarire la ragione per cui quest'anno a Capodarco si era deciso di presentare questo film, che è un film interessantissimo, ma assai problematico. Credo che le emozioni siano la cosa che dovremmo dismettere più rapidamente nella nostra vita, quindi se provoca emozioni, già questo secondo me non funziona. La ragione vera di questo filmato era quella di mettere insieme, di nuovo, Salgado e Berger per offrire anche a loro un'occasione di affrontare quello che è il problema centrale di questo film. Ha perfettamente ragione Roberto a dire che i discorsi di questi due signori non si incontrano mai, sono due discorsi entrambi molto forti, ma in qualche modo nel loro correre paralleli, si indeboliscono entrambi. E allora noi speravamo qui, insieme a voi, di poterli mettere apertamente in contraddizione, se lo sono, oppure di sciogliere le contraddizioni, laddove è possibile. I casi della vita sono infiniti, per cui Salgado ritorna con un ascesso a un dente, si opera proprio ieri, stamattina Berger di cui vi porto i saluti e le scuse, è entrato invece in un altro tipo di malattia, probabilmente assai più grave di quella di Salgado. Berger, che fra l'altro ha 76 anni e quindi non è proprio un ragazzino, ha perso due amici molto cari negli ultimi giorni, uno l'ha assistito fino all'ultimo momento e poi è entrato in una vera e propria sacca di depressione. Ci ha mandato un breve testo, che se credete, possiamo anche leggere insieme dopo, che è l'unica cosa che è riuscito a scrivere dall'11 di settembre ad oggi e che non per caso s'intitola "Sette livelli di disperazione". I "Sette livelli di disperazione di cui John parla in questo testo sono i livelli di disperazione che lui attribuisce alla figura del terrorista suicida. Come fa sempre, da anni, John cerca di capire le ragioni degli altri e di arrivare alle sue attraverso la comprensione delle ragioni degli altri, ma secondo me, nel suo tentativo di capire le ragioni del kamikaze post 11 di settembre c'è una forte empasse, c'è una disperazione sua, mia sicuramente, m'immagino di molti di noi. Fra l'altro oggi sarebbe stato straordinario averli qua tutti e due, perché questo è un film in qualche modo reso vecchio dalla rapidità mostruosa in cui procede la storia. Questo è un film molto pre-11 di settembre. Fa impressione vedere adesso le fotografie dell'Afghanistan del '96, ecco, come se ci fosse qualche cosa di interrotto.
Goffredo Fofi, scrittore, direttore della rivista "Lo Straniero"*
Ovviamente un film di questo genere si presta a una tale quantità di riflessioni storiche, politiche, economiche, artistiche, sociali, umane che bisogna un po' concentrare e andare un po' su quelli che sono i nodi veri di questa storia. Io ne vedo alcuni. Uno è la rimozione del male. Ci si domanda: perché ci fanno questo? Chi è che ci fa del male? Ma anche perché noi facciamo questo? Perché noi facciamo del male agli altri? La storia nasce, come sappiamo tutti con Caino...Il mito della storia nasce con Caino, con un fratricida, che è per altro il fondatore di civiltà, il fondatore di città, il nostro padre di tutti, noi siamo figli di Caino, non siamo figli di Abele e nella grandezza e nella miseria della storia umana, questo è un segno che va tenuto fortemente presente. In questo film, in qualche modo, ci sono solo i buoni, ci sono solo le vittime, non ci sono mai gli altri. Sì, c'è la bomba che cade e ci sono i cattivi americani, ma il problema non è soltanto legato ai cattivi americani, è anche legato alle complicità che giocano intorno a questo meccanismo, perché i cattivi americani siamo anche noi; noi forse siamo più americani. Molti della sinistra italiana si sentono più americani come sapete, dello stesso Berlusconi, ma anche dello stesso Bush. Sono più americani degli americani e forse c'è un sistema di complicità che va anche oltre questi livelli di potere politico, va anche verso i comunicatori, i giornalisti per esempio, va anche verso di noi, persone normali. Prima di questo film ho assistito a una discussione che mi ha un po' impressionato, perché mi sembra, rispetto a qualche anno fa, che il livello di burocratizzazione, di orrenda burocratizzazione che i movimenti su cui sparavamo di più negli anni passati siano veramente andati molto avanti. Questo film in qualche modo mi è sembrato anche un filmetto un pochino ipocrita. Voi vi ricordate la famosa frase di Flaubert: "Ipocrita lettore, mio simile, mio fratello"? Vedendo questo film che è rivolto a me, non è rivolto ai protagonisti del film, non è rivolto ai ragazzi, alle donne, ai morti, alle persone che compaiono nelle fotografie, è un film fatto per noi, un film che si rivolge a noi, ho sentito una sorta di complicità negativa con Berger e con Salgado, che mi ha un po' preoccupato, perché so che questo è il nodo, perché so che questo è il mio problema, mio e vostro, di noi tutti insomma. Il problema è di come superare quel grado di complicità nei confronti di chi opera il male nel mondo, di chi fa le guerre, di chi con la globalizzazione distrugge dei sistemi sociali di culture, di sistemi economici e crea altri tipi di bisogni indotti inutili, altri tipi di situazioni che espellono da una possibilità della sopravvivenza una parte della popolazione mondiale enorme e che creano quel tipo di contro risposte tutt'altro che buoniste che vengono dalle altre parti. Ci sono dei nodi su cui questo film, secondo me, sorvola. Ci mostra la miseria provocata da chi? Provocata da noi, perché noi siamo la parte ricca del mondo e in qualche modo evita di metterci sotto accusa. In qualche modo cerca di suscitare i nostri sentimenti in questo senso. Io non sono affatto contrario ai sentimenti, tanto meno ai buoni sentimenti, quelli buoni davvero, però credo che suscita in noi dei sentimenti, molto ambigui sui quali dovremmo anche stare attenti. Vi faccio un altro esempio. Intanto mi vengono in mente alcune cose di tipo cinematografico, purtroppo è anche obbligatorio in qualche modo per me, perché le mie associazioni funzionano molto a partire da film, da immagini. Voi lo sapete, siamo sommersi dalle immagini e dalle parole, qui abbiamo un grande dell'immagine e un grande della parola, però tenete conto del fatto che mai noi siamo stati così massacrati dalle immagini, dalle orrende immagini che ci vengono fornite quotidianamente dalle televisioni, dai films, dalle pubblicità. Siamo oppressi dalle immagini, manipolati dalle immagini e nello stesso tempo siamo manipolati e oppressi dalla parola, da un abuso della parola. In Italia ci sono 77 quotidiani, francamente non se ne sente proprio il bisogno, perché sono più o meno tutti uguali e i giornalisti sono anche loro, fatte le dovute eccezioni, più o meno tutti uguali. Sono degli specialisti della menzogna, degli specialisti dell'indorare la pillola, ci sono università che prosperano su questo, la comunicazione, l'informazione. La pedagogia una volta voleva dire educare sanamente le nuove generazioni, trasmettere conoscenze, trasmettersi sistemi di valor ora è sostituita dalle scienze dell'informazione. I discorsi sull'arte, sulla cultura vengono sostituiti dalle scienze della comunicazione. Quindi lo spettatore è complice, è quello spettatore ipocrita, che vede il male, se ne sente fuori perché non è chiamato direttamente in causa, non gli si dice: tu, occidentale ricco, sei tu responsabile di queste situazioni, un corresponsabile di queste situazioni. Va a casa contento, perché tutto sommato si scarica dal senso delle responsabilità. Un grande regista del primo periodo del cinema sovietico, poi finito male anche lui ovviamente, grande documentarista, scrisse un famoso manifesto che cominciava con le parole "non fidatevi degli occhi". Io direi che non bisogna fidarsi degli occhi e neanche dell'udito, neanche delle parole, neanche degli occhi nel senso della lettura. Bisogna essere un pò più diffidenti nei confronti delle cose che ci vengono mostrate, delle cose che ci vengono raccontate, o che ci