Intervento di Don Luigi Ciotti
Don Luigi Ciotti - presidente di "Libera"*
Lo sforzo che cercherò di fare è quello di rendere un piccolo contributo, da parte di un amico che sente delle inquietudini, ma soprattutto una grande gratitudine nei confronti di molti appartenenti al mondo dell'informazione.
Mi sembra debbano essere messe in evidenza delle cose positive, ma anche sottolineati alcuni dati che ci possono aver disturbato e disturbare. Dobbiamo voltare pagina e trovare in questo momento la forza di farlo insieme, per far emergere tutto il positivo che c'è; dobbiamo avere il realismo e la coscienza dei limiti, ma anche la lucidità rispetto ai pregi che esistono in molti contesti. Il grande pericolo, sempre in agguato, è quello della generalizzazione.
Diritto di cronaca e diritti della persona
E' stato detto molto bene che il diritto di cronaca e i diritti della persona risultano spesso in contraddizione. E' questo il dato da cui bisogna partire: infatti, quando si scontrano queste due opposte esigenze, piaccia o non piaccia, quasi sempre sono i diritti della persona ad avere la peggio.
La legge sulla privacy a cui abbiamo fatto riferimento, la 675 del '96, è uno strumento normativo che dovrebbe difendere la parte più debole, quelli che noi abbiamo chiamato i Nip, le persone non importanti. Ma senza voler essere riduttivi, credo che dovrebbe difendere anche i Vip. La storia di Diana è un esempio di come il gioco economico possa avere il sopravvento e travolgere anche i potenti.
Vi sono diritti individuali da tutelare, che vanno quindi al di là della condizione sociale. Resta però il fatto che i normali cittadini, e ancor più chi vive situazioni di esclusione e marginalità di fatto, al di là di tutte le leggi, le normative, i codici e chi più ne ha più ne metta, continuano ad avere meno possibilità di difendersi; e che maggiori sono i danni che la notizia scorretta può recare nei loro confronti, perché le ricadute su chi vive già delle situazioni difficili sono certamente maggiori.
Un "certo modo" di fare cronaca
Un secondo elemento da mettere in evidenza è che i diritti della persona vengono violati in modo ancora più grave e pericoloso da un certo modo di fare cronaca.
C'è un certo modo di fare cronaca, che magari non fa i nomi, non viola l'anonimato della persona, ma che ha delle ricadute indirette, gravide di conseguenze devastanti. Infatti etichettare determinati gruppi di persone, con tutto quello che ne consegue, significa esprimere giudizi di valore su determinate culture, stigmatizzare determinate minoranze, senza violare direttamente la persona, ma creando una cultura basata su pregiudizi, letture superficiali, esemplificazioni.
Ho davanti agli occhi l'episodio di San Salvario a Torino: uno di quei fatti dove c'è il concorso di responsabilità da diverse parti, ma dove c'è stata anche una certa ignoranza da parte di chi poteva gestire con più professionalità un'informazione che avrebbe smascherato tutta una serie di giochi, interessi e manovre che lì si stavano addensando, e che invece qualcuno ha strumentalizzato in un altro senso.
Sia ben chiaro che nessuno nega la libertà del giornalista, ma ci dev'essere anche un dovere di seria documentazione, di verità, di controllo delle fonti, di non superficialità. Ognuno di noi deve avere, per la sua parte, un senso di profonda responsabilità per il compito che è chiamato a svolgere, anche se non facile.
Anche se si rimane, tutto sommato, in regola con le normative, si ha quindi una grossa responsabilità nel fare informazione, perché si ha il potere di innescare i potenti veleni sociali dell'intolleranza e della discriminazione, producendo quegli stereotipi che possono sfociare in forme di razzismo, di semplificazione, di rifiuto. Questo fenomeno è cresciuto nell'arco degli ultimi tempi, malgrado si siano inquadrati alcuni aspetti con autoregolamentazioni e con leggi.
L'approssimazione che genera veleni
Vi cito un altro esempio, che può sembrare banale, ma che per noi, per il nostro vissuto, costituisce un dato su cui riflettere: ho letto in un giornale di Roma che degli agenti sono passati vicino a dei campi ben recintati e hanno visto delle coltivazioni poi risultate di marijuana, circostanza di cui hanno subito informato i loro superiori. Va a capire perché, chi riportava il fatto non ha scritto che ci voleva poco a capire che si trattava del Centro Sperimentale del Ministero delle Risorse Agricole, dove stanno sperimentando i possibili impieghi benefici di quel prodotto. Evidentemente c'è stato più interesse a riportare che - cito testualmente il giornale - "Gli agenti non hanno ancora identificato il proprietario del terreno, ma hanno appreso da alcuni contadini che nei campi della zona lavorano numerosi extracomunitari, tra cui egiziani e marocchini".
Certo, mi rendo conto che molte volte ci prende un po' la fretta, ma qui si tratta di non essere capaci di verificare: bastava andare 200 metri più in là per trovare un grande cartello con l'indicazione "Centro sperimentale del Ministero delle Risorse Agricole". A me interessa denunciare che ci deve essere un dovere di verificare, per non far passare altri messaggi come questo: extracomunitari = spacciatori; dove c'è droga ci sono immigrati, dove ci sono immigrati c'è droga. È questo il passaggio.
Perché cercare di mettere in evidenza solo certi elementi? Si tratta di un'informazione approssimativa: è chiaro, non mettendo nomi e cognomi risulta pulita legalmente, ma il modo di condurla rafforza quei potenti veleni sociali contro i quali invece deve essere rivolto tutto il nostro impegno. Un messaggio negativo detto e ridetto (le notizie date in televisione le ha già pubblicate il giornale o viceversa) diventa senso comune e soprattutto - ed è questo che a me crea ulteriori inquietudini - genera un grave danno culturale, a sua volta origine di lacerazioni, conflitti e paure sociali.
Mi sembra corretto dire subito che non si può continuare a semplificare colpevolizzando sempre e comunque i media, mentre ci sono anche altre responsabilità. Dal mio punto di vista, se si semplifica e si generalizza sempre, si finisce per alimentare una certa diffidenza pregiudiziale nei confronti dei giornalisti. Cominciamo a usare anche i nomi delle persone, a rischio di non rientrare nei canoni della legge; bisognerà pure chiamare le cose per nome, in questo Paese, invece di generalizzare sempre e comunque!
La diffidenza che noi sentiamo, a volte a ragione, nei confronti di molti appartenenti al mondo dell'informazione, ha però una ricaduta: si traduce prima in diffidenza nei confronti dell'informazione in generale, e poi diventa indifferenza al diritto di essere informati. Anche noi dobbiamo evitare le semplificazioni, le colpevolizzazioni che alimentano questa diffidenza, per far emergere anche gli aspetti positivi e perché non venga meno l'attenzione a quello che è un diritto.
Dare notizie per avere la promozione
L'esempio delle manette davanti alle telecamere mette in evidenza come le responsabilità non stanno solo nel mondo dell'informazione, ma anche in chi si esibisce nel dare le notizie, per far leggere il suo nome sul giornale e avere più punti per le promozioni. Io ho visto sgomitare persone per dare comunicati alle conferenze stampa, ho visto far esibire uomini o far ripetere loro delle scene solo perché la televisione potesse riprenderli, senza che avessero strumenti per difendersi.
Ci sarà pure qualcuno deputato alla tutela del segreto istruttorio! Sono tanti a violarlo, anche quando si fanno circolare delle semplici indiscrezioni di cose dette e non dette. Ha fatto bene mons. Nogaro a prendere posizione contro chi ha cercato, con delle insinuazioni o con delle mezze verità, di semplificare la storia di Don Peppino Diana. Io ero stato invitato da don Peppino Diana 25 giorni prima che l'ammazzassero, la sera in cui egli aveva promosso a Casal di Principe il documento contro la camorra che aveva firmato con altri parroci, insieme ad una serie di iniziative che guardavano oltre, per voltare pagina, e che certamente non avrebbe potuto promuovere un uomo con le mani sporche. Ma intanto queste insinuazioni fatte circolare hanno ingenerato dei dubbi e sono risultate funzionali e strumentali a qualcun altro. Per questo non bisogna mai generalizzare.
