Conduce Roberto Natale
Roberto Natale - segretario UsigRai*
Il sogno di un'agenzia nasce dalla delusione per come i mezzi di informazione hanno risposto? Può essere inteso come possibile ritorno in una dimensione più interna dopo aver tentato di incidere?
Vinicio Albanesi - Presidente CNCA*
Fornire strumenti adeguati di lettura
Gli operatori dell'informazione, come singole persone, ci ascoltano, sentono i problemi, capiscono; è solo che sono serrate in un meccanismo dal quale - lo diceva il segretario della federazione - non sono in grado di uscire. Abbiamo instaurato un rapporto molto corretto con agenzie come l'Ansa, l'Asca, l'Adn Kronos, con una serie di agenzie che si occupano di sociale. Persone venute al seminario, sensibili e intelligenti, lì passano e lì però rimangono. Alcune con le quali abbiamo rapporti più stretti, instaurati sugli interessi, problemi e sensibilità comuni, debbono ogni volta non solo metterci quel minimo di sale necessario ma inventarsi qualcosa di dirompente. Faccio un esempio: ho detto che per i tossicodipendenti occorreva un intervento, l'ho chiamato intervento terapeutico attivo, una specie di trattamento sanitario obbligatorio che detto da me - da uno che per 30 anni ha sempre negato interventi coercitivi - doveva essere sconvolgente. La Stampa gli ha dato otto righe e Repubblica dieci. Uno che deve dire? Se un contenitore è di plastica non lo puoi mettere sopra il fuoco perché brucia, si dissolve. Per sapere della politica estera del mondo ho dovuto abbonarmi a Le monde. Puoi comprare 25 giornali, non tiri fuori un ragno dal buco. Ci sono degli studi che mi sono arrivati recentemente sulla crisi economica asiatica, della quale non trovi un'analisi dettagliata, coerente, scientifica. Ogni tanto leggi un articolo: il governo del Giappone ha barato per 300 milioni di dollari con le banche centrali. Allora strabuzzi gli occhi e dici: che succede? Ma sarà vero, sarà falso? Sono oramai 30 anni che vado alla disperata ricerca di qualcuno che mi spieghi il bilancio dello Stato che sarà complesso ma è pur sempre un bilancio, fatto di numeri. Facciamo la finanziaria e non ci si capisce niente. Stesso discorso vale magari sugli investimenti, sull'occupazione. Hai un figlio di 30 anni che non sai che mestiere fargli fare e non capisci non comprendi; hai un problema grosso come una casa e nessuno t'aiuta a risolverlo.
Far emergere la vera storia
La faccio un po' drastica ma sono stanco di sentirmi dire "dammi una storia bella". Perché devo dartela io e che devo raccontarti? Chi è immigrato, ha l'AIDS, che ha violentato la sorella? Ogni volta poi devo alzare il tono perché se presenti un ragazzo con l'AIDS dicono: capirai ce ne sono 30.000; una ragazza violentata, oh ma sono tutte violentate. Ad un canale TV nazionale abbiamo proposto: "ti diamo storie anche drammatiche, quelle a lacrime e sangue, però tu devi seguirci, prendiamo spunto da una storia e facciamo un percorso, tutto fino ai nonni e ai bisnonni.". Non li abbiamo più risentiti.
Per parlare di deboli a chi ci rivolgiamo, alla sensibilità dei singoli operatori? Dobbiamo fornire strumenti di lettura; allora come la sogniamo questa agenzia? Che se parliamo di curdi ti diciamo quali sono gli indirizzi utili, ti facciamo parlare con i loro ragazzi, li intervistiamo dalla Germania, dalla Svezia, dalla Francia, diamo dettagli su quelli che sono sbarcati a Taranto. Ti raccontiamo le storie dei bambini, delle madri. Ci sono fenomeni, come ad esempio quello dell'entroterra appenninico che sta morendo, dall'Emilia Romagna scendendo giù fino al Molise e la Basilicata, di cui nessuno parla mai. Intere popolazioni muoiono e nessuno dice qualcosa.
Fausto Spegni - Rai International*
Vende la paura
Non siamo migliorati né peggiorati, ci sono delle curve in alto e in basso. Lavoro alla Rai e non mi sento troppo funzionario come sono stato descritto. La rappresentazione di tutti i giornalisti intelligenti, dai direttori fino all'ultimo redattore, presuppone tutti stupidi i lettori e i telespettatori. Continuo a credere che gli stupidi e gli intelligenti siano mescolati un po' dappertutto e che sia necessario ragionare su questo, altrimenti il meccanismo infernale non si spiega. Se riflettiamo sul pubblico, sul consumatore, mi sembra che abbia una grande ansietà di storie, di fatti, di soluzioni in bianco e nero. Ma che cos'è che vende? Più ci ragiono e più mi accorgo che vende la paura, perché paura e rassicurazione sono strettamente collegati. Cerco di spiegarmi. Come mai negli Stati Uniti, che sono i maggiori produttori di films, di fiction, prevalgono i films terrorizzanti, estremizzanti? Il diverso fa paura, il diverso che fa paura vende. Conoscere l'altro elimina molte paure ma la cronaca bianca, l'eliminazione della paura non vende. Questo perché si vuole essere rassicurati della propria. Chi ha paura non si muove, conserva la situazione com'è ed è rassicurato nelle proprie abitudini e certezze. Mi sono occupato quasi a tempo pieno per un periodo, di immigrazione e facevo una trasmissione che abbassava il livello di paura, aveva un alto ascolto ma diventava conflittuale: è stato deciso allora di eliminare il conflitto. C'è un grande bisogno di "tranquillanti" è molto più tranquillizzante l'immigrato che fa paura perché è diverso ed è tranquillizzante non mettersi a ragionare su quello che è l'inevitabile cambiamento che avremo.
