VI Redattore Sociale 26-28 novembre 1999

Di razza e di classe

In ricordo di Paola Biocca (Pagine tratte dal Diario umanitario)

Intervento di Maria Nadotti

 

Maria Nadotti - scrittrice, saggista, critica letteraria e cinematografica*

Semplicemente darle voce

Non c'era persona più adatta di lei per parlare di quel mondo di cui non si parla: dei suoi profughi, dei suoi bambini del Kosovo. Ho conosciuto Paola in una situazione molto particolare nel 1998. Ero nella giuria di un premio letterario di quelli con la L maiuscola, il "premio Calvino" un premio che va al migliore romanzo inedito dell'anno. Quell'anno arrivarono in finale 12 romanzi e francamente anche buoni. Tra questi c'era quello che poi è diventato: Buio a Gerusalemme. Quando una giuria letteraria legge i dattiloscritti non sa chi sono gli autori e non ha nessun elemento biografico. Il libro di Paola all'epoca si chiamava ancora col titolo voluto da lei: Deliberata ambiguità, ho iniziato a leggerlo ebbene questo romanzo era clamoroso, ben scritto ma soprattutto c'era una cosa rarissima, nel romanzo che stavo leggendo c'era la storia, c'era il presente con tutte le sue urgenze tra cui quella politica. Paola si era misurata con alcuni dei problemi più caldi, più drammatici del nostro presente, era riuscita a costruire tra l'altro un intreccio interessantissimo. Aveva saputo raccontare questa storia caldissima, urgente per l'umanità mettendoci dentro dei personaggi che non erano esili, sfiancati, come spesso lo sono nei "romanzini" nuovi italiani.

Le due facce di Paola Biocca

In questo romanzo ci sono due figure femminili: Penelope che rappresenta il lato fragile, umanitario di Paola questa quarantenne romana attiva nelle organizzazioni simili a quelle vostre non governative e un altro personaggio sempre femminile uno dei più formidabili che ci abbia regalato la narrativa contemporanea italiana Eliza Zik. Nel "preambolo" di questo romanzo chi parla in prima persona è proprio Eliza Zik e leggendolo si capisce molto di Paola.

...Mi chiamo Eliza Zik e non credo al destino, né a Dio, né ad alcuna delle cose che gli altri trovano a conforto. Credo al silenzio e a quello che vedo e so che bisogna soltanto lavorare al proprio compito, lavorare duramente, con intenzione costante. E  ho lavorato. Ormai vedo molto, quasi tutto ciò che c'è da vedere. Persino il cielo vedo, è alto e feroce. E Gerusalemme. Sono le quattro del pomeriggio e mi trovo al posto giusto ai bordi del quartiere armeno. Proprio qui, in questo specifico spazio ad est della porta di Jaffa, la pietra si accende e Gerusalemme nasce. E  questo è tutto ciò che c'è da dire. Questa città è luce, altezza e pietra. Solo i profeti possono parlarne. Tutti gli altri farebbero meglio a stare zitti. Invece vengono qui, neanche sanno perché. E cosa sanno infatti? Niente. Arrivano, trasportati soltanto da parole, fanno cadere nomi in terra, si azzuffano come cinghiali e lupi, si spezzano le gambe tra le pietre, mentono. Ah! Le menzogne che dicono. Mettono mano a cose che non sanno. Parlano parlano, parlano. Tutto, anche il dolore preferiscono al silenzio, sciolgono nella bocca sentimenti, sangue, miele, Dio stesso e chi lo sa cos'altro. La loro saliva allaga la terra di cose che non sanno. L'odore, certo, non è buono. La vita tesse storie come violini e canti, la vita è una gloria ma io credo al silenzio. Non sarò io a parlarne. Né a interferire. Forse un giorno, quando tutto sarà finito, tirerò le mie conclusioni.

Chi vede le cose può fare il mestiere di giornalista

A Paola che si è fatta tutta la guerra del Kosovo come portavoce italiana del World Food Programme chiedemmo di descriverci una cronaca in diretta per la rivista "lo straniero" e lei ci mandò questa cosa:  "L'abbandono di Pristina"

Sono un'operatrice umanitaria portavoce di un'agenzia delle Nazioni Unite che distribuisce aiuti elementari di emergenza, non sono una saggista, né la persona adatta a sviluppare teorie, neanche una giornalista, raccolgo informazioni per lavoro oppure casualmente per predilezione o intuizione soggettiva. Le mie interpretazioni e i miei giudizi su quanto avviene in questi giorni al di là dall'adriatico valgono quanto quelli di chiunque. Li terrò per me. Ho trascorso però un mese nei Balcani dal 17 marzo al 15 di aprile e ho almeno una cronaca da offrire, informazioni sparse, testimonianze e segni che la scrittura può cercare di mettere in ordine anche se non è facile ordinare un racconto quando l'idea appartiene ad altri e della storia non si conoscono ancora la fine, la trama e l'intenzione.

Sapete come finì? Vennero mandati aiuti umanitari un po' prima che la guerra scoppiasse e Paola insieme ai suoi si trovò a dover essere evacuata con il popolo. Il racconto che mandò si chiude così:

Le ore successive passano piuttosto silenziose, la mattina dopo in ufficio la segretaria mi dice che l'emittente principale del Kosovo ha raccontato la missione umanitaria come un bel momento e che i rifugiati non si sono sentiti soli ma è già domenica e noi sappiamo benissimo che in poco tempo li lasceremo. I due giorni successivi sono giorni frettolosi e vuoti cerchiamo di fare quel che non si può più fare. A poco a poco le jeep sono scomparse anche i giornalisti sono diminuiti, un taxi ormai costa 600 marchi al giorno, la guerra è ovvia, nessuno di noi vuole partire, per un operatore umanitario non è facile andarsene nel momento in cui c'è più bisogno. Aspettiamo da un momento all'altro l'ordine di evacuazione da New York ma non arriva. Possibile che non abbiano capito che Pristina è ormai pronta per le truppe serbe? Siamo fantasmi e nessuno ci presta attenzione; aspettiamo e usiamo il tempo per imballare computer e documenti. Sappiamo che di quello che lasciamo indietro non troveremo mai più traccia. L'ordine da New York arriva martedì sera, tre ore dopo Unhcr, Unicef e Wfp partono in convoglio verso Skopje con le bandiere a prua degli automezzi. Non occorreva essere profeti o visionari per immaginare il futuro.
Questa è Paola.

...non aveva coraggio perché non aveva paura...

Nel romanzo lei descrive Penelope, la se stessa quarantenne romana, come una ragazza per bene a cui piace cambiare, una guerriera confusa e ansiosa di trovare un senso. Dell'Italia dice: l'Italia sembra un uomo che ha perso la speranza di cambiare, uno che capisce che ormai è troppo tardi per trasformare i suoi difetti in qualità e le sue qualità in fatti reali, in opere, depresso quindi e mite in apparenza ma in realtà incattivito. Così ho smesso di affannarmi appresso a lui e sono andata alla finestra a godermi almeno la bellezza. È un paese cialtrone ma è bello, bellissimo. Penelope lavora per un'associazione non governativa anche Paola ha militato 11 anni in Greenpeace,  poi si è stancata. Secondo lei uno degli obiettivi che i non governativi dovevano darsi era quello di sollevare i paesi in stato di debito. Cercava insieme ad altre persone, di convincere in qualche modo i paesi creditori a bonificare i loro crediti poi nell'ultimo periodo faceva questa cosa per dar da mangiare agli affamati. Eliza Zik l'altro personaggio femminile è invece una donna inesorabilmente attenta. A un certo punto della vita capisce che l'unica cosa da fare è non perdere neanche un dettaglio e che il segreto è tutto nell'attenzione.
Dal momento in cui Eliza Zik comprende questo decide di non distrarsi più....

Sguardo profondo

Bastava guardarla, Paola era puro sguardo non lo sguardo di chi guarda per essere guardato ma di chi vuol capire e di chi vuol far capire agli altri che sta guardando e capendo. Non si distraeva neanche lei. Forse per via di questa sua decisione a monte di non distrarsi più era sola come un cane. Vorrei si potesse parlare di come si possa lavorare e stare al mondo come ci stava lei.  Con Paola si facevano tanti progetti e si riusciva anche a realizzarli.

Tutto è molto silenzioso

Il "Diario umanitario" dal Kosovo pubblicato sul Corriere della Sera

di Paola Biocca

 

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DATA 28/03/1999 PAGINA 5
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Kosovo, l'ultima missione per nutrire i bimbi"

