Intervento di Dino Boffo
Dino Boffo - direttore del quotidiano Avvenire*
Appartengo per il momento a un gruppo di professionisti - direttori di giornali - che più che prendere la parola in contesti come questo dovrebbero trovarsi sotto giudizio, come in realtà sono. Se ci mettiamo a elencare i condizionamenti oggettivi che pesano nella fattura di un giornale, giornale in senso ampio: carta stampata, radio, televisione, internet, tra questi condizionamenti la cultura del direttore è certamente incidente sul profilo delle notizie, sulla preoccupazione che i giornalisti mettono nel darle queste notizie condizionati certamente oltre che dalla loro cultura, dalla pressione che su di loro viene esercitata in redazione. E se pure non serve mettere sotto processo gli assenti cioè i direttori che qui non ci sono, né io mi sento delegato a rappresentarli, tuttavia non possiamo tacere quelle che sono le responsabilità specifiche. A giustificazione o a comprensione dell'handicap ognuno di noi anche chi è al timone di un giornale tende a rappresentare la realtà che ha conosciuto, attraversato, che ha abitato durante il corso della sua vita e della sua storia professionale. Viviamo in un mondo assolutamente complesso dove c'è una realtà sfaccettata, un campionario di esperienze quasi infinito, uno non arriva ad essere direttore dopo aver fatto o visto quasi tutto ma dopo aver svolto una vita normale se poi è giovane anche il campionario delle sue esperienze è fatalmente ridotto per cui tende a rappresentare e a far rappresentare dal giornale che gestisce ciò in cui lui si riconosce. Succede che un giorno messo a contatto con persone del volontariato o con protagonisti di una ricerca scopre un mondo nuovo e si rende inevitabilmente conto che questo mondo pulsante gli sta sfuggendo o gli è sfuggito fino a quel momento, vorrebbe che qualcuno ripari alla cosa creando un canale tra la redazione e l'esperienza poi torna in redazione e nel ritmo dei pensieri sommerso da altre realtà e da altri scenari torna fatalmente a dimenticarsene.
Un mestiere in crisi
Appartengo a un giornale medio-piccolo e a una testata televisiva e radiofonica quasi neonate che non hanno le ambizioni delle testate sovrane del nostro paese, non ho paura ad ammettere che il nostro mestiere di cronisti è in crisi. Ce lo diciamo tra giornalisti della stessa testata ma anche di testate diverse. Il mio è un mestiere che qualche volta dà l'impressione di essere finito se poi ci diamo un tono per ingannare il pubblico a cui dobbiamo pur vendere un prodotto diciamo che tutto va bene. Finiamo per sostenere che il giornalismo che interpretiamo è il miglior giornalismo del mondo. Qualche tempo fa è uscito su una rivista di grande prestigio, un botta e risposta tra i direttori di due maggiori quotidiani italiani mi sono accostato a questo ping-pong tra colleghi con una gran curiosità dico: vuoi vedere che stavolta viene fuori in una sede così prestigiosa la verità di quello che è il nostro mestiere? Mi sono reso conto poi che ci siamo fatti solamente i complimenti. I giornalisti italiani sono i migliori giornalisti di questo mondo e può anche esserlo ciò non toglie il sentirsi interpreti di un mestiere che non ha il vento in poppa.
C'è un'indagine riservata a cui si accede con un abbonamento abbastanza costoso (uno dei pochi lussi che mi sono permesso) arriva ai direttori di giornali e a qualche altro soggetto nazionale e dà la temperatura degli orientamenti, dei gradimenti del paese mese per mese. Ebbene la stampa, gode come stima presso i cittadini del nostro paese nell'ultimo mese, di una base del 28,4%. Se faccio un raffronto con schemi analoghi posso garantirvi che l'ambito di fluttuazione va dal 25 al 28%. Non riusciamo a staccarci da questo plafond, e teniamo conto che le istituzioni più stimate sembrano essere polizia e carabinieri, rasentano il 60% il presidente della Repubblica, la Chiesa cattolica, la Magistratura. Colpisce che come categoria veniamo appresso anche ai politici, il massimo che ci possa capitare dato che in questi anni abbiamo e continuiamo a fare contro di loro processi sulla stampa.
