V Redattore Sociale 20-22 novembre 1998

Acciaio e Cristalli

I telegiornali che ci sono e quelli che non ci sono

Dialogo tra Giulio Borrelli ed Enrico Mentana. Conduce Maria Nadotti

 

Dialogo tra Giulio Borrelli - direttore tg1*e Enrico Mentana - direttore tg5*. 
Condotto da Maria Nadotti - scrittrice*

1. La "normalità" delle notizie

Maria Nadotti

Sia a Mentana che a Borrelli rivolgerò esattamente identici quesiti, mi piacerebbe anche che se li scambiassero eventualmente tra di loro. In questo momento mi vivo come pubblico, pertanto spero di fare le stesse domande che fareste voi; sono domande, non sono provocazioni e non intendono esserlo. Abbiamo due professionisti che hanno in mano due grosse aziende, facciamoli raccontare come si fa informazione, non come si dovrebbe fare. Tentiamo anche di ipotizzare come si potrebbe potenziare l'informazione italiana. Intenderei poi ampliare il discorso a livello mondiale, globale, non soffermarmi solo su come stanno facendo informazione loro, qui oggi, ma anche come vedono fare informazione in altri paesi del mondo.
Partiamo da una domanda semplicissima: che cosa fa di un avvenimento una notizia e come si scelgono gli avvenimenti che vengono trasformati in notizia?

Giulio Borrelli

La domanda e l'offerta

Seguiamo la regola aurea, quella che si insegna fin dai primi anni di qualsiasi corso e che è ripetuta e anche abusata, se volete, ma mi permetto di citarla perché mi consentirà di fare altre osservazioni: il cane che morde l'uomo non fa notizia perché è un avvenimento normale, può accadere e non ha niente di strano; l'uomo che morde il cane fa notizia perché è un avvenimento eccezionale. I nostri telegiornali sono fatti sulla notizia dell'uomo che morde il cane. Trattano le notizie che fanno evento, trattano tutto quello che incuriosisce, attrae, interessa per tanti versi. Il 90% dei telegiornali che esistono oggi, sono quelli che rispondono alle esigenze, alle domande, agli interessi, alle richieste e ai bisogni della stragrande maggioranza della popolazione, di chi vive una vita normale, comune. Il 90% della popolazione è gente che non ammazza, che non uccide, che fa volontariato, che assiste chi sta in disgrazia. Quello stesso 90% poi vede i telegiornali che fanno notizia, il loro interesse viene attirato, si sentono partecipi e coinvolti. C'è una legge della domanda e dell'offerta che in televisione vale: una situazione in cui la domanda condiziona l'offerta e l'offerta condiziona, in qualche modo, la domanda. Il nostro problema è quello di cercare, nei limiti delle modeste possibilità, di migliorare anche la domanda. Comunque, il meccanismo della notizia in modo semplice e sintetico mi sembra oggi che sia questo.

Enrico Mentana

Le cose che succedono a persone come noi

Sottoscrivo quello che ha detto Borrelli e aggiungo soltanto poche parole. Ieri, con chi di voi era presente all'incontro a Capodarco (Mentana aveva dato vita ad un confronto con i partecipanti a "Redattore Sociale" '98, ndr.), elencavo i quattro temi fissi che avreste trovato nei telegiornali e nei giornali della mattina dopo; oggi, come avete visto, quei quattro temi: il bambino ammazzato, Ocalan, il gelo e quello che è successo a proposito del provvedimento sul prepensionamento dei cinquantenni, sono i punti fissi presenti. Questo è per dire che esiste un corto circuito non soltanto tra fonti, giornali e telegiornali, ma anche in gran parte dell'opinione pubblica che in realtà suggerisce già da sola alcuni punti che sono assolutamente fissi. Si sa che per pubblica utilità, per interesse, per importanza o per sfizio una serie di notizie sicuramente entrano nel novero di quelle che i giornali e i telegiornali racconteranno, sia perché sono già segnalate alla fonte, sia perché per ingredienti sono fatte sicuramente per piacere. Le cose che succedono a persone come noi sono quelle che creano identificazione, che coinvolgono; è anche per questo - ed è la vecchia accusa che dal di fuori viene fatta a chi fa informazione - che prevalgono le cattive notizie. Il 99,99% degli aerei che decollano e atterrano regolarmente non fanno notizia perché sono la norma, e sin quando saranno una norma faranno notizia l'aereo che cade o che ha l'incidente, e mai l'aereo che arriva con un gravissimo ritardo. 
Ciò vuol dire che noi apparteniamo a un mondo virtuoso in cui quella è l'eccezione e non la regola. Il bambino che finisce in circostanze così terribili (si parla di un omicidio con sospetta violenza carnale avvenuto a Frosinone, ndr) è una situazione che può verificarsi in famiglie come la nostra e, come società, dobbiamo averlo presente: il fatto che accada a un altro che in qualche modo è assimilabile a noi crea l'identificazione e il coinvolgimento nella notizia. Questo dato di fondo è il motore che spinge gran parte dei fatti, al di là di quelli acclarati, a diventare "notizia".

Maria Nadotti

Una normalità uguale per tutti?

Ripartiamo proprio da qui perché è molto interessante. Si suppone che ci sia un criterio d'ordine e armonia, di normalità, come diceva Borrelli, per cui la notizia si "stacca" proprio perché è estranea e impersonale rispetto a questo criterio. Ora, possiamo davvero ipotizzare che ci sia un ordine, un'armonia e una normalità che valgono per tutti? In società complesse, frastagliate, variate come sono le società contemporanee, soprattutto in paesi ricchi come il nostro, siamo sicuri per esempio che vi sia un'idea di famiglia, paternità, normalità - che può andare bene a Mentana, a me già un po' meno, a Borrelli non lo so - per cui si possa dire quella notizia è eccezionale e quell'altra no? E' un problema centrale, lo dico davvero senza polemica, perché siamo in una fase storica in cui il concetto di normalità è un po' complicato. In una società italiana come questa che si sta diversificando per classi sociali, razze, dove c'è una maggiore consapevolezza che esistono gli uomini e le donne, i vecchi e i bambini, i poveri e i ricchi, in questa frastagliatissima, complessissima società italiana che si va delineando, qual è il criterio di normalità che dovete adottare, anzi (mi metto anch'io nel mucchio) che dobbiamo adottare?

