Interventi di Riccardo Petrella e Ferruccio De Bortoli
Riccardo Petrella, direttore del Corriere della sera*
Mondializzazione: due sistemi a confronto
In un primo momento vorrei tentare di capire quali sono i meccanismi di fondo, i principi o le dinamiche di fondo di questo fenomeno di mondializzazione che fa parte di tante nuove retoriche interpretazioni, ipotesi di spiegazione di dove sta andando il mondo. La mondializzazione, la società dell'informazione, delle conoscenze, l'economia delle reti, erano in gestazione durante questi 30 anni, ora sono dei bambini e gridano come tutti i bambini. Ma ogni bambino la prima cosa che impara è "a me, a me, a me" e la mondializzazione, la società dell'informazione, della conoscenza dicono anche loro "a me, a me". Non uso il termine globalizzazione, perché globalizzazione è già una terminologia estremamente connotata. Se utilizziamo subito il concetto di globalizzazione, significa che l'abbiamo accettato e che può essere corretto, cioè accettiamo il fatto che i costruttori del discorso della globalizzazione sono dei costruttori del mondo occidentale e in particolare, del mondo extrasassone dell'intellighentia anche pratica, politica, industriale e tecnica degli Stati Uniti. Il concetto di globalizzazione è legato al global market, non c'è globalizzazione senza global market. Mentre la mondializzazione è un fenomeno a mio parere molto più vasto e dentro queste due dinamiche, i concetti immediatamente ci definiscono i sentieri. Ci sono tre matrici storiche, di pensiero. Uno non deve aver paura delle ideologie, ce le abbiamo tutti, coloro che dicono che c'è la fine delle ideologie sono dei bischeri, raccontano barzellette, è come dire che c'è la fine del pensiero, del discorso. La prima matrice della mondializzazione attuale è stato lo scontro tra due sistemi di società, ciascuno rivendicando il diritto all'egemonia planetaria. Si può interpretare in questo senso lo scontro est-ovest. Questi due sistemi opposti volevano dare risposta a un grande problema quello di come si produce e distribuisce ricchezza. Il sistema detto occidentale, dell'ovest, affermava: non si può fare che attraverso la valorizzazione della libertà individuale, dell'imprenditoria, dell'imprenditorialità individuale, attraverso meccanismi di mercato più o meno regolati e quindi libertà di scambio, di proprietà, libertà del capitale: "siamo economie aperte, non si può andare contro la proprietà, il capitale deve muoversi e il capitale ha diritto di essere proprietario per poter remunerare il proprio investimento". L'altro sistema diceva: "no, non sono per la libertà dell'imprenditore, del capitale dell'individuo, penso piuttosto ad una proprietà collettiva". A un certo momento abbiamo constatato che per delle ragioni molteplici, questo scontro si è risolto con la vittoria reale del sistema di società occidentale, il quale nel frattempo, per dimostrare che era il sistema migliore, aveva valorizzato tutti i metodi di apertura dell'economia e aveva accettato nell'ambito del suo sistema di dominio di referenza, tutte le variabili possibili. Tu puoi fare tutto quello che vuoi all'interno del nostro campo, però se passi nell'altra parte non sei più dei nostri: la libertà di soluzione economica, sociale, politica era uno spettro enorme dalla dittatura alla forma più avanzata della socialdemocrazia, alla condizione che non si passasse la frontiera. All'interno potete essere liberi quanto volete, però i sistemi sono ben definiti. Piano piano, abbiamo creato espansioni delle unioni di commercio, abbiamo creato il Gatt, e tante cose. È emersa una cultura quella che la libertà dell'economia, dello scambio, l'apertura delle frontiere economiche, la creazione di grandi scambi commerciali fosse la forma più evidente di risposta al problema su cui i due sistemi erano confrontati, cioè come si produce e si ridistribuisce la ricchezza.
Il capitale non può dormire la notte
Seconda matrice della mondializzazione: essa è figlia della tecnologia. Si dice "in fondo questa mondializzazione è il risultato del progresso delle conoscenze, delle scienze, è il processo delle conoscenze incorporate in nuovi strumenti di comunicazione, di trasporto, di informazione, di gestione". La mondializzazione fa parte inevitabile del fenomeno naturale di questa espansione delle opzioni. Tecnologia significa che aumenta la scelta per soddisfare i bisogni. Tecnologia diventa ancora una volta l'espressione della libertà, cioè più siamo tecnologicamente sviluppati, più abbiamo opzioni, più siamo liberi di scegliere i mezzi più idonei a permetterci di massimizzare la soddisfazione di priorità. Allora si dice "la mondializzazione è un'opportunità?": più ci mondializziamo, più le opportunità sono enormi, perché abbiamo tecnologie che diventano strumenti della creatività individuale e collettiva. Il punto enormemente importante per capire la mondializzazione è proprio questo dell'aumento della creatività individuale e collettiva. La tecnologia spinge alla necessità della liberalizzazione, è importante dire che una scelta politica è stata legittimata da un condizionamento tecnologico. Si fa passare come scelta inevitabile, naturale, saggia, la liberalizzazione di mercato, mentre è una scelta ideologica di certe classi dirigenti, che operano la liberalizzazione che è una scelta politica, non tecnologica. La tecnologia ha capovolto le condizioni della produttività, rispetto alle variabili spazio e tempo. Come demoltiplicatrice delle opzioni fa saltare i vincoli temporali e spaziali precedenti e quindi fa saltare il vincolo territoriale nazionale e spaziale, ecco perché diventa lo spazio mondiale. Tutta la gente che lavora nei vari laboratori genetici, parla ormai di civiltà post-umana, fatta dalla tecnologia. Dalla storia della natura, ora siamo in una postuma umanità. La mondializzazione attuale è l'espressione della post-modernità. La tecnologia che ha fatto saltare lo spazio ha fatto saltare anche il tempo. Il tempo è sempre soggettivo. La tecnologia dice, ed è lì l'aggancio con la mondializzazione che: "oggi le tecnologie d'informazione hanno raccorciato la nozione del tempo". Arriviamo addirittura alla nozione del micron del micron. Dovete pensare che è un milione di miliardesimo di secondo. Siamo arrivati nella civiltà dell'istante, si parla di istant economy, il capitale deve essere produttivo all'istante. Il corto termine oramai è lungo termine, l'istant economy è mondiale. Vi sono due altri concetti importanti: anywhere, anytime. L'Organizzazione Mondiale del Commercio è l'organizzazione del mondo della libertà del commercio è anywhere. Mettere una barriera o una regola di tipo ambientale, sociale, culturale, politico è antinatura. Anywhere e anytime: il capitale deve lavorare 24 ore su 24, deve essere produttivo perché è naturalmente creatore di plusvalore sempre. Non c'è più niente che distingue giorno e notte: 24 su 24 ore, questo è il concetto della mondializzazione. Come puoi pretendere d'impedire al capitale di produrre ricchezza per tutto il mondo? Anche se fossero 10 milioni le persone che cadono malate a causa dei voli notturni: che cosa sono 10 milioni rispetto al benessere di 800 milioni di consumatori solventi? Che diritto hai te, 10 milioni di persone, di voler pretendere di impedire ad 800 milioni di persone di avere più ricchezza? Il capitale non può dormire la notte!
La mondializzazione si fonda sull'ineguaglianza
Questa tecnologia porta a due conseguenze. La mondializzazione ha due grandi conseguenze: l'affermazione della rete come forma organizzativa ottimale delle relazioni tra la gente e la depoliticizzazione del politico. Più siamo figli della tecnologia, più dipende da ciascuno di noi essere creatori e captare tutte le opportunità che le reti molteplici, in tutti i campi, danno. Rete come consumatori, rete come scuola, rete come Internet, rete come qualunque cosa. La rete sta diventando la forma proposta di organizzazione della società al posto della forma politica dello Stato. Non per nulla si parla di "net economy". Net economy o net society non è Internet, net è network, l'impresa come network, la società civile come network. La seconda conseguenza è quindi una nuova concezione del politico che è soppiantato. Siamo entrati nella fase di innovazione politica che si chiama "senza età", "senza Stato", global e poi gli altri, quando vogliono essere più precisi, dicono global market e il market è la rete. Se abbiamo la mondializzazione che abbiamo in questo momento è perché c'è stata ancora una posizione tradizionale, classica, insegnata nei testi di scuola che era quella della lotta tra capitale e lavoro. Il welfare ne è stata una risposta orientata verso il lavoro, quindi socialmente considerato un po' più giusto. Si faceva la differenza fra il welfare scandinavo e americano, il welfare americano era un capitalismo welfare, mentre quello scandinavo, un socio welfare. Ma il welfare cosa ha fatto? C'era l'aumento della produttività e il welfare rappresentano l'incontro tra mondo industriale del capitale, mondo del lavoro e potere pubblico che si mettevano d'accordo sulla gestione della produttività. Dopo 15 -20 anni di welfare il rapporto della parte di coloro che avevano reddito sul lavoro, da lavoro, sul reddito generale era cresciuto, mentre, pur essendo cresciuta in termini assoluti, la parte del reddito da capitale sul reddito generale era diminuita. Ed è così che eravamo arrivati alla fine degli anni '60, inizi '70 a un razionale rapporto capitale - lavoro, rispetto alla ripartizione degli incrementi di produttività del reddito favorevoli al lavoro, ed ecco perché i capitalisti ad un certo punto hanno detto "non si può più continuare così". "Che storia è questa, state disincentivando il capitale. Il capitale non può più investire e allora che si fa? Bisogna ritornare a dei tassi di profitto di capitale più elevato" e a partire dagli anni '80 si è iniziato piano a riequilibrare le cose. Oggi abbiamo constatato che tra l'85 e il 2000 in 15 anni, il rapporto tra la parte del reddito globale mondiale che va a quelli che hanno reddito da capitale è aumentato rapidamente, molto più velocemente, sulla parte sul reddito mondiale di quelli che hanno un reddito da lavoro. Ecco perché le ineguaglianze sono ripartite. Ecco perché, malgrado abbiamo avuto un triplicamento della ricchezza mondiale, le ineguaglianze tra i paesi e in seno ai paesi, tra le varie classi, sono aumentate, ecco perché il numero dei poveri aumenta. E il numero dei poveri aumenta non solo in maniera relativa, ma in maniera assoluta, altrimenti detto il capitale ha vinto nella logica della ridistribuzione fra capitale e lavoro e oramai il lavoro è destrutturato, i sindacati sono spappolati, il lavoro è tutto a tempo parziale, flessibile, non c'è più il lavoro, c'è la risorsa umana, c'è stata la mercificazione del lavoro e valorizzazione del capitale. Il lavoro non è più un protagonista sociale, è una risorsa umana. Da 20 anni si parla delle imprese: prima si parlava di relazioni industriali, oggi c'è la direzione generale delle risorse umane. Questo ci permette di capire tre cose. Che la mondializzazione attuale non è mondializzazione. Per la mondializzazione attuale dovremmo utilizzare il concetto di triadizzazione. Certo, se invece restiamo nel concetto di globalizzazione abbiamo il global market, il global capital, il global company, il global profit. Però non c'è mondializzazione, perché oggi il 12% della popolazione mondiale, possiede l'86% della ricchezza e rappresenta l'89% del consumo mondiale. Che mondializzazione è questa? Se continua così, nel 2015, avremo il 93-94% del consumo mondiale e non ci sarà crisi, non credete nell'implosione del sistema, perché genera ineguaglianza e la seconda caratteristica della mondializzazione attuale è che si fonda sull'ineguaglianza. Siccome si fonda sull'ineguaglianza, il fatto che l'ineguaglianza aumenta non fa nulla, perché l'ineguaglianza, come vi dicevo prima, è la base. C'è inoltre la sconfitta della cultura cristiana nella mondializzazione attuale. Perché la mondializzazione è basata sul principio dell'esclusione. La mondializzazione oggi è l'affermazione sacralizzata dal principio della competivitità dello spazio privato, non c'è più cultura della res pubblica, il mondo non è più res pubblica. L'aria è una merce, come l'acqua.
Ferruccio De Bortoli, economista, presidente del Club di Lisbona*
Come farsi riconoscere nel mare magnum della rete
Come si inserisce in questo quadro descritto da Petrella, il ruolo e la funzione dei media? E soprattutto, nell'era tecnologica che stiamo vivendo, avremo migliori media o avremo dei media tutti uguali che racconteranno a tutti le stesse cose e saranno dominati da una sorta di pensiero unico? Questo è un vero Grande fratello. Faccio parte di quella che è la stampa classica, un media apparentemente in via di estinzione e abbiamo alcune sindromi sviluppate, alcuni di noi pensano che consegneranno esausti l'ultima notizia e moriranno dopo, forse moriranno non esausti ma semplicemente tentando di fare bene o male il loro mestiere. Credo che entriamo in una società dell'informazione nella quale il ruolo di coloro che fanno l'informazione sarà sempre più importante. Come è avvenuto in presenza di altre grandi trasformazioni tecnologiche che hanno cambiato il modo di fare giornalismo, che hanno cambiato il linguaggio e tutto l'insieme delle regole dell'informazione. I mezzi tradizionali non sono mai morti, sono cambiati, giustamente, si sono evoluti, sono morte le testate, ma sono morte le testate della carta stampata, ma anche della televisione, vedo che tra l'altro ne muoiono sul nascere anche alcune che sono legate al mondo della rete e quindi c'è un minimo comun denominatore che è fatto di qualità dell'informazione, credibilità, riconoscibilità e dal fatto che un organo di stampa, su qualsiasi mezzo venga declinato è comunque un pezzo della nostra società, un pezzo della nostra identità nazionale, del nostro modo di essere cittadini del mondo, ma allo stesso tempo oltre ad essere cittadini del mondo, essere anche appartenenti alla comunità più o meno piccola, più o meno grande. Andiamo incontro ad un'informazione più aperta, disponibile dove non c'è più una questione di tempo, dove potremmo avere in qualsiasi momento tutto ciò che desideriamo, abbiamo la possibilità di conoscere esattamente quello che avviene nel mondo in tempo reale. Ma questo è vero? Tecnologicamente sì, nel senso che abbiamo la possibilità entrando in quel sito, guardando la CNN, di vedere la realtà, ma è vero che ci troviamo nella condizione di saperne di più? Di avere maggiori strumenti per deliberare, come diceva Einaudi, per essere migliori utenti, dei consumatori più attenti, per essere dei cittadini più liberi che hanno il maggior numero di informazioni e le possono organizzare meglio? Teoricamente sì, ma nella pratica no, perché comunque noi ci troviamo di fronte ad un continuo crescere, questo è l'aspetto se vogliamo, deteriore e negativo della mondializzazione descritta dal professor Petrella, cioè noi vediamo crescere questo rumore di fondo, che è una sorta di intossicazione dell'informazione, abbiamo tanto, troppo, ma forse non siamo in grado di scegliere, di selezionare, di capire qual'è la frontiera tra il vero e il falso, tra il lecito e l'illecito, tra il sostanziale e l'effimero, tra il credibile e il non credibile. Quel confine è sicuramente molto più labile di quello che conosciamo sui media tradizionali, il vero problema è questo: l'essere messi nella condizione di poter avere degli interlocutori nel mondo della stampa, dei media in generale che siano credibili. Coloro che prendono da questa grande massa di informazione che arriva in tempo reale decriptano, ci spiegano e danno un significato di efficienza all'uso del tempo ovviamente ridotto e scarso che abbiamo a disposizione e che ogni giorno mettiamo a disposizione per informarci. Ma cosa rimane poi alla fine di alcune ore in cui abbiamo navigato, di alcuni minuti che abbiamo dedicato alla lettura di un giornale, di alcune ore che abbiamo dedicato a vedere una televisione o un telegiornale? Che cosa si sedimenta nel sentimento nazionale, nel nostro vivere la quotidianità insieme agli altri? Che cosa scambiamo? Quali sono i valori che si affermano? Queste sono le domande che dobbiamo porci alla fine.
Testate credibili, giornalisti affidabili, televisioni che hanno una loro storia, siti che hanno, pur non avendo una loro storia, ma esprimono esigenze, parlano a comunità precise, questo è quello di cui noi abbiamo bisogno nel mare magnum della rete ed è il modo con il quale possiamo essere contemporaneamente cittadini del mondo, cioè preparati ad affrontare le sfide della globalizzazione e che non necessariamente sono delle sfide negative, e nello stesso tempo restiamo anche cittadini della nostra terra, riconosciamo la nostra comunità, ci diamo da fare, condividiamo ansie, progetti, aspirazioni.
Questo è un po' quello che una buona informazione deve fare.
Internet: il lettore diventa giornalista
Siamo convinti che quello che stiamo vivendo in tempo reale sia un fatto di trasparenza? Abbiamo vissuto in tempo reale alcune guerre e abbiamo avuto tutti la netta sensazione che apparentemente senza filtro, avevamo tutto sommato la verità in tasca. La globalizzazione ci ha reso spettatori in tempo reale di grandi avvenimenti mondiali quasi senza filtro e noi come spettatori e come utenti di questa grande comunicazione globalizzata avevamo la nettissima sensazione, la convinzione che comunque potevamo giudicare con i nostri occhi, perché non c'era più intermediazione giornalistica. Abbiamo avuto questo tipo di convinzione per la prima volta all'inizio degli anni '90, perché la prima vera guerra globalizzata è stata quella del "Golfo". Abbiamo visto tutto in diretta attraverso la CNN. Non abbiamo considerato il fatto che la CNN essendo l'unica a trasmettere da Bagdad forse un qualche accordo con il governo iracheno poteva avercelo e quindi probabilmente tutto quello che ci raccontavano non era certamente la libertà assoluta. Sulla Guerra del Golfo, non c'era più bisogno di scrivere nulla apparentemente, perché avevamo visto tutto svolgersi sotto i nostri occhi. Ringrazio quei giornalisti, quei colleghi che ad un certo momento sono andati a fare un'inchiesta per vedere quali fossero state, se c'erano state, le conseguenze dell'uso di armi chimiche soprattutto per coloro che avessero avuto dei figli dopo essere stati impiegati in alcune zone e abbiamo avuto degli straordinari documenti, frutto di un giornalismo aperto, sano, intelligente e di un paese libero, che ci ha spiegato la guerra del Golfo con occhi diversi. Di quello che pensavamo fosse un avvenimento vissuto in diretta, senza intermediazione, avevamo un'idea falsa e precostituita e per fortuna ci sono state altre inchieste. Altro avvenimento globale: la guerra del Kosovo. Succedeva a poche centinaia di chilometri da dove siamo in questo momento, era descritta, avevamo tutto, peccato però che dopo appena un anno abbiamo scoperto verità che non sospettavamo nemmeno su quell'avvenimento. Le abbiamo scoperte perché ci sono stati dei giornalisti, anche degli stessi paesi che hanno fatto la guerra alla Serbia, che hanno preso posizione dicendo "riteniamo che sia giusto intervenire". Noi abbiamo appoggiato il governo d'Alema nell'intervento, ma questo non ha impedito ai nostri giornalisti di andare a raccontare la verità che vedevano e coloro che hanno visto con i loro occhi hanno raccontato fatti non diversi di poco ma totalmente diversi. Spero che nella globalizzazione non ci siano tante concentrazioni dell'informazione del mondo, per cui ci metteremo tutti a scrivere nella stessa lingua, utilizzando gli stessi simboli grafici, utilizzando una lingua totalmente e completamente depotenziata da quelli che sono i valori che ciascuno di noi porta. Il credo della rete, è che non ci sono più barriere, non c'è più quella differenza tra giornalista e lettore che c'era prima, Internet li ha messi tutti sullo stesso piano, il nostro lettore è contemporaneamente utente, consumatore, giornalista. A quanti mi scrivono via e-mail "guardi lei ha scritto una grande sciocchezza" e lo dimostrano io do ragione. Oppure mi dicono "guardi lei ha scritto una cosa giusta, però non si è accorto che lì a fianco c'era qualcosa di peggio". Questo che avviene penso sia un fatto di grande democrazia. L'importante è che rimangano su una piattaforma tecnologica diversa le molte voci, e che la pluralità delle voci porti anche degli interessi ma dia la possibilità al pubblico di scegliere. Molte voci professionali riescono a far convivere due forze apparentemente contraddittorie che governano la nostra modernità e che sono se volete anche alla base della grande crisi della nostra modernità: da una parte la globalità e dall'altra tutte le tendenze legate ai localismi in senso positivo e in senso negativo. Una buona informazione può garantire agli utenti, ai lettori, ai consumatori e ai navigatori un'informazione per navigare nella globalità ma nello stesso tempo per essere riconosciuti, per difendere e salvaguardare la propria identità locale, anche piccola. Questo avviene grazie a una pluralità di voci soprattutto professionalmente integre, oneste, in un settore come quello dell'informazione dove è più difficile di prima riconoscere il vero dal falso e riconoscere soprattutto il lecito dall'illecito.
Dibattito
Alessandra Mancuso - Giornalista Rai Lombardia*
È una grande sfida questa della mondializzazione per noi giornalisti. Posto che la mondializzazione ci fa ritenere che nulla sfugga, cioè che quello che accade in Italia in qualche modo è connesso ai processi più ampi che ci sovrastano, quando parliamo di politica, come possiamo noi giornalisti, ma soprattutto anche i direttori, attrezzarci per avere delle chiavi di interpretazioni che ci facciano vedere l'interdipendenza delle cose? Se si parla di rimandare gli immigrati a casa quali sono gli interessi economici che possono cavalcare? Come ci attrezziamo nelle nostre scelte quotidiane per fare questo salto che ci permetta di non essere pedine a nostra volta di questi giochi che ci sovrastano?
Alberico Giostra - Giornalista Gr Rai*
È stato estremamente importante sentire parlare dei guasti del liberismo e della liberalizzazione, con dati, questioni, fatti di natura mondiale che ci prendono molto, perché sottopongono le nostre coscienze a uno shock costante, che una persona non dico di alti ideali, ma semplicemente di buon senso non può non recepire. Lavoro a Radio 1, a "Radio a colori" una trasmissione che tutti i giorni facciamo con Oliviero Bea, e che affronta problemi di natura nazionale utilizzando una sorta di rovesciamento dell'imbuto. Normalmente i grandi organi di stampa a diffusione nazionale prendono questioni di carattere globale e la stringono verso i singoli lettori, noi prendiamo questioni di carattere locale e le esplodiamo a livello nazionale. Il risultato è discreto. Il viaggio che faccio tutti i giorni in Italia, mi mette di fronte a situazioni che entrano in corto circuito con il discorso del liberismo. Ho la sensazione che di fronte ai guasti del liberismo o della liberalizzazione siamo un giro indietro, un passo indietro. I giovani che cercheranno lavoro si scontreranno con una serie di resistenze, di omertà costituite da una cosca di burocrati dove si mescolano politici, sindacalisti, di fronte ai quali un anti-liberista, un anti-liberalizzatore si deve assolutamente confrontare. Che cos'è il giornalismo, un servizio o un prodotto? Noi che lavoriamo in quella grande azienda che è la più grande azienda editoriale d'Italia, a chi rispondiamo? Agli inserzionisti pubblicitari che danno alla Rai circa 1.900 miliardi, oppure ai cittadini che ne danno circa 2.400? Perché mi pongo questa domanda? Sto facendo un servizio sulla condizione delle acque che beviamo, che abbiamo già implicitamente confrontato con quella delle acque del rubinetto. In Lombardia il 95% dei cittadini si disseta con l'acqua minerale. Insieme a chimici e biologi abbiamo scoperto che la situazione igienico-sanitaria delle acque minerali è disastrosa in Italia. Un oncologo francese ha scoperto che le acque minerali che noi possiamo bere senza rischi sono solo tre. Solo 50 sono accettabili su 250 marche, il che vuol dire che 200 marche in bottiglia sono da buttare. Abbiamo fatto due trasmissioni, ho invitato Ettore Fortuna che è il presidente di Mineracqua, ma non è mai voluto venire pensava fosse un agguato, poi dopo due trasmissioni molto dure, ha scritto al direttore Paolo Ruffini chiedendo di porre fine a questa cosa: "altrimenti minacciano di ritirare le inserzioni pubblicitarie". Cosa volete che succeda nel servizio pubblico, nel giornalismo del servizio pubblico?
Benedetta Frare*
Lavoro per un 'organizzazione di commercio equo e solidale, volevo chiedere al professor Petrella una sua opinione sulle organizzazioni che operano e cercano di contaminare il mercato con queste forme alternative.
Diego Buonsangue - Giornalista Rai Sicilia*
Fino a che punto la globalizzazione è testo e non pretesto e il burattino della globalizzazione nel momento in cui entra nel circuito non diventa a sua volta burattinaio? Al direttore De Bortoli volevo chiedere quand'è che esattamente si è accorto che la guerra del Golfo narrata dalla CNN era un falso?
Francesca Capovani*
Abbiamo avuto un interessantissimo intervento di un rappresentate dell'associazione dei contadini del Senegal, ci ha spiegato gli effetti della mondializzazione sull'economia di quel paese, come giornalisti, siamo attrezzati per capire l'altra parte del mondo? Non quella che la gestisce, ma quella che la mondializzazione la subisce. Abbiamo gli strumenti, la voglia, la capacità di capire l'altra parte del mondo?
Riccardo Petrella*
Competizione ed economia solidale
Testo o pretesto? Tutte e due. La mondializzazione vuole imporsi come descrizione normativa, non solamente analitica, quindi è testo. Il buon ombrello nella cultura attuale è adattarsi, coloro che non si adattano saranno macinati, coloro invece che si adattano sopravviveranno. Ma che cultura cristiana è questa che dice che la sola libertà che abbiamo è adattarci per sopravvivere, non per vivere? Siamo educati per sopravvivere e vincere, non per vivere insieme agli altri. Questo tipo di mondializzazione in Europa è stata sostenuta da tutti i cristiani sociali. Mi sono permesso di scrivere parecchi articoli sui sei comandamenti della nuova "tavola della legge della mondializzazione" e anche riprendendo tutta una simbolica e un linguaggio cristiani. Per esempio la trinità, Dio è il capitale, il figliolo è l'impresa che incarna il capitale e il Santo Spirito è il mercato, che trova le soluzioni adatte. Questo è testo. E' pretesto invece dire: "devo cambiare questo perché la mondializzazione ce lo impone". Il locale utilizza molte volte la mondializzazione come alibi e giustificazione legittimante delle scelte fatte localmente. Come si esplicita concretamente questo pretesto? Attraverso la teoria della competitività. Non posso fare altro che essere competitivo, perché se sono competitivo nei mercati mondiali allora resto soggetto di azione di storia. Tutto cambia bisogna essere flessibili. La flessibilità del sistema sociale diventa una conseguenza inevitabile della mondializzazione col pretesto per le scelte locali. Se recepisco le indicazioni della globalizzazione, in questo senso, permetto al locale di essere e svilupparsi. Tipico esempio di questo pretesto è il Libro bianco di Jacques Delors "Crescita competitività occupazione", dove il punto centrale di tutto è la competitività. La tesi è: "non si può avere crescita economica nuova se non si è competitivi sui mercati mondiali" se si è competitivi abbiamo crescita, quindi creazione ed occupazione. La competitività d'Europa si trova se diventiamo una società dell'informazione, è nella società dell'informazione che si crea nuova produttività, ecco perché hanno inventato la nuova economia. Sono testo e pretesto.
Per quanto riguarda le associazioni alternative ci sono due fenomeni rispetto a cose che si possono dire alternative. C'è tutto il movimento alternativo militante, politico, culturale che è poi anche un problema di vita. Espressione di gente che non vuole essere sottomessa all'esclusione. Poi c'è un'altra forma di espressione di economia o di militanza, però differente, che è quella attorno all'economia sociale e solidale. C'è un revival, un ritorno a delle forme di imprese cooperative, imprese mutualistiche, imprese a finalità sociali, dove l'utilità del capitale non è l'obiettivo, ma lo è la partecipazione della gente, dei membri. Si chiama economia sociale solidale, ha trovato già forme istituzionalizzate in certi paesi come nel Quebec. In Francia per esempio c'è il segretario di Stato all'economia solidale e sociale, in Belgio il ministro per l'economia sociale ed economia solidale, in Germania hanno creato anche un segretario di Stato. Questa economia sociale non risponde più alle economie capitalistiche di mercato, ma corrisponde a finalità sociali; ne fanno parte imprese tipo Green Peace o Amnesty International. Forme di economia sociale e solidale che bisogna appoggiare, sono limitate ma buone e importanti. Finanza etica e commercio etico non cambiano il sistema ma sono un po' come toppe su un vestito. In tutti i periodi di trasformazione si sono sempre trovati dei fenomeni lenti.
Ferruccio De Bortoli*
Serve un'informazione non condizionata
Lasciamo perdere la distinzione tra chi dirige un giornale e chi lo scrive, siamo comunità di professionisti e quindi ragioniamo tutti insieme e credo che un giornale, una televisione siano prodotti collettivi. Non facciamo questo mestiere per affermare nessun teorema, né per far vincere una parte sull'altra, semplicemente per dare un servizio ai cittadini che è quello di un'informazione credibile. Rispondo al collega di Radio a colori, sono un buon amico di Oliviero e lo ritengo un giornalista coraggioso, a volte persino temerario, ma comunque coraggioso e ben vengano i giornalisti coraggiosi e temerari e ben vengano anche le inchieste sulle acque minerali, perché il caso denunciato da Giostra è un caso frequente, lì si misura anche il livello di forza e di indipendenza di un gruppo editoriale di un giornale. Noi abbiamo fatto un'inchiesta sul lavoro minorile che ci ha procurato dei guai con la Benetton.
Studiare la globalizzazione in Africa o San Francisco?
Non mi sono accorto all'istante che la guerra del Golfo narrata dalla CNN era un falso me ne sono accorto grazie ad alcuni giornalisti e in particolare alla giornalista Oriana Fallaci, che sulla guerra del Golfo ha scritto cose straordinarie. Una giornalista che ha avuto il coraggio di togliersi il chador di fronte a Khomeini e quando c'erano le olimpiadi del Messico nel '68 è andata insieme agli studenti nella piazza. Come raccontare la parte povera dell'umanità? Abbiamo parlato di un altro grande buco dell'informazione che è rappresentato dall'Africa: una forma di esclusione straordinaria. E' veramente la grande colpa del fenomeno della mondializzazione e globalizzazione, non è possibile che non si riesca per esempio a investire in quei luoghi, o ad affrontare malattie come la lebbra. Qual è la priorità delle cose? Dei miei colleghi su 10 che vogliono andare all'estero, 9 vogliono andare negli Stati Uniti e 1 vuole andare in Africa. Siamo una corporazione che a volte predica bene e razzola malissimo, come tutte le corporazioni. Se c'è un errore grande che ha fatto il sindacato è di aver difeso quelli che stavano dentro e di non aver pensato a quelli che stavano fuori, persone che non hanno un reddito, magari consumatori, quelli sono i veri esclusi. Se c'è un fatto positivo del liberismo è quello che mi toglie queste corporazioni e dà lavoro a tutti. Personalmente sono per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti.
Alessandra Parrini - Giornalista Rai Toscana*
Il nostro mestiere è fatto principalmente di fonti, allora parlare della nostra onestà o del fatto di quello che uno vuole fare, a me sembra spesso pretestuoso, perché prima di tutto alla base c'è la fonte. Cosa c'è dietro Internet? L'economia, i poteri economici. Cosa c'è dietro i quotidiani, dietro la Rai? Potere economico e soprattutto quello politico che però si basa su quello economico e torniamo sempre lì. Allora si può parlare di onestà personale. La rete può piacere o non piacere, però la ritengo pericolosa: quello che viene messo dentro chi ce lo ha messo? Notizie sull'alta velocità ferroviaria e sui danni ambientali in Ansa non passano, come mai?
Ferruccio De Bortoli*
Le fonti sei tu che liberamente vai a cercarle e l'attendibilità dipende dalle fonti. Pensate che tutti noi professionisti siamo servi, che facciamo gli interessi del padrone? Sull'alta velocità abbiamo avuto noi un'esclusiva. Se un giornalista mi presenta sul tavolo una notizia posso dire: "sono un servo della Fiat e non te la pubblico!" questo esce, parla con alcuni colleghi e dice: "sapete questo qui non mi pubblica questa notizia". C'è un controllo anche professionale che si fa, o democratico: se una notizia è una notizia imbarazzante chiederò che sia controllata tre volte visto che si tratta del proprietario. Ho pubblicato moltissime notizie avrei fatto molto meglio a non pubblicare. Questo è un mestiere fatto da persone libere che hanno anche la libertà di prendere e di mettersi contro se non sono d'accordo su una cosa.
Interventi
(Giornalista albanese)
Volevo sapere se gli eroici giornalisti di cui lei parlava prima che anche attraverso la rete fanno informazione, appartengono a quel 12% che gestisce l'80% della ricchezza mondiale o alla percentuale restante.
Carmen Mattei*
Una domanda al professor Petrella. Se ho seguito bene il suo ragionamento lei prima ci ha detto che c'è un'innovazione tecnologica e delle leggi di mercato che obnubilano la stessa funzione della politica, poi ci ha detto però che questo tipo di sviluppo tecnologico e del mercato ha dei precisi garanti politici, che hanno nome e cognome e poi che c'è anche un movimento di opposizione a tutto questo. Vengo dal movimento delle donne e le chiedo: "perché ci vuole togliere la speranza che le donne, i contadini, gli operai del Bangladesh possano acquisire un'adeguata rappresentanza politica che rompa questa egemonia e ci dia un futuro con uno sviluppo e un progresso diversi?"
Massimo Del Papa*
Nell'epoca dell'informazione globale stiamo assistendo a un'operazione anche ambigua oltre che censurabile. Un gruppo di piccoli figuranti si sono rinchiusi in una casa accettando di non essere informati, di chiudere fuori dalla porta ogni tipo d'informazione, che si parli di guerra, di politica, di disoccupazione. È un inno al disimpegno e all'edonismo senza cuore, di fronte a questa situazione il sistema informativo si è scatenato ricoprendoli di attenzioni, ne parlano nei telegiornali, qualunque testata anche della carta stampata, non ne può prescindere, non parliamo poi dei siti Internet, anche quelli dei grandi giornali sono intasati da questa storia del Grande fratello: vorrei un commento su questo. Il sistema informativo generale è vittima o è complice di questa situazione? Non è lecito ritenere che poi questa è un'operazione programmata a livello economico e in questo caso l'informazione è vittima o va dietro a questi interessi? Internet, la rete, sono neutre o come minimo sono usate in modo perverso?
Antonio Rossi*
Volevo rifarmi al problema dell'esattezza dell'informazione. In Italia secondo fonti del Ministero della Pubblica Istruzione, il 60% della popolazione italiana ha dei problemi di analfabetismo. L'hanno pubblicato tutti i giornali. Il 30% a livelli addirittura di elementarità, o di sotto elementarità. Un altro 30% al livello superiore, ma che non gli consente di comprendere a pieno le fenomenologie sociali, quotidiane; credo che in questo caso, o nel caso italiano in particolare, al dovere etico della verità, che è fatta anche di completezza dei dati, si aggiunga per la stampa anche la grande responsabilità di cercare di promuovere una formazione proprio dell'individuo. Mi accorgo che molto spesso sulla stampa si cita la fonte che dà la notizia, una notizia completamente inesatta, senza che il giornale nel darla dica oggettivamente che è sbagliata. In questi giorni, c'è stato un problema piuttosto serio, quello della droga. Sul Corriere della sera giorni fa c'è stata la cronaca dell'intervento del ministro Livia Turco, la quale probabilmente per difetto di informazione, ha detto una cosa completamente inesatta, che nel servizio non era minimamente evidenziata. Ha detto: "è urgente il problema della depenalizzazione del consumo degli stupefacenti e mi rammarico che finora non abbiamo provveduto a depenalizzarlo", è errato, perché ci si dimentica che nel '93 c'è stato un referendum che ha depenalizzato l'uso degli stupefacenti.
Riccardo Guido*
Sull'accordo di Kyoto credo che la battaglia informativa sia stata vinta dal WWF internazionale che ha creato un sito dove tutti quanti i giornalisti dovevano andare a vedere per capire, per vedere cosa succedeva. Vorrei capire se questa si possa considerare un'indicazione su come si può fare veramente una contro-informazione libera, sfruttando potenzialità enormi come una rete.
Daniela Ducoli - Giornalista Radio Montecarlo*
Petrella diceva che le soluzioni tipo commercio equo e solidale o alternative sono soltanto delle pezze, ma non cambiano il sistema. Ma lo vogliamo cambiare, va cambiato comunque il sistema oppure se ci piace quali potrebbero essere le soluzioni. Inoltre cosa pensa del movimento di Seattle? A De Bortoli chiedo: si è accennato per quanto riguarda il tema della pedofilia dei casi Feltri e Lerner, perché nel giorno della radiazione di Feltri, nel giro di poche ore, si sono contate centinaia di prese di posizione (a proposito di corporazione) tutte a favore di Feltri o comunque con dei distinguo? Non siamo stati d'accordo con Feltri, ha sbagliato, però la radiazione no. Ma allora se l'Ordine delle regole, finché esiste prevede sanzioni più o meno gravi fino appunto all'espulsione, perché poi quando succede si grida: "no, non è giusto? Che cosa bisogna fare per essere espulsi?
Laura Ripani - Giornalista Corriere Adriatico*
Ha parlato della libertà di stampa e della possibilità che un giornalista nel momento, in cui non sia d'accordo con la linea della testata, in qualche modo possa dimettersi. Quando però un giornalista affronta certi argomenti con delle fonti certe, con delle notizie vere tutto sommato il più approssimativamente possibile vicine alla verità, c'è anche un discorso di posto di lavoro.
Daniela De Robert - Giornalista Tg2*
L'informazione si trova in un cono d'ombra, quello che è fuori non entra. C'è un mondo che resta fuori dai nostri giornali e dai nostri telegiornali. Entra spesso solo per stereotipi, per emergenza, vera o presunta. Ho la sensazione che la cronaca sia diventando - forse lo era già - uno strumento di politica. A Genova, per la Conferenza nazionale sulla droga, abbiamo letto molto della polemica tra maggioranza e opposizione e poco sul problema droga. Penso a come si parla di carcere senza conoscere il carcere ecc. Altro punto: cresce il rumore di fondo, cresce anche dentro ai giornali, dentro ai telegiornali mi sembra. È stato detto che l'Italia è il paese dove c'è il più alto numero di schiavi d'Europa. C'è una schiavitù molto diffusa, se ne parla poco e forse rimane fuori dal cono d'ombra. C'è il tentativo di capire, raccontare un mondo che cambia. Ma ho spesso l'impressione che si arriva sempre quando il mondo è cambiato. Abbiamo parlato di Ruanda quando già c'era il massacro, non abbiamo capito come ci si era arrivati. In Kosovo siamo arrivati quando c'era una guerra. Si arriva tardi.