È un mito o un mestiere?
Non vorrei cadere in un facile populismo vorrei fare un ragionamento se possibile un po' più strutturale. Credo che la nostra professione si trovi come dentro una morsa. Da una parte bisogna dire che è una delle professioni che più intrigano e stimolano l'immaginario, quando ci si presenta a persone che non ci conoscono e si dice loro che siamo giornalisti il più delle volte incontriamo facce soddisfatte, ma il contrasto sta nel gradimento o nel non gradimento che poi constatiamo mese per mese.
Da una parte è una professione prestigiosa dall'altra diffidata, non concreta. Viviamo sulla scia di una mitologia romantica per cui pensiamo di interpretare il nostro mestiere alla Hemingway che va in giro per il mondo col taccuino a fare le rilevazioni romantiche su ciò che accade. Finiamo poi per alimentare questo mito attraverso i surrogati che danno nell'occhio credendo di appartenere a un'élite che va con l'élite come si dice nel depliant che presenta con molta efficacia questo incontro.
È giusto parlare di "mestiere"?
Amo parlare di questa professione come di un mestiere, c'è qualcosa di egualitario come in altri, almeno nella fatica, nella dedizione, nell'applicazione a cui ogni mestiere richiama, con il rigore arcaico quasi operaista che il termine "mestiere" porta con sé e anche con quel tanto di ridimensionamento che la parola include. Non è però il nostro un mestiere qualsiasi così come il giornale non è un prodotto qualsiasi. Ritengo che uno dei tanti guai che hanno finito col corrodere dal di dentro la nostra professione sia nella convinzione che dobbiamo mettere su giorno per giorno un prodotto che va venduto e che bisogna vendere a tutti i costi. Finiamo per pensare che sia come vendere una scatola di dadi o un paio di scarpe. Per quanto si tenti di eguagliare le dinamiche del marketing credo - nel tempo che ci è dato di prevedere - rimarrà impareggiabile, ineguagliabile, la realtà di un giornale del 'prodotto' giornale, con quella di qualunque altro prodotto del supermarket. In quest'ultimo decennio è avvenuto qualcosa che ci ha fatalmente corrosi si è arrivati, sindacalmente a pretendere premi di produzione su un venduto straordinario del prodotto giornale quando questo venduto straordinario era determinato dai gadgets. I cdr sono riusciti a ottenere dall'azienda dei premi di produzione per un venduto maggiorato quando la maggiorazione del venduto non era determinata dalla qualità della nostra scrittura o delle inchieste che facevamo ma dai gadgets che venivano caricati addosso. Possiamo avere anche un milione in più in tasca ma il nostro è un mestiere finito. Dobbiamo solo ricominciare a stimarlo a darci da fare per attivare fantasie, qualità professionali e di scrittura, riuscire a far piacere il prodotto giornale per ciò che gli è intrinseco.
Giornalismo professione d'élite?
Non entriamo nella professione facendoci assumere subito dal Corriere della Sera. Ho faticato sei anni per convincere l'Ordine Nazionale dei Giornalisti ad accettare che anche cronisti come il sottoscritto che lavoravano in una redazione senza professionisti fosse ammessa all'esame professionale, sono andato a bussare a tutte le porte. Ho cominciato il mestiere dalla porta di servizio, non per tutti quindi è un mestiere d'élite. Negli anni in cui sono stato a Treviso, celebrando il centenario del mio settimanale ho capito che cosa erano stati i cronisti nostri predecessori, il giornalismo cattolico in quel territorio aveva rappresentato il riscatto della gente più povera che viveva spesso con la pellagra e ne moriva. Il mio giornale locale, letto nelle stalle dall'unico del circondario di case che sapeva leggere, ha aiutato il riscatto di quella gente, li ha aiutati, stimolati, stuzzicati a pensarsi in modo diverso, li ha spinti a organizzarsi. Non ha fondato delle associazioni culturali ma ha fatto nascere dei giornali, strumenti che dovrebbero accompagnare giorno per giorno, un popolo e incitarlo al riscatto di sé stesso. È semmai un mestiere antiborghese per eccellenza a volerlo interpretare, non un mestiere per "fighetti" anche se alcuni di noi quando entrano in una redazione e sono finalmente assunti cominciano a interpretarsi tali dimenticando la storia da cui provengono. Un mestiere per lambire gli ambienti potenti e restarne coinvolti, da salotto per stare nei salotti, messo a servizio di qualcuno, cinghia di trasmissione.