2. Distinguere le cose dal rumore che fanno

Giulio Borrelli

C'è una massima che si insegna nelle scuole di giornalismo, è di Seneca, un vecchio filosofo dell'antichità; dice: "Bisogna distinguere le cose dal rumore che fanno". (...)
Il problema che spesso riguarda i nostri telegiornali è come raccontare le cose che fanno notizia, e non solamente del nostro paese. Ci si ferma all'informazione appariscente, senza andare a cercare troppo quello che sta dietro la notizia, che cosa la correda, che cosa la spiega, che cosa la fa capire. Perché anche dietro il fatto straordinario dell'uomo che morde il cane o del bambino che viene ammazzato in circostanze tragiche c'è la vita normale, di tutti i giorni, di tanti altri che vivono schemi diversi da quelli della eccezionalità, della particolarità dell'evento; e, se non altro, l'evento straordinario, eccezionale per contrapposizione dialettica, ci sollecita la discussione. (...) 
Il concetto di normalità, peraltro, è sempre difficile da definire, non solamente in psichiatria e in ambiti patologici, ma anche nella vita di tutti i giorni. Non c'è dubbio che la vita individuale e quella sociale spesso vengano rappresentate con questi parametri "devianti", però il problema è distinguere le cose dal rumore che fanno; le cose sono generalmente quelle che accadono e che non ci piacciono, ma dovrebbero comunque rappresentare uno spunto, un'occasione per riflettere su quelle che potrebbero piacerci di più. Fermo restando che nella vita non basta il dover essere o sognare, continuiamo a sognare, ad immaginare e a batterci per un mondo diverso e migliore, però facciamo anche sogni possibili e realistici, affinché sia possibile in qualche modo conciliare la contraddizione tra il sogno e la realtà. Lo sforzo è esattamente questo: fare in modo che dietro la notizia appariscente ci sia anche la ricerca di qualcosa che vada oltre. Questo non sempre accade, e occorre chiedersi perché.

Enrico Mentana

Il rigetto della diversità

Sul rapporto telegiornale-realtà-sogno sono molto più disincantato. Il nostro ruolo è cercare di raccontare, asetticamente quando è possibile - con un coinvolgimento che vuole essere o etico o demistificatore volta per volta, quando è necessario - ciò che c'è, ciò che è successo, cosa sta succedendo o che può succedere, tenendo conto che non possiamo considerare l'opinione pubblica come un tutto unico. 
Sulla non sovrapponibilità delle opinioni che si possono avere riguardo la normalità o, ad esempio, al senso della famiglia, bisogna stare attenti. Le evoluzioni della società non sono evidentemente quelle dell'ammissione continua di elementi nuovi; per esempio il culto della diversità che dovrebbe accompagnare questa fase con cui per la prima volta il nostro paese diventa terra d'asilo, non è una realtà condivisa: non c'è nessun culto della diversità, anzi ci sono i primi segnali di rigetto, c'è stata un'involuzione del sentire comune. Quando la questione era solo virtuale si era molto più aperti alla diversità. E' stato simboleggiato per decenni, a livello concettuale, dal popolo Rom: se gli zingari li hai sotto casa diventi irriducibilmente oppositore di una diversità che ti è sbattuta così vicina. Questo è ciò che, in grande e molto più pericolosamente, sta succedendo nel rigetto da parte dell'opinione pubblica rispetto alla diversità, e qui i telegiornali cercano d'essere, in generale fonte d'informazione. Chi ha tentato di andare molto più avanti, si è scontrato con un fenomeno che è altrettanto pericoloso, cioè la perdita di sintonia totale rispetto alle aspettative del pubblico e non solo dell'opinione pubblica.
Ci sono problemi che non si possono affrontare soltanto con il cuore, e da questo discende il rapporto con un'opinione pubblica che va innanzi tutto vista e auscultata per quello che è, e in un secondo momento, solo quando si è capaci e lo si può fare, indirizzata. Il massimo dell'indirizzo è quello di dire la nostra, sapendo però che è sempre e comunque un vulnus all'immagine complessiva di equilibrio che ha un telegiornale, nonché nei confronti del rispetto di tutta la platea dei telespettatori che comporrebbero, in una situazione particolarmente virtuosa, uno specchio dell'opinione pubblica.
Si pencola, come vediamo, tra due esigenze: quella di non essere pilateschi rispetto a fenomeni che sono comunque presenti, che impongono una riflessione; e quella di tener conto del fatto che, non essendo noi demiurghi di nulla, non essendo noi opinion makers, non dovendolo essere e non essendo neanche in grado di esserlo, non possiamo usare a nostra volta violenza nei confronti delle libere aspettative di parti anche consistenti degli ascoltatori e dell'opinione pubblica imponendo una riflessione a nessi logici che non possono essere quelli di tutti.
L'ho detto molto asetticamente, ma sapete che in realtà questa logicità estrema, apparente, si scontra col fatto che una notizia può arrivarci con un suo impatto emotivo, e non essendo noi dei robot la dobbiamo metabolizzare, smontare, ricostruire, "sceneggiare" (parola brutta, ma per intenderci), mandare in onda e magari anche commentarla. E' utopistico pensare che tutto questo avvenga con grado zero di commistione emotiva da parte nostra. Capita a volte di metterci anche noi stessi, forse sono i momenti in cui involontariamente diamo più calore alla notizia, le diamo un vettore che è contemporaneamente spontaneo e eticamente compatibile con quello che è il nostro ruolo.