vengono proposte alla lettura. Ci sono dei modi di raccontare il mondo contemporaneo che sono molto convincenti e degli altri che non sono affatto convincenti. Potrei fare l'esempio del cinema americano. Sapete che la globalizzazione non è solo un sistema economico di rapporti tra scienza e finanza che manipolano la realtà, biologia, economia, nuova economia, ecc., ma è anche un sistema culturale? Allora i prodotti più specifici della globalizzazione, oggi probabilmente sono la pubblicità e il cinema. Il cinema americano di oggi, sembra un cinema fatto da dei robot, per un pubblico di altri robot, oppure da favolette dysneiane consolatorie new age, dove la gente non muore mai, se muoiono si ritrovano in paradiso che ballano e cantano, ritornano sulla terra, trasmigrano. Tutte queste fantasie new age orripilanti che sostituiscono il nostro bisogno di questo cinema fatto soltanto per divertire e per consolare, il cinema di massa, è il cinema per tutti, è il cinema che a Hollywood viene inventato e prodotto dalle stesse multinazionali che poi fanno la globalizzazione! La Warner Bross è un pezzo di un meccanismo che riguarda anche l'uso della terra in Africa, o che riguarda la manipolazione genetica di certe cose. Insomma le multinazionali non hanno più una faccia, ci sono dei sistemi molto più ramificati dove la complicità va molto avanti, perché questi sistemi hanno dei dipendenti, dei registi, dei tecnici, degli operatori. Insomma, siamo in questo senso tutti un po' compartecipi di questa situazione. Questo sistema del cinema globalizzato ormai si fa dovunque. Il film che ha vinto quest'anno il festival di Venezia, di un regista indiano, finchè racconta la borghesia indiana di Dehly o di Bombay, è un film perfettamente globalizzato, fatto per piacere al pubblico occidentale, come al pubblico borghese del terzo mondo. La Cina in via di sviluppo sta decollando alla grande, l'Africa no, l'Africa è la disgregazione che viene raccontata in questo film. Allora esiste un cinema globalizzato occidentale ed esiste un cinema globalizzato orientale. I film che vincono l'Oscar, i nostri film sono globalizzati, sono films ciclati pensati, che gli autori lo sappiano o no, concepiscono per piacere allo stesso modo al pubblico ricco, al pubblico che va al cinema, il pubblico occidentale o occidentalizzato di tutto il mondo. Anche questo è un problema su cui ragionare. Uno dei grandi fenomeni del cinema contemporaneo è il cinema iraniano. Alcuni recenti films iraniani, spero che qualcuno li abbia visti, hanno avuto molto successo ci sono grandi registi, che fanno stupende miniature persiane. Grandi artisti, grande cinema, però onestamente ci interessa relativamente perché più è raffinato e più va in una direzione che uno ammira, apprezza, ma da cui non è minimamente coinvolto. Ci sono dei films, come "Viaggio a Kandahar", che ha avuto molto successo, che è un film pagato dall'Onu: credo che abbia avuto forti finanziamenti dall'Onu, lo sanno tutti, io avrei detto perfino dalla Cia, perché in realtà è un film che in qualche modo sostiene sul piano emotivo dei sentimenti, delle emozioni, sostiene l'invasione americana dell'Afghanistan. E' un film che dice: guardate che tutto il male è di là, tutto il male sono i talebani, l'unico modo per distruggere questo male sarà quello di buttare le bombe sopra l'Afghanistan, questa è più o meno la logica del film. Poi c'è un film con delle bellissime immagini sul fronte dei kurdi irakeni. C'è un film curdo-iraniano, che è "Il tempo dei cavalli ubriachi", che racconta una realtà agghiacciante in modi serissimi e con una pulizia. Racconta dell'infanzia del contrabbando, della miseria, i modi di sopravvivere in quella realtà, è un film di grande bellezza. C'è un film che è uscito in questi giorni, che non piace assolutamente agli italiani che vanno a battere le mani invece a "Viaggio a Kandahar", perché per l'appunto siamo americani, il male sono i talebani, il bene è l'America. Quest'altro film si chiama "Il voto è segreto", è una riflessione in chiave di commedia, anzi di commedia perfino sentimentale, lui e lei on the road. E' un film serissimo, che racconta il dilemma del passaggio da sottosviluppo a sviluppo, da arretratezza a modernità e da dittatura, o tipi di governi locali, a forme di democrazia progressive, ancora in movimento di tipo occidentale, o di un altro tipo ancora. La grande qualità di questo film è che il punto di vista non è un punto di vista occidentale, la sua riflessione sul rapporto tra arretratezza e modernità, o tra dittatura o democrazia non è quella dei filosofi francesi di oggi o anche di ieri, di quelli nati con l'illuminismo. E' un altro punto di vista con cui bisogna fare i conti. Ci sono altre cose oltre al pensiero occidentale, oltre al pensiero, come dire, biblico-capitalistico. Ci sono altri modi con cui bisogna confrontarsi che bisogna acquisire, studiare e mettersi di fronte. Ci sono molti modi di raccontare il mondo di oggi, uno di questi modi sicuramente è quello della fotografia di Salgado. Berger è un altro discorso, perché Berger, come tutti quelli che usano la parola, è più portato alla retorica. La parola è l'arte della retorica, senza offesa per la retorica, che è una grande tradizione. Era una cosa seria una volta la retorica! Oggi quando si dice è un retore, vuol dire che è un chiacchierone che ci racconta balle in modo abile e intelligente e che ci manipola. Una volta la retorica proveniva da chi sapeva esporre bene delle informazioni, dei concetti, dei principi e sapeva raccontarli come si doveva. Berger in qualche modo è un retore. Il retore può mentire più facilmente di quanto non menta il fotografo, però il fotografo ha bisogno di altri strumenti. La serietà di Salgado sta nella sua origine di economista, o di statistico, sta nel fatto che lui sente l'insufficienza dell'immagine, parla continuamente di questo, non gli basta quello che mostra per far capire che cosa ha visto veramente, che cosa lui ha capito veramente. L'immagine, l'occhio non basta, tant'è vero che il film continua con la tecnica di spostare la macchina da presa sopra l'immagine, quasi sempre da un particolare al generale. Io credo che sul piano dell'informazione e della comunicazione bisogna cercare di far capire discorsi generali, quello che c'è dietro, quello che l'occhio non vede e che la parola riesce anche spesso a mentire e a falsificare. Per farlo bisogna che diventiamo un po' più intelligenti. Il problema è che io credo che noi non lo siamo, non lo siamo veramente! Forse è vero che il settembre nero ci ha un po' risvegliati, però siamo molto instupiditi dalle nostre ipocrisie precedenti con la loro continuazione attuale. Per esempio dal fatto di crederci buoni e innocenti. Io alla marcia della pace di Perugia sono andato e una delle cose che mi hanno impressionato di più è capire che gli italiani, quegli italiani di quel tipo, pensano di essere innocenti di tutto, le colpe sono sempre degli altri. Siamo protetti dall'ombrello atomico papale, dall'ombrello atomico statunitense, anche se siamo di Rifondazione tutto sommato sappiamo che l'Italia è un terreno privilegiato, siamo protetti da queste due cose che magari apparentemente odiamo. Ci comportiamo come se questi problemi non ci riguardassero, come se domani le bombe non potessero capitare anche qui, che gli effetti di una crisi economica non potessero coinvolgerci, perché noi siamo dei ricchi senza problemi, dei consumatori senza problemi e poi c'immaginiamo, c'inventiamo questi lavori. I nuovi settori, terzi, quarti, quinti settori di questo sistema di mediazioni e non vedendo i rischi, il sistema di complicità che regge questi lavori, senza metterci in discussione. Allora io credo che quello che bisogna fare è, prima ancora di andare a fotografare i morti di fame del terzo mondo, fotografare noi stessi, osservarci e discutere chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Queste le idee che mi ha tirato fuori il film.
Andrea Rauch, grafico*
Tra le cose difficili, nella vita c'è anche quella di parlare dopo Goffredo Fofi, perché dopo questa alluvione di concetti è abbastanza difficile non dico contraddire, o controbattere, o integrare, ma anche minimizzare un momentino e riportare il discorso per lo meno a un elemento, che almeno a me, interessa forse di più dal punto di vista professionale, vale a dire la qualità delle immagini che abbiamo visto. Si, certo. Era uno spaccato del mondo, era il commento di uno spaccato del mondo e quindi c'era bisogno di tutto ciò? Si è chiesto Goffredo. Io dico che è anche soprattutto, la presentazione di immagini di straordinaria qualità di uno straordinario operatore dell'immagine. Questo qui mi sembra un fatto secondario rispetto alla complessità dell'operazione, ma è anche questo. Allora, com'è che noi possiamo in qualche modo usare questo tipo di immagini? Esattamente come ha detto Goffredo Fofi, cioè mettendoci di fronte a queste immagini e riflettendoci sopra. Il cinema tende a sovrapporre le immagini, a non fissare, a non permetterci di riflettere. Questo lo diceva già Benjamin negli anni '30, quindi non è che sia una grande novità, né una grande scoperta. La fotografia tende invece, come Benjamin diceva della pittura, ma come io potrei aggiungere, certa parte della grafica, certi manifesti, a fissare un concetto e a produrre memoria intorno a questo oggetto. Queste immagini, essendo non un film, ma un lavoro che filma nella gran parte immagini fisse, tende a riprodurre questo meccanismo. Noi siamo presi dalla singola immagine e dobbiamo in qualche modo confrontarci con questa, analizzare questa immagine, non il complesso. Il complesso è qualche cosa che viene in ogni caso dopo. Ci troviamo di fronte a delle immagini straordinariamente efficaci e Salgado si pone evidentemente come un medium, in senso proprio e stretto del termine, lui. Da una parte c'è una realtà, nel mezzo c'è un operatore culturale con una macchina fotografica in questo caso, ma potrebbe avere un bloch notes, potrebbe avere un registratore, potrebbe avere un altro mezzo qualsiasi, dall'altro ci siamo noi. Noi vediamo quello che Salgado ci fa vedere, ma Salgado ci dà, in qualche modo, ancora un semilavorato, ci dà un lavoro dal suo punto di vista completo, ma che lascia aperta per lo meno una certa interpretazione che noi dobbiamo coprire. Di fronte a certe immagini io devo pensare per conto mio. Certo che penso a quello che Salgado mi spinge a pensare, questo è il compito dell'artista, il compito del fotografo o del testimone se volete o dell'operatore culturale, ma c'è anche bisogno che in qualche modo io intervenga su queste immagini, che ci possa riflettere. La riflessione che ha fatto Goffredo non è nient'altro che la sua reazione di fronte a queste immagini...
Roberto Natale, segretario Usigrai*
Torno su un concetto già espresso: alluvioni di parole e di immagini... Ci mancano le notizie? In prima battuta sarei tentato di rispondere di no, visto che abbiamo immagini e notizie in quantità. Però che accade? Ne abbiamo tante sull'emergenza.
La televisione ha risposto bene sull'emergenza nata dopo l'11 settembre. Il problema dove sta? È che arriviamo tardi, tranne varie eccezioni, è che giochiamo di rimando. Prima, cosa abbiamo raccontato? Oggi a tavola, con qualche collega capitava di pensare che la Rai, il servizio pubblico, lascia interamente scoperta l'Africa, ci pensavo vedendo la didascalia Ruanda. La presenza Rai in Africa si ferma Al Cairo, che è come dire il cortile di casa nostra. Allora è possibile fare qualcosa di diverso? Sì, permettetemi solo una parentesi, esco dal mio seminato, per dire, che credo che il problema non sia solo la televisione. Da questo punto di vista trovo il dibattito di questi giorni un po' ipocrita. Per intenderci, uno dei problemi credo tutta la comunicazione abbia vissuto in questi anni è l'abbassamento della soglia di difesa, di attenzione rispetto alle non notizie, alle frivolezze da parte di noi che facciamo comunicazione. Tanto per stare all'ultimo esempio, sui due più importanti quotidiani italiani. Oggi, proprio oggi. Corriere della Sera e Repubblica: a mezza pagina Barbara Berlusconi, figlia terzogenita del presidente del consiglio, nata dalle nozze con Veronica Lario, questa sera va al ballo delle debuttanti. Non so se a Montecarlo, o dove! E' una notizia? Ma dico, allora... Ma i due più importanti quotidiani italiani devono dedicare mezza pagina a questo? È un esempio che ho voluto portare per far capire qual'è il sistema della comunicazione. Al di là dei problemi così organizzativo-editoriali, legati alla necessità di allargare l'area di presenza, credo che ci sia anche un problema più profondo che riguarda la nostra capacità di giornalisti di provare a vedere cosa è effettivamente la notizia. Non dico solo dopo l'11 settembre ma direi anche dopo i fatti di Genova. O meglio; noi parliamo di fatti di Genova, ma c'è qui qualche collega che li ha seguiti, nella loro dimensione più vera, occupandosene mesi prima. Li abbiamo ridotti troppo spesso a scontri, ma il tema che lì hanno evidenziato, provo a dirlo in maniera sintetica e forse pomposa al tempo stesso è il nostro rapporto di cittadini occidentali con la merce, con i consumi, questo che credo sia. Penso a una battuta, una frase di Michele Serra in uno dei pezzi dopo Genova: c'è più politica negli scontrini, che negli scontri. Allora questa dimensione del nostro essere cittadini occidentali che, se non leggo male, è l'altra faccia di quello che c'è nel film che abbiamo appena visto, chi la racconta? Io credo che sia questo uno dei problemi più grandi di chi fa informazione, anche se la definizione sembra riduttiva, oggi. A buon diritto possiamo esser considerati specialisti della menzogna però credo che ci sia un elemento in più: rischiamo di essere specialisti della superficialità, vale a dire specialisti del fatto dell'apparente, del fatto momentaneo senza essere abituati, per una distorsione legata a un vecchio modo d'intendere la professione, a scendere alle radici di quegli apparenti fatti. Forse l'ho già citato qui l'anno scorso, se è una ripetizione me ne scuso con gli affezionati, però una cosa che in un dibattito con Fofi, 3 o 4 anni fa a Capodarco. C'era lui, c'era Lerner, c'era Serra. Parlavano dei consumi e a me questa è rimasta come una delle indicazioni più gravi della nostra presunzione di saper raccontare la realtà, mentre la realtà ci cambia sotto gli occhi senza che ce ne accorgiamo. Si diceva, in quel dibattito: oggi è stato aperto un nuovo ipermercato in una grande città, a Bologna. Paralizzata, perché pur essendo il terzo, quarto ipermercato aperto in città, una ressa lì davanti per fare acquisti. E' più notizia questa, o lo spostamento di un pacchetto di azioni di borsa? Questo nostro essere cambiati nel rapporto con la merce, nel nostro essere consumatori, chi ce lo racconta? Queste cose la nostra informazione, la nostra comunicazione, perché non ce le dice? Io credo che ci sia non solo un problema di colpevole omissione, omissione di tipo classico, della quale pure in questi giorni abbiamo esempi. Penso a una vicenda, quella de La 7, il così detto terzo polo, ammazzato nella culla in questi mesi, in queste settimane nel generale silenzio, tranne rarissime eccezioni dei mezzi d'informazione, Rai compresa. Un'operazione che prende a calci nel sedere tutte le illusioni di mercato puro, di editori puri. È un calcio a tutte le logiche di mercato, perché lì i soldi per far nascere il così detto terzo polo televisivo c'erano, è un'operazione stroncata per motivi politici e quest'operazione brutale avviene nel più totale silenzio. Nei nostri telegiornali, nei telegiornali Rai, non ha avuto lo spazio che viene riservato alla prima di stagione. Quale delle due è più notizia? Questo lo dico perché manteniamo alta la soglia dell'attenzione anche rispetto alle dimensioni classiche dei meccanismi di produzione della notizia.
Maria Nadotti*
Questo film, con tutti i suoi difetti apre non solo molti problemi politici, ma anche delle grosse domande su chi siamo noi, noi voglio dire addetti alle cose culturali in genere, all'informazione, alla trasmissione del sapere. Avrete notato che questo film si chiude in un modo assolutamente disperante, con Salgado che ci ha fatto vedere il mondo in 51 minuti e ce l'ha fatto vedere sul serio, ci ha fatto capire delle cose e ci ha fatto capire dei concetti facendo un'operazione comunque clamorosa. Come ci congeda, però, da questo film? Chiedendosi.e giro la domanda a Roberto.se oggi, in questo mondo che ci siamo disegnati anche noi, abbia senso, rispetto a questo orrore, fare fotografia. È la stessa domanda che John si è posto non venendo qui stasera? Che senso ha oggi parlare, analizzare il mondo attraverso le parole, descriverlo se non lo sappiamo cambiare? Se le parole e la fotografia, il cinema, non sanno più cambiare niente? La mia domanda è.ma è vera questa cosa? Perché noi sappiamo benissimo che il mondo è molto difficile da cambiare con l'azione, i sentimenti non hanno mai cambiato nulla da soli, se noi smettiamo.noi operatori.se noi smettiamo di credere nella potenza, nella forza delle parole o delle immagini che sappiamo produrre. Credo che i media siano diventati la favola per andare a dormire più sereni o più inquieti, sembra di leggere cappuccetto rosso. La televisione non so perché non la guardo, ma i giornali, la carta stampata li leggo. Certo, i fatti esistono, ma il racconto dei fatti ha preso un'altra piega, cioè ci raccontano altre cose e ci dicono in che direzione andare. Anch'io devo dire qualcosa rispetto a quell'oretta che ho sentito di relazione sui 3 gruppi di lavoro di stamattina. Se qui, in questa sede, dove io immagino ci sia gente di grande e buona volontà, mi è capitato di sentir dire che il numero di bambini abusati in Italia è una quantità talmente irrilevante che non vale neanche la pena di parlarne.io sono sbigottita, devo dirlo! Immagino che lei intendesse altro.benissimo.e ha perfettamente ragione per quel che riguarda i media, direi che ha meno ragione se non ci si chiede dove stia il sommerso in questa questione.
Roberto Koch*
Il fatto che Salgado abbia scelto la consapevolezza che lui ha.ed è quello che poi lo ha portato a scegliere la fotografia come mezzo di comunicazione, perché altri mezzi gli sembravano meno efficaci, non è un caso. Se pensate che ogni volta che dobbiamo riflettere, o ricordare un evento importante della storia, è l'immagine fissa che ci viene in mente. La televisione ha filmato tutto negli ultimi 20 anni, però se dobbiamo pensare a qualunque evento particolare, quello che ci viene in mente è una fotografia. La fotografia porta a pensare, quindi è ovvio poi la consequenzialità delle azioni di Salgado. Ora la sua azione non mi pare che si disgiunga da questo, forse si amplia. Il progetto successivo, dopo due lavori di questo tipo appunto sul lavoro dell'uomo, e tutto il tema dei profughi, degli spostamenti di popolazione, delle migrazioni, che lo ha occupato 6 anni, il consumo personale ovviamente è molto forte. 15 anni di lavoro, da solo, con una progettazione.è ovvio che si ponesse il problema di che cosa fare come fotografo. E quando mi ha detto qualche mese fa: guarda per ora io intanto lavoro un anno e lavoro sullo sradicamento della poliomielite nel mondo, sulla vaccinazione.Dentro di me pensavo: ma come.in questo momento.mi sembra un passo indietro...Poi progressivamente lui mi aggiornava, un mese in India, poi torna..è stato in Pakistan dopo l'11 settembre, in piena guerra in Afghanistan, lui è andato a fotografare la vaccinazione contro la poliomielite. È tornato due volte in Somalia, in Congo, in Sudan...e dicevo: possibile che non si renda conto che è assurdo pensare che si possa dedicare tutto questo tempo e l'energia a una cosa del genere in questo momento? Poi ci siamo visti a Parigi, mi ha fatto vedere delle immagini e di nuovo sono rimasto senza parole, perché c'è una capacità di spostare l'attenzione su una cosa importante: 120 milioni di persone vaccinate nel 2001 e probabilmente si arriverà con buona pace dei terroristi che ci riporteranno magari dentro il vaiolo o da qualche altra parte, ma per quel che riguarda la poliomielite non sarà più un problema dell'umanità. Ora in questo momento a noi sembra un'assurdità ma lui riesce a suscitare un alto livello di attenzione. Il servizio fotografico sullo sradicamento della poliomielite poi diventa un inserto speciale di Stern, poi diventa la conferenza stampa in Germania, per cui c'è l'obiettivo di raccogliere centinaia di milioni di dollari in tutto il mondo per la prossima campagna sanitaria, per l'Unicef. Un altro aspetto che mi ha colpito è che ovviamente ci siamo parlati varie volte dopo l'11 settembre. Faccio una premessa, nell'accompagnare la mostra e il libro in cammino, Sebastiao poi ha lavorato un paio d'anni con grande anche fatica, perché anche se è un grande comunicatore, non è proprio quello che gli dà una dimensione di maggior soddisfazione, nell'accompagnare la mostra e parlare. Uno dei temi principali della presentazione della mostra che 3 volte su 4 è diventato una conferenza economico-politica, invece che una presentazione di una mostra fotografica. Soltanto in Italia, questa mostra, allestita in 3 sedi, è stata visitata da 200 mila persone, che è un dato importante, anche perché se poi si aggiunge tutto quello che hanno fatto i giornali e quello che ha fatto il libro, evidentemente è una comunicazione che ha dei progetti ampi e che quindi raggiunge milioni di persone nel mondo, ma la mia conclusione è quindi, qui bisogna fermarsi e riflettere. E quasi utopicamente e anche paradossalmente diceva: io penso che bisognerebbe che tutti si fermassero, tutti compreso il segretario delle Nazioni Unite e il Presidente degli Stati Uniti di America e dicessero: ora si parla, ora si pensa, ora si riflette. Ovviamente è un'ipotesi utopistica irrealizzabile, ma quello che lui ha detto in un anno, per tutto un anno, prima dell'11 settembre, ora sembra tutto diverso, non si fa altro che ripetere che "nulla sarà più come prima". Nel momento in cui è successo l'evento dell'11 settembre, non che per Salgado il dramma non fosse una tragedia colossale, così come lo è stato per ciascuno di noi, ma è come se la sua reazione fosse di minor sorpresa rispetto a quello che invece per noi è stato uno choc. Pensiamo ad un altro paragone, chiaramente la morte dei giornalisti, l'impegno e la responsabilità dei fotografi e degli operatori televisivi dei giornalisti, i rischi che corrono è un prezzo che gli operatori dell'informazione pagano per il pubblico, quindi la morte di Maria Grazia Cutuli è stato un evento tragico e drammatico così come quella di altri giornalisti, di altri fotografi e il numero sta crescendo in maniera impressionante. A me non è piaciuto come se ne è parlato in televisione, nei giornali italiani. Da tanta televisione, da tanto giornalismo che s'interroga su se stesso, io avrei voglia di dire: ma se avete scelto questo mestiere, perché non lo andate a fare, invece di discutere su come dovrebbe essere? Perché non si fa l'inviato e si cerca, anche rischiando, di raccontare ciò che si pensa invece di lamentarsi, o lamentare le condizioni per cui questa informazione che si vorrebbe non circola?
Andrea Rauch*
Io volevo continuare un po' il discorso di prima, sulla base di quello che stava dicendo Roberto Koch. Sembra quasi che Salgado in qualche misura sia sotto accusa perché il suo trattato di politica e di economia è inferiore a quello che noi ci aspettiamo. Noi stiamo giudicando l'opera di un fotografo, di un artista che con un mezzo particolare, in questo caso la fotografia (ma come dicevo prima, come posso ripetere, poteva avere un block notes, poteva avere un qualsiasi altro elemento di espressione) vede la realtà, analizza la realtà con il suo mezzo artistico, o comunque con il suo mezzo di comunicazione. Io continuo a ripetere che quello che politicamente ci dice Salgado con le sue fotografie sono le sue fotografie: tutto il resto, il suo disagio sul non poter andare più in là, è un problema personale e in qualche modo il commento che l'artista stesso fa alla sua opera. Sul manifesto della mostra di Capodarco vedo la foto di una bambina: non ha una didascalia, non ha una scheda accanto. Io vedo quella foto, devo giudicare quella foto e devo entrare in rapporto con quella foto, con quel piccolo frammento di un'esperienza, in qualche modo, artistica, o di testimonianza anche sicuramente politica, sociale. Se quella foto è sbagliata, se quel manifesto è sbagliato.se la foto è giusta, ma il manifesto è sbagliato, se quella foto è sbagliata, la comunicazione cade immediatamente, non si regge. Si reggono i supposti economici solo se la foto è giusta, ma se la foto è sbagliata, se non produce memoria, se non produce emozione, se quando la vedete tirate di lungo senza che questa susciti in voi nessun brandello di emozione qualsiasi, quella foto non funziona, quel manifesto non funziona, quel brandello di comunicazione non funziona. Il perché si prendono i comunicati, si appallottolano e si buttano nel cestino e perché invece le foto di Salgado non si buttano nel cestino riguarda esclusivamente a titolo principale la qualità delle due cose se la qualità dei comunicati che vengono buttati nel cestino fosse a questo livello, non verrebbero buttati nel cestino.
Rosanna Consolo*
Goffredo Fofi ha detto prima: questo film non ci mette in mostra come complici. Io mi chiedo cosa avrebbe dovuto fotografare Salgado per metterci in mostra come complici? Perché a me sembra che ci faccia vedere le conseguenze della nostra complicità. Roberto Natale ha detto una cosa che secondo me risponde a questo: bisognerebbe afferrare un lato del filo dall'occidente, srotolarlo fino all'altra parte del mondo e vedere cosa disegna. Abbiamo visto esattamente cosa disegna, a mio avviso. Qualcuno di voi ha detto: le emozioni scrollarcele di dosso? Poi quando si torna a casa questo prodotto è fatto ad uso e consumo dell'occidente, per cui siamo più o meno tranquilli, felici e rassicurati. Io la mostra di Salgado l'ho vista a Roma e vi assicuro che tutto provavo tranne che rassicurazione, serenità e appagamento della mia condizione occidentale, civile e democratica, della quale metto molte cose in discussione. Per cui io penso che abbia proprio messo in luce la complicità. Chi non la vede è miope e chi non la conosce non vuole ascoltarla, non vuole leggerla, ma ci sono tantissime occasioni per vedere e sapere dove siamo complici. C'è qui Umberto Di Maria che è tra i fondatori di Terra di mezzo, che io considero uno strumento essenziale per questo, come altra economia e altri giornali, per cui cosa deve fare? Andare a fotografare la Benetton che espropria i contadini argentini? Allora mi chiedo: cosa più di questo rende evidente la complicità?
Goffredo Fofi*
Io distinguerei molto nettamente tra le fotografie di Salgado e il film. Non creiamo equivoci. Il film ha un regista, ha 5 o 6 produttori che sono reti televisive, produttori americani, singoli.insomma è un gruppo di persone che si sono messe lì e hanno deciso di fare questo film, mettendo insieme queste due forti figure di artisti e di intellettuali intorno ai libri di Salgado, alle sue fotografie. Quello che discuto non è Salgado ma il film, che è una cosa molto diversa. Salgado ogni tanto ricalcita, sta stretto nei suoi panni, Berger invece sta un po' più tranquillo, perché credo che l'intellettuale un po' sedentario che sta un po' fisso, che scrive libri, legge i giornali e discute sul mondo e poi fa i proclami di solidarietà col subcomandante Marcos, ecc., ha la vita in qualche modo più chiara, più limitata, più semplice. Salgado è uno che va sui posti vede le cose le mostra. In questo senso nel film il protagonista è Salgado, non Berger. Berger è un controcanto più fiacco rispetto al protagonista. E' un comprimario che non è alla stessa altezza. Io avrei voluto un intellettuale europeo più autocritico e più autoanalitico, che rappresentasse noi, che mettesse in discussione le nostre ambiguità, i nostri problemi di spettatori occidentali. Non è il senso di colpa che cerco anche se è chiaro che vedendo queste immagini, oppure girando, le poche volte che ho viaggiato all'estero in posti del terzo mondo, io mi vergogno. La mia sensazione fondamentale è la vergogna, che è una cosa molto diversa. Mi vergogno non solo quando viaggio ma anche quando vedo queste immagini. Mi vergogno anche quando vedo che ne so, "La vita è bella" di Benigni, che lo considero una mezza infamia, quando vedo i filmoni americani o Viaggio a Kandahar, mi vergogno per loro in quel caso. Non so se mi spiego. E' un altro tipo di vergogna, perché sento di appartenere a quella cultura e vedo le ambiguità di questa cultura, sento che una parte di queste ambiguità sono anche mie e vorrei estirparle, liberarmene. Rispetto al film il discorso è di una mancanza di dialettica. E' un film poco dialettico, non dialoga. Anzi, è perfino poco dialogico, come giustamente diceva Maria. Non dialogano tra di loro, figuriamoci se riescono a dialogare poi con noi, dialogano le foto con noi.
Rosanna Consolo*
Io ho molta fiducia in noi e penso che comunque il fatto che vada in televisione possa far si che altre persone lo vedano, tutto qui. Magari non tutti vanno a vedere Salgado, più persone lo vedranno in televisione.
Intervento
Io francamente provo un disagio diverso dal vostro perché l'inizio di questo dibattito mi ha un po' lasciato perplesso. Bisogna togliere le emozioni. In questo film ci sono solamente i buoni.è un film ipocrita, non si evidenzia il nostro grado di complicità.e così via. Ora non vorrei, come diceva prima Fofi, a forza di parlare si parla troppo. Io credo che ci sia un ragionamento di fondo. Tutte queste cose sono state raccontate. Non è da adesso che sappiamo che nel terzo mondo e non solo nel terzo mondo, ci sono delle contraddizioni che sono prima di tutto economiche. Ci sono dei problemi che dipendono da come è organizzato questo mondo, però lo scriviamo e non lo vede nessuno, non lo legge nessuno, se non probabilmente noi che siamo interessati a queste cose. Allora io credo che ci sia prima di tutto da sottolineare una cosa: può darsi che ci siano degli aspetti migliorabili in questo film, può darsi che ci sia qualche cosa che non è perfetta, però costringe a tirare fuori le nostre emozioni a meno che non siamo proprio oramai degli occidentali assolutamente insensibili a qualsiasi cosa. E le emozioni, se non siamo proprio dei cretini, fanno pensare. Io credo che il messaggio che deve arrivare anche a noi che comunichiamo queste cose, sia di tirare fuori le emozioni e non nasconderle e metterle subito da parte per cercare di fare delle analisi magari più approfondite. Bisogna tirarle fuori e capire se da queste emozioni possiamo arrivare a comunicare anche noi degli aspetti che fino ad ora non sono stati evidenziati. Vorrei anche sottolineare che, per carità, il terzo mondo è sicuramente un problema incredibile e va comunicato, ma senza andare in Africa, in Medio Oriente, senza andare in posti così, di contraddizioni forti ce ne sono anche qui da noi.
Maria Nadotti*
Diremo a Berger e a Salgado che sono stati difesi!
Intervento
Secondo me è molto importante ribadire ciò che diceva Goffredo: l'autore del film non è né Berger, né Salgado, ma un altro. Io ho visto dei film sulle fotografie di Salgado realizzati con la regia di Salgado ed è un'altra cosa.
Ivano Liberati, giornalista del Giornale Radio Rai*
Io ho appreso questa sera sentendo Fofi, che essere un miliardario in quanto tale è un peccato, una colpa e che se l'industria cinematografica si propone come obiettivo di fare un film per tutti, ricchi e poveri, è qualcosa di sbagliato! Evidentemente nella vita c'è sempre qualcosa da imparare. Non critico questo, ognuno la pensa come vuole e Fofi ha detto chiaramente: noi di Rifondazione Comunista...ha avuto l'onestà intellettuale di presentarsi, quindi.non discuto minimamente. Quello che discuto invece è una frase che ha detto la signora Nadotti, che a me ha lasciato veramente perplesso, una frase a dir poco irritante... Ma che vuol dire, signora Nadotti "Vanno in Afghanistan, succedono dei fatti, ma questi media, che forse per farci stare più tranquilli, ci raccontano altre storie?". Forse raccontano altre storie che a lei non fa piacere sentire, però le assicuro e mi fa piacere che alla fine qualcuno l'abbia ricordato, ci sono state persone, colleghi che per aver raccontato altre storie ci hanno lasciato la pelle. Volevo dire solamente questo.
Maria Nadotti*
Dall'Afghanistan, ma dagli Stati Uniti, direi da molte parti del mondo, da un po' di tempo in qua, direi prima dell'11 di settembre, arriva qualche cosa che io stento a chiamare informazione, perché somiglia molto alla propaganda. E io da una parte credo che si possa capire perché l'informazione è molto opacizzata. Per esempio negli Stati Uniti, da un po' di tempo a questa parte, c'è proprio un black out governativo, per cui certe cose non vengono passate ai mezzi d'informazione e questo non è che lo stia inventando io, è stato dichiarato. Voi sapete benissimo che i video con Bin Laden dopo il primo sono stati bloccati negli Stati Uniti.Non possono più essere trasmessi, per averli bisogna avere il satellitare e vedere direttamente Al Jazeera e capire l'arabo. Ma non è solo questo. C'è un black out dell'informazione obiettivo dovuto non solo a questo. Secondo me in questo momento, in cui così pesante è la pressione probabilmente molti giornalisti e molte giornaliste fanno quello che possono, nel migliore dei casi e nel peggiore dei casi fanno direttamente quello che li convince di più, cioè fanno da cassa di risonanza dei progetti politici. Non sto inventando niente. Vorrei che fosse una mia invenzione, purtroppo non lo è. Purtroppo in queste settimane sui media occidentali che io leggo, passano dei copioni, non passano delle notizie. I copioni sono scritti da qualcuno anche se, è evidente, ci sono anche degli ottimi professionisti.