L'incarico del Wfp nel Kosovo era di portare, ogni mese, aiuti alimentari a 210 mila profughi. Cibo essenziale, senza fronzoli: farina, olio vegetale, legumi, zucchero, biscotti proteici. Lunedì scorso avremmo dovuto rifornire 38 mila persone, di cui quasi un quinto erano bambini al di sotto dei 5 anni. Ma eravamo alla vigilia degli attacchi aerei, la zona di sicurezza già molto ristretta e ci siamo dovuti accontentare del possibile. Come tutti gli altri quattrocento operatori umanitari stranieri che lavoravano nel Kosovo. Appuntamento a un magazzino alla periferia di Pristina, alle 7 e mezzo del mattino. Quando arriviamo, i camion sono già pronti, attive le radio di bordo, il cibo caricato, il percorso definito: destinazione Goglovac, 20 chilometri a est. Portiamo aiuti per i nuovi profughi che stanno sfollando dalle zone dei combattimenti. Del convoglio fanno parte l' Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), il Wfp, i Mercy Corps e Mother Theresa Society: sei camion e altrettante macchine. Siamo bloccati al primo check point della polizia. Il responsabile del convoglio va a negoziare. Gli autisti sorridono pazienti e si fregano le mani per il freddo. Noi scalciamo in terra, forse per la stessa ragione. Infine la matassa si sbroglia e ripartiamo. Dopo mezz'ora arriviamo a un grande piazzale di cemento con un capannone nel mezzo. Ci sono solo uomini e bambini. Gli uomini si mettono subito a scaricare i grandi sacchi di aiuti, i bambini a razzolarci intorno. Sono una donna, le mie spalle non reggono i sacchi di grano e allora resto coi bambini. Hanno quasi tutti occhi azzurri, denti già guasti e voglia di giocare: gli dai un dito, loro si prendono il braccio e tu gli daresti anche la spalla. Per un po' si gioca allegri. Poi ci indicano una scuola in cui sono ammassati 400 profughi arrivati la sera prima. Entriamo: di nuovo bambini, questa volta senza nessuna voglia di giocare. C'è qualche donna e qualche persona anziana. Sono tutti allineati contro i muri, silenziosi. Non possiamo fare molto, tranne sorridere, fare spazio alla dolcezza. Intanto abbiamo finito di scaricare, torniamo a Pristina e non siamo allegri. Le ore successive passano piuttosto silenziose e dopo poco siamo costretti a lasciare la regione. Pare che l'emittente principale del Kosovo abbia raccontato la missione umanitaria a Goglovac come un bel momento. Peccato che debba essere l'ultimo, almeno per un po'.

 

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DATA 29/03/1999 PAGINA 2
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Cosa è rimasto di quanto ci siamo lasciati alle spalle?"

Evacuato il personale umanitario internazionale, il Kosovo vive adesso la sua crisi al buio, senza aiuti. C'era clima di attesa, già da giorni. Attesa non vuol dire inazione: macchine e camion con gli allori delle Nazioni Unite o gli emblemi delle tante ONG hanno continuato a girare fino all'ultimo possibile minuto, con determinazione e adrenalina. WFP e le sue agenzie partner distribuivano cibo, altri davano assistenza sanitaria, altri coperte, ognuno cercando di rispettare il suo programma. Ma aspettavamo. Gli esiti di Rambouillet, della missione di Holbrook, delle dichiarazioni. Le notizie, nell'ultima settimana, erano diventate più urgenti della cena. Gli inviti delle ambasciate a lasciare il paese, il silenzio crescente, le strade di Pristina vuote, le jeep arancioni dell' OSCE in fila al confine con la Macedonia, check point duri e ravvicinati, nuovi profughi che sfollavano i villaggi, l'impossibilità di operare e infine, per noi, l'ordine dell'ONU: evacuazione. Dello spirito fanno parte molte cose. Sentimenti. Per il personale locale: gente che da mesi lavorava con noi e che è rimasta in Kosovo. Non sappiamo come stanno. Per gli assistiti. Anche per il barista o il padrone di casa. Preoccupazioni logistiche: il magazzino della CRS è stato assaltato, quello del MCI svaligiato, la sede di USAid data alle fiamme. Non sappiamo cosa ritroveremo delle 1.900 tonnellate di cibo, dei camion e delle strumentazioni che il WFP ha dovuto lasciarsi dietro. Voci: a Pristina operava gente con l'esperienza di un vecchio soldato e volontari giovanissimi, alla loro prima missione. Spiriti diversi. Il responsabile della logistica del WFP, un olandese dalla barba bianca e ben curata, a cena, ancora a Pristina, mi diceva: "Sono anni che lavoro nell'emergenza. Mi sono già trovato a dover chiudere tutto e passare una frontiera in guerra. Ma è la prima volta che mi succede in Europa". Io assediavo con la mia domanda: 210.000 persone aspettano le razioni mensili di cibo del WFP. Se andiamo via, chi li nutre?

 

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DATA 03/04/1999 PAGINA 2
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Navi troppo lente. Per aiutare tutti servono gli aerei"

Il traghetto ci lascia alle 8 al porto di Durazzo, proprio di fronte ai magazzini del Wfp. Capannoni di cemento, incastrati tra gli innumerevoli bunker eretti da Enver Hoxha ai suoi tempi. I magazzini non sono mai belli a vedere, ma in questi giorni hanno una loro grazia. Capacità: circa mille tonnellate di beni alimentari, quanto basta a sfamare 70 mila persone per un mese. Contenuto attuale, dopo le distribuzioni di questi ultimi giorni: circa 780 tonnellate. Sacchi bianchi. In alcuni casi, col nome del Paese donatore stampigliato. Ci sono poi, altrove, i magazzini della Federazione internazionale della Croce rossa e quelli dell'Islamic Coordination Council. Insieme possiamo nutrire 100 mila persone, per un mese. Non è piccola cifra né piccolo sforzo, ma è ormai inferiore al ritmo degli arrivi. Stiamo provvedendo: la Wfp preleverà molte migliaia di tonnellate di cibo in Montenegro, Olanda, Italia e Spagna. Si tratta di trasportarle nel minor tempo possibile. E, ci spiegano a Durazzo, di trovare dove metterle. In un Paese come l'Albania, dalle infrastrutture scrostate, trovare magazzini per almeno 3 - 4 mila tonnellate, e forni che possano trasformare la farina in pane, non è stato facile. All'una andiamo all'Emergency Commission del governo albanese. Guardano la Tv: c'è fame di notizie, come a Pristina ed a Skopje. Alle 2 siamo all'Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati, ndr) ed il quadro è ormai di circa 140 mila rifugiati. Solo 24 ore fa erano 80 mila e raccontano che ve ne sono molti altri sulla strada. Altri arrivano in Macedonia. Il progetto etnico pare muoversi davvero veloce: era prevedibile? Alle 3 c'è una conferenza telefonica: i tempi delle navi possono esser troppo lunghi, sarà opportuno prevedere anche voli aerei e non sarà facile, in una regione che da Bari a Sofia è diventata "no fly zone". Alle 4 apprendiamo che le lenticchie gialle non piacciono. Non sappiamo perché, probabilmente sono pessime. Sarei pronto a trascurare il fatto, ma il direttore telefona immediatamente e ordina di eliminare le orribili palline gialle dal menù. Ha più esperienza di me.

