VI Redattore Sociale 26-28 novembre 1999

Di razza e di classe

Tavola Rotonda: Elite del sapere o Elite senza sapere?

Incontro con Paolo Ruffini e Clara Sereni. Conduce Vinicio Albanesi

Paolo Ruffini - direttore del Giornale Radio Rai Uno*

Appartenere al mondo

Se il giornalista finisce col considerarsi appartenere ad un'élite a un gruppo chiuso, finisce col non sapere più fare il suo mestiere. Può essere che siamo percepiti come gruppo di potere e certamente quella dei giornalisti è una categoria che può imporre dei temi all'attenzione della gente e ha un ruolo importante nell'aiutare a capire cosa sta accedendo. Fino a ieri eravamo i monopolisti dell'informazione; quello che sceglievamo di raccontare avveniva quasi e quello che non raccontavamo, come se non fosse avvenuto. Il sentimento del giornalista deve essere quello di appartenere non già alla propria categoria ma al mondo e allo stesso tempo non tanto alle cose che tratta quanto ai suoi lettori. Il giornalista dovrebbe appartenere di più alla massa che non alla corporazione.

Artigiani della notizia

Non c'è niente di peggio dei giornalisti che credono di sapere tutto. Il giornalista ha la necessità di ricordare. La cultura del ricordo è la vera sapienza, la memoria per rimettere ordine nelle cose che accadono. Il rischio altrimenti in una società veloce e vorticosa che dimentica tutto è quello di perdere il senso delle cose. Il giornalista deve sentirsi uomo della strada, deve sentirsi ignorante sapere di non sapere. Abbiamo un compito e un ruolo dobbiamo avere l'umiltà di sentirci come artigiani ci vuole partecipazione, comprensione dei fenomeni e delle realtà da raccontare. Occorre avvicinarsi ad essa senza pregiudizi. È importantissimo il linguaggio purtroppo finiamo col farne un uso troppo elitario, antidemocratico quasi dittatoriale. Una certa "gergalità" che appartiene soltanto all'oggetto del nostro articolo che finisce per appartenere a quella piccola casta di cui stiamo parlando, eludendo quelli che poi sono veramente i nostri interlocutori.

Clara Sereni - scrittrice*

Il privilegio della scrittura

Ho cominciato a scrivere sui giornali esattamente perché ero scrittrice. Le prime volte l'ho fatto in maniera molto goffa, poi via via un po' ho imparato. La mia percezione di essere élite appartiene non all'élite giornalistica ma a quel privilegio dato dalla scrittura che è la capacità di esprimersi e di dire le proprie idee. Un privilegio che immediatamente impegna a dare qualcosa in cambio che si traduce automaticamente nell'attenzione alle fasce deboli. Mi definisco una madre handicappata, anche se la gente sussulta un po' e dice: ma perché? Sono una madre handicappata perché ho un figlio psicotico. Questo va dichiarato non è una vergogna e quello che mi rende handicappata non è il destino cinico e baro che mi ha regalato un figlio così ma sono gli ostacoli che la società pone alla sua e dunque alla mia autonomia. I giornali a volte mi chiedono una cosa in altre, sono io che propongo, raramente mi è capitato che le cose da me proposte non venissero accettate. Sono riuscita a mettere in prima pagina temi che normalmente non apparivano. Che cos'è che passa sulla carta stampata e più in genere sulla comunicazione? La disgrazia, la compassione, l'immigrato che uccide l'altro immigrato e non i 503 che fanno il loro mestiere devotamente; lo psicotico che ammazza la madre e non le cooperative sociali che se ne occupano. In parte sicuramente questo appartiene alla vecchia storia per cui è l'uomo che morde un cane a fare notizia e non viceversa, però anche a qualcos'altro, a un meccanismo compassionevole, agli aspetti più deteriori di un paese cattolico, a un malinteso senso non della pietas ma della compassione.

Gianni Rossetti - Ordine Giornalisti Marche*

La mancanza di riferimenti etici

Una professione che ha oggi un momento di sbandamento e di disorientamento sotto accusa ormai da tempo a volte purtroppo anche giustamente. Per la prima volta nella storia sindacale della categoria i giornalisti sono stati costretti per primi ad abbandonare il tavolo della trattativa con gli editori (trattativa in corso per il rinnovo del contratto di lavoro). Non può esserci discussione quando gli editori arrivano a teorizzare che in fondo i giornalisti non servono che non si ha più bisogno della mediazione giornalistica. È  una professione in esaurimento altro che quarto potere. Almeno secondo la visione degli editori. Queste riflessioni su chi siamo, sul nostro ruolo, sui valori etici che devono guidare i comportamenti quotidiani non sono e non dovrebbero essere una parentesi elitaria per una stretta cerchia di idealisti ma pane quotidiano per ogni redazione. I giornalisti servono, gli editori dovranno convincersene, servono forse oggi più di ieri ma servono giornalisti diversi, più attenti, più responsabili, con precisi riferimenti etici e diciamocelo francamente, anche più preparati. Per fare il giornalista bisogna studiare, all'interno della nostra categoria questi concetti hanno sempre trovato ostacoli e li trovano ancora oggi. Prevale la concezione che il vero giornalista nasce a bottega che la praticaccia, il lavoro di tutti i giorni vale più di qualsiasi formazione culturale. Serve anche un Ordine che non ondeggi fra le tentazioni di difesa corporativa e la smania sanzionatoria ma che sia punto di riferimento etico e morale per la categoria, protagonista nella formazione e che sappia se necessario usare il potere sanzionatorio. Un organismo non di difesa corporativa come purtroppo è considerato ancora oggi  ma vero, efficace e presente. Strumento di garanzia e tutela del cittadino.

Ivano Liberati - Giornalista Radio Giornale Rai*

L'aspetto psicologico

Quando entro in casa di una persona e vedo un pavimento perfettamente lucido con una chiazza di sporco su una mattonella, francamente il mio sguardo non viene attirato dalle 99 mattonelle pulite, ma da quella sporca. Forse se sui giornali finiscono solo casi eclatanti e clamorosi è perché fa parte dell'ordine naturale delle cose. Se dovessimo parlare tutti i giorni di ciò che funziona e del bene celeste probabilmente dovremmo fare quotidiani di 1.800 pagine. Credo sia un destino quasi inevitabile parlare bene o male delle cose che non funzionano. Gli stessi treni quando arrivano in orario non fanno notizia, la fanno semmai quando c'è uno sciopero e arrivano con sei ore di ritardo e i passeggeri picchiano i macchinisti. I media hanno molte colpe ma c'è anche la colpa del cosiddetto volontariato di chi ha la gestione delle comunità di accoglienza. Questa è la sesta edizione del seminario "redattore sociale" dove in realtà si parla di informazione e di come l'informazione tratta, non tratta o dovrebbe trattare i soggetti deboli. Chi viene qui da anni si è accorto che manca un protagonista non ho mai sentito ad esempio parlare un ragazzo della comunità. Se il sociale e i problemi della marginalità non riescono in qualche modo a passare sui giornali e sui media più in generale forse la colpa è anche di chi fa volontariato, di chi gestisce le comunità che in qualche modo si autoghettizza. Parliamo tra di noi poi però il destinatario del nostro dibattito non è protagonista.

Domenico Campana  Giornalista Ansa*

Una platea umana

È un mestiere questo sostanzialmente elitario ed è un bene proprio perché la materia che noi trattiamo è molto delicata e può creare problemi, per usare solo un eufemismo. Quando parliamo di giornalismo parliamo anche della necessità di formazione, soprattutto alla luce delle innovazioni che ci sono state nella nostra società. Non siamo una categoria privilegiata ma persone tra le persone che devono informare e per informare bisogna sapere, avere una cultura. Il linguaggio fa parte di questa formazione elitaria che è indispensabile e lo è ancora più quando ci si trova nel campo della televisione dove l'immagine ha un impatto maggiore rispetto allo scritto. L'immagine passa lo scritto no, posso tornarci su e riflettere.

Carmen Mattei - Assessore Regione Marche*

Il quotidiano è altro

Credo che la metafora del pavimento pulito con la mattonella sporca sia completamente sbagliata. Non esiste un pavimento pulito esiste una quotidianità in cui una parte dei cittadini italiani si misura spesso con inadeguatezza, indifferenza e insofferenza contro una serie di atteggiamenti che ledono il diritto delle pari opportunità di vita. All'interno di questa quotidianità vi sono poi mille episodi di drammaticità ed eroicità.

Daniela De Robert - Giornalista Tg2*

La normalità di un paese che cambia

Ho l'impressione che i giornali italiani non siano capaci di parlare della normalità dell'Italia. Uno degli elementi di cambiamento più profondo di questo paese è il terzo settore un ambito nel quale si riesce a produrre un cambiamento economico, etico (anche nel mondo della finanza) si riesce a produrre lavoro. I media forse non l'hanno ancora capito e quindi non lo raccontano. Non c'è la capacità di aiutare a capire cosa c'è dietro la notizia ho l'impressione che i direttori sono molto poco curiosi. I giornali ad agosto sono stati pieni di microcriminalità la soluzione era sempre e solo il carcere nessuno però è andato a vedere cos'è il carcere, a spiegare cosa vuol dire per i 50.000 italiani e stranieri che ci vivono, a interrogarsi se il carcere è una soluzione, se educa. L'approfondimento inteso come conoscenza, studio, documentazione si fa molto poco e l'inchiesta non c'è più.

Massimo Acanfora - Giornalista Terre di Mezzo*

I nostri giornali perdono occasioni di notizia per questioni puramente legate alla pigrizia della quotidianità e per i rapporti con capo redattori e direttori. Bisognerebbe non avere questa pigrizia di voler scrivere i pezzi dalla scrivania e cambiare ogni tanto le fonti. La ricchezza non solo del mondo del volontariato, del terzo settore ma anche semplicemente dell'emarginazione, è quella di essere una colossale fonte di notizie.

Riccardo Bagnato - Giornalista Vita*

Spesso capita che le persone intervistate, non sono semplicemente degli interlocutori ma amici. Ci sono relazioni che nel terzo settore sono ancora in qualche modo impregnate nell'etica, nei sentimenti, nell'affettività, che forse nel campo del giornalismo più professionista o in quello del giornalismo nazionale diventano finalistiche. Le relazioni vanno coltivate, nutrite, dare per avere, è un baratto. La formazione per un "redattore sociale" richiede molto tempo.E' un percorso di anni che recupera poi alla fine un'esperienza. Spesso si parla di volontariati e non di volontariato parliamo allora di giornalismi e non di giornalismo unico.

Vito Giannulo - Giornalista Rai Puglia*

Prima di andare in Puglia, lavoravo a Rai International, una testata che aveva come missione editoriale quella di "pensare positivo", parlare bene, occuparci dell'Italia che funziona e farla conoscere agli italiani che stanno all'estero. Vorrei chiedere a chi ascolta e legge di avere più fiducia nella buona fede dei giornalisti, che se qualche volta parlano bene di una comunità non è perché sono loro amici ma perché in coscienza credono che qualcosa funzioni. Formarsi un patrimonio di credibilità nel quotidiano può servire a far passare anche la notizia di qualcosa che va bene. È  un doppio binario che spero possa servire.

Clara Sereni - scrittrice*

Lo sporco che è in noi mette paura

Proprio il bisogno di distinguere sporco e pulito secondo me fa già da freno nell'approfondimento di una notizia, la rende molto improbabile. Chi è che si vuol far parlare? E visto che persone della comunità hanno parlato chi è che si vuole della comunità? Chi ha tutte le stigmate della diversità? Non sono bastate quelle già rappresentate? Questo non è approfondimento è voyeurismo. In un'epoca in cui non si fa più un'inchiesta giornalistica dove l'alzare il sedere dalla sedia non è cosa che appartiene a tutti, l'andare concretamente nelle situazioni è enormemente raro. Come si fa ad assumere un punto di vista sulla realtà che non sia lo stesso dei 10 titoli ripetuti anche da altri giornali? Quasi sempre la prima notizia sparata dall'Ansa determina l'ordine delle notizie che poi diventa automaticamente uguale per tutti. E questo non spiega, non arricchisce chi scrive né tanto meno chi legge. Nell'era di internet il problema è anche la selezione delle notizie, dare un ordine, una logica, un'interpretazione, saper cogliere dentro la realtà le scintille, le spie di quello che si sta muovendo di nuovo. Il disagio così come il cambiamento ci attraversa tutti. Bisogna riflettere e mettere in gioco anche la parte fragile di ciascuno di noi. Bisogna dire e dirsi: forse un pezzo di diversità ce l'ho anch'io.

Paolo Ruffini - direttore del Giornale Radio Rai Uno*

Gli sceneggiatori della realtà

Buone notizie, cattive notizie, pensare positivo, negativo. È  un po' manicheo vivere in questo modo. La realtà è un impasto di tutte queste cose insieme. La difficoltà è nel raccontare la normalità delle cose che accadono. Bisognerebbe ricominciare daccapo capire che dobbiamo sapere, formarci avere ricordi, memoria, capacità di linguaggio e di racconto. Ma se ci consideriamo l'élite che manda in scena il mondo per come lo immagina, magari con gli occhiali distorti del nostro mestiere equivochiamo completamente.
Pensiamo di dover fare un certo prodotto poi ci copiamo tra di noi raccontando una cosa finta. I direttori non hanno più gli strumenti per capire la realtà, questi sono in mano ai redattori che dovrebbero riscoprire il senso di una professione che si fa in strada.
L'Italia burocratica impiegatizia del giornalismo ha spento le antenne di quei direttori che vorrebbero essere ancora curiosi.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.