Non sono un pezzo di storia ma continuo ad essere una scheggia di cronaca che da 30 anni fa il giornalista, continuo ad essere interessato a certi temi e in maniera altalenante ne parlo. Vedo che anche il pubblico ha una sua costante, il pubblico - questa è una riflessione che veniva fatta alla fine dell'800, primi '900, in Inghilterra - che si continua ancora oggi a sognare in un paese dove grosso modo la stampa è libera. Si dice che il pubblico compra il giornale che riflette le sue opinioni, nessuno farebbe un giornale che entra in conflitto con i propri lettori. Nel frattempo qualche cosa è cambiata. Si dice che i ritmi sono più veloci; il tempo a disposizione minore; la capacità di attenzione diminuita e il ragionamento che porta via del tempo può durare come massimo 12 minuti, l'intervallo tra una pubblicità e l'altra.
Elvira Serra - Scuola di giornalismo Luiss Roma*
Molte storie sono montate dai giornalisti; si è fatto riferimento al caso Di Bella: ma se del caso si è parlato tanto è perché i lettori erano interessati. E comunque il parlarne ha posto l'accento sull'esistenza delle terapie alternative, sull'opportunità o meno di finanziarle, sul business che c'è dietro alle aziende farmaceutiche. Al di là dell'efficacia o meno della cura sono state sollevate una serie di questioni altrimenti sconosciute. Montare una storia a volte non significa fare soltanto polverone.
Cristiano Lucchi - L'Altracittà, Firenze*
Scrivo sul Tirreno che è un giornale del gruppo l'Espresso sulla costa toscana e ho fondato con un gruppo di ragazzi a Firenze l'Altra città dove cerchiamo di parlare e approfondire temi della periferia urbana fiorentina e non solo. Sicuramente c'è un modo diverso di fare giornalismo, faccio due esempi:
1. In provincia di Empoli c'è un inseguimento fra carabinieri e una macchina con dei rom a bordo, parte un colpo non si sa come viene ferita una bambina rom di pochi anni, entra in coma. È successo quest'estate e a un certo punto della vicenda parte una velina dal comando dei carabinieri dove c'è scritto che la bambina sta bene, ha parlato, ha detto mamma e sta avviandosi a una pronta guarigione. In realtà la bambina è a Firenze ancora in coma. Passano tre o quattro giorni e logicamente l'associazione per i diritti alle minoranze si indignano rispetto a questa faccenda e si indigna anche la madre. Viene fatta una conferenza stampa e chiamano me per Il Tirreno: tu che ti occupi, bene o male, di sociale vedi se puoi seguire il caso. Chiamo in redazione e dico che non è assolutamente vero quello che è stato scritto, che c'è una conferenza stampa e un comunicato dei medici che smentisce. Il giorno dopo esce una notizia su due colonne, il mio pezzo viene smontato e ricostruito, viene un po' mistificato. Fra l'altro scrivevo che l'etica del giornalista era un po' fallita, capisco che può essere controproducente per uno giovane che vuole fare il giornalista e che in qualche modo vuol farlo in una maniera più seria possibile. Comunque l'articolo viene cambiato e al telefono mi dicono per problemi di spazio. Le solite scuse che trovi nelle redazioni.
2. Con L'Altra città facciamo un'inchiesta sui centri servizi per il volontariato della Toscana, una delle poche regioni che ha un centro servizi che unisce tutte le province e questo viene portato a vanto in tutta Italia. Facciamo l'inchiesta dove diciamo che vengono sprecati 8 miliardi l'anno, in gran parte buttati in corsi di formazione assurdi con docenti che vengono quasi tutti da fuori regione, su argomenti più che discutibili. Il centro servizi si indigna, parte la controffensiva, ci manda una rettifica di un paio di pagine che pubblichiamo quasi integralmente. Nella rettifica non si fa per niente accenno ai problemi di merito della questione, allora rilanciamo e diciamo che vogliamo vedere i bilanci, capire per bene come stanno le cose e da questo piccolo articolo nasce tutta un'indignazione delle piccole associazioni della provincia di Firenze che adesso si sono messe in testa di partecipare alla prossima gara per farsi un centro servizi proprio.
La differenza fra queste due storie è che un giornale è calato sul territorio forse per aprire un mercato economico come il caso del Tirreno, diversamente L'Altra città può permettersi di dire le cose come stanno perché non ha al suo interno nemmeno la pubblicità dei negozi del quartiere. Cosa fa nella vita chi crede davvero in questo lavoro? Decide che bene o male vuol guadagnare, vuol farsi una professione allora sta alle leggi del mercato? Continua a scrivere per il Tirreno e continua a mistificare le notizie oppure cosa? L'altra città del resto è un giornale di quartiere, ha 4.000 copie di tiratura non può garantire una professione. Siamo giovani, abbiamo un muro davanti. Prima si diceva di dover cambiare in qualche modo le cose ma chi lo deve fare noi o i direttori? I capiredattori e i sindacati?