Rispetto all'informazione non è corretto scaricare tutto sul mondo dei giornalisti. Gli esempi sono tanti, voi li avete vissuti e li vivete; rimandano a responsabilità che vengono prima di quelle del giornalista, responsabilità più ampie sulle quali, quindi, il discorso deve certamente allargarsi per riuscire, noi insieme a voi, le nostre realtà insieme alle vostre, a promuovere altri momenti più ampi che coinvolgano anche altre parti oltre queste.
Il nostro diritto alla cronaca e alla visibilità dei problemi
Vorrei ora rovesciare il ragionamento. Non mi fermo solo al diritto alla cronaca corretta: tutti noi, con le nostre storie e i nostri limiti, dobbiamo invocare con forza il diritto alla cronaca. Perché il paradosso è qui: che a un'informazione invadente, chiamiamola così, si accompagna un'informazione omissiva, distratta, indifferente nei confronti di tante realtà e problematiche: invece le persone non importanti vanno sì tutelate riguardo la loro privatezza e la loro condizione, ma per altri versi dovrebbero anche essere resi visibili.
Quando, cinque anni fa, alcuni di noi qui presenti parlavano dell'ecstasy in Italia, nessuno ci stava ad ascoltare. Oggi quegli stessi organi che non hanno dato gli spazi hanno gravi responsabilità perché il ruolo giocato dall'informazione, anche culturale, formativo, avrebbe ridotto le dimensioni del problema. Non si può sempre arrivare dopo, solo quando il problema è esploso e allora serve perché fa notizia. E' una questione di cultura, di capacità di lettura dei cambiamenti, di anticipazione.
Rispetto all'informazione omissiva e che arriva in ritardo, noi sentiamo il bisogno non di mettere in evidenza le persone, ma di rendere visibili i problemi, le vicende, per indurre la comunità, la collettività, a crescere rispetto a loro.
Vi porto solo un dato. Mentre il mondo dell'informazione, ma non solo, tratta con enfasi, dovuta a spinte strumentali, il problema della droga e le comunità di un certo tipo, il mercato della droga ringrazia, perché non si è spostato di una virgola negli ultimi anni in Italia. Non solo, ma ha conquistato altri spazi, i mercati di altre sostanze; mentre noi tutti ci impegniamo per organizzare servizi pubblici, comunità e altre iniziative e percorsi, dalle unità di strada ai servizi a bassa soglia. Tanto è stato fatto e inventato di positivo, nel pubblico e nel privato. Ma attenzione, perché noi siamo stati - lucidamente qualcuno, inconsapevolmente altri - i comodi delegati di tutta la situazione.
Da qualche parte leggiamo che ci sono 2.000, 3.000, 10.000 persone in meno che sono coinvolte dalla droga, poi nella realtà scopri che, dopo 30 anni di impegno sul fronte di questo problema e di tutto quello che ha rappresentato, oltre il 50% di chi ci si imbatte di fatto non va ai servizi pubblici, non va alle comunità. Allora qualcuno dovrà pure capire che c'è un mercato che oscilla e che la mafia ringrazia...
Noi abbiamo detto anche altre volte che i 1.400 giovani morti l'anno scorso in Italia per overdose sono morti di stragi di mafia, perché il mercato della droga ha ai vertici la mafia. E quando, non Luigi Ciotti, ma gli organismi internazionali ci dicono, certamente approssimando per difetto, che oggi questo mercato nel mondo fattura 840 mila miliardi di lire, pari all'8% dell'intero commercio mondiale, si continua a far finta di non sapere.
Quindi non basta tutelare solo le persone importanti nella loro privacy, ma per altri versi occorre anche rendere visibili i problemi, le storie, le situazioni. L'elenco è lungo perché evidentemente comprende anche i nuovi volti della fatica, quei nuovi problemi che si affacciano nei nostri territori, dentro le nostre periferie, che devono avere quell'attenzione dettata non dall'emotività che suscita un evento eccezionale, ma frutto di alleanze e lavoro insieme, per voltare pagina.