Giulio Borrelli

"Andare dietro" la notizia: uno sforzo incompiuto

Mi pare giusta questa sottolineatura. E' evidente che noi compiamo di continuo un'azione di smontaggio e rimontaggio della realtà. Se oggi dovessimo raccontare questo dibattito in televisione, che ha tempi e ritmi e modalità diverse dal giornalismo della carta stampata, compiremmo anche essendo molto onesti e capaci un'opera di ricostruzione della realtà e quindi di per sé soggettiva. Se volessimo dar conto di questa giornata o addirittura di queste vostre giornate non potremmo ritrasmettere quello che è avvenuto, tutto ciò che è stato detto, dovremmo prendere comunque delle parti, ricostruirle, fare una sintesi. La sintesi, certo, parte da dati oggettivi, perché siamo onesti e cerchiamo di farla depurandola di aspetti ideologici, propagandistici, inquinanti, però pur sempre smontiamo e ricomponiamo una realtà. Se da due ore di dibattito tiriamo fuori un minuto, quella è un'opera comunque "manipolativa" nel senso migliore, avviene quotidianamente; questo sforzo non ha risultati sempre all'altezza della situazione, è un'autocritica che faccio a me stesso.
Questa ricerca esige di essere migliorata. Non stiamo parlando di televisione che vuol diffondere particolari valori, o tantomeno educare la gente, anche se in passato alla televisione, al servizio pubblico in particolare si attribuiva il compito di informare, educare e divertire; oggi il secondo obiettivo non viene più riproposto da nessuno. La televisione non ha una funzione pedagogica: descrive, rappresenta la realtà. E' in questa rappresentazione che dobbiamo fare uno sforzo ulteriore di ricerca e di approfondimento; non per abbellirla o raccontarla secondo schemi ideologici che non aiutano a comprenderla meglio, ma appunto per rappresentarla, decodificarla, spiegarla. Il problema è che non sempre la formazione dei giornalisti è all'altezza del compito che si propone, e questo riguarda gli strumenti culturali, la preparazione complessiva, l'esperienza sul campo, la selezione del personale giornalistico. (...)
Alcune volte si evidenzia un limite se volete culturale e professionale in questa ricerca. Certo, noi rappresentiamo le cose così come sono, però dovremmo addentrarci oltre, cercare di fare un po' tutti questo sforzo che in alcuni giorni riesce meglio, in altri meno. Andare dietro, ad esempio nella vicenda di Ocalan, significa indagare, domandarsi i perché, cercare di spiegare o perlomeno tentare un'analisi, non limitarsi a registrare solamente il curdo che si dà fuoco o il turco che promette eterna inimicizia all'Italia.
Nel raccontare la vicenda curda, può succedere di andare fuori dagli schemi ideologici, per cui il curdo o è cattivo perché è terrorista e trafficante di droga, oppure è buono perché lotta per la liberazione, per l'affermazione dei diritti sacrosanti di un popolo. Se rappresentiamo o aderiamo ad una di queste due tesi estreme probabilmente non comprendiamo la complessità della vicenda. Dovremmo cercare di rappresentare la complessità della realtà e le sue diverse sfaccettature, prendendo spunto dalle vicende quotidiane dai fatti di cronaca, nella misura in cui ne siamo capaci e sin dove è possibile. Quella italiana è una cultura della chiacchiera e poco dell'approfondimento, del confrontarsi civilmente. Soprattutto negli ultimi tempi è passata la cultura dell'urlo, del gridato che spesso sovrasta le cose che richiedono comprensione e approfondimento. Naturalmente un telegiornale non è un convegno, non è un dibattito, non ha due ore come oggi per discutere di un tema; in due ore noi ne facciamo quattro di telegiornali e parliamo di tutto quello che succede nel mondo. (...)

3. Come coniugare oggettività e soggettività?

Maria Nadotti

Ringrazio Borrelli perché ci presta il fianco a fargli una domanda secondo me centrale. Da una parte c'è la realtà, come lui ci ricorda, che se non è raccontata quasi non esiste: che cosa fanno gli informatori, gli scrittori, i film-makers, chi fa teatro, se non far diventare la realtà, "realtà" raccontandola? Racconto, montaggio, smontaggio, rappresentazione, decodificazione, tutte queste sono operazioni, appunto, di scrittura. Quella televisiva è una scrittura molto particolare perché ha un apparato, un dispositivo di cui si serve, la parola, parole testimonianza, parole commento, parole spiegazione, parole documento; e si serve di immagini, ma non immagini tout-court, c'è un grosso lavoro di montaggio, evidentemente, per cui si scelgono, si assemblano le cose, si mettono prima o dopo, si tagliano ecc. Se questo è vero, come credo, come si coniuga la soggettività (chi fa informazione ha un punto di vista), in tutta questa complessissima gamma di cose, con l'essere oggettivi? Come si bilanciano questa aspirazione all'obiettività, a raccontare tutto per tutti, e quella soggettività o opinione personale? La domanda è complicata ulteriormente da una postilla: due soggettività - in questo caso Mentana-Borrelli - due modi di guardare il mondo, e dall'altra parte un pubblico immenso fatto di milioni di persone stratificati e complessi a loro volta. Come coniugare allora complessità, soggettività e oggettività? Nel racconto, attraverso il racconto? E poi chi racconta cosa a chi? E come fa, tenendo conto poi dell'apparato televisivo composto da immagine e parola?

Enrico Mentana

L'obiettività e la completezza sono delle tendenze

Innanzitutto grazie della bellissima descrizione riguardo al montaggio, smontaggio, confezione, capacità di giustapporre o di contrapporre secondo schemi stilistici. Dobbiamo avere presente che, al di là dei limiti culturali, i giornalisti dei telegiornali si trovano a operare con dei tempi e delle casualità che li metterebbero al riparo da ogni annotazione di questo tipo. Qui non siamo alle prese con lo scrittore o persino con il traduttore che ha i suoi tempi per tradurre l'opera, qui le scadenze sono da un lato il fatto, dall'altro la sua rappresentazione nel telegiornale, un orario è fisso, l'altro è la variabile, il fatto può succedere quando gli pare e nella migliore delle ipotesi un giornalista ha quattro ore per partire dal fatto smontarlo e rimontarlo. Spesso l'insieme di casualità e necessità ci mette nella condizione di prendere le immagini quando arrivano e di metterle letteralmente in onda, metterci sopra due o tre concetti, frasi, nozioni, notizie che per altro spesso sono state acquisite da altra fonte e mal si giustappongono rispetto alle immagini che si vedono mentre le si mette in onda. Cerchiamo di tenere botta rispetto agli avvenimenti, di fare il nostro lavoro.
Qui entrano i discorsi dell'obiettività, dell'indipendenza, della completezza, tutti i paroloni che conosciamo perché ci siamo fidanzati con essi quando abbiamo cominciato a fare questa professione e con cui abbiamo sempre un rapporto di odio e amore. Sette anni alla guida di un telegiornale mi hanno fatto capire definitivamente che l'obiettività e la completezza sono delle tendenze, sono come l'orizzonte per un navigatore, anche se sai che ti batti con cose più realistiche. Devi saper tenere conto del punto di interesse prevalente che è quello del fruitore delle tue notizie. L'obiettività è impossibile, siamo chiaramente condizionati dalla nostra formazione culturale ed è questo che ci fa a volte flirtare e a volte respingere il diverso, perché abbiamo degli approcci che partono comunque dalla diversità di retaggi culturali. Per questo tentiamo di sposare il punto di vista avversario o di respingerlo, non abbiamo un approccio facilmente mediano. E' un condizionamento che ci deriva dalla nostra formazione culturale e dai nostri gusti, dal nostro inconscio, perfino. Non si è mai analizzato e non lo si sarà mai, forse è un lavoro un po' troppo minimale (e chi lo può sapere, poi), quanto di ciò che c'è nell'inconscio di chi è chiamato a una forte responsabilità può funzionare da catalizzatore di una serie di scelte. Bisogna essere spassionati, cercare il punto di vista di chi ti ascolta.
Faccio l'esempio della pedofilia. Noi affrontiamo questo tema a partire dalle situazioni estreme e con questo tipo di operazione noi operiamo una complessiva criminalizzazione di quello che è un istinto, una passione, un trasporto. E' un retaggio culturale: innanzitutto consideriamo tutti i pedofili - o questa è l'immagine che consegniamo - degli assassini di bambini; nella gran parte dell'opinione pubblica è questo che finisce per passare, se il discorso non viene adeguatamente contestualiezzato. Con questo esempio, il più estremo che potessi prendere in considerazione, noi dimostriamo che scegliendo un punto di vista prevalente tagliamo completamente l'altro. Vi sono temi su cui è più facile essere attenti, ma su gran parte non esiste alternativa. (...) Vi sono temi che toccano la sfera sociale, a volte la sfera psicologica in vari sensi. In questi noi inconsapevolmente operiamo una selezione che ci porta a parlare a quella parte stragrande ma non totalitaria - nel senso che non copre la totalità dell'opinione pubblica - e tagliamo completamente gli altri. Ma se il discorso del selezionare va sul sociale, se parliamo dei due terzi che come noi si mettono giacca e cravatta e non di quell'altro terzo che sta fuori dal cono di luce del benessere largo o del livello di sussistenza accettabile, quello è grave ed è su quello che dovremmo fare più attenzione.

4. Soggettivi e trasparenti

Giulio Borrelli

Lo sforzo della televisione è quello di darvi in contemporanea, o quasi, quello che accade o che sta accadendo. Questo naturalmente è un vantaggio e uno svantaggio: il vantaggio è della contemporaneità, l'illusione di essere presenti, di essere partecipi quando va bene, altre volte solo spettatori. Esserci, poter anche voi dire la vostra oltre che sapere. Ho partecipato qualche tempo fa a una ricerca organizzata con un focus group, che come sapete vuol dire mettere intorno a un tavolo 8 o 12 persone che rispondono alle domande di uno psicologo, il quale successivamente offre lo spunto per porre quesiti più complessi a un campione quantitativo della popolazione rappresentativa. Tra i partecipanti c'era chi diceva: qui va tutto peggio, la televisione ci racconta solo le cose che non vanno, c'è più delinquenza, più corruzione, più guerre... Ricordo che una signora, di 44 anni, rispose con estrema semplicità: "Vedete, non è che il mondo va peggio di prima, è che oggi lo sappiamo, siamo più informati".
Il problema è la contraddizione che si pone tra l'essere più informati e l'essere meno felici. La televisione non sempre ci rende felici, alcune volte ci rende più infelici di quello che saremmo se fossimo confinati solamente nel nostro ambito domestico o familiare. Nel momento in cui fa irrompere in noi la realtà della vita del mondo, ci mette di fronte alle sue brutalità e contraddizioni. E' evidente che occorre maggiore formazione, cultura della società, dei giornalisti in particolare, per permettere di capire e comprendere meglio. Ma è anche vero che se noi non le raccontiamo, le guerre ci sono lo stesso. Non possiamo illuderci che una volta finita la contrapposizione tra i blocchi est e ovest, tra l'ex Unione Sovietica e gli Stati Uniti il mondo è poi andato verso sorti progressive magnifiche e più pacifiche. Non è finita neanche la paura della bomba atomica o del disastro nucleare, sono tornate a galla le guerre combattute con le armi più tradizionali, con i carrarmati, i fucili, i coltelli, i popoli si scannano più di prima. La caduta delle ideologie, che pure è stato un fatto a mio giudizio positivo ed utile in questo secolo terribile e tragico sotto diversi aspetti, non ha portato a un mondo più pacifico. Oggi ci sono più guerre locali, regionali, tribali, etniche, interetniche. La televisione porta a galla tutto questo, e qualcuno turbato dice: "Ma come, all'ora di pranzo e di cena ci portate la guerra a casa?" Mi chiedo se vogliamo conoscere il mondo per quello che è, con tutte le sue tragiche contraddizioni o solo un mondo che rassicuri, rassereni i nostri pranzi quotidiani, serali o anche la nostra colazione mattutina? Questo è il punto, questa è la contraddizione della realtà che viviamo.

La contraddizione dello "storico del presente"

Certo, il problema è come tutto questo viene rappresentato. Ritengo sia molto positivo riuscire ad organizzare un'agenzia (il riferimento è alla proposta di un'agenzia per l'informazione sociale lanciata durante Redattore Sociale ndr) che metta sul mercato dell'informazione più notizie riguardanti il sociale, gli emarginati, i soggetti deboli, perché dalle altre parti i soggetti forti sono già organizzati. Giustamente alcune volte lamentate la scarsa o l'insufficiente attenzione per i temi sociali, per l'infanzia ad esempio, ma anche la politica lamenta un'insufficienza, sostiene che se ne parli troppo poco. A mio giudizio già ne diamo tanta, ma lo sforzo di ridurla e di riportarla ad ambiti più giusti, più ragionevoli non è che trovi consensi unanimi o applausi dappertutto, né appoggi da altre parti.
Sarebbe opportuno arricchire la pluralità delle fonti, delle sollecitazioni; se riusciste a mettere in piedi una vostra organizzazione, un'agenzia che permetta a tutto quello che riguarda altri aspetti della vita di entrare più nell'informazione, aiutereste il pluralismo della nostra società ed anche chi fa questo mestiere a selezionare e decidere. Fermo restando che il nostro è un tipico lavoro dove esiste la mediazione, che non vuol dire trovare sempre un punto di giusto equilibrio; l'opera di scomposizione-ricomposizione della realtà è tipica di un lavoro da telegiornale, e per la rapidità e per l'incalzare degli avvenimenti, per il fatto che di ogni avvenimento noi dobbiamo cercare di dare l'essenziale, dovremmo se non altro farla al meglio. Abbiamo però implicita nel nostro stesso mestiere una contraddizione che veniva palesata bene da un nostro illustre collega da poco scomparso, Alberto Cavallari, che era anche uno storico del giornalismo; dando la definizione del giornalista egli diceva: "è uno storico del presente, anzi è uno storico dell'istante": capite la contraddizione? Lo storico è qualcuno che tratta avvenimenti compiuti: sapete che certi archivi si aprono solo dopo 50 anni, quindi il lavoro dello storico in genere è molto retrospettivo, almeno devono essere passati 50 anni, se è passato qualche secolo tanto meglio, perché ci sono fonti, c'è il distacco critico da quegli avvenimenti. Se lo storico dell'istante è il giornalista, che invece deve raccontare momento per momento - con tutte le sue implicazioni emotive, alcune volte sentimentali oltre che culturali - ogni singolo avvenimento, capite difficoltà e anche la contraddizione del mestiere. Questo non può non avvenire che attraverso una serie di filtri; se ad esempio scomponessimo questa riunione e provassimo a raccontarla in un minuto è evidente che le persone presenti ce la racconterebbero in modi diversi. Lo stesso succede se uscendo di qua ci capita un incidente stradale: se chiamiamo tre persone che vi hanno assistito ci racconterebbero lo stesso incidente stradale in tre modi diversi, e questa è la ragione per cui le compagnie di assicurazione o il giudice spesso hanno difficoltà ad arrivare a una sintesi o ad emettere una sentenza che rappresenti e giudichi quello che è realmente accaduto.
Lo sforzo professionale è di cercare di mettere il più possibile sullo sfondo questi elementi - che comunque permarranno sempre - cercando se non altro di usare l'onestà, di essere il più possibile distanti da tutti i condizionamenti, le interferenze, le difficoltà di arrivare a conoscere i fatti. Spesso possiamo fare solo delle congetture, per sapere cosa sia successo realmente bisogna aspettare, far svolgere le indagini. E' pur vero che spesso raccontiamo anche mentre le indagini sono in corso, alcune volte prima ancora che siano cominciate, ma d'altra parte quello è l'avvenimento, la notizia, ed è su quel terreno che dobbiamo misurarci. A me pare che la concezione comune diffusa (in questo penso ci siano dei notevoli punti di contatto con Mentana) possa essere definita "una concezione socioliberalprofessionale"; si tratta poi di far vivere quotidianamente questa interpretazione sapendo che il metro è quello dell'onestà del proprio lavoro.
Lotta di liberazione di un popolo, terrorismo e traffico di droga, si mescolano, qual'è il bene, qual'è il male? Lo storico, quando giudicherà tra un po', affermerà che naturalmente (è spesso così) dei popoli per affermarsi hanno dovuto uccidere, hanno contrabbandato armi droga e hanno compiuto delitti, si sono scannati. Oggi affermare queste cose è un po' più difficile sull'onda della contemporaneità dell'evento. Lo sforzo è di rappresentare i diversi punti di vista per aiutare a comprendere la complessità della questione del popolo curdo e del perché Ocalan, magari non per caso, è finito a Roma.

Maria Nadotti

Apprezzo che questi due signori si somiglino fondamentalmente. Stanno dicendo delle cose molto simili e una molto importante: la trasparenza della soggettività. Chi fa informazione dovrebbe farci capire sempre di più. Mentana secondo me è molto trasparente, anche nel suo telegiornale; il TG1 leggermente meno, tende più ad una presunta neutralità. Se chi fa informazione facesse capire che quell'informazione è mediata appunto da un retroterra culturale, da una formazione, da emozioni soggettive ecc., credo che saremmo a metà dell'opera, perché come spettatori e spettatrici potremmo fare altrettanto. Diffido dei notiziari che fanno finta di asserire la verità.

Enrico Mentana

Vorrei rappresentare in questo caso l'avvocato del TG1 e della Rai. Fare un telegiornale privato dà un vantaggio: quello d'essere amministratori a lungo termine di un prodotto che si può plasmare. Borrelli eredita ere geologiche, stratificazioni, ma non soltanto nella redazione o nella storia del suo giornale, ma anche nelle attese del pubblico e dei telespettatori.

Maria Nadotti

Qual è la famiglia media italiana?

Guardo alternativamente tutti i telegiornali e tutti mi vanno bene. Sappiamo che ci sono dei vincoli, però credo che sia molto utile portare allo scoperto le soggettività in modo trasparente. E' inevitabile per me tornare al pedofilo: Mentana ieri ce ne ha parlato a lungo, ci ha ricordato che il suo telegiornale era costruito in parte su questa notizia. Vorrei fare ancora un salto indietro. Ai telegiornali uno e cinque della sera precedente, quando il ragazzino di Frosinone era semplicemente svanito, non c'era ancora il cadavere né un criminale in giro, c'era solo un bambino di 11 anni che non era rientrato, cosa abbiamo visto? Che un bambino era sparito: ci hanno detto di dove era, quanti anni aveva, ci hanno fatto vedere una fotografia, detto che usava una bicicletta e che aveva salutato i compagni dicendo che tornava a casa, poi ci hanno fatto vedere una donna, una sgradevolissima donna che piangendo e urlando: "restituitemi mio figlio, non posso vivere senza mio figlio", sembrava lanciare anche un messaggio a qualcuno. Questa era la testimonianza della protagonista; poi su entrambi i telegiornali c'era un commento, ci venivano date delle informazioni a lato, ci veniva detto che questa donna singhiozzante e vociferante era anche implicata in fatti di usura ed era stata in carcere recentemente e il fratello tuttora era in carcere, che era separata dal marito che si trovava ora a Dublino. Qual era la notizia? Era di un ragazzino che si era dato alla macchia, però ci venivano dette delle altre cose. 
Ritorno all'intervento di Mentana quando diceva - e apprezzo la sua sincerità - adottiamo il punto di vista della famiglia, definendo questo punto di vista la medietà. Mi sembra di capire che è un punto di vista accettabile e discutibile nello stesso tempo, perché credo che molti di noi non si sentano esattamente coincidenti con quel punto di vista, intendendo per punto di vista della famiglia media italiana quello della famiglia felicemente coniugata, senza contraddizioni, senza divorzi, senza separazioni, senza atti di piccola criminalità in corso, insomma una famiglia che forse non esiste. Questo è il problema. Cos'è mai questa famiglia media italiana? Qual è il risultato di un'informazione fatta in questo modo, in assenza di vera notizia? Il bambino poteva essere semplicemente andato a dormire in un fienile perché si era stufato di questa madre tremendissima, oppure poteva aver tentato il viaggio in treno per raggiungere il padre a Dublino, non lo si sapeva, eppure immediatamente venivano fuori due cose: sospetto di pedofilia in corso e famiglia disfunzionale. Questa non è informazione! E' molto di più, è quasi ai limiti della persuasione. Un equilibrio tra informazione e piccola persuasione sotterranea. E' legittimo farla, per carità, però che sia chiaro che è quella, che il giornalista ha delle sue emozioni e delle sue paure che poi tira fuori e che ogni tanto prendono il posto della notizia; ma se vengono fuori come tali a me va bene.

5. I Valori condivisi

Enrico Mentana

(...) Devo contestare alla radice un fatto: noi non ci siamo occupati del bambino prima del ritrovamento del cadavere, non ce ne siamo occupati proprio perché la storia altrimenti sarebbe stata condizionata da alcuni dati di contesto, sicuramente Borrelli ne ha avuto la stessa impressione. Qui non era la vicenda lineare che ci faceva compartecipi di un dramma, era una storia che poteva essere interpretata in vari modi, una storia sgradevole; del resto non esiste un codice per cui ci si può occupare della scomparsa di un bambino solo se è biondo con gli occhi azzurri e il padre fa il professionista e ha la fedina penale immacolata. Le storie succedono più facilmente dove l'ambiente è degradato, escono dalla routine di una vita bella da "mulino bianco", da spot pubblicitario; più ci si allontana da quello stereotipo, che per fortuna quasi non esiste, più si è a rischio di contaminazione delle "brutture esterne". Il discorso inevitabilmente va a cadere su una serie di valori condivisi su cui si fonda indiscutibilmente la nostra società.
Io non sono certo il portatore di un'esperienza edificante da questo punto di vista: non sono sposato, ho dei figli. Tutti pensiamo che un bambino dovrebbe crescere in un ambiente familiare sano che lo metta a contatto progressivamente con le caratteristiche salienti della società, attraverso un'istruzione ad esempio. Nessuno meglio della famiglia, del padre e della madre naturali possono tirare su questo bambino. Dire queste cose non significa essere arruolati d'ufficio sul fronte dei perbenisti o dei moralisti, vuol dire parlare di quello che siamo stati, di come siamo cresciuti e di come vorremmo crescere. Penso che nessuno, solo perché è impegnato nel recupero dei tossicodipendenti, ritiene che ci siano valori positivi nella tossicodipendenza. Vorrei che si pensasse che il punto di vista è la società, con i suoi drammi, gli eroi che tentano di fronteggiare questi drammi (spesso sostituendosi allo stato), la società con le sue vittime che sono soprattutto vittime e non devianti cattivi. Tuttavia la strada maestra, questa società, è fatta soprattutto di ciò che vorremmo, avremmo voluto essere, siamo stati, speriamo che i nostri figli siano.
Sono questi secondo me valori condivisi, accettabili o non accettabili. Valori prevalenti in cui mi riconosco, su cui sono in grado di spendere in piena coscienza il mio ruolo di informatore, non educatore ma informatore, so che su questo parliamo la stessa lingua. Sono cose che non ci si può vergognare di dire e che non si possono trattare con indifferenza. C'è stato un periodo nella nostra società, che ho vissuto e anche in modo non neutro, nel quale si contestava l'istituzione famiglia, ritenendola nella sua costruzione, nei suoi ruoli come un'ipoteca anche a quello che si ritiene l'ordine della società, da sgretolarsi o su cui mettersi in contestazione. Però la ricomposizione di questa società ha riportato intatto questo valore e non ho vergogna a parlarne.

Giulio Borrelli

Rappresentare la contraddittorietà

Ho aspettato a rispondere perché volevo vedere dove ci portava la nostra moderatrice, adesso che l'ho capito sono agevolato. Bisogna che nei dibattiti i punti di vista si sviluppino per capire eventuali assensi o dissensi, le cose che si condividono e quelle che si condividono meno. Il problema non è, per quello che ci riguarda, la sincerità o la trasparenza, ognuno può giudicare se un telegiornale o un lavoro o un professionista sia più o meno sincero o trasparente.
Quando prima parlavo di formazione culturale intendevo che ognuno interpreta la realtà secondo i propri schemi culturali; era una definizione di carattere generale, anche astratto, che riguarda un po' tutti, non a caso citavo l'incidente stradale al quale può assistere chiunque di noi in qualsiasi momento. Per quello che riguarda il Tg1, il nostro obiettivo editoriale è quello di rappresentare i diversi punti di vista, o se preferite di dar conto anche dei diversi frammenti della realtà. Naturalmente vanno visti con un'ottica un po' più larga di quella del giorno per giorno. Ritengo che abbiamo fatto bene a seguire dall'inizio la vicenda [di Frosinone], avremmo anche potuto sbagliare, avremmo anche potuto non darla; sono cose opinabili, questa non è una scienza esatta ma, ripeto, in quel momento il fatto si presentava in quel modo, con quelle caratteristiche che comunque ne facevano una notizia: un bambino era scomparso in un certo ambiente dove erano impliciti una serie di elementi di contraddizione. Probabilmente abbiamo rappresentato solo alcuni aspetti di questa contraddizione, alcune parzialità, ma man mano che gli elementi di parzialità si vanno arricchendo ci sarà maggiore completezza rispetto alla necessità in cui ci si ritrova a fare lo storico dell'istante che prende solo frammenti della realtà, se volete parziale, contraddittoria.
Il compito del giornale è anche quello di riconoscere onestamente di aver sbagliato o smentire quello che si è detto il giorno prima, perché andando dietro al quotidiano o all'effimero o a qualcosa che è già caduco di per sé - perché la materia di cui spesso ci occupiamo è caduca - noi contribuiamo a dare dei pezzettini. Il nostro compito non è tanto quello di dichiarare aprioristicamente; il nostro telegiornale non veicola, non ha un punto di vista ideologico o preliminare. Questo è un simpatico, semplicissimo appunto che rivolgo alla nostra moderatrice. Naturalmente è liberissima di guardarli tutti i telegiornali e di guardare chi meglio crede ma se enfatizziamo quest'aspetto del dichiarare il proprio punto di vista, allora penso che lei sia tra le sostenitrici, le ammiratrici del Tg4 di Emilio Fede, talmente trasparente che alcune volte risulta essere nudo. Per me essere trasparenti vuol dire dar conto della complessità della realtà, della sua contraddittorietà, della diversità, cercare di rappresentare il più possibile in ogni vicenda tutti i punti di vista che magari alcune volte non sono raccontabili perché mancanti di elementi. Diverso è il discorso sui valori condivisi: ritengo che i valori scritti nella prima parte della nostra Costituzione siano i valori che fanno la nostra comunità associata. Al cittadino utente - a chi guarda il nostro telegiornale, a chi si informa - dobbiamo dare degli strumenti di valutazione e di scelta perché sia consapevole e responsabile e scelga autonomamente sulla base dei fatti. Dovremmo cercare di rappresentare, invece alcune volte ci si vuol far dire, ci si vuole attribuire delle funzioni, degli scopi non dico ideologici, comunque pedagogici, educativi, che non sono propri del nostro lavoro e della nostra funzione. Rappresentare la opinabilità, la contraddittorietà, la diversità di tutti i punti di vista, questo è il nostro sforzo.

6. L'allargarsi dei punti di vista

Maria Nadotti

(...) Vinicio Albanesi ha un progetto di agenzia, un tentativo di creare un'altra fonte che dia voce ad altre soggettività. Non sono molto convinta dell'idea di un'agenzia, vorrei ragionarla di più con lui e con voi perché mi sembra che il cosiddetto mondo che mi rifiuto di chiamare degli ultimi - perché non sono per niente convinta che lo sia - rappresenti la stragrande maggioranza degli umani in questo momento nel globo. James Baldwin, scrittore africano-americano, diceva intorno al 1961 da Parigi che il mondo non è più bianco e non lo sarà mai più; quindi, quando noi qui in Italia mettiamo tra gli ultimi i colorati, di cosa stiamo parlando? Quando vengono fuori cose come quella successa nell'incontro di ieri con Mentana, in cui i cosiddetti ultimi, o i rappresentanti degli ultimi, dicono: "Perché non parli abbastanza di noi?", secondo me nel loro lamentarsi stanno per l'ennesima volta proponendosi come oggetti e non come soggetti.
E' pensabile, nelle vostre strutture attuali di informazione, usare non contenutisticamente ma come materiale di prima mano delle realizzazioni di videoamatori? Vi faccio un esempio che per me resta clamoroso nella storia delle televisioni, il caso Rodney King. Anno 1992, Stati Uniti di America, un poveraccio nero viene massacrato di botte da quattro poliziotti, per quell'occasione sfortunatamente tutti e quattro bianchi; quasi lo ammazzano di botte, ma la cosa interessante - perché il fatto in sé non era nuovo, un cane che morde un umano è una cosa molto comune negli Stati Uniti, pertanto che un nero venga picchiato da bianchi, non è quello che fa notizia - è che la notizia nasce perché in un appartamento proprio sopra il fatto che stava avvenendo c'era un videoamatore che ha preso immediatamente la sua cinepresa e ha filmato tutto inchiodando i quattro poliziotti alla loro responsabilità e questo materiale grezzo di primissima mano è stato consegnato alle televisioni ed è andato in onda in tutti gli Stati Uniti e anche fuori. La cosa ha fatto esplodere i ghetti neri di tutta America, hanno tenuto a bada Harlem per miracolo. Sarebbe ipotizzabile avere degli spezzoni nei vostri notiziari che includano non il discorso "su" ma il discorso "di"?

Enrico Mentana

Il discorso "di" è un'altra cosa. Bisogna essere molto chiari: per caratteristiche di estrema esiguità di mezzi, il telegiornale che dirigo è fatto in buona parte di immagini che sono girate da terzi, ivi compresi evidentemente dei veri e propri dilettanti della ripresa televisiva. Da questo punto di vista penso che di fronte al grande caso tutte le televisioni del mondo, come è successo per il caso Rodney King, sarebbero pronte a mandare in onda immagini girate da chiunque. Anzi, siccome la gran parte dei fatti ha un'origine temporale casuale - nel senso che non si può stare 24 ore al giorno a monitorare, anche perché è piuttosto iettatorio (dicono che lo facciano i satelliti americani dall'alto) - succede che per la gran parte delle cose che accadono speriamo ci sia qualcuno - turista o cose di questo genere - che con la sua cinepresa ha girato qualcosa. Nei casi drammatici o tragici che hanno un'origine non casuale lo sperano anche gli inquirenti e le forze dell'ordine; mi ricordo a tal proposito, che nella telenovela vera e propria di Ustica, a un certo punto durante le indagini sono andati a cercare le coppie che si sono sposate quel giorno perché essendo classico a Napoli fare la fotografia con dietro il golfo, si poteva vedere se quel giorno davvero la portaerei americana era ormeggiata.
Diverso è dire utilizziamo l'autoproduzione. Come dicevo noi abbiamo purtroppo una estrema esiguità delle fonti, per dei condizionamenti che sono anche economici, ma non nel senso che abbiamo pochi soldi (per come è costruita la fabbrica delle informazioni siamo all'80% Ansa-dipendenti): noi che facciamo informazione televisiva siamo dipendenti per le immagini del mondo al 100% dai circuiti internazionali, che sono americanocentrici o al massimo eurocentrici, e che quindi tengono al buio gran parte del mondo se non per casi eccezionali o di gravi sciagure. Ad esempio, succede una cosa terribile in un paese africano, un oleodotto dove probabilmente andavano a cercare di tirar fuori il petrolio ha dato una vampata terribile, ha suscitato una tragedia di dimensioni raccapriccianti, allora è probabile che dopo due giorni arrivano pure le immagini. Per quanto riguarda l'Italia, chi come noi non ha la rete di copertura locale che hanno i TG della Rai, la dipendenza è anche nei confronti di chi è minore: ad esempio, l'emittenza locale che è molto capillare e grazie alla quale (alcune emittenti locali sono anche brave a fare il loro lavoro) c'è la possibilità che ci sia statisticamente più copertura di quello che succede nel territorio. Ebbene, se a tutte queste pochissime opportunità se ne affiancasse un'altra, sarebbe un vantaggio enorme. E' ovvio che in quel senso sarebbe un arricchimento benemerito, utile per tutti, più punti di vista ci aiutano e nessuno di noi è così superbo da dire: "non ne ho bisogno".
Il discorso, fatto a chiare lettere in amicizia, è economico e professionale. E' necessario creare una leva di giornalisti, supportati da mezzi sufficienti che li alimentino quotidianamente in modo da acquisire un vero rapporto di fiducia con chi fa informazione tutti i giorni. (...) E' un lavoro che esige tantissime risorse e che poi espone ad altre soggettività perché si delega, si entra in un percorso a volte ancora più discutibile. Perché se c'è un altro difetto che abbiamo è che molto spesso siamo obiettivi per non scottarci le mani.

Giulio Borrelli

Le buone notizie non pagano

La realtà è complessa e complicata, alcune volte non ci si intende perché ognuno vorrebbe raccontarla, o vorrebbe che si svolgesse secondo il suo punto di vista, i suoi interessi, la sua persona. E' legittimo e naturale che ognuno aspiri e si batta per questo, però inevitabilmente la sua visione del mondo deve confrontarla con quella degli altri. Nel caso in cui ci sono delle informazioni che vengono da altre fonti, naturalmente verificabili e trasparenti, le si può e si deve mettere a confronto, e non c'è dubbio che questo darebbe maggior spessore e completezza al nostro lavoro. I problemi però sono quelli che diceva Mentana, e fra questi c'è anche il problema economico. Qualcuno ha provato a fare informazione solo sul bene o sulle cose che vanno bene, c'è stato in Svizzera, due o tre anni fa, un piccolo editore che aveva pensato di fare un giornale in cui si davano solo le buone notizie: è andato in edicola sei giorni, al settimo non è arrivato. Questo la dice lunga su come non sia solamente l'Italia ad amare la chiacchiera e su come anche in una normale comunità dove accadono vicende più o meno normali, comuni, come nella civilissima e tranquillissima Svizzera, un'iniziativa editoriale basata solamente sul racconto delle opere edificanti non ha avuto successo.
Naturalmente immagino che questo non è quanto si propone l'agenzia. Le immagini dell'episodio americano citato erano eccezionali, tra l'altro rilanciate dalle agenzie internazionali, e chiunque avesse ripreso in quel momento quell'avvenimento - anche se non perfetto dal punto di vista della qualità, del livello dei colori e dei suoni - l'avrebbe comunque trasmesso per via della eccezionalità del fatto e della portata della notizia. Per quanto riguarda il bambino ammazzato, è vero che ce ne siamo subito interessati, però non abbiamo dato solo quella notizia, per esempio abbiamo raccontato un'altra storia dove due anziani, lui 90enne e lei 72enne, si erano conosciuti e innamorati, si parlava di un'affettività, se non una sessualità, compiuta anche in età avanzata, anche per gli ottantenni. Però, vedete, nel racconto che facciamo oggi, il problema è il ragazzo ammazzato e il sospetto pedofilo. Ci sono anche racconti di storie più normali, più tranquilli, alla portata di quell'altro 90% che vive la vita di tutti i giorni.

