Dante Clauser e Gigi Padovani. Coordina Fausto Spegni
Rispondo alle ultime due domande di Nicoletti. E' scritto nella carta di Treviso che voi tutti conoscete a memoria che, anche in presenza di un assenso del genitore, il minore non si fa vedere, né si può identificare. Questo è detto con grande chiarezza ben prima della legge sulla riservatezza. Allora, partendo da questa unica piccola certezza, riflettiamo sui tanti spunti che ci ha dato Nicoletti. Chiamerei qui don Dante Clauser, che è della cooperativa "Punto d'incontro" di Trento. Il suo è un intervento, ma dovrebbe essere anche una reazione agli esempi portati da Gianluca Nicoletti.
Dante Clauser - Comunità Punto d'incontro, Trento*
"Per favore, non chiamateli barboni"
Parecchi di voi mi conoscono perché mi hanno sentito altre volte proprio in questa occasione. Sono un uomo semplice: so che l'ultima volta che sono intervenuto qui davanti ai giornalisti ci sono state parecchie interruzioni di ilarità. Però questa sera non riesco ad essere come il solito, perché quanto ho visto e ho udito un momento fa - scusatemi, cerco di contenermi il più possibile ma non sempre ci riesco - ha riaperto nel mio cuore una ferita recente, che non è ancora rimarginata e che forse non si rimarginerà mai. Alcune settimane fa a Trento un uomo che era venuto da qualche anno dalla Sardegna per cercare lavoro e aveva trovato soltanto dei lavori saltuari, aveva avuto delle noie con la legge. Molti di noi, me compreso, non hanno mai avuto noie con la legge per un semplice motivo: che sono sempre riusciti a farla franca. Quest'uomo una sera in una casa abbandonata - che lui aveva scelto come sua dimora, che aveva ripulito, perché era un uomo molto pulito, ogni mattina veniva al "Punto d'incontro" a farsi la doccia e a lavarsi la biancheria, a mezzogiorno era venuto a pranzo da noi - a mezzanotte era stato assalito da un gruppo di balordi che volevano contestargli o rubargli in quella casa fatiscente, era stato pestato a sangue e bruciato vivo. Non l'ho letto sui giornali, sono andato a riconoscere la salma perché chiamato dalla Questura. