Maria Nadotti e Svetlana Alexievitch
Svetlana ALEKSIEVIC
Giornalista e scrittrice bielorussa di lingua russa, insignita del Premio Nobel per la letteratura 2015.
ultimo aggiornamento 24 novembre 2015
Maria Nadotti - scrittrice, saggista, critica letteraria e cinematografica*
Svetlana Aleksievic è nata in Bielorussia. Nasce professionalmente come giornalista e ad un certo punto della sua vita comincia a stare stretta nel formato giornalistico: passa a dei veri e propri grandi reportages, a dei libri e ne ha scritti tanti, tradotti in una ventina di lingue. In Italia prossimamente, credo alla fine di febbraio, inizi di marzo, finalmente sarà a nostra disposizione uno dei suoi testi, un libro che si chiama "La preghiera di Chernobyl", che è un libro molto difficile da definire come genere, perché è un lavoro che Svetlana ha costruito in un modo ben preciso. Dopo la grande catastrofe di Chernobyl Svetlana, che è di quella zona del mondo, ha deciso di passare qualcosa come 4 anni lì, nell'area di Chernobyl e di fare una cosa che non aveva fatto nessuno. Ha cominciato a raccogliere le voci di uomini, donne, bambini che ci vivevano. E come li ha fatti raccontare? Attraverso delle interviste che andavano in grande profondità, che andavano a interrogarli non soltanto su come era cambiata la loro vita in seguito degli eventi di Chernobyl, ma anche come era cambiata la loro percezione del tempo, dello spazio, del corpo, come erano cambiati i loro sentimenti, che cosa ne era per esempio dell'amore, della paura, dell'idea del futuro e dopo aver raccolto qualcosa come 400 interviste, tutte registrate, Svetlana si è messa al suo tavolo da lavoro e ha sbobinato personalmente tutte queste registrazioni. E' un lavoro di anni e di questo le chiederemo oggi. Uno dei grandi problemi che ha qualunque giornalista è che ha dei tempi stretti, delle misure piccole, righe.magari mezz'ora per scrivere un pezzo, lei invece si è presa anni per costruire i suoi reportages. E siccome il tempo comporta un grande lavoro sulla scrittura, perché quando uno raccoglie 400 voci, voi sapete bene che ogni voce è diversa dall'altra, come si fa a non tradire ogni singola voce e a lasciarla parlare distinta da tutte le altre? Questo è lo straordinario lavoro e il grande metodo di lavoro di Svetlana. Oltre a questo libro che sarà a disposizione appunto anche in lingua italiana nei primi mesi del 2002, Svetlana ha scritto una serie di altri libri di questo stesso tipo, grandi reportages corali. Il primo, per cui ha avuto anche grandi grane politiche nel suo paese, si chiama: "The war has not a women face - La guerra non ha una faccia di donna". Un altro che si chiama "Last witnesses - ultimi testimoni", un altro "Zinky boys - ragazzi di zinco" (non so se la traduzione inglese va bene), vi segnalo che la rivista "Lo straniero" n.18 ha pubblicato alcune pagine da questo libro. E' un libro clamoroso, sulla guerra Afghanistan-Unione Sovietica, una guerra recentissima, che avrete notato è stata spazzata via dal giornalismo internazionale dalla nuova guerra in corso. Quella guerra così recente avrebbe molto da insegnare rispetto all'oggi. Un altro libro è "Stregati dalla morte", scritto anche questo in anni e anni di ricerca e di raccolta di esperienze, di testimonianze, su quello che è successo nell'ex impero sovietico nella vita personale dei singoli individui, uomini e donne. E' un libro sul suicidio. Svetlana aveva osservato che alla caduta dell'impero sovietico era seguita una vera e propria epidemia di suicidi. E' andata a chiedere da cosa fosse determinata quella epidemia di suicidi e ha scoperto che la causa è la difficoltà ad imparare di nuovo a vivere quando crolla un intero sistema di pensiero, quando scompare quella che è stata una grande utopia, l'utopia comunista. Noi abbiamo fatto in fretta in occidente a dire: evviva! È caduta quella cosa. Ma dentro quella cosa c'erano dei germi di straordinaria utopia. Attualmente Svetlana sta scrivendo un altro libro di questa stessa natura, che ha per tema l'amore, l'amore nell'ex Unione Sovietica. Come ci si ama oggi? Gli uomini con le donne, le donne con le donne, gli uomini con gli uomini, come ci si ama in questo mondo che è crollato e che è sta tentando di inventarsi qualcosa di nuovo? Un'altra cosa interessante. Svetlana proprio perché il suo ragionamento non segue nessun partito, non segue nessun ideologia, porta avanti un discorso di una radicalità assoluta, ha avuto grandi grane, ha avuto una serie di processi. Il suo primo libro, "La guerra non ha una faccia di donna", le ha procurato una serie di grane per disfattismo. Per tutte queste grane di tipo legale ed anche professionali, i suoi libri nel suo paese, hanno cominciato a stare in una specie di stand by. Non li pubblicavano. Ci è riuscita grazie ad una organizzazione europea che si chiama "parlamento europeo degli scrittori". Nel '93 a Strasburgo, a seguito di una vera e propria strage di intellettuali, scrittori, giornalisti, artisti, uomini e donne di teatro in Algeria, nasce questa struttura di protezione, di difesa degli intellettuali. Il parlamento europeo degli scrittori struttura una serie di cosiddette città rifugio, non solo in Europa. Ce ne sono in Messico, ce n'è anche una negli Stati Uniti a Las Vegas e cosa succede con questa struttura delle città rifugio? Le città che si mettono a disposizione del parlamento europeo degli scrittori offrono ospitalità e uno stipendio per periodi più o meno lunghi agli scrittori o alle scrittrici, agli intellettuali in forte difficoltà, in una vera e propria situazione di rifugiati politici. Svetlana è ospite da un anno e resterà ancora un anno nella città rifugio italiana di Pontedera. In Italia ce ne sono 5 di città rifugio. Spiace che se ne sappia così poco, perché poi questi scrittori ospiti di queste città varrebbe la pena di farli parlare, di incontrarli, perché hanno molto da raccontare. Un'ultimissima cosa, poi passiamo direttamente alla sua di voce, molte delle opere di Svetlana sono state adattate per il cinema e per il teatro. Io ho avuto la fortuna di vederne una di queste opere che tratta dalla "preghiera di Chernobyl". Sono testi che sembrano fatti per il teatro, per il cinema, perché sono storie e dinamiche di relazione tra esseri umani. Partiamo da qui. Io parto con una domanda.
Svetlana Aleksievic
(.) Ricordo un episodio. Una volta ero in tribunale e sul banco degli imputati c'erano persone anziane. Vedevo delle persone anziane raffreddate che tossivano, che soffiavano il naso, qualcuno piangeva.e ho capito che il nostro animo non sa come comportarsi di fronte all'uomo. Siamo indifesi di fronte al male, perché senti pietà per questa persona, anche se lui dice: sì, li ho bruciati! Raccontava come lo ha fatto.e mi ricordo in uno dei giorni del processo, quando sono uscita dal tribunale, avevo capito che il male non è che lo puoi vedere, capire e scrivere, descrivere. Credo che l'obiettività in quanto tale non esiste. Quanti siamo qui presenti? Abbiamo tante verità. Tutti noi presenti in questa sala, compresa me, dobbiamo imparare qualcosa. E' difficile dire che c'è un senso nell'orrore, ma noi dobbiamo capire l'orrore, altrimenti ci fermiamo, come spesso succede. Ieri nel film che abbiamo visto, io ho visto proprio questo: rimane, di fronte a questo film, l'orrore e questo non ci aiuta. La persona è talmente rovinata dagli orrori, l'orrore è talmente banalizzato, l'orrore di oggi deve diventare più orribile dell'orrore di ieri, che questo mostro dobbiamo trattarlo con molta attenzione. Per questo, io l'ho capito durante quel processo, bisogna preparare non solo la propria mano, la propria penna, ma preparare il proprio animo. Quando scrivevo della guerra mi sembrava che le donne, i bambini avessero più caratteristiche di persona, persona libera. La donna per la natura stessa, perché partorisce la vita e il bambino perché è una creatura innocente. Poi più tardi quando questi libri sono stati scritti, hanno suscitato la protesta della società. Hanno parlato del pacifismo, del naturalismo e il sistema non li ha accettati, la coscienza di massa non li ha accettati. Non so come è qui da voi, ma da noi un artista, uno scrittore, in Russia diciamo nello spazio dell'ex Unione Sovietica, vive tra i due conflitti: il conflitto con il potere, che è un conflitto eterno e che adesso diciamo con il padrone, con chi ha i soldi, ma anche un conflitto ancora più tremendo, il conflitto con la coscienza di massa. Il censore tremendo non è il redattore, né Berlusconi, né qualcun altro, il censore più tremendo sono le nostre coscienze accumulate sul che cosa conosce l'uomo e che cosa non deve sapere. La donna, parlando della guerra, non parla mai della vittoria ad esempio. Diceva: la battaglia è finita e la cosa più tremenda è che io come infermiera dovevo passare sul campo di battaglia per controllare se qualcuno era ancora rimasto vivo. Camminando vedevo, diceva questa donna, vedevo solo i giovani, i ragazzi, che stavano in mezzo all'erba e guardavano il cielo e mi fanno pena, tutti mi fanno pena. Durante le prime conferenze con i lettori questa parola "pietà" suscitava delle proteste non solo dei censori, ma anche del pubblico, perché dicevano: come potete aver pietà per il nemico? La questione del valore della vita in quanto tale non si poneva. Il libro inizia dal racconto di un orfanotrofio. Cosa fanno i bambini in un orfanotrofio? Aspettano mamma e papà. Entrano i tedeschi, i bambini sono appesi alle finestre, guardano dalle finestre, si buttano al collo di questi tedeschi e li chiamano papà, dicono sono arrivati i papà. Invece loro sono venuti per prenderli, per portarli all'ospedale e per prendere il sangue, perché il sangue serviva per i feriti e questo scontro di due mondi faceva pensare.Il bambino racconta.hanno ucciso la mia mamma mentre stava ricamando. Io che cosa ho cercato di fare? Far scontrare questa pazzia, quest'orrore con qualcosa, non collezionare il male, non c'è nessun senso di collezionare il male, perché il male si riproduce e si può resistere a questa riproduzione del male solo penetrando questo male, capirlo e cercare il senso del perché raccontiamo tutto questo. L'altro libro "I ragazzi di zinco" è dedicato alla guerra nell'Afghanistan. Questo libro mi ha aiutato a liberarmi dall'illusione dell'utopia. Io ero persona del mio tempo, facevo parte di quel male. Ora voi parlate di utopia del socialismo, che sembra una cosa chiara, invece adesso lo vediamo che era un male, era un male vissuto da noi, il male quotidiano. Nonostante tutti gli orrori io ho capito quanto il male possa nascondersi, come possa acquisire delle forme di normalità e che noi dobbiamo stare molto attenti, avere un orecchio sensibile, essere pronti a capire, a vederlo questo male. Nel mondo di oggi da una parte questo male ha acquisito delle dimensioni enormi, si mimetizza e ci distrugge ogni giorno. L'esperienza più grande del libro "I ragazzi di zinco" è stato proprio il fatto di liberarmi da questo male globale in quanto utopia. Mi ha liberata dall'illusione che la forza possa fare qualcosa contro il male. Secondo me né gli Stati Uniti, né l'Europa hanno proposto altri modi di lottare contro il male se non la forza, le armi. Lì bastava parlare con un nomade per capire che lo spazio umano può essere riempito di altre cose, non di quello di cui è riempito qui in Europa. Lì ci sono altri fattori, altri fondamenti della forza e della debolezza e quando un moujahdin sa che morirà domani lo vedi invece parlare tranquillamente della pace del mondo in quanto tale e vede con molta calma e serenità la morte. Mi ricordo una conversazione con due Afghani che sarebbero morti il giorno dopo: per noi qui la morte è paura, per loro no, perché loro sono liberi da questo pensiero, per noi sono kamikaze e per loro è una forma di libertà, quindi non ci è possibile comprendere questo mondo. Dobbiamo capire che è assolutamente insensato uccidere, bombardare, assolutamente insensato condannare e punire qualcuno. Vi sto raccontando il mio rapporto con il male, della mia strada, della strada percorsa per uscire da questo male, Chernobyl prima di tutto. Il mio libro su Chernobyl, sulla catastrofe di Chernobyl, non è quello che c'è nella nostra coscienza, è un nuovo volto del male. Vi faccio solo un esempio che mi ha fatto capire che si tratti di un altro mondo completamente diverso. Voi sapete che qualche settimana dopo l'esplosione del reattore decine di migliaia di persone sono state evacuate perché non si poteva più vivere lì, la terra era morta. Io vengo lì con i militari durante l'evacuazione degli abitanti, tutti partivano, prendevano solo poche cose che avevano con loro, il resto lo lasciavano, si salvava solo la persona. Arrivano i militari e un colonnello che dirigeva questa operazione di trasferimento e dice: c'è una vecchietta che non vuole partire. Ci avviciniamo e verifichiamo che vicino a una piccola casetta vetusta c'è una donna con un'icona in mano. Mi vede, l'unica donna tra gli uomini, e mi dice: figlia mia gli puoi spiegare tu? Io so che cos'è la guerra, ho vissuto la guerra, bombardano, sparano, ci sono le pallottole, guarda qui invece, guardati intorno, ci sono i meli in fiore, ci sono i topi, ho visto i topi che corrono nella mia cantina, gli uccelli che volano, dov'è la guerra? Non c'è nessuna guerra, allora perché dovrei lasciare la mia casa? E proprio allora in quel piccolo villaggio questa donna ha detto quello che non mi ha detto nessun filosofo, nessuno studioso, nessuno scienziato. Lei una vecchietta semplice, lei ha fatto una domanda, ha chiesto che cos'è? Forse questa è una guerra? Io allora ho capito: sì, è un male con un altro volto, una guerra che non si sente, non c'è l'odore, non si vede nulla ed è la morte e tu sparisci, non ci sei più. Il senso del male è proprio in questo: l'annientamento dell'uomo, fisicamente o spiritualmente. Questo è un nuovo male e quando a settembre è successo quello che è successo a New York e tutti noi abbiamo visto, più li vediamo, meno capiamo. Quando vediamo che gli aerei come in un film attraversano i due grattacieli e tutto quel nostro mondo va al diavolo, noi capiamo che il male si sposta, si muove in qualche modo, in modo molto più velocemente rispetto alle nostre conoscenze, rispetto alla tecnologia, rispetto alla parola e forse più veloce della nostra paura. Forse non ci siamo neanche spaventati davvero, perché l'uomo non può aver paura di quello che ignora, di quello che non sa.
Mi ricordo un pilota di elicottero durante la catastrofe di Chernobyl che lavorava vicino al sarcofago e stava morendo. Mi ha telefonato, ha detto: devo morire fra qualche mese venga presto. Sono andata a trovarlo, ormai aveva solo gli occhi, il corpo non c'era più e questi occhi avevano delle conoscenze che voleva trasmettermi. Io ho parlato con lui tutta la sera finché ha avuto la forza di parlare e il suo pensiero era questo: non abbiamo visto tutto, non abbiamo capito tutto, però abbiamo visto qualcosa che voi non sapete, quindi scrivete, forse lei non capirà, forse non capiranno quelli che verranno dopo di noi, ma forse un giorno la gente lo capirà.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.