Una formazione autocondotta
Non so quanta cultura autentica esiste, c'è lo studio frettoloso e massivo che ciascuno di noi affronta prima dell'esame con quei tre tomi da digerire in fretta che comunque non snobberei. Per diventare medico si studia degli anni per diventare giornalista si dice: buttati nell'acqua, impara a scrivere, impara il mestiere, il che è verissimo, se uno non sa l'italiano è inutile che infligga al pubblico un articolo che non sta in piedi, la genialità, il carisma personale non sono sostituibili però bisogna anche studiare almeno per conoscere le leggi che ci riguardano e per diventare più cauti. C'è una formazione che viene dalla 'praticaccia' del mestiere e spesso resta l'unica cultura che sviluppiamo, ci dovrebbe essere un'auto-formazione sulla quale vorrei che facessimo un esame di coscienza. Quanto sforzo documentativo personale facciamo e quante letture sviluppiamo? Non solo quelle che servono per fare il "pezzo" l'indomani. Quanti filoni coltiviamo come congeniali a noi? Non mi stancherò mai di dire o di raccomandare ai giovani che mi capita di assumere: ragazzi non smettete di coltivare è l'unica fortuna sulla quale possiamo agire di nostra iniziativa.
Cinismo a quintali
È difficile trovare un giornalista dai 40 in su che non sia cinico, un po' perché è il mestiere che porta ad esserlo, ne vedi tante che alla fine per autodifesa fai il callo, un po' perché fa posa il mostrarsi corazzati rende importanti. Quanto opportunismo c'è nel nostro mestiere e quante convinzioni giocate a seconda del momento? Perché ci sia tensione etica, bisogna che sia interiorizzata e che valga per me prima che per gli altri un'idea di bene e di male, un concetto di limite, di confine, occhi per vedere e disponibilità psicologica per farsi coinvolgere e interrogare, cultura e sensibilità per misurare e misurarsi, capacità di turbarsi, di inquietarsi, di arrabbiarsi. Credo di aver capito qualcosa del mio mestiere quando ero già direttore di Avvenire e un bel giorno fui invitato da un direttore di una grande testata a colazione 'negli ambienti importanti'. Approfittando di questo invito dico: "vengo così vedo com'è la redazione di un grande giornale ". Arrivo nell'ora in cui tutti i giornali più o meno concludono la prima riunione importante di progettazione del giornale del giorno dopo. Anch'io avevo in un modo o nell'altro partecipato alla mia di redazione e ricordo che discutemmo sulla notizia della bomba al mercato di Sarajevo, quella che fece dei morti e il telegiornale mandò le immagini del sangue tra le bancarelle della frutta e della verdura. Proprio quel giorno per scelta decidemmo di dare a questo fatto tragico due pagine di primo piano. Eravamo in tempo di guerra ma quella era "guerra nella guerra". Tornando all'incontro mi colpì il dialogo che intercettai alla fine della riunione tra il direttore che dovevo attendere e il collega capo servizio degli esteri, un ex inviato. Discutevano se mettere la bomba al mercato di Sarajevo in testata agli esteri o di taglio perché il caso voleva che quel giorno le agenzie (fotografiche) avessero eruttato la foto della moglie del primo Ministro greco con le "poppe al vento". La scelta era: mettere Dimitra o le bombe al mercato di Sarajevo? Naturalmente il vecchio inviato insisteva per le bombe, il direttore era di altro avviso e a un certo punto come a dire adesso ti dico il motivo d'oro, il motivo vero per cui si deve fare una scelta e non l'altra gli disse: "scusa, domani che cosa ci fa vendere di più?". Ho capito in quell'istante ed ero già direttore di un quotidiano nazionale, che cos'è questo mestiere, che cosa siamo noi, i condizionamenti che abbiamo e che stiamo introiettando ed il circolo perverso dentro al quale ci troviamo perché a domanda c'è un'offerta e la domanda e l'offerta si condizionano in maniera irreparabile. C'è modo di spezzare questa domanda e questa offerta?