Parlavo di San Salvario: il Comune ha fatto una ricerca molto seria sul territorio che ha dimostrato che quel quartiere ha meno delinquenza degli altri quartieri di Torino e meno di altre città di Italia. Ma intanto si era diffuso un certo tipo di notizia...Muore una vecchietta e, guarda caso, rarissimo peraltro, lascia una povera casa di due stanze al gruppo Abele; sapete cosa succede? Erano i giorni della bagarre, delle semplificazioni: sono venute almeno 30 imprese immobiliari a chiedermi l'alloggio, con un ritornello molto preciso che cavalcava il momento di difficoltà: "Ha visto che casino che c'è? Ha visto che la gente se ne va via? I prezzi sono crollati, le conviene dare a noi questo alloggio", ecc.
Dietro alle paure e ai conflitti reali, al problema della sicurezza nelle città, ai diritti delle persone, dei cittadini, c'è chi ha cavalcato politicamente i problemi reali, con altri interessi, approfittando delle situazioni contingenti di confusione per chiedere più ordine e cambiamenti di legge. Per questo invocavo prima il dovere della documentazione, della ricerca delle fonti: perché bisogna saper leggere il problema dal di dentro, mentre l'informazione è sempre più spesso non solo invadente, ma anche omissiva.
La persona al centro dell'attenzione
Non dobbiamo, né noi né chi lavora nell'informazione, perdere mai di vista un imperativo: mettere la persona al centro, l'uomo. Ma dobbiamo anche interrogarci sui problemi, sulle cause della sofferenza della persona, della sua povertà, del suo disagio, della sua esclusione, dei suoi diritti negati.
Periferia di Torino, Chivasso, 50 mila abitanti: quattro amici, due anni fa, uccidono un loro compagno, per quattro soldi, per fare il capodanno. Sembra assurdo tutto questo, ma attenti. Quello che si è diffuso subito, attraverso la grande informazione che si è messa in moto, rinforzata da titoli e linguaggi, è il messaggio che quei ragazzi sono dei mostri. Il che equivale a dire alla gente che si è trattato di un episodio eccezionale, che non ci può far temere; io invece, mi sono sforzato di andare a spiegare alla gente, in un dibattito, che purtroppo oggi quei ragazzi fanno parte della nostra normalità. E' comodo gridare all'eccezionalità per mettersi a posto la coscienza, ignorare il problema fingendo che non esista o che sia lontano, per tranquillizzare tutti.
La persona con i suoi problemi e le cause di questi sono un tutt'uno, oggetto di un'attenzione umana e sociale che ognuno deve rivolgere, anche l'informazione. Quindi uno strumento importante per produrre coscienza sociale, per aiutare a costruire e a crescere, e non arrivare sempre in ritardo sui problemi, è la visibilità; anche per modificare la realtà, se possibile.
Mi permetto di consegnare due chiavi di lettura. La prima chiave, da non dimenticare sia da parte di un operatore dell'informazione, sia di coloro che incontrano le persone e affrontano i loro problemi, è mettere la persona al centro dell'attenzione. Questo atteggiamento non dovrebbe essere scritto da nessuna parte, ma dentro ognuno di noi, perché non bastano i precetti se non c'è dentro ciascuno di noi la disposizione a considerare preminente il valore della persona. Questo non vuol dire che ci sono dei paletti, ma che ognuno deve assumersi le sue responsabilità di fronte alle persone che si incontrano e ai problemi che si affrontano.
Professionalità e funzione educativa
Credo che il grande nodo sia quello della professionalità, che vale per tutti noi, in tutti gli ambiti, e sulla quale mi permetto di dare, sommessamente, con la coscienza del limite che ho sempre dentro di me, un piccolo contributo. La professionalità parte dalla conoscenza vera della materia che si tratta, conoscenza non statica ma continuamente aggiornata sui cambiamenti, sulle trasformazioni. Questa preparazione dipende dal senso di responsabilità.
La professionalità deve saper cogliere il cambiamento in atto, i nuovi volti, e deve saper collegare i travasi continui che avvengono tra il sociale e gli ambiti attigui. Quanti vostri colleghi vivono con molta superficialità il loro compito!