Ivano Liberati - Giornale Radio Rai*
Non volevo intervenire ma dopo alcune cose ascoltate sento il dovere di farlo. Vinicio sbaglia quando mostra insofferenza per una collega di una rubrica televisiva che chiede delle storie; perché sono l'unico modo per far passare questo tipo d'informazione sociale sui mezzi di comunicazione. Il tentativo di creare una sorta di agenzia di notizie sociali quasi come sistema di controinformazione rischia di farvi diventare un ghetto.
Giornalisti megafono del potere?
Don Vinicio ha fatto due provocazioni che stranamente i vertici del sindacato presenti non hanno colto. Forse hanno preferito soprassedere. Nella prima, quando ha parlato del contratto, ha detto: ho un terribile sospetto, che il buon contratto dei giornalisti sia un modo per far sì che i giornalisti stessi siano portavoce del potere. Provo a dare una risposta. Io non rappresento nessuno, non ricopro cariche direttive all'interno né dell'ordine dei giornalisti né, grazie a Dio, nella federazione della stampa. Ci sono sicuramente colleghi che non sono portavoce del potere, non prendono soldi, come ce ne sono altri che invece queste cose le fanno. Quando il segretario del mio sindacato mi dice che non vuole fare nomi vorrei provare con molta educazione a rispondere: facciamoli invece questi nomi. Forse non c'è neanche bisogno perché siamo in un periodo fortunato, ci avviciniamo al Santo Natale, e inviterei Vinicio a fare un viaggio in alcune redazioni soprattutto in quegli uffici dove arrivano i pacchi doni. Andare nelle anticamere o nelle segreterie di alcuni capi redattori o delle redazioni economiche, equivale a sapere i nomi e i cognomi basta vedere a chi è destinata la montagna di pacchi doni che arriva da aziende importanti come la Fiat, la Pirelli e tantissime altre.
L'altra provocazione che non è stata raccolta, forse volutamente, è quando si è fatto riferimento al caso di una giornalista che pur di avere una fotografia di una persona si è spacciata per poliziotta. So di riaprire così una vecchia questione, una ferita aperta, che forse stava cicatrizzandosi. Quando arrivò il provvedimento del giudice che sospese la collega, mi sembra, per 20 giorni dall'esercizio della professione, mi trovavo in redazione e dissi ad un amico: vuoi scommettere che da qui a 20 minuti sull'Ansa o su qualche altra agenzia di stampa leggeremo le dichiarazioni dei vertici del nostro sindacato e del nostro ordine che diranno di stare attenti perché questo è un attacco all'autonomia dei giornalisti?
Dare di noi un'immagine diversa
L'idea che diamo all'esterno ogni qualvolta uno di noi viene pizzicato e punito è pessima. Se veramente c'è il tentativo di limitare la libertà di stampa sono il primo a scendere in piazza ma quando un collega o una collega sbaglia, queste cose vanno dette e la persona va punita, non con le frustate, non siamo grazie a Dio in Turchia. Il provvedimento di quel giudice mi è sembrato il minimo indispensabile che si potesse fare, ma non posso, ogni volta che c'è un fatto del genere sentire, a raffica, difese corporative che ormai sono diventate a dir poco stucchevoli. C'è una sorta di reazione quasi come a scatto comandato, è come se all'interno di certe stanze della federazione della stampa ci siano delle tavole della legge e una di queste, forse la più importante, recita: quando qualche giornalista sbaglia e viene criticato noi dobbiamo difenderlo "a prescindere".
Ma a prescindere da cosa? Al segretario Serventi Longhi, che rappresenta anche me, vorrei dire di dare un'immagine un po' diversa di quello che è il nostro mestiere. Credo che i giornalisti siano forse, non dico l'unica, ma una delle poche categorie a godere di pessima stampa ed è veramente un paradosso visto che poi i giornali li facciamo noi. Diamo all'esterno l'immagine di essere corporativi, pagati troppo e corrotti. Un'idea che non coincide poi con la realtà o quanto meno con la realtà di tutti noi.
Nando Romeo - Rai*
Sono di Napoli, attualmente lavoro in Rai. Mi aggancio a quello che diceva Ivano Liberati. L'anno scorso di questi tempi eravamo qui e ci fu la tragedia di Silvestro delle Cave, il bambino trovato morto vicino a Napoli, pare seviziato, violentato. Un collega della sede Rai di Napoli comunicò in diretta alla madre che il bambino era morto. Ho sorpreso Roberto Natale in febbrili telefonate per cercare di capire il da farsi. A seguito delle cose dette volevo capire se c'è stato poi un provvedimento nei confronti di questo giornalista e del suo capo per omesso controllo. C'è stata una situazione in grado di mettere questo collega in condizioni di non nuocere?
Roberto Natale - segretario UsigRai*
Su quel collega non sono stati presi provvedimenti, perché nessuno ha intentato all'Ordine nei suoi confronti un'azione disciplinare. Da una parte c'è il fatto che gli organismi di categoria ancora non hanno la prontezza necessaria a intervenire in maniera non corporativa, dall'altra però la vergogna per certe cose si sta diffondendo.