Distacco e coinvolgimento
Distacco è una parola che ha un duplice valore. C'è il distacco di chi non vuol essere esistenzialmente disturbato da ciò che la realtà propina, da ciò che il volontariato, la Caritas, il sociale rappresentano e quindi si corazza per resistere, il distacco del cinico, distacco dell'ignavia, della viltà. C'è anche un distacco elaborato, filtrato, voluto, perseguito, conquistato che mi permetto di raccomandare a me stesso e ai miei colleghi frutto di uno sforzo che rappresenta un minimo di garanzia di indipendenza anche emozionale rispetto ai fatti. Bisogna intendersi sul valore che diamo a questa parola vorrei usare il termine distacco dandogli un'accezione positiva, in questo senso non sarà più l'antagonista del coinvolgimento. Credo che il nostro mestiere abbia un segreto, la capacità di sapersi mettere nei panni degli altri. Ci è consentito di mettere tutti i panni possibili, però di volta in volta, riuscendo a vivere un atteggiamento di simpatia e ricavarne un cuore ustionato. C'è un distacco virtuoso, una capacità sintetica con degli ingredienti immancabili sia di tenuta psicologica che di attitudine culturale, un dato sintetico esistenziale di capacità di reggere alla solitudine e al confronto con i colleghi. Noi scriviamo per loro mica per il pubblico, scriviamo per il collega della testata concorrente che ci leggerà, non è così? Il fondo lo scriviamo perché ci leggano gli opinionisti di idee diverse ma comunque dello stesso livello. Il confronto non può essere un guinzaglio. Il distacco virtuoso che a me pare di dover raccomandare è nella capacità di solitudine, autonomia concettuale, analisi, capacità di andare controcorrente, sorprendere, spiazzare ma non come scelta estetica.
Anticonformismo come molla dell'anima
Non dobbiamo accettare pensieri precostituiti da qualunque parte provengano, ciascuno di noi ha una testa e una coscienza e per chi crede che dovrà un giorno rendere conto a qualcuno questo è fondamentale e irrinunciabile. Voglio rendermi conto di come stanno le cose, decidere, scrivere e orientare in rapporto al portato della mia coscienza. È dura ci si arriva a volte al 30-40, al 50% e nei giorni fortunati al 60, però è irrinunciabile questa voglia. Dobbiamo essere una categoria assolutamente non omologata a sé stessa, possiamo pensare, sperare di salvare la nostra professione se usciamo dal conformismo se la finiamo di guardare i grandi nomi che stanno avanti. Essere noi stessi senza vergognarci di chi siamo e della testata in cui scriviamo per quanto umile essa sia. Non so fare il professore e non è il mio mestiere, non so teorizzare, fatalmente cado nel biografismo e questo ha dei limiti. Ho messo avanti le mie convinzioni, il frutto di 20 anni di lavoro, non sono tanti ma rappresentano qualcosa. Siete per gran parte più giovani di me e spetta anche a voi il futuro di questo mestiere. Quando fatichiamo ad essere ammessi agli esami professionali succede che diciamo: questo ordine è da distruggere, poi una volta entrati, diventiamo dell'avviso che questo stesso ordine ha qualche utilità e vogliamo salvarlo. È soprattutto una volta arrivati che dobbiamo impegnarci e attivarci verso il cambiamento.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.