Inoltre, la professionalità deve saper essere libera dalle mode e insieme attenta alle nuove opportunità: non si possono perdere patrimoni acquisiti per rincorrere, sempre e solo, alcuni strumenti nuovi.
Infine, la professionalità ha bisogno di confronto, ed è quello che da anni avviene a Capodarco: noi siamo una piccola fetta, ma ci sono tanti altri amici e colleghi in giro che hanno le stesse nostre attenzioni e sensibilità. E' importante il bisogno di confronto, perché chi si confronta con le varie realtà cresce dentro ed è in grado di affrontare problemi che si evolvono, le persone che cambiano.
Infatti, c'è il pericolo, valido per tutti gli ambiti e in particolare per la mia persona, di rimanere prigionieri del proprio passato, ingessati nelle nostre esperienze di ieri, mentre la realtà cambia: c'è allora bisogno veramente del confronto per uscire dai recinti che ci siamo creati.
Insomma, dobbiamo chiederci se l'informazione sia solo una merce da vendere o non sia invece, ed anche, un diritto e dunque un servizio che va reso ai cittadini. C'è bisogno di un tipo d'informazione che rimanga in quei binari sui quali voi avete riflettuto e che noi, dal di dentro delle nostre realtà, ci permettiamo di sottolineare con forza.
C'è da chiedersi se l'informazione sia semplicemente una descrizione della realtà o possa diventare anche uno strumento educativo, perché c'è un bisogno immenso oggi di aiutare la gente, anche se qualcuno dice che non rientra nei fini del suo mestiere. Chi scrive, certo, è chiamato a descrivere, a informare in un certo modo, ma ha anche in mano uno strumento educativo. A questo proposito si crea un'esigenza di professionalità, di responsabilità e di coscienza.
Non eroi, ma amanti della verità
In un mensile che il nostro gruppo porta avanti, Narcomafie, abbiamo riportato nel tamburino dei nomi dei redattori anche il nome di un giornalista che non c'è più. Abbiamo fatto la scelta di mettere il nome di Giancarlo Siani, giornalista del Mattino di Napoli, perché non vogliamo dimenticarci di questo ragazzo di 26 anni, pieno di vita, di entusiasmo, di voglia di scrivere.
Come sapete, quando l'hanno ammazzato si è risolto subito il problema, al di là della sofferenza e il dolore, liquidato da chi aveva interesse a fare un'informazione diversa come un problema di donne. Poi, visto che questa versione non reggeva, allora a qualcuno è venuto il colpo di genio di ricostruirla come un problema di uomini.
Ci sono voluti 12 anni perché si aprisse la pista vera e si scoprisse qual era il motivo per cui l'hanno ammazzato. Il vero motivo è che questo ragazzo giovane non sognava di fare il Giorgio Bocca della situazione, come sognano tanti oggi, ma di fare il vero cronista, serio, attento a documentarsi sulle fonti. Ormai parecchi anni fa, egli aveva fatto una serie di articoli con i quali documentava e denunciava il fatto che la camorra usava i ragazzini di 9 anni per andare a spacciare la droga. Nella sua attività di ricerca della verità evidentemente si è allargato troppo ed è andato a disturbare le coperture politiche della zona; ma l'ha fatto così bene, con professionalità e responsabilità, che ha dovuto pagarne il conto a qualcuno.
Non vogliamo proclamare eroi, ma il fatto che otto giornalisti abbiano perso la vita per aver fatto emergere la verità a volte scomoda per la mafia, la camorra, la criminalità che poi le ha uccise, rimane dopotutto un segno di positività. Al di là della tragedia, è il segno di quanti dei nostri colleghi sono veramente persone alle quali non è venuta mai meno la voglia di verità, di coraggio, di professionalità; ma quanti altri scappano via di fronte a queste responsabilità?
E' facile fare un'intervista a Giancarlo Caselli; è più difficile prendersi la responsabilità di scrivere determinate cose che non siano all'acqua di rose. In questo momento, per voltare pagina nel nostro Paese, c'è bisogno di coraggio, di verità, di serietà, di comunicazione da tutte le parti.