 

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DATA 04/04/1999 PAGINA 4
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Solo otto forni devono sfamare 200.000 persone"

Solo otto forni devono sfamare 200.000 persone. Il Programma alimentare mondiale è incaricato di fornire aiuti ai rifugiati del Kosovo. Tre chili di farina ne danno 4 di pane ed è un pane già cotto quello che dobbiamo dare in questi giorni, perché nessun rifugiato ha una cucina da usare. Il Wfp ha trovato otto forni - cinque a Kukes, uno a Durazzo, due a Tirana - che trasformano farina in pane 24 ore su 24. Le mani che impastano non sono però industriali, sono mani di villaggio. Due donne. "Partiamo da Durazzo. Sasha, l'altissimo croato che percorre l'Albania organizzando le manovre del Wfp, manda un camion piuttosto piccolo a ritirare il pane e a portarlo a un palazzo in cui sono state sistemate 80 famiglie. Anche qui, bambini e donne, come quelli che abbiamo visto a Glogovac, in Kosovo. Il pane è caldo e fa venire voglia. Famiglie fortunate, se si può dire una cosa simile. Altri, a Kukes per esempio, a volte ricevono solo i biscotti proteici o le razioni di emergenza, roba fredda, priva di ricordi. "Per Kukes intanto partono altri camion. Dista 250 chilometri ma l'asfalto è come se fosse spaccato da piccoli continui terremoti, ci sono buche, crepe e ci si mettono sei ore ad arrivare. Una volta lì il compito del Wfp finisce, ma altri devono curare la distribuzione in loco. Solo chi ama l'astrazione può credere che far fronte a 200.000 profughi in pochi giorni sia semplice: un'operazione matematica. "A Tirana intanto si organizza il resto. In ufficio ci sono radio e telefoni satellitari, si parla di aerei, camion, magazzini. Un mondo maschile, gestito da uomini con un passato nella marina mercantile olandese, nelle ferrovie mozambicane o nell'esercito danese. Sono piuttosto grossi, non giovanissimi e parlano tra loro. Sono questi uomini a mettere il cibo in tavola e le donne ad accettarlo grate. L'emergenza capovolge la norma delle cose.

 


DATA 06/04/1999 PAGINA 8
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Atroci equilibri sulla via degli aiuti"

Di fronte a quanto sta accadendo ai rifugiati del Kosovo, le agenzie umanitarie vengono accusate di ritardi e inefficienze. Migliaia di persone non hanno nulla da mangiare. La guerra umanitaria si gioca ai confini. Negli immensi campi, che campi non sono, ma solo agglomerati di cellule vive, di Blace, di Tetovo, di Kukes, ci giochiamo l'onore. Cerchiamo di spiegarci. Sessantacinquemila persone sono ora, 5 aprile, nella terra di nessuno tra Macedonia e Kosovo. Ci stanno da giorni, ormai. Un contagocce ne scandisce l'ingresso in Macedonia. Una fila di 25 chilometri preme oltre confine. Che cosa accade oltre quella fila, in quel che resta del Kosovo, non sappiamo. Potrebbero arrivare in 300 mila, o forse sono finiti. Ieri sera c'era un uomo, a Blace, dietro un filo spinato, con un grande cartello scritto a mano: HELP! (aiuto, ndr) e faceva segno di cibo alla bocca. Noi siamo dall'altra parte di quel filo spinato e ciò che abbiamo è pronto a entrare in quella bocca e in tutte le altre bocche che gli stanno accanto oggi e per i prossimi giorni, almeno 10 giorni. Manca solo cibo per bambini, ci vuole coraggio ad ammetterlo, ma anche quello è in arrivo. Altro cibo atterra all'aeroporto di Skopje, ma non è questione di cibo, a Blace, è questione umana. Non abbiamo il permesso di passare. Solo la Croce rossa macedone ha accesso alla "terra di nessuno". Tutti gli altri, l'UNHCR (Alto Commissariato per i profughi), il WFP, la Nato stessa, possono solo provvedere a quelli che lentamente, dopo giorni di lager, sono ammessi a uno dei campi di accoglienza seminati lungo la frontiera. Delicati equilibri dei Balcani cui siamo costretti a sottostare. A noi spetta provvedere. Possiamo provvedere soltanto a quanti passano il confine, e guardiamo Blace sentendoci l'onore venir meno davanti a quell'uomo col cartello e la mano alla bocca. La Nato adesso aiuta. Ha camion, tende e volontà , ma il campo che ha messo su a Blace, pronto ad accogliere, male e per solo 48 ore, 100 mila persone in transito, stasera è ancora quasi vuoto. I processi di dogana sono lenti e il contagocce è stretto. Atroci squilibri dei Balcani. Alla fine si troverà una strada, per quei 65 mila e per gli altri dietro a loro. Ma oggi nessuno sa ancora quale. Intanto ne muoiono 10 al giorno.