Vorrei che fossimo capaci di rappresentare il lavoro fatto senza raffigurare noi stessi come un'armata di sconfitti che in questi anni ha costruito parole vuote. Non siamo ancora arrivati al punto in cui i doveri sui quali tanto abbiamo ragionato in questi anni, se violati, vengano sanzionati come si deve. I temi della deontologia sono entrati nella formazione.
Ho mosso i primi passi rispetto a questi temi nell'ambito dei giornalisti del gruppo di Fiesole nel novembre '86, da allora mi sento di poter dire che molta strada è stata fatta. Qui a Capodarco, del resto, da 5 anni ormai non si enuncia semplicemente un'esigenza ma si cerca di dar gambe a quell'esigenza con un manuale che dovrà stare poi sulla scrivania dei giornalisti. Passi avanti ne abbiamo fatti c'è da lavorare sugli organismi di categoria e non essere troppo nostalgici.
Oreste Lo Pomo - Rai Basilicata*
La via dell'entrismo
Se si va avanti nella formazione di quelli che sono i redattori sociali c'è la possibilità che con la sensibilità acquisita possano diventare punto di riferimento all'interno delle redazioni. È un percorso non facile ma evidentemente perseguibile. Dall'altro punto di vista c'è anche una capacità di guardare ad un mercato del sociale, dando alla parola mercato una logica di tipo imprenditoriale. In quest'ottica penso che non siano assolutamente contraddittorie le due vie.
Da un lato ognuno che lavora in una diversa realtà editoriale può cercare, per quanto possibile, di portare avanti la sensibilità e di trattare i temi del sociale secondo l'ottica dei suoi temi; dall'altro è forse auspicabile che si pensi ad un mercato sociale redazionale. Pensare ad un organo di informazione sociale che possa diventare un quotidiano scrostato da quello che è il linguaggio burocratese, ma anche volontarese, e che parli attraverso il linguaggio giornalistico dei temi del sociale senza luoghi comuni e pregiudizi. Anche lo 'scooppismo' che esiste in altre realtà editoriali può essere sicuramente perseguibile.
Problemi ne esistono e sono tanti, spesso non vogliamo essere per forza profeti della delusione ma dobbiamo riscontrare che nelle realtà redazionali, nei giornali, nelle televisioni, l'ottica del sociale viene vista sempre come ottica di fonte paragonata quasi a quelle giudiziarie, è questo un grave male; significa sostanzialmente guardare al sociale nell'ottica della semplice vendita delle notizie.
Co-protagonisti di questo processo
Questo seminario ha avuto negli anni una funzione forte di stimolo. Ci ha messo nelle condizioni di riflettere criticamente sul nostro lavoro, di renderci conto che la ricerca delle storie è una ricerca che non va vista solo nell'ottica dello scooppismo. Ci rendiamo conto che dalle storie emerge anche una capacità di riscatto sociale e soprattutto di approccio diverso nei confronti di quelli che vengono chiamati con uno stereotipo 'soggetti deboli'. Ho partecipato ad un incontro di genitori di bambini portatori di spina bifida, forse una delle condizioni dei soggetti portatori di handicap più difficile che investe l'infanzia: ebbene, di fronte al discorso sul rapporto tra informazione e handicap si è alzata una signora e ha detto in modo molto chiaro: "informazione sociale significa, seguire me quando mi alzo la mattina, come porto avanti questo figlio, come lo faccio scendere dalle scale". Cose che potrebbero sembrare marginali ma sono vere. Ieri sul Corriere della sera è uscita, relegata ovviamente nella pagina delle lettere, una testimonianza forte di una ragazza di Potenza che parlava di questa città invivibile piena di barriere architettoniche e della difficoltà di approccio con i mezzi di comunicazione sociale.
Don Angelo Fanucci - Comunità di Capodarco dell'Umbria*
Sono nella Comunità di Capodarco da 27 anni. Nella direzione del dibattito di questa sera abbiamo da tempo avviato una comunità specifica chiamata "Centro Lavoro Cultura". Obiettivo: far sì che la vita condivisa con gli emarginati e con gli handicappati diventasse cultura, informazione, circolazione di notizie. È stata un buco nell'acqua ma stiamo ritentando con una nuova fondazione.
Sono nati dei mondi vitali che rimettono in gioco i fondamenti stessi dell'esistenza del rapportarsi gli uni con gli altri e questi mondi non riescono assolutamente a passare. Qualcuno anche a livello di concezione, dice che è ora di smettere di considerare il mondo del bisogno come un mondo di poveracci, perché è in quella frontiera che la condizione umana è particolarmente autentica. Una frase di Gianni Rodari diceva: "c'è un abisso fra il pianto dei nostri bambini viziati e il pianto per fame, un abisso semantico, di significanza, non semplicemente morale! Quando nel '74 a Gubbio aprimmo la comunità arrivò una comunicazione dall'ospedale pediatrico di Siena: qui c'è un bambino che ha dieci anni, handicappato, tetraparetico e ritardato mentale, da sei anni in ospedale, non dovrebbe essere ricoverato ma la mamma lo ha depositato qui e dimenticato. Andai a trovarlo - erano gli anni del sovraccarico ideologico - questo bambino mi chiamò babbo. Presi fuoco e dissi che a noi preti ci chiamavano padre (tra padre e babbo c'è un abisso). Mi sono poi accorto che "babbo" era per il bambino l'unica parola conosciuta.
L'ho adottato, sono 25 anni che vive con me è stata un'esperienza estremamente gratificante. Naturalmente non sapevo di poterlo adottare, me l'ha detto un giudice: guarda, mi dice, l'ultima legge approvata da poco esige un clima familiare e tu hai una comunità con dieci gruppi residenziali. 11 anni dopo è successo che una coppia di ragazzi handicappati della comunità ha chiesto l'idoneità all'adozione e gli è stata negata, primo perché vivevano in una comunità, secondo perché era una comunità di ragazzi invalidi che non potevano permettere ad esempio la manipolazione fisica del bambino che è tanto importante. Cosa era successo tra il '76 e l'87, visto che quello che rendeva ancor possibile certe cose nel '76 le impediva nell'87? Indicemmo con la Comunità di Capodarco di Roma una riunione presso gli uffici del senato. I giornali gli hanno dato spazio ma in chiave sensazionalistica. La vera problematica su cos'è successo in questi 11 anni non l'ha raccolta nessuno. Ci siamo dovuti ritirare precipitosamente; oltretutto questo ragazzo mi assomiglia anche un po' fisicamente. C'era quindi tutto un sottinteso: ma sarà proprio un prete adottivo o un padre normale?
La Sponda
Adesso partiamo con una collana, chiamata "La Sponda". Riteniamo che il mondo dell'emarginazione non sia un mondo né di genialoidi né di santi, né di eroi né di pazzoidi. È un mondo che, dovendo tentare strade nuove, come è stata per esempio l'autogestione qui a Capodarco, deve ridefinire cose che interessano. Viviamo oggi una situazione in cui l'informazione fa parte del mercato. Ora, o noi facciamo l'errore che fecero i ragazzi di allora quando per strada cantavano "lo stato borghese s'abbatte e non si cambia", o entriamo nel mercato riuscendo in qualche modo a vendere la notizia corretta. Altrimenti si rischia di essere tagliati fuori. Di solito quando si tratta di ingoiare un rospo per vedere se si riesce poi a farlo passare, vanno fatte due valutazioni: dimensione del "gargamello" come diciamo noi e dimensione del rospo.
Beatrice Vernon - Comunità di Capodarco di Fermo*
Faccio parte di quel pubblico più volte nominato e che non vorrei sia considerato massa informe senza capacità di distinzione. Esiste una minoranza capace di cambiare che va però aiutata. L'informazione ha paura di adeguarsi al cambiamento e così non dispone degli strumenti per analizzarlo. Spesso come genitore mi pongo il problema di lasciare in giro giornali o di accendere la televisione a caso perché ci sono grosse storture che con il passare del tempo possono creare difficoltà nei nostri figli. Auspico informazioni formative, non deformative. Potrebbe essere un modo per cambiare tutti insieme.
Paolo Serventi Longhi - segretario della F.N.S.I.*
Maggiore responsabilità rispetto al passato
Il lavoro svolto da 5 anni di riflettere sul rapporto tra soggetti deboli e informazione è estremamente importante. Tutto quello che è stato detto oggi da giornalisti e non, di denuncia, di arrabbiatura per le situazioni, di richiesta di ulteriori interventi è di grande conforto a chi da un fronte diciamo "progressista" si batte da anni per cercare di fare o comunque orientare un'informazione corretta e rispettosa dei cittadini. Oggi nei giornali e telegiornali quando si parla del bambino l'immagine viene rispettata più che in passato. C'è un rispetto maggiore per il soggetto debole e lo si deve anche a una battaglia condotta e che tuttora stiamo combattendo.
Faccio il giornalista da 25 anni e, a parte il fatto che mi piace e diverte, credo di svolgere una funzione sociale. Se succede un episodio come quello della giornalista che si spaccia da poliziotta e commette una violazione palese alla deontologia professionale oltre che un reato, non solo non la difendo ma la condanno. Chiedo che comportamenti del genere vengano sanzionati dall'ordine professionale, dalle istituzioni di autogoverno della categoria. È corporativo questo? È l'ordine che deve difendere e tutelare il cittadino e non il giornalista. Ho paura dei magistrati e dei politici che sanzionano i giornalisti. La collega non è stata perseguita penalmente per quel reato, le indagini sono solo agli inizi, è stata preventivamente sospesa dalla professione giornalistica. Abbiamo contestato questo diritto del magistrato rivendicando all'ordine professionale il diritto-dovere di sanzione. Dobbiamo difendere la possibilità e la capacità di intervento dei nostri organismi di autotutela per difendere la democrazia e la libera informazione. Consapevole del fatto che non disponiamo ancora degli strumenti o di tutti gli strumenti per poter intervenire, sostengo con forza la necessità di una riforma dell'ordinamento professionale dei giornalisti che dia maggiori poteri sanzionatori e maggiore rapidità di intervento ai nostri organismi deontologici.