Aver messo Giancarlo Siani nel tamburino non è solo un atto di riconoscenza a lui, ma a tanti uomini del mondo dell'informazione che sono seri, che si documentano, che sono veri. Io ne ho conosciuti alcuni, magari sono qui presenti, che avevano in mano notizie bomba, da prima pagina, e che certamente si sarebbero accattivati le simpatie delle proprietà; invece hanno saputo mettere da parte tutto per rispetto dei tempi giusti, per evitare di creare dei danni, non sono venuti meno all'attenzione per la verità che devono avere i grandi giornalisti.
La scorrettezza che usa la fragilità delle persone
Il compito di un giornalista non è esprimere sentenze. Eppure quanti articoli leggiamo nei quali è già scritta la sentenza su una certa persona, a volte anche solo attraverso l'uso di alcune espressioni invece di altre? Ho letto l'altro giorno un articolo in cui un transessuale era definito "una bomba batteriologica": sono dei giudizi superficiali, ma molto offensivi. In un altro articolo si parlava di un senza fissa dimora, di un povero della strada che "come cuccia aveva...": non s'è fatta in quel caso attenzione che quello non è un cane, ma è una persona; non si possono far passare certi linguaggi.
Quanti sono i giornalisti furbi che usano la fragilità delle persone!
Stiamo per uscire con un dossier sulla storia di Niscemi. Il 21 di marzo dell'anno scorso a Niscemi abbiamo organizzato una giornata in memoria e di impegno per tutte le vittime della mafia, promossa da Libera, con altri e preparata con la città, con la gente, con i comuni, con le scuole, con i ragazzi, non una delle solite manifestazioni. Il caso ha voluto che, nella disperazione, una donna si suicidasse l'indomani: abbiamo allora affidato a dei ricercatori della comunicazione dell'Università di Padova lo studio degli articoli usciti a riguardo il giorno prima e il giorno dopo.
Io conosco bene questa ragazza [la figlia della donna suicida n.d.r.] e basta solo vederla in faccia per dire che bisogna proprio essere scorretti professionalmente per usare una persona così fragile in un momento di disperazione e farle dire ciò che si vuole. E quanti giornalisti furbi, pur di scrivere, giocano sull'ingenuità delle persone, le manovrano con domande tranello, senza conoscerle.
Un altro esempio: la banda dell'Aids a Torino. Mi spiace che la mia città sia salita alla ribalta della cronaca italiana prima per San Salvario, poi per la banda dell'Aids, perché Torino è una città stupenda, dove avvengono anche fatti stupendi. Tre ragazzi malati di Aids, in base a una normativa che ben conoscete, perché è stata oggetto di una nostra grande battaglia, potevano uscire dal carcere per curarsi. Come loro, 2.500 persone usufruiscono di questa normativa, perché non essendo il carcere compatibile con la loro condizione di malati, devono potersi curare: non l'ha detto Vinicio Albanesi, che pure è una voce autorevole, o Luigi Ciotti; l'ha detto la Commissione sanità andata sul posto a esaminare le carceri, una commissione parlamentare europea e un rapporto dei medici penitenziari.
Quei ragazzi sono in ospedale perché stanno male, non hanno altre opportunità, altri riferimenti. Non hanno soldi, nessuna opportunità, decidono di andare a rapinare la banca vicina col temperino: prendono i soldi e la prima cosa che fanno è comprarsi tre telefonini. Perché questo? Cosa sta dietro a questo bisogno di comunicare, di non essere soli? Certo, esso non può minimamente giustificare nulla, però fa sorgere interrogativi.
I soldi finiscono, non vengono arrestati per lo stesso disposto legislativo, e l'indomani compiono un'altra piccola rapina per procurarsi qualche soldo per loro. Nel mese di luglio monta la vicenda - che poteva essere affrontata in un modo diverso, sia ben chiaro, per quei trenta che hanno ripreso a delinquere, senza penalizzare tutti i 2.500 malati - e dopo che è emessa la sentenza, qualche politico approfitta subito per richiedere ordine, interventi, cambiamenti della legge.