 

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DATA 08/04/1999 PAGINA 9
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Cani da guardia per esseri disperati"

Di colpo, i rifugiati hanno lasciato la terra di nessuno, la valle incubo in cui era proibito entrare e da cui era difficilissimo uscire. Vanno via, da ieri pomeriggio, a gruppi di 40, su un autobus rosso fiamma. Ancora una volta, è il governo macedone a decidere con durezza chi va dove. C'è chi viene spedito in Turchia, chi in Germania, diecimila sono stati lasciati al confine albanese, come pacchi spersi. Di altre migliaia si è persa per ora ogni traccia. Brazde, quasi deserto fino a ieri, ospita oggi 30.000 persone. Tendopoli a sviluppo costante, con tende incolori e latrine di tela spessa, in cui i batteri vengono tenuti a bada dalla calce. La capacità di accoglienza è cresciuta come lievito al caldo. Inferiore al bisogno, comunque. Il cibo che il Wfp distribuiva oggi erano scatole di fagioli dolci, tipo inglese, e una specie di purè di patate. La Nato non nasconde di temere la parola "campi". Teme i fili spinati, i soldati in mimetica a pattugliare i civili. Teme le assonanze, le foto scattate in bianco e nero, da angolature cattive. Del resto, fili spinati ci sono già e oggi c'erano cani tedeschi tutto intorno, con museruola stretta, di plastica trasparente. Opera del governo macedone, ma vallo a spiegare a una Nikon. In mimetica si somigliano tutte, questo è un fatto. Così, la Nato non usa mai la parola "campi". Li ha chiamati "Centri di assistenza per i rifugiati" ed è pronta a lasciarne al più presto, entro 24 ore, la gestione all'agenzia dell'Onu. L'emergenza, tra le altre cose, semplifica la mente. Forse la abbruttisce, forse la pulisce. Servono camion, tende, permessi di atterraggio, centinaia di persone che distribuiscano il necessario. I militari hanno i mezzi, noi la vocazione. La collaborazione non è inedita: si verifica a ogni catastrofe. E un'altra cosa: l'occhio azzurrissimo e la dizione scandita del portavoce Nato a Skopje sono classici di un film di guerra. Il tenente italiano che si fa in quattro per accontentare tutti e ricorda anch'esso un film. La terra di nessuno, invece, non era narrabile. Il Centro di accoglienza ci riporta in un terreno conosciuto, in cui possiamo tornare a parlare, a contraddirci e poi ad agire.

 

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DATA 10/05/1999 PAGINA 2
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Podgorica isola felice senza futuro"

C'è un terzo fronte umanitario: il Montenegro. A chi provenga da Tirana e Skopje, il Montenegro sembra un'isola. Alle Bocche di Cattaro il mare diventa un lago limpido, le case hanno giardini e palme. A Podgorica i caffè sono pieni di una gioventù che non si capisce da quali lombi sia mai uscita, così alta e abbondante. Le donne sono eleganti, make up perfetto, e l'atmosfera è di ostentata leggerezza. E' difficile credere che questo sia un altro fronte di guerra. Eppure i profughi dal Kosovo sono 63.000 e le sirene di allarme suonano frequenti. A Ulcjin, piccolo paese sul mare e di frontiera, estremo sud del Montenegro, i profughi sono circa 30.000, per lo più ospitati da famiglie albanesi. Altri sono nelle moschee, nelle scuole o in pochi campi di accoglienza. La quantità di panni stesi e di persone in strada dà il segno del sovrappopolamento. Popolazione raddoppiata. Ai punti di distribuzione del cibo, però, la fila è disordinata ma non lunga. Un uomo anziano, che ha lasciato il Kosovo ormai da tre mesi, si lamenta perché si stanno privilegiando i nuovi arrivi, ma quando gli chiedo se ha problemi di cibo lui dice no. Solo, dice che il fornaio gli ruba la farina. La situazione alimentare è buona, lo so dai nostri dati e lo conferma la visita. Quello che ci preoccupa, dicono alla Croce Rossa, sono piuttosto gli alloggi. Quel che preoccupa i profughi, invece, mi dice un giovane kosovaro di Pec, sono la sicurezza e il futuro. Beni incerti. Sicurezza: dei 95.000 profughi arrivati dal Kosovo al confine con il Montenegro, 30.000 sono già partiti, direzione Albania. Gli altri sono rapidamente defluiti verso il centro e il sud del Paese, per esempio a Ulcjin, o a Tuzi. A Rozaje, la cittadina al confine col Kosovo in cui fino a una settimana fa i profughi erano decine di migliaia, sono rimasti in 17.000, i più poveri. E' da una settimana che quasi non si registrano nuovi arrivi. Come si fosse chiuso un rubinetto. Poche gocce, pochi individui. Di fatto, al confine la guerra si sente, si vede, intensa, e non invita al rifugio. Futuro: come sempre nessuno lo conosce. Men che mai in questo Montenegro dall'equilibrio fragile. A Ulcjin si pensa agli alloggi, senza sapere per quanto tempo serviranno. Ma proprio a Ulcjin capito in ex campeggio costruito anni fa, su palafitte, da cecoslovacchi ansiosi di vacanze. Oggi è uno strano, triste villaggio in cui ancora abitano, dopo anni, qualche centinaio di rifugiati delle guerre croata e bosniaca. Le palafitte, per loro, trasformate in radici.

 

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DATA 12/06/1999 PAGINA 4
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Compito numero uno: aiutare chi e' rimasto"

Iniziano adesso le operazioni di rientro dei profughi nel Kosovo. L'esperienza ha già dimostrato che non sempre le cose si svolgono secondo i piani e che le previsioni sono certo un utile esercizio ma non sempre rispecchiano il futuro. I piani però sono stati elaborati e sarà meglio per prima cosa analizzarli. Parlano di un rientro controllato dei 900.000 rifugiati entro tre mesi. Il lavoro umanitario si distribuirà di conseguenza. Primo compito sarà verificare le condizioni di quanti sono rimasti dentro il Kosovo. Sono circa 600.000, alcuni a Pristina, altri nei villaggi e le città del Kosovo, altri ancora tra i monti. Contarli e provvedere alle loro prime necessità sarà il compito più urgente. Almeno quattro settimane saranno infatti necessarie a ripristinare le vie di comunicazione principali, isolare le aree minate, ricostruire vie di sicurezza. Quattro settimane in cui il rientro dei rifugiati è sconsigliato. Sconsigliato non significa impossibile. Mettiamo nel conto infatti il rientro spontaneo di circa 150.000 rifugiati dai confini macedone e albanese. Il vero rientro controllato dei rifugiati, secondo i piani, dovrebbe iniziare nel secondo mese e riportare in Kosovo 300.000 persone, portando così a 1.050.000 il numero di quelli a carico delle agenzie umanitarie. Terzo mese: rientrano altri 450.000 rifugiati. Il carico umanitario si assesta a quella che è per ora la cifra finale su cui doversi calibrare: un milione e mezzo di persone. Bisognose di molto, e certamente di cibo, visto che in Kosovo quest'anno la terra è stata arata soltanto dalla guerra. Nessun raccolto in vista. C'è poi l'incognita dei serbi: quanti rimarranno nel Kosovo, quanti si faranno profughi. I piani, dicevamo, non sempre rispecchiano il futuro. E di incognite la regione è ancora piena. Quello che è certo è che la guerra umanitaria è tutt'altro che finita e che lo sforzo sarà ingente. Oggi, accanto alle agenzie delle Nazioni Unite nella regione ci sono ben 290 organizzazioni non governative. Insieme ci spartiremo il territorio, in questa nuova fase della guerra che, questa volta, potrebbe essere davvero solo umanitaria.

 

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DATA 14/06/1999 PAGINA 19
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Noi dell' Onu di nuovo in Kosovo in una terra estranea e stravolta"