7. Conclusioni

Maria Nadotti

È vero che la grande narrativa, la grande letteratura, i grandi romanzi oggi li fanno i giornalisti e dunque si spiega questa fame di sangue, lacrime, sesso, le materie basse che fanno della grande narrazione quello che è? E se è vero, come muoversi in tutto questo?

Enrico Mentana

Credo che esista una narrativa giovane, figlia dell'immagine che è quella dei telegiornali, di questa società e di derivazione americana; noi la chiamiamo pulp, ama i sapori, gli ingredienti forti anche se si trovano poi delle note di tenerezza. In realtà lascia immaginare che stiamo parlando di un flusso narrativo di breve periodo, ma lascia intravedere dell'altro. Non possiamo dimenticare che i grandi successi, comunque li si giudichi, sono tipo "Va dove ti porta il cuore", transfert completo rispetto alla rudezza, alla crudezza e a volte anche alla impietosità della realtà.

Giulio Borrelli

Amo la realtà e la finzione. Penso che spesso, quando il racconto narrativo si arricchisce anche di connotati realistici, c'è un vantaggio sia per il racconto che per la narrativa.

Vinicio Albanesi

I passaggi epocali che non sono percepiti

Sia Borrelli che Mentana sono stati in queste due ore molto onesti e per questo li ringrazio. Sono stati anche stimolati adeguatamente e mi hanno fatto capire una cosa che penso si possa condividere: hanno ribadito con varie parole di essere dei trasmettitori, di non avere dei pregiudizi, delle letture preconcette e di regalare la realtà complessa.
A me sono sorte due domande. La prima: la realtà quale? Quella che l'Ansa o altri dicono che sia realtà o la realtà che invece si vive? Faccio degli esempi: gli immigrati erano un problema nella metà degli anni 80, siamo andati avanti per 10 anni con gli sbarchi più o meno clandestini e con forme di allarmismo, abbiamo oggi scuole che si reggono perché hanno il 10% dei bambini extracomunitari, storie della Lombardia, storie del Veneto, dove la popolazione è a crescita sotto lo zero. Allora mi chiedo: perché i lanci dell'Ansa non hanno fatto emergere la realtà così com'era? C'è la responsabilità di un passaggio epocale che di fatto, attraverso una serie di lanci e attraverso una serie di drammatizzazioni, non viene recepito?
Oggi la medicina allunga la vita, chi ha un cancro ha buone probabilità di cura ma resta 'maldestro': ci sono oramai decine di migliaia di cittadine e cittadini che hanno avuto il cancro, sono normali ma non sono normali. Un fenomeno assolutamente nuovo perché prima si moriva e quindi i problemi erano risolti, disgraziatamente ma erano risolti. Ora, per far passare questa notizia, io che cosa mi debbo inventare? Non ho nulla, perché non è una notizia che uno campi male e non è nemmeno tanto drammatico da poter essere notizia.
Altro esempio: le nostre ragazze sono anoressiche e bulimiche, è un disagio che sta crescendo che si manifesta con certe forme. Questo lo dico io che sto sulla strada e quindi annuso, non ci sono nemmeno i dati, le cure non sono ancora appropriate, siamo all'inizio di un fenomeno. Quando probabilmente, non me lo auguro, il fenomeno del disagio psichiatrico dei minori o degli adolescenti esploderà, che cosa dovrò fare per poter anticipare di un attimo la notizia e avere in qualche modo predisposto quello che è possibile per venire incontro a questo problema?
C'è un corto circuito dato da due elementi; quando i direttori dei due più grandi telegiornali d'Italia dicono: noi siamo trasmettitori, la domanda è duplice; siete trasmettitori di quale corrente? La corrente d'origine? Questa corrente dove arriva? E che effetti produce? Trattare di pedofilia, purtroppo in questi ultimi anni significa anche fare cultura, non significa solo raccontare il fatto. Far passare attraverso le immagini l'approccio o un commento, per quanto voglia essere indipendente, significa essere trasmettitori di fenomeni dei quali non sappiamo bene l'origine.

Io non voglio parlare degli ultimi

Dal loro dialogare emerge un'altra verità: è che probabilmente noi attribuiamo a loro una funzione che non hanno o non possono avere da soli, non si può chiedere a un direttore di giornale di essere il pedagogo d'Italia. E' anche vero che se Borrelli e Mentana dicono una parola al Tg delle 20.00 non è come se la dice don Vinicio Albanesi all'interno della sua comunità.
Questo nodo in qualche modo deve essere riaffrontato, nell'evoluzione dell'essere della comunicazione. Siamo arrivati a dire di non essere più trasmettitori di ideologie preconcette. Il passaggio successivo credo sia quello di dire che noi siamo dei trasmettitori intelligenti, sognatori, avanzati rispetto a certe posizioni che magari l'opinione pubblica ha.
Per concludere credo che la proposta dell'agenzia sia veramente un sogno. E' senza dubbio necessario che questa fonte di notizie vada aggiornata, perché - l'hanno detto anche loro - le notizie oggi sono di origine americana e al massimo europea. Il mondo è fatto anche di America e di Europa, ma è fatto anche di altri continenti (...).
Un'ultima annotazione: io non voglio parlare degli ultimi. Quando parlo di donne separate ridotte in povertà, non sono le ultime: sono ridotte ultime, perché se il marito è scappato con una ventenne e non dà gli alimenti, una donna di 35-40 anni con due figli è ridotta in povertà; quando le popolazioni di Asti hanno avuto l'inondazione sono state ridotte in povertà; anche se c'è la gerontocrazia in giro per il mondo, quando parliamo di anziani anche lì non si parla di ultimi. Non mi piace parlare degli ultimi, mi piace parlare invece di un rapporto diverso della normalità in cui ciascuno di noi può trovarsi, perché se oggi stai bene, domani uscendo puoi avere un incidente e da normale diventare disabile oppure rimanere normale.
Saluto tutti i nostri amici, sono stati due giorni belli, debbo essere riconoscente per questo atto di lealtà e di umiltà, con cui due direttori di telegiornali sono venuti a discutere da noi senza particolari richieste o percorsi ma invitandoli semplicemente.
Vi lascio questo sogno e vi do appuntamento al prossimo anno. Chi non sogna muore, ed io voglio vivere, così come tutti voi.

* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.