Riccardo Petrella*
Perché è buono il movimento di Seattle
Commercio equo, finanza etica, ecc. sono delle forme che fin tanto non modificano insieme i fondamenti del sistema, riescono a umanizzare il sistema e in effetti c'è molta tendenza in certi ceti sociali, in certi gruppi politici, a pensare che la soluzione ai problemi della mondializzazione attuale è operare "l'umanizzazione della mondializzazione" e questa non è una soluzione, perché significa che devo correggere gli effetti negativi, perversi del sistema, ma il sistema è buono. Nel millennium delle Nazioni Unite, oramai il discorso dominante del potere mondiale non parla più di sradicamento della povertà. Quando nel 1974 lanciarono l'idea del nuovo ordine economico internazionale il primo obiettivo era sradicare la povertà. Nel '95 si diceva: "non ce l'abbiamo fatta a sradicare la povertà": sono arrivati a Copenaghen a Ginevra e hanno detto: "non ce la faremo". E qualche mese dopo al millennium hanno detto: "non si può sradicare la povertà, si può solo fare un trattamento sociale della povertà", ma non sradicare economicamente. Ed ecco allora che loro dicono che bisogna umanizzare. Il sistema dice: "non posso fare altro che avere compassione", però è automatico che ci sia oramai l'ineguaglianza. Per quanto riguarda Seattle non posso che pensarne bene, perché sono fra coloro che hanno lanciato lo slogan "il mondo non è una merce e il divenire ci appartiene, tutti insieme", sono stato uno dei tre che ha redatto la piattaforma della prima planetaria che poi è andata a Seattle. Non potevo andarci formalmente perché sono anche Funzionario della comunità europea e quindi non potevo essere presente pubblicamente. Seattle è buono perché esprime un momento iniziale di una formulazione più o meno coerente; a Seattle tutti questi movimenti per la prima volta hanno pensato di formulare un'offerta politica mondiale. Queste cose sono fantastiche, quindi bisogna alimentarle. Bisogna gettare le basi della definizione credibile, non rispetto ai dominanti, perché i dominanti considereranno sempre le alternative non credibili, per definizione. Non bisogna tentare di convincere i non convincibili è tempo perduto. Bisogna invece creare le condizioni affinché l'alternativa trovi concretamente nei cantieri sociali, nel cantiere di vita quotidiana, la capacità di diventar credibile per quelli che ci credono. Con gli altri è solo la lotta sociale e politica, deciderà poi il potere d'influenza.
Usare bene le nuove tecnologie
Le reti, sono state inizialmente concepite non per ragioni buone. Internet è una questione militare, fu il Dipartimento della difesa del Pentagono a dire: "fatemi un protocollo di legami tra vari sistemi d'informazione, in modo che, se tutti i sistemi d'informazione possono esser distrutti dall'avversario, ce ne sia sempre uno che funziona". Internet è un protocollo di congiunzione fra sistemi informativi ed è una ragione militare, poi dal militare sono passati all'universitario e l'universitario è diventato "Internet". Poi è successo che il 58% delle informazioni che transitano in tutti i sistemi legati ad Internet sono di natura commerciale. Il carattere commerciale non farà altro che aumentare? E cosa significa questo possibile aumento? Significa un'informazione prodotta, gestita, stoccata, manipolata, convalidata, riciclata, che ha un valore di scambio commerciale, non valore di uso. Non necessariamente una tecnologia nata con finalità non buone, o motivata da obiettivi non buoni non può essere ben utilizzata. A Seattle ad esempio la gente ha vinto grazie ad Internet. Se non ci fosse stato Internet il popolo di Seattle non avrebbe avuto la capacità di agire e quindi c'è stato un uso non atteso dai produttori della tecnologia. La cultura della stampa come opinione è stata messa sotto forte pressione, c'è questa finanziarizzazione di tutte le attività umane, la logica dello scambio sta prevalendo e quando c'è scambio c'è capitale, quando c'è capitale c'è finanza. Tutte le attività dei media sono sottomesse a scombussolamenti enormi e questa finanziarizzazione non opera solo a livello nazionale, fa parte della logica della mondializzazione. C'è anche la mercificazione della stampa, voi non producete più una serie di opinioni, producete un prodotto commerciale ed ecco perché si parla sempre di più di media market, di mercato dei media, ecco perché i giornalisti sono diventati un mercato. Questa finanziarizzazione dei media, pur non eliminando totalmente la libertà del giornalista, crea condizioni che modificano la forma della libertà per il giornalista rispetto a 20-30 anni fa. Non si può far cascare sulla responsabilità individuale la funzione dell'indipendenza o della dipendenza del giornalista perché il quadro generale è profondamente cambiato.
Ferruccio De Bortoli*
Rispondo alla collega albanese che diceva: "l'informazione è fatta da quella parte del mondo ricca e globalizzata". La sua affermazione presuppone che sia un'informazione omogenea sostanzialmente o per lo meno condizionata: su questo non sono d'accordo, nel senso che credo che in moltissimi avvenimenti che hanno riguardato quelle zone tutto sommato l'informazione dei paesi liberi abbia dato ampia voce anche a coloro che sono fuori da quel 12% che diceva. Se poi alla fine c'è stata una par condicio culturale questo io francamente non sono in grado di riconoscerlo. Credo semplicemente che comunque la nostra stampa abbia una grande apertura nei confronti di coloro che la voce non ce l'hanno, l'incoraggiamento comunque è quello di far parlare di le voci stesse.
La stampa è malata, ma ci sono anche persone oneste
Droga, Aids: sono temi sui quali si rischiano di scrivere delle cose inesatte e sono temi in cui, a differenza di altri argomenti, le inesattezze costano, producono effetti molto negativi e da questo punto di vista certamente se l'errore è stato commesso, credo sia doveroso riferire esattamente la verità o chiarire una inesattezza.
Parlando della rete posso ribadire quanto essa consenta a delle voci che prima erano escluse di poter essere importanti fonti d'informazione e questo è un fatto di grande democrazia. Sono convinto che l'evoluzione tecnologica e anche la globalizzazione dei media siano stati un fatto positivo, perché altrimenti non avremmo dato voce internazionale al fenomeno di Seattle. Per finire una risposta sulla pedofilia. Finché l'Ordine c'è, le regole vanno applicate.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.