"Noi dell' Onu di nuovo in Kosovo in una terra estranea e stravolta". Iniziano le operazioni di rientro dei profughi nel Kosovo. Chiediamo a Paola Biocca, portavoce del World Food Programme, quali sono le previsioni dell'agenzia di aiuti alimentari dell'Onu. E' il primo convoglio umanitario delle Nazione Unite per il Kosovo. Cinquanta automezzi, tra camion e jeep, che trasportano cibo, acqua, coperte. Il Wfp (World Food Programme) ha stipato i suoi camion con abbastanza farina da fare 50 mila filoni di pane, e con 48 mila razioni pronte per quanti sono ancora sulle montagne e hanno la fame che non si ha a Pristina. Procediamo lenti, in una strada invasa dai blindati e bordata dalle fettucce arancioni che già segnalano le mine. Non ci sono posti di blocco, solo ingorghi di truppe, gli elicotteri che atterrano e decollano, cingolati. Per i primi 30 chilometri la strada è pattugliata da Gurkha ermetici e sorridenti. Intorno le case sono vuote, le strade deserte. Guardo i campi: la grande piana di Urosevac, un granaio kosovaro, è coltivata solo a sprazzi. Fusti di cereali misti ad erbacce, spicchi ordinati di colture foraggere. Fra breve sarà il momento di trebbiare il fuoco che è stato seminato ed è per quello che i contadini oggi nei campi profughi attorno a Skopjie decidono di tornare veloci, a dispetto delle mine e dei treni di sicurezza a cui sono sottoposti in questi giorni. Anche a vista comunque si conferma ciò che sapevamo: il Kosovo avrà bisogno di aiuti alimentari per molti mesi. Ci fermiamo spesso. Ci vorranno 6 ore per coprire 100 km tra Skopjie e Pristina. A mano a mano che ci avviciniamo la gente ai bordi delle strade si fa più numerosa. Applaudono gli aiuti, fanno segno di vittoria. Mi ritrovo anche dei fiori rossi tra le mani. Avvicinandoci a Pristina cominciamo ad incontrare i nuovi trattori di questa guerra: i profughi serbi. Piccole colonne, quelle che vediamo, ma sappiamo che su Pristina stanno convergendo in molti. Arriviamo. La capitale in cui le agenzie umanitarie sono entrate oggi è una città in cui la tensione si misura ancora con mezzi militari e continua a fare morti. Un territorio diventato estraneo anche a chi, come il Wfp, a Pristina ha passato molti mesi. Ci accampiamo. Stringiamo le misure di sicurezza. Domani si comincia.

 

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DATA 16/06/1999 PAGINA 5
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Perché ci accolgono da vincitori? Non si è vinto nulla"

Iniziano le operazioni di rientro dei profughi nel Kosovo. Case basse, con il tetto rosso, dietro un ponte che avevamo visto minare, una popolazione composta di vecchi, donne e bambini, quelli che in gergo umanitario si chiamano gruppi vulnerabili. Qui a Goglovac, il 20 marzo, il Wfp aveva fatto la sua ultima distribuzione di cibo prima che la guerra cacciasse via profughi e noi. Ricordo la preoccupazione degli adulti, allora, e l'indistruttibile voglia di giocare dei bambini. Ricordo pure che la radio di Pristina aveva descritto quella piccola, ultima distribuzione di aiuti come un segno di speranza: i civili hanno sentito di non essere soli, diceva. Li abbandonammo poco dopo e non potevamo fare altro. Goglovac mi era rimasta nella mente con un misto di commozione, gratitudine e disagio. Ora dopo una riunione che ha rimesso in fila le stesse facce, le stesse sigle, gli stessi problemi di sicurezza e di organizzazione di quel fine marzo, Alto Commissariato e Wfp hanno fatto una breve ricognizione nelle aree considerate sicure, per capire da dove iniziare, in questo territorio in cui ancora si spara e si ha paura. Forse è stato un senso nascosto di continuità che ci ha fatto scegliere la destinazione. E dunque è stato proprio a Goglovac che sono sbarcati i primi aiuti del dopoguerra in Kosovo. Certo è che siamo qui, 80 giorni dopo. Ci sono meno tetti e molti più profughi dei 1.200 che avevamo trovato ammassati allora nella scuola elementare. Adesso sono 20.000, sempre donne, bambini e anziani. Non denutriti perché, ti fanno vedere nel palmo della mano, da mangiare hanno avuto grano e mais. Chicchi bolliti. Niente carne, il bestiame ammazzato. E niente pane perché di mulini neanche a parlarne. Ma forni sì, nelle case superstiti e quindi la richiesta è stata: farina per cuocere del pane. Abbiamo portato 16 tonnellate di farina e 1,5 di olio. In strada abbiamo dovuto indossare giubbotti antiproiettile, intorno abbiamo avuto spari ripetuti. Sarà difficile nei prossimi giorni andare nei villaggi più lontani, dove è davvero necessario. All'arrivo dei camion abbiamo avuto l'accoglienza che si riserva ai vincitori. Lacrime di sollievo e fiori rossi, cartelli "Welcome to Kosovo". Ma di nuovo ho provato disagio. Perché ci trattano da vincitori? Noi non abbiamo vinto proprio niente.