Io non avevo mai visto a Torino la televisione australiana...sta di fatto che a un certo punto i ragazzi hanno smesso, grazie a Dio, di rubare perché pagati per fare le interviste. Da tutto il mondo sono arrivati, perché anche all'estero questo caso ha fatto notizia, e per un milione quei ragazzi concedevano un'intervista.
Il fatto grave è che persone fragili si sono sentite protagoniste e rinforzate in un ruolo, che pure è negativo. Io poi sono andato a trovare questi ragazzi, che non conoscevo: con uno ho litigato, uno è venuto a vivere con me da una parte, l'altro è andato a vivere con uno di noi da un'altra parte; non sono più andati a commettere dei reati, ma sono morti certo con un cambiamento interiore. Non indifferente è stato quello avvenuto nel capo banda, Manis, un ragazzo di strada che viveva poveramente una situazione pesante: si stava spegnendo e gli hanno regalato un bellissimo vestito, e lui prima di morire mi ha detto: "Non ho mica bisogno di quel vestito che mi hanno regalato; se vedi Mauro - che è un altro ragazzo che grazie a Dio e ai farmaci riesce a tirare avanti e ha ritrovato più forza di prima - dallo a lui".
Profeti del cambiamento
Ma c'è anche chi si presta. Giovanni Riggio, che non ha più questo nome da pochi giorni, credo sia uno dei più grandi collaboratori di giustizia del nostro paese; con la sua testimonianza ha permesso l'arresto di centinaia di persone della 'ndrangheta. E' un ragazzo che deve il suo cambiamento all'incontro, sulla spiaggia veneta, con una ragazza. E' stato condannato a morte dalla sua organizzazione - il processo è attualmente in corso a Reggio Calabria.
La procura antimafia di Milano ha recentemente scoperto, da intercettazioni telefoniche ambientali, che stavano per rapire suo fratello per costringerlo a ritrattare al processo; e si è scoperto che diversi mesi fa, mentre andava a testimoniare in gran segreto, avrebbe dovuto saltare in aria con la sua macchina, ma grazie a Dio cambiarono strada.
Insomma, questo ragazzo ha la forza di mettere in gioco tutto. Ed ecco che esce sul giornale di Reggio Calabria la notizia che Giovanni Riggio fa il volontario presso il gruppo Abele di don Ciotti, senza lasciare adito a smentite. Questa notizia è stata un altro modo di uccidere una persona. Allora capite che ci sono purtroppo uomini d'informazione che sono portavoce di altri giochi, di altri interessi, e che quindi tagliano le situazioni in un certo modo.
Vorrei terminare sottolineando, accanto al lungo elenco delle zone d'ombra, tutta la positività che c'è, e ce n'è veramente tanta. Vi voglio parlare di un amico, che voi avete ben conosciuto tutti, don Tonino Bello, malato di cancro, eppure andato a Sarajevo in segno di pace, per chiedere con il suo gesto al mondo di intervenire. Se ci sono in gioco i petroli, allora arrivano tutti subito, ma in Jugoslavia, quando si è intervenuti, le stragi erano già state compiute.
Tutti vi ricordate i giudizi nei suoi riguardi espressi negli ambienti della Chiesa, così pure in quelli politici: lo hanno tacciato di protagonismo ed esibizionismo, mentre lui era tornato con tanta sofferenza dentro. Proprio tornando da quel viaggio, da quella fatica, che era una sua denuncia, la sua forza, scrisse una pagina molto bella, in cui invita tutti a sognare ad occhi aperti, dicendo che sono i sogni che restano.
Infatti c'è un passaggio che credo vada bene a tutti noi, perché le responsabilità e l'impegno a costruire in positivo appartengono a tutti: bisogna essere capaci di non essere i notai dello status quo, ma i profeti dell'aurora. C'è il rischio molte volte che ci si rassegni ad una situazione di difficoltà, di impotenza davanti a qualcuno più grande e potente di noi; ma credo che noi siamo tutti quanti, se siamo qui, gente testarda, e vi auguro di esserlo sempre di più, per essere non i notai dello status quo, ma i profeti del cambiamento, di cui oggi c'è tanto bisogno, non solo nell'ambito dell'informazione.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.