Goffredo Fofi*
Prima si parlava di editoria e volevo dare un'altra piccola informazione. Non sono professore, non sono di Rifondazione e credo che esista una globalizzazione positiva. Come consumatori di giornali noi siamo molto insoddisfatti dei giornali, dei giornalisti, delle scuole di giornalismo e di questa illusione che il giornalismo sia uno spazio di libertà in cui si possa liberamente esprimersi.
Maria Nadotti*
Ci si può anche alzare e andare via, noi no, voi sì.
Goffredo Fofi
Scusate, volevo dare quella breve informazione. Io parlo dell'editoria libraria, so poco dell'editoria dei giornali. L'editoria libraria è nelle mani di due editori che si chiamano Agnelli e Berlusconi, che controllano l'80% delle case editrici italiane. Berlusconi ha le sue e Agnelli ha le sue. Rizzoli, Mondadori, Bompiani, tutti, meno la Feltrinelli e alcuni piccoli... che è una stella in ascesa nel mondo del capitale editoriale e alcune piccole case editrici che continuano a cercare di lavorare con una certa autonomia, sono il 20%. Non a caso di recente hanno fatto uno studio sulle recensioni dei libri, sui principali quotidiani italiani (La Stampa, Corriere della sera e Repubblica) l'80% dei libri recensiti sono i libri dei grandi editori. C'è una logica assolutamente perfetta insomma, si recensiscono i libri dalla ditta Agnelli e dalla ditta Berlusconi. E questa piccola informazione per dire che non viviamo nel migliore dei mondi possibili ma siamo dentro a un sistema di potere preciso, con delle logiche precise. All'interno di questo sistema di potere ci si invita anche a pensare che esistono professioni dove il livello della compromissione è chissà perché accettabile più che in altre professioni, io non credo che questo sia vero. Credo che i giornalisti italiani abbiano delle grandi responsabilità di complicità nei confronti della disinformazione, della maleducazione di questo paese.
Luisanna Del Conte*
Scusate, forse come non addetta ai lavori posso riportare un po' di pace. Permettetemi due informazioni come magistrato e una come giudice minorile. Come magistrato ho sentito due cose che non mi sono assolutamente piaciute. Qualcuno ha detto: tu devi pensare questa cosa perché la maggioranza pensa questa cosa. Abbiamo l'art.21 della Costituzione, la libertà di pensiero, ognuno è padrone di pensare quello che vuole e deve avere il coraggio di dirlo! Secondo punto...la signora che modera il dibattito, ha detto in maniera abbastanza scandalizzata, che gli Stati Uniti hanno vietato, che Bush ha vietato la proiezione dei filmati di Bin Laden. Allora forse questa è una mia deformazione professionale ma io immediatamente, quando c'è stato il divieto, ho capito perché. E' prevenzione e tutela del territorio americano. Il governo italiano non è stato così accorto. Io avrei veramente chiuso completamente ogni comunicazione di questo terrorista vero o presunto. È comunque una comunicazione che può provocare altri lutti, ma questo è un discorso di prevenzione che noi magistrati facciamo normalmente, ora parlo come giudice minorile. A me il film, come non addetta ai lavori, è piaciuto moltissimo. Non mi è piaciuto, come giudice minorile, perché ancora una volta, sono stati prevalentemente, se non esclusivamente, fotografati i bambini. Continuiamo ad usare i bambini per far sorgere emozioni, commozioni, ragionamenti, riflessioni, ma il bambino è comunque strumentalizzato. Noi dobbiamo avere enorme rispetto. I bambini che vanno allo zecchino d'oro, i bambini che fanno spettacolo, i bambini delle pubblicità, sono tutti bambini sfruttati dai genitori. Il bambino che viene portato per 4 ore in uno studio fotografico a fare la fotografia pubblicitaria è un bambino a cui si tolgono 4 ore di gioco. E 4 ore oggi, 4 ore domani, 4 ore dopodomani, s'impedisce e si distorce la crescita. Noi dobbiamo stare molto attenti con i nostri bambini perché se veramente, come si diceva prima stamattina, la cosa importante è fare progetti di crescita e di educazione, dobbiamo prima di tutto educare i nostri bambini, stare attenti a non danneggiarli. Allora il giornalista che sbatte l'adolescente che ammazza la madre in prima pagina può pregiudicare ogni possibilità di recupero di quell'adolescente e non mi venite a dire che quell'adolescente non ha possibilità di recupero. Anche perché l'adolescente che ammazza la madre non è socialmente pericoloso, poteva ammazzare solo la madre, perché ci sta sempre un rapporto ambivalente...madre, fratello, sorella, fidanzata...diciamo persone affettivamente importanti. Il bambino che viene maltrattato e che viene tirato fuori perché i cattivi giudici lo hanno tolto ai buoni genitori, perché lui è povero, è un bambino che comunque viene riconosciuto e additato specie nei piccoli centri. Insomma stiamo attenti. Nel film si potevano usare donne, si potevano usare gli animali, si potevano usare le persone anziane, perché quasi e solo esclusivamente i bambini? Perché i bambini non hanno voce.
Roberto Koch*
Io volevo dire una cosa soltanto su questa questione dei bambini. Per completezza d'informazione, questi bambini che son stati fotografati da Salgado, prima di tutto sono stati fotografati in tutti i paesi del mondo, secondo sono soggetti che hanno chiesto loro stessi di essere fotografati. La dimensione, la condizione in cui questi bambini si trovano è ben diversa. Io credo che sia effettivamente una delle cose scandalose della nostra comunicazione, l'utilizzazione dei bambini, però vedo una diversità abissale tra il bambino utilizzato, sfruttato dalla famiglia, dai genitori per contribuire a un messaggio promozionale e un bambino che si trova in un campo profughi, che probabilmente ha in questo momento, con questa opportunità, l'unica possibilità di comunicare qualcosa. I ritratti di questi bambini, che tra l'altro, là dove possibile sono stati anche consegnati a loro stessi, sono un'opportunità straordinaria di comunicazione, in quanto sono anche i futuri soggetti, come dice Salgado, che o governeranno il mondo, o molto più probabilmente, ne saranno schiacciati. E mi viene in mente un episodio analogo, in cui i bambini, giocarono, nelle fotografie, un ruolo centrale, che mi sembra forse sarebbe più da accostare a questo. Con la grande tragedia del Ruanda e la dispersione di tutte le famiglie nei campi profughi, venne organizzato su iniziativa di un altro grande fotografo iraniano, un progetto di comunicazione che prevedeva di fotografare sistematicamente in tutti i campi i bambini e far circolare queste fotografie da un campo all'altro, in maniera tale da ricostituire le famiglie. Questo è un altro episodio che mi sembra completamente diverso dagli episodi negativi che erano stati citati.
Andrea Rauch*
Io volevo dire più o meno la stessa cosa con una semplice aggiunta. Ci sono molte foto di bambini, ma ce ne sono due o tre veramente agghiaccianti. Io avrò anche una reazione banale, ma la cosa che mi viene in mente è che ciò non deve succedere. Mentre quando vedo la trasmissione di Mike Buongiorno che fa fare i salti mortali ai bambini, mi viene un'irritazione che somiglia allo schifo, qui mi viene un'irritazione che somiglia all'indignazione. Un'indignazione non so quanto positiva, ma che io leggo in maniera positiva. Non voglio che quello succeda. Quel bambino lo sento come soggetto importante del fatto che non possa succedere ad altri bambini, che credo sia esattamente il motivo per cui Salgado o chiunque altro fotografo sensibile, fotografa una situazione del genere, non certo per venderla al giornale scandalistico.