 

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DATA 21/06/1999 PAGINA 3
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Né mine né bande. I profughi vogliono correre a casa"

Sono migliaia e migliaia quelli che hanno già attraversato i posti di frontiera a Morini e Blace. Anche se le agenzie dell'Onu si affannano a dire che non ci sono ancora tutte le garanzie di sicurezza, le strade sono minate e le case possono nascondere ordigni invisibili a un occhio non esperto. Vogliono tornare e forse tra quattro settimane i ritorni spontanei saranno anche di più di quei 150.000 che il Wfp ha previsto. Li vedo a Blace, confine tra Macedonia e Kosovo, in fila tra carri armati e convogli umanitari. Sono soprattutto uomini. Molti vanno in avanscoperta per verificare lo stato delle cose e poi tornare, se è il caso, a ricondurre a casa la famiglia. Altri hanno già caricato cibo, vettovaglie e parenti dentro una macchina, spesso a noleggio, sempre stremata dal peso. Parecchi sono a piedi e si metteranno di ottima lena a percorrere decine di chilometri. Le procedure doganali sono lente e la colonna di traffico lunghissima. Le agenzie umanitarie distribuiscono acqua. Il Wfp mi ha insegnato che è meglio parlare con le donne, perché  sono loro, specie nei campi profughi, a mantenere il senso del reale. Ne vedo due sedute sotto un albero, tra la paglia ai bordi della strada. Mi rivolgo alla più anziana. Le chiedo se ha paura delle mine o degli ultimi rimasugli di guerra che agitano il Kosovo, se è stata avvertita dei rischi. Lei mi guarda in faccia con un sorriso così immenso che io subito smetto. La sua gioia è contagiosa, sono felice anch'io che la guerra sia finita e le auguro buon viaggio. Torno sulla strada, dagli uomini. La sicurezza di solito è affare di maschi e allora chissà, forse saranno più avvertiti. Qualcuno ammette di essere preoccupato, ma a nessuno viene in mente di ritardare il viaggio. Ognuno ha le sue ragioni: riprendere possesso della casa, avere notizie dei parenti, mietere il raccolto. Ma il Kosovo non è terreno sicuro. Almeno quattro profughi in rientro sono morti saltando sulle mine, altri sono rimasti feriti, e il Wfp, proprio per questa ragione, deve ricorrere all'elicottero per portare cibo alle aree più isolate. E, allora, alla domanda se il rientro andrebbe frenato rispondo che sì andrebbe frenato. Ma qui a Blace la fila di quelli che vogliono rientrare è troppo impaziente per ascoltare i consigli umanitari. E non è difficile capirli.

 

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DATA 29/06/1999 PAGINA 11
OCCHIELLO diario umanitario
TITOLO "Ma il triste esodo degli sconfitti non piace alle tv"

L'altra faccia della guerra umanitaria la vedo a Kraljevo, sud della Serbia, poche decine di chilometri dal confine con il Kosovo. Una cittadina povera, pulita, con tetti rossi, alberi da frutto e una disoccupazione che, prima della guerra, raggiungeva il 40 %. Qui, al ritmo di duemila al giorno, dal Kosovo sono arrivati più o meno ventimila profughi. La cifra esatta, in verità, nessuno la sa con precisione. Dalla tabella che mi ha trasmesso il World Food Programme, a Kraljevo dovrebbero essere arrivati in 16.200, ma i registri della Croce Rossa jugoslava ne riportano 12.500. Pare comunque che siano almeno 8 mila quelli che hanno scelto di non registrarsi, per diffidenza o perché non ne avevano bisogno. Sono arrivati due autobus, dalla regione di Pec. I 17 edifici adibiti al rifugio temporaneo sono pieni; case private ospitano fino a 40 persone. Ci sono anche un migliaio di rom, che però seguono i propri tragitti. Di cosa accadrà quest' inverno, senza gasolio e senza soldi, nessuno vuole o può parlare. Cibo ce ne sarà solo se lo porteremo noi o altre agenzie umanitarie. Dimensioni e drammi dell'esodo serbo dal Kosovo. Troppo presto per dirlo. Le fonti ufficiali dicono che in Serbia, dall'inizio della guerra, sono arrivati 69 mila profughi, distribuiti prevalentemente tra Kraljevo, Nic, Vranje e Kragujevac, ma alla Croce Rossa confermano che i non registrati sono moltissimi, una macchia statistica. Il coordinamento umanitario è ancora scarso. Le notizie sui flussi da e per il Kosovo, sono contraddittorie e ambigue. Caos e incertezza, come per ogni grande migrazione ed emergenza. Non era diverso ai primi giorni dell'esodo albanese. È tutto il resto ad essere diverso. Le pochissime macchine dell'Onu qui viaggiano in incognito, senza dispiegare sigle né bandiere. L'esercito non distribuisce tende, viveri o il senso di un ombrello protettivo, solo sconfitta e rabbia. Non c'è quell'economia dell'emergenza che aveva portato buoni dollari ai negozianti e ai taxisti dell'Albania o della Macedonia. Non ci sono reporter, celebrità, telecamere o obiettivi a spiare le rughe di ogni profugo. Persino i giornali locali parlano d'altro. La sconfitta ha delle pieghe in cui è difficile entrare. Ci vuole tempo, forse. E così la Croce Rossa svolge un lavoro egregio, il World Food Programme porta le sue prime tonnellate di cibo, Focus le prime coperte e l'Alto commissariato il suo staff. La comunità umanitaria si organizza, ma tutto è molto silenzioso, a Kraljevo.

Si ringrazia il Corriere della Sera per la concessione della presente raccolta di articoli.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.