Qualità contro flessibilità
Riprendendo il discorso sul caso Di Bella, dobbiamo fare autocritica oppure dire che va tutto bene? Non è possibile difendere un'informazione approssimativa, superficiale, orientata alla spettacolarizzazione delle notizie su un caso come questo. Non ho denunciato il fatto che si parlasse del caso Di Bella ma che nessun giornalista scientifico, nessun esperto sia stato interpellato nella prima fase, che siano stati mandati cronisti senza alcuna preparazione in materia sanitaria a parlare di medicina alternativa e medicina ufficiale. La mia denuncia ha provocato la ribellione di tutti i direttori italiani che hanno fatto una serie di dichiarazioni collezionate dalle agenzie in cui mi coprivano di insulti. Apriamo i nostri giornali, i nostri siti Internet, cominciamo a dire le cose, facciamo un dibattito aperto. La professione giornalistica e l'informazione o hanno alle spalle una caratura etica oppure sono esposte a qualunque degenerazione commerciale e distorsioni della logica del mercato. Questo porterà nel futuro più di quanto non avvenga oggi a fare polpette dei soggetti deboli. Le storie non saranno rivolte a capire quello che succede nella società, ma saranno adattate ai talk show, saranno le storie della Tv spazzatura quelle che devono fare audience.
Non credo a una informazione né ad un contratto di lavoro giornalistico privi di etica. Siamo alla vigilia di una rinnovazione quadriennale fondamentale per la categoria dei giornalisti, dobbiamo avere la capacità e la forza di fare per la prima volta nella storia uno scambio che porti qualità contro flessibilità magari anche con qualche soldo in meno. È auspicabile un contratto che abbia la sua dose di eticità e che individui ulteriori strumenti di flessibilità per consentire ai giornalisti tutti di fare una lavoro nel rispetto dei valori della professione stessa.
Annibale Paloscia - Vicedirettore di Avvenire*
Formazione e deontologia
Un cammino che ha dato dei risultati è stato fatto con la carta di Treviso e la carta dei diritti e dei doveri; il codice deontologico poi le ha recepite entrambe. La Tv offre spettacoli in alcuni talk show veramente gravi e deprimenti. La capacità degli ordini di intervenire è tutta da discutere. C'è una selva dove ognuno va per conto suo; se non si riforma la struttura, se non si crea la deontologia come primo obiettivo, anzi ragion d'essere, tutto il resto potrebbe scomparire.
Pensate che un caporedattore, un direttore del TG1 siano così sprovveduti da non vedere nel terzo settore il volano, la speranza? Tutti gli economisti europei vi hanno intravisto le possibilità di sviluppo e occupazione non più presenti nella fabbrica o in altri settori. Ma se il terzo settore è tanto importante perché non ne parlano? Perché c'è un fenomeno di burocratizzazione dove siamo tutti inclusi, non solo quelli della Rai. Quando parlo di burocratizzazione parlo di un fenomeno mondiale. Abbiamo in Italia pochi mezzi - certamente non disponiamo dei mezzi degli istituti di ricerca americani - per cui non possiamo tenere sotto monitoraggio l'informazione. Questo è un grosso problema, fortunatamente Internet ci mette in grado di collegarci con tutti i centri di ricerca creare un motore, un movimento aggiornato e mondiale. Conoscere il pensiero degli altri, sapere cosa succede di là è alfabetizzazione ai problemi. Un'agenzia di formazione più che di informazione, e i giornalisti che vogliono sentirsi protagonisti di un movimento devono da quell'agenzia trarre alimento.
La flessibilità come rimedio
I giornalisti pensano di avere un contratto monolitico, non c'è la possibilità di creare nuove iniziative. L'Italia è un paese che ha 600 televisioni, 2.000 radio private e giornali locali. Tutto questo non può essere cristallizzato nell'art.1. Un giornale di 4.000 copie in un ambito cittadino non può certo fare un contratto da art.1 fallirebbe, chiuderebbe il giorno dopo.
Come viene divisa la torta della pubblicità? Se fosse data ad esempio in base al numero di copie dovremmo avere parecchi miliardi, invece non li abbiamo. Come è divisa allora questa pubblicità? Se nasci in un giornale che vende 4500 copie ci devono essere quei meccanismi - non il lavoro nero totale - che da una posizione compatibile con la realtà di quel giornale contrattualizzi il lavoro. Potrebbero così fiorire iniziative giornalistiche nuove. Quello del costo del lavoro è uno dei problemi più pesanti. Se la torta della pubblicità avesse dei garanti e fosse divisa in un altro modo ci sarebbero anche altre vie da percorrere ma questa è tutta un'altra battaglia.
Vinicio Albanesi - sacerdote, presidente del C.N.C.A.*
La sfida di un'agenzia che parli del sociale
C'è gente che riesce a fare le agenzie per "tette e culi", perché io non dovrei affrontare la sfida di un'informazione sul sociale? Gente che commercializza motorini, biciclette e automobili. A chi mi dice di non fare il vecchio prete barbone di periferia, di ricordare che abbiamo le scarpe grosse e il cervello fino, rispondo: volete un'informazione rapida, che dia notizie? Ebbene vi daremo l'informazione insieme ai percorsi di tante storie. Vi accorgerete che cosa significa vivere una gioventù bruciata a Mosca, adoperare droga o fare sesso per una ragazzina di 16 anni, capirete perché là c'è la mafia russa e conoscerete tutta una serie di collegamenti.
C'era poco fa qui mia madre, è una signora coi capelli bianchi che mi ha sempre detto: "Sta attento che quando c'era Mussolini a Piazza Venezia tutti noi battevamo le mani".Non solo ti do la storia del curdo che si brucia ma ti dico che i figli tuoi o nipoti vivranno in un contesto sociale diverso dalla tua infanzia, dalla mia e dei miei genitori. È un problema che ti riguarda, coinvolge e sconvolge l'equilibrio.
Come giornalisti dovreste essere persone di frontiera, gente coraggiosa che va a sfidare la realtà e la narra. Mi rendo perfettamente conto di essere nel mercato ma rifiuto questa logica. Vi faccio un esempio: a Torino avevo detto che la Benetton utilizzava personale minore, di sfruttamento. L'ufficio stampa della Benetton mi ha scritto diffidandomi perché sarei stato denunciato. Dopo tre mesi parte una campagna contro la Benetton, scoprono i bambini in Turchia e la Repubblica dona una pagina a Benetton per scagionarsi. Una pagina intera in cui dimostra che non è colpa sua ma che affidando a terzi il lavoro non può sapere sempre come viene realizzato. Ho raccontato al cronista che percorso fanno le camicie d'Italia che vanno a Bari, da Bari vanno in Albania, dall'Albania tornano a Bari e poi nel Veneto. Ho dato percorsi, prezzi. Allora, se sono io a conoscenza di queste cose tanto più lo deve essere un imprenditore. L'agenzia è un sogno da ragazzi, lasciate che sogni un po' anche io. Si è detto che prima non era meglio ma peggio se c'è stato quindi un passaggio è perché qualcuno ha creduto in qualcosa e ha tentato altre strade.
Vincenzo Spagnolo - Mondo Radio Centro Italia*
Sono redattore della testata giornalistica di un'emittente regionale del Lazio. Ho la fortuna di essere prima volontario e poi di scrivere su riviste di volontariato. Penso che il numero dei volontari in Italia sia in crescita. Leggo continuamente nuove riviste di settore e penso che se è vero che la notizia è tale in relazione a un pubblico, il pubblico a cui interessa leggere di volontariato o di informazione sociale - che tutti i giorni ha quotidiani contatti con l'emarginazione o il disagio - non vuole certo vederla trattata come sesso o sangue. Mi affaccio alla professione e mi preoccupa l'idea di un lettore che vuole soltanto la notizia strillata. Penso che in realtà non esista neanche tanto e che questa immagine sia ingessata. Chi si occupa di monitorare il pubblico? Se lo facciamo, forse scopriremmo che esiste un interesse per la notizia che abbia una funzione esemplare e non solo di deterrente, di paura. Potrebbe fungermi da paradigma per vedere che esiste un modo migliore per fare quello che io stesso faccio.
Giorgio Tonelli - Rai Emilia Romagna*
Fa più notizia l'albero che cade della foresta che cresce
In questi giorni ho seguito indirettamente la vicenda degli immigrati a Bologna e vi posso garantire che il livello di attenzione, di ascolto, di premura di tutti i giornali era sicuramente più avanti rispetto al livello di "coscientizzazione" della città. Penso alle vicende anche vicine dell'Albania, alla guerra nella ex Jugoslavia, alla guerra del Kosovo, dove se c'è stato un interessamento non è stato dell'opinione pubblica, se mi consentite, ma dei mezzi di comunicazione che chiaramente riflettono in modo indiretto anche un'esigenza dell'opinione pubblica. Questo tipo di esigenza si è sentita, i governi i politici europei l'hanno avvertita e si è cercato di mettere delle pezze.
L'autocritica sul caso Di Bella
Ci vado piano a dire che tutti dobbiamo fare autocritica, non sono stati tutti uguali i giornali. A Bologna, il telegiornale che è stato più corretto sul caso Di Bella - voi non ci crederete - è stato il TG4 di Emilio Fede. Faceva servizi non sulla miracolosità del metodo ma sulla sofferenza dei pazienti e dei malati che erano presi fra l'incudine e il martello. Ci sono stati anche dei settimanali che hanno affrontato la cosa in maniera diversa: l'Espresso fin dall'inizio ha preso una posizione molto critica, così Famiglia Cristiana. Perché generalizzare e dire che tutti i giornalisti si sono comportati da "peracottari"? La categoria è fatta di tante persone, tante individualità e tanti livelli di responsabilità diversi. Il vero problema è legato oggi al tentativo di portare l'informazione ad un livello di trasformazione tale da farla quasi diventare intrattenimento. Come è già capitato, questa tendenza rischia di modificare una storia drammatica e di solitudine in una storia neo romantica.
Daniela De Robert - Rai Tg2*
Spesso la categoria è molto più avanti della società civile. Sul caso Silvestro Delle Cave, dell'intervista ignobile andata in onda sul Tg2, la denuncia immediata del fatto è partita dai giornalisti, a scusarsi è stato poi il direttore. Qualcuno diceva: il direttore si è scusato con Natale ma non con il pubblico. È vero anche che il pubblico non ha detto nulla su quell'intervista, né su molte altre.
C'è una parte sana della categoria dei giornalisti che vuole cambiare ed è questa parte che deve essere valorizzata, deve poter trovare spazio e forza. In parte i giornali e i telegiornali stanno rinunciando a fare informazione per fare spettacolo. Il Tg2, è teorizzato, fa per metà informazione e per metà varietà. Mi chiedo se il pubblico vuole veramente questo. I detenuti di S. Vittore per raccontare una proposta di legge fortemente innovativa hanno dovuto comprare una pagina sul Corriere della Sera. Ripropongo un'alleanza tra i giornalisti e la società civile, in particolare la società civile organizzata. I giornalisti da soli non possono cambiare. L'osservatorio di Pavia calcola quanti minuti parla ogni singolo politico; c'è qualcuno in grado di misurare quanto e come si parla di temi sociali, del carcere, degli handicappati? Parliamo solo delle storie strazianti oppure di altre cose?
Stas' Gawronski - Coop. Pandora*
Volevo raccogliere una indicazione di don Vinicio, il problema della contestualizzazione e la necessità dei percorsi. Se è stato fatto qualche cosa sicuramente non è sufficiente, oggi abbiamo la grande occasione di sfruttare un nuovo strumento: l'ipertesto. Mi auguro che in questa nuova agenzia ci siano redattori telematici, ovvero persone competenti nella creazione di percorsi basati non sulla scrittura tradizionale ma sull'ipertesto, uno strumento intuitivo che richiede per realizzare prodotti di qualità delle competenze che attualmente non esistono.
Nanni Vella - Ansa*
Vorrei sapere se vi sono delle linee generali su come possa nascere questa agenzia e se ci sarà poi un momento per ascoltarle e recepirle queste linee. Rispetto al fatto di Torino, possiamo dire che il magistrato ha fatto bene o male ma non che ha abusato o meno dei suoi poteri. La cosa che più mi inquieta è che stiamo parlando di un ordine che non esiste, per lo meno funzionalmente. L'ordine dei giornalisti questo sconosciuto e questo assente dal grande dibattito. Cofferati rappresenta la testa di ponte nelle redazioni di tutti i quotidiani d'Italia, di tutte le testate giornalistiche ma chi ci deve rappresentare come ordine, come insieme di categoria? C'è un illustre sconosciuto, di cui sfido chiunque a sapere il nome, che ci rende inquieti perché manca. A volte sembra che il potere forte sia quello della magistratura nei confronti dei giornali e qui la cosa mi inquieta veramente (sento che deve rappresentarci a livello istituzionale). Percepisco quest'aria corporativa non ho gli strumenti per poter far capire che tutto sommato non siamo solamente un sindacato forte ma anche un ordine che non c'è.
Elisabetta Fusconi - IFG Urbino*
Ho la sensazione che spesso i giornalisti abbiano un poco la presunzione di conoscere a priori cosa il pubblico vuole sapere. Se ci ponessimo il problema di fare un'indagine seria, su quale tipo di informazione vuole veramente, potremmo fare un giornalismo meno scollato dalle esigenze e più di servizio.
Massimo Acanfora -Terre di mezzo*
Un'informazione sul volontariato, sul terzo settore, sulle marginalità, quando è fatta bene può pagare. Terre di mezzo è un giornale di strada, assolutamente indipendente senza nessun tipo di potere forte alle spalle, sta facendo un suo percorso vende un buon numero di copie a Milano, Roma, Genova e in altre città con un sistema che permette oltretutto a delle persone di guadagnarsi da vivere. È una realtà piccola ma che sente la possibilità e il bisogno di diventare più grande e di avere molti compagni di strada.
Tiziana Bartolini - Mondo sociale*
Sarebbe un errore immaginare questo villaggio globale a cui apparteniamo tutti come un unicum di giornalisti e informazione "al servizio di". Altrettanto sbagliato sarebbe pensare ad un pubblico che legge e che si attende i polpettoni che più o meno pensiamo di rifilargli. Probabilmente tra i cittadini, i lettori, il popolo italiano che pure vive e si muove vi è un numero altissimo di volontari. Rappresenta probabilmente quella famosa fetta di mercato che esiste e non si deve inventare. Si tratta di stanarla, di crederci e riuscire poi a vendergli l'informazione. È possibile cambiare, tutto quello che abbiamo nella nostra storia è in fondo nato da grandi idee e talvolta da grandi ideologie.
Pino Caiati - Rai Lazio*
Mi propongo come collaboratore volontario dell'agenzia che dovrebbe nascere. Attenzione però, in quanto struttura essa non deve essere basata sul volontariato. Faccio volontariato in un giornale cittadino da 26 anni e ho cominciato lì a scrivere. Non c'era neanche la possibilità di fare il pubblicista. Era un giornale parrocchiale nato con sei fogli ciclostilati, da quel giornale sono usciti fuori due giornalisti professionisti. Sono ottimista: 4 o 5 anni fa il caso Torino neanche sarebbe scoppiato; quei pochi cronisti di nera che andavano in giro per commissariati, questure, comandi di carabinieri, guardia di finanza e ospedali se poco poco chiedevano al collega telecineoperatore o alla troupe d'appalto di non riprendere la madre che piangeva dietro il feretro del bambino morto, veniva guardato storto. Eppure 4 o 5 anni fa la Carta di Treviso se non vado errato già esisteva. Basterebbe applicare quella per non vedere più portatori di handicap ripresi in maniera disdicevole, per non vedere persone in manette.
La bravura vera è quella di essere al servizio del pubblico ma non un pubblico indistinto. Ho cominciato a collaborare con l'Ansa 20 anni fa come cronista, voleva cose che attiravano la gente, mi sono accorto che la gente a volte si stufa di vedere i 50 anni di Carlo d'Inghilterra. Poi, dato che sono nato "sfortunato", vorrei che anche gli sfortunati avessero un loro posto.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.