Roberto Natale*
Siamo all'ottavo anno di Capodarco e per un attimo ho tremato, 10 minuti fa, perché ho sentito due applausi per corporazione, uno pro-giornalisti e uno anti-giornalisti. Allora se fosse questo, Vinicio, abbiamo buttato anni e così non è. Uno dei valori di questo luogo è esattamente quello dell'esser nato dal superamento difficoltoso, controverso, parziale di quella malattia mortale che è il corporativismo. E, dunque, come ha detto adesso esattamente Andrea Rauch, c'è la possibilità di dire che ci sono giornalisti che fanno delle cose ignobili e giornalisti che fanno delle cose eccelse. Seconda considerazione. Un riferimento che non vorrei andasse perso, contenuto mi pare nel primo intervento post tavolo, la ragazza che ha ricordato, se non ho colto male il riferimento, i pregi della cultura di massa, provo a dirlo così. Io sono rimasto colpito dal dato che forniva Roberto Koch: in tutta Italia le mostre di Salgado hanno fatto 200 mila persone. A proposito della TV, buona, cattiva, deficiente.un passaggio televisivo in seconda serata potrebbe assicurare un'esposizione magari meno partecipata, ma forse non irrilevante, molto, molto superiore. Nel dibattito su pregi e limiti di quest'opera teniamo presente e arrivo all'ultimo punto, l'esigenza a cui finalizziamo questa nostra discussione: rendere più forte la richiesta che è comune di una comunicazione dotata di senso. E' un problema che nemmeno le parti politiche colgono bene, perché riducono il tutto a un problema di "quanto stiamo noi in video". Il problema vero non credo che sia questo quanto piuttosto il fatto che in questi anni, soprattutto, ma purtroppo non solo, a causa della TV commerciale, è cresciuto in maniera esponenziale un tipo di comunicazione priva di senso o che ha sensi molto diversi da quelli che qui dentro c'interessano. L'altro motivo per il quale, sentendo 10 minuti fa quei due applausi contrapposti ho tremato, è stato che mi è sembrato un po' una metafora, di quello che in questi anni è successo in Italia, in cui una parte di nazione, almeno la metà, ha continuato a beccarsi su questioni che oggi, retrospettivamente, ci sembrano marginali, mentre di là cresceva, metteva radici e guadagnava consenso uno che ha idee, valori, scale di valori, priorità, un modo d'intendere la vita del tutto diverso, io credo, rispetto a tutte le persone che stanno qui dentro ed ogni anno qui si ritrovano.
Daniela De Robert, Tg2*
Io vorrei ripartire da Salgado, da giornalista, perché è il mestiere che cerco di fare. Non sono una critica cinematografica e cerco di cogliere alcune cose per il nostro mestiere. La prima cosa che mi ha colpito è un elemento centrale per il nostro mestiere: il rapporto con la verità. In qualche modo Salgado ci costringe a uscire dalla nebbia, o meglio ci costringe a vedere oltre la nebbia. Questo è un lavoro che lui ha fatto. Noi siamo in un seminario, si parla... Nebbia, le notizie nascoste o qualcosa del genere, siamo andati oltre la nebbia. Io ricordo con poco piacere un intervento di Mentana qui, in cui disse: quello che rientra nel cono d'ombra dell'informazione bene, il resto non lo raccontiamo. Salgado è uscito dal cono d'ombra e ha saputo raccontarlo con grande capacità, questo è evidente. Il rapporto con la verità è al centro del nostro lavoro, è un rapporto faticosissimo, difficilissimo, spesso veramente difficile per alcune persone in alcuni giornali. Abbasso il livello, penso al G8, non solo penso al fatto che si è raccontato un pezzettino di G8, gli scontri, altre cose sono finite nel dimenticatoio. Penso al Tg2 che ha girato delle immagini di una manifestazione pacifica con bambini e anziani, donne, gente sui prati che veniva picchiata e che ha dovuto mandare in onda il Tg1, perché noi non lo mandavamo in onda, succede anche questo nei nostri giornali. Il rapporto con la verità, è questo che ci deve guidare. Mi colpì molto lo scandalo che si fece per Carra che entrava con le manette in un'aula al processo. Non si è mai più raccontato che quotidianamente i detenuti che vanno ai funerali dei loro congiunti che muoiono ci vanno non con le manette, ma con gli schiavettoni e con due carabinieri, come Pinocchio. Non lo raccontiamo. Il rapporto con la verità è anche questo. Parlavamo, venendo qui, al mondo della droga. Non lo raccontiamo più, non ci sono più tossici? Ci sono? Si muore ancora per overdose? C'è o non c'è? Ecco, il rapporto con la verità. Allora da Salgado possiamo imparare anche a ricominciare a raccontare alcune cose. Parlo anche in positivo, penso a una puntata di Sciuscià che ho visto sul Kursk, era una puntata straordinaria, secondo me, che raccontava oltre la nebbia un avvenimento che avevamo visto solo nella nebbia. Penso ancora Rai.degli approfondimenti sull'Aids in Africa, immagini molto dure come quelle che abbiamo visto oggi, ma che fanno parte del nostro mondo. Allora io non mi scandalizzo se non raccontiamo la mostra di quadri fatta dagli immigrati che viene cestinata, mi scandalizzo che ci accorgiamo solo adesso che esisteva un paese dove le donne erano schiave e dove sono ancora schiave. Parlo dell'Afghanistan. E qui passo al secondo punto... Il rapporto con l'orrore, in parte l'ha detto Roberto Natale. Ce ne accorgiamo solo quando scoppia. Scoppia la guerra in Afghanistan.oddio, le donne sono dentro al burka! Oddio, non hanno diritti! Scoppia la guerra in Ruanda... Oddio, ci sono milioni di morti! Da Salgado imparo anche il rapporto molto rispettoso con l'orrore. Salgado ci racconta senza emozione, non fa un racconto emotivo, ci mette davanti delle immagini senza indugiare nel voyerismo, che ci provocano orrore. E allora ben venga l'emozione, sono d'accordo con chi lo diceva, ben venga l'emozione in un mondo che volta lo sguardo, in un mondo indifferente e all'emozione quando parliamo di cambiamento. A noi giornalisti spetta il compito di raccontare non di cambiare il mondo. Provocare il cambiamento attraverso il racconto di un mondo che viviamo, secondo me, è il nostro mestiere. Terzo punto. Il rapporto con la gente, con le persone e con le storie. Anche qui possiamo imparare molto. Salgado attraverso un volto, attraverso un bambino, attraverso un'immagine innocua, ci racconta un processo intero, attraverso un'altra faccia, un'altra faccia, un'altra faccia; non ci fa vedere un bambino povero, ci racconta un processo che è in atto nel mondo. Noi in questo seminario più volte abbiamo parlato con fastidio, dell'uso strumentale delle storie. Chi lavora nelle associazioni sa che arriva il giornalista: mi dai una storia di uno sfigatissimo che.? Salgado ci racconta delle storie, ma non usa le persone, le usa per raccontare cosa c'è dietro. Noi siamo abituati a un'emozione, alle lacrime in diretta, a "I fatti vostri", che non hanno niente di giornalismo, o tutti i programmi affini, dove l'emozione è fine a se stessa. Speriamo che pianga. Io mi ricordo addirittura un'amica che lavora lì, che fu ferocemente aggredita dal responsabile del programma perché l'ospite non aveva pianto. Succede questo, è normale, lo sappiamo. Qui non c'erano lacrime, i bambini erano serissimi e a volte sorridevano, era molto peggio. Allora dare voce senza usare, questa è un'altra cosa che credo dovremmo imparare. E poi due piccole note. Diceva qualcuno che non è più attuale perché l'Afghanistan di allora ci fa un po' impressione. È molto attuale anche dopo l'11 settembre, perché i poveri continuano a morire, esattamente come prima, oltre alle bombe che hanno in più. Credo ci sia una forte attualità ancora di questa mostra. E l'ultima annotazione.finisce questo film con un dubbio sull'utilità del proprio lavoro. Ben venga il dubbio, è un dubbio sano, è un dubbio che si può porre solo chi questo lavoro lo fa cercando questo rapporto con la verità. Chi non lo fa, non se la pone proprio la domanda!
Lucia Nencioni*
Mi spiace ritornare a riparlare dei bambini abusati. Evidentemente mi sono spiegata male per necessità di sintesi estrema ed è chiaro che se sono qui è anche per il ruolo istituzionale che svolgo, come addetta stampa del centro nazionale di documentazione nazionale sull'infanzia e adolescenza, e dell'Istituto degli Innocenti di Firenze. A me sta molto a cuore l'abuso sui bambini, ma quello che non sopporto, perché non tollero più, come giornalista prima di tutto, e poi come cittadina, e poi come mamma, è che sull'abuso dei bambini si faccia propaganda, perché quello io volevo dire. L'uso di certi dati, dati in malafede, a questo punto io sto cominciando a pensare, in maniera enfatizzata, che non corrisponde alla verità, serve agli interessi di qualcuno, a interessi economici e politici. Giustamente lei diceva: ci sono i fatti, poi c'è un racconto. Però sempre di più questo racconto è connotato come favola o come orrore, ma la verità, e condivido molto l'intervento della collega che ha appena parlato, la verità è sempre più lontana. Negli occhi di quei bambini c'è verità, anche senza poi perdersi molto in commenti. Quelle immagini parlano in maniera molto chiara e anch'io credo che quei bambini non sono usati. Nessuno di noi vuole usare i bambini, mai.
Andrea Rauch*
Posso precisare una cosa proprio dagli ultimi due interventi perché ce l'ho sulla punta della lingua. Quei bambini, quelle foto... Io sono d'accordo con tutte e due premetto, però quelle foto non ci raccontano una storia, siamo noi che ce la raccontiamo quando le vediamo. Quando uscite di qui guardate la foto della ragazzina sul manifesto della mostra che è a Capodarco. Quella foto di per se non ha nessun elemento per permettere di identificarla. Io non so assolutamente cosa sia, come mai mi racconta comunque, come direste voi, una storia? Secondo me perché Salgado non mi racconta una storia precostituita, ma mi dà delle suggestioni, che poi io elaboro. Sono io che mi racconto una storia in base alla mia cultura, alla mia sensibilità, al mio saper leggere le immagini, al mio sapermi emozionare, al mio essere. Ecco, quello che ci dà in queste foto, salvo alcune foto che sono ovviamente più precise, ma è una fortissima suggestione emotiva. Io elaboro su questa suggestione e a quel punto ovviamente la storia me la sto raccontando io perché li conosco quei fatti, perché so qualcosa, altrimenti sono foto che non hanno una didascalia, non vogliono avere una didascalia, anzi secondo me non vanno nemmeno tanto bene tutte insieme. E' una per una che mi raccontano le storie che voglio sentirmi raccontare, perché è una per una che mi fanno fermare, mi fanno pensare. Questo mi sembrava interessante. Non è un fotoreporter, non è un paparazzo, non mi racconta la storiellina, non mi racconta quello che è successo. La foto che mi racconta è le Twin Towers con il fuoco e con l'aereo che penetra dentro, quella è una foto, sicuramente fortunatissima, sicuramente epocale, ma è una cosa che racconta un fatto preciso. Questa, la foto della bambina, non racconta un fatto preciso, ma offre un ventaglio di interpretazioni, di suggestioni alle nostre coscienze, al nostro saperla leggere, al nostro volerla leggere, al nostro volersi fermare e guardare.
Intervento
Pensavo alla grande crisi che sta vivendo, in questo momento storico, la figura dell'intellettuale. Capisco la depressione che ci raccontava la moderatrice, dello scrittore Berger, nel non saper dare più delle spiegazioni. E mi viene da dire, commentando un po' quello che diceva Fofi, che anche la vergogna, paradossalmente, può essere un'ipocrisia, perché tutto sommato, in qualche modo, quasi si trasforma in una contrapposizione, ma ci lascia così come ci trova. Mi vengono in mente due parole. La prima è responsabilità. Noi siamo inseriti in un meccanismo che ci rende complici, anche se in buona fede non lo vogliamo, ma la responsabilità è qualcosa che invece ci mette più in gioco personalmente. Lì dove siamo, dove viviamo dove operiamo, lavoriamo, dovremmo riuscire in qualche modo a farci carico, per quel che possiamo, di questa complessità. Questo è un dovere per chi fa questa professione e mi dispiace chi non sopporta le critiche che in qualche modo rifugga questa responsabilità, perché siamo stati tutti travolti da cose molto più grandi di noi. E la seconda parola è l'umiltà. Io pensavo di aver capito un po' di più rispetto a tanti meccanismi internazionali, o a delle interpretazioni forse un po' precostituite della realtà. Ora quello che mi viene fuori spontaneamente è questo profondo atteggiamento di ascolto, di umiltà e di rendermi conto, di essere consapevole, che per quanto possa sforzarmi d'interpretare la realtà, essa è sempre più grande di me, di noi. Forse la si serve in maniera più corretta e più pura possibile, con tutti i limiti che abbiamo, mettendoci in ascolto di chi le tragedie le vive veramente e di chi è ripreso, fotografato, raccontato e che ha una sua dignità che va molto, molto al di là del nostro desiderio di conoscere.
Intervento
Sono di Bologna, faccio parte di una comunità per il recupero dei tossicodipendenti. Io sono un po' in difficoltà perché a differenza di tante persone qua non ho una laurea, non sono neanche diplomato, però ho notato che soprattutto lei ha parlato molto di emozioni, cioè se una cosa non emoziona, come la notizia, se non emoziona non viene data. Noi che stiamo cercando di aprire un giornale on line e occuparci di problemi sociali, abbiamo questa problematica di reperire delle notizie che qualcuno poi vada a leggere. Allora dal problema un po' di tutti i ragazzi che vengono in comunità emerge che c'è una grande spaccatura fra il sentimento e l'emozione, cioè siamo talmente abituati a provare emozioni su delle cose che non esistono. Che ne so... Piangere per un film se due si lasciano. Ci si emoziona davanti a una foto, però poi, quando si passa oltre, questa foto non rappresenta niente, perché non è stata creata da un sentimento di base. Quindi chiedevo a lei che è un grafico, che si occupa di comunicazione, se è mai stato analizzato il problema che abituare le persone a emozionarsi e basta non risolve il problema, perché poi alla fine uno è sempre alla ricerca di emozioni nuove, di cose nuove.
Andrea Rauch*
Io ne parlavo un po' in un altro senso. Mi riferivo soprattutto a un fatto visivo. Non parlavo di emozionicioè ho parlato di emozione, perché la prima parola è stata emozioni, quindi io ho seguito quella.ma in realtà avrei preferito parlare di suggestioni. Cioè la bambina. Vi faccio ancora l'esempio perché sono un uomo noioso. Mi piace fare e ridire le stesse cose, ma la bambina che Salgado mi offre, a me dà una suggestione. Salgado ha avuto una sua suggestione, l'ha stampata, me la offre, io la vedo e ho una mia suggestione, cioè io elaboro quello che lui mi offre. Salgado mi si offre come medium tra la realtà e me che sono il fruitore e tutti voi. In questo senso parlavo di emozioni ma l'ancoravo di più a un fatto visivo. Voi ricordate tutti i fatti salienti della storia sono tutti in qualche modo o contrappuntati da una storia vera e propria, cioè dei fatti e quindi la spiegazione dei fatti, oppure da immagini che sono in qualche modo emblematiche. La guerra del Vietnam noi non la ricorderemo per la successione degli interventi francese o americano, io la ricorderò per 2-3 immagini della bambina nuda che corre sotto le bombe, la ragazza che alla fine della guerra allarga le braccia e ci sono le colombe che si posano sulle braccia. Queste sono immagini, che in qualche modo, hanno offerto delle suggestioni su cui poi il mondo si è formato. Quelle immagini apparentemente sono normali. Ma noi ci abbiamo lavorato, ci abbiamo pensato, è stato un lavoro nostro, non è stato tanto il lavoro del fotografo, è stato si il lavoro del fotografo, però poi questo lavoro è diventato collettivo. Ci siamo appropriati del lavoro di un altro, che ha fatto da tramite tra la realtà, con i suoi mezzi, e noi. Per quanto riguarda le notizie, porgere le notizie, evidentemente è un problema di tecnica giornalistica, di modi di porre il fatto, di privilegiare il fatto, di sapere cosa interessa di più in quel momento. Si tratta di avere una realtà e far uscire la realtà dal proprio orticello, perché questa realtà sia offerta in qualche modo alla valutazione, alla comprensione, all'analisi e comunque all'informazione di chi sta di fuori.
Vinicio Albanesi*
Io sono contento di questo dibattito perché voi avete avuto un grande prodotto. Avete avuto su questo tavolo gente responsabile, perché Goffredo Fofi fa il critico cinematografico mica per hobby.lo fa per mestiere. Maria Nadotti fa la critica letteraria per mestiere. Andrea Rauch fa il grafico di mestiere. Roberto Koch, lo stesso, perché proprietario di un'agenzia. E Roberto Natale fa il giornalista vero. Allora voi avete avuto questa sera la triangolazione, un messaggio, le mediazioni del messaggio e i modi di comunicazione, che è la vita... Siete molto giovani, e vedrete che nessuna opera è perfetta e nessun critico è perfetto e nessun fotografo è perfetto, perché solo il Signore è perfetto. Un'altra considerazione è che uno s'impegna, fa quello che è capace di fare e nessuno converte il mondo perché questo si chiamerebbe "grazia". Voi non siete illuminati da Dio per fare i giornalisti. Avrete un mestiere, avrete delle idee, avrete delle capacità, avrete dei padroni, avrete dei capi redattori, avrete tutto quello che vi spetta. Per questo io sono molto contento, perché è come se questa fosse stata una redazione vera. Bisognava decidere se immettere o no sul palinsesto quest'opera di Salgado, con tutti i dibattiti possibili e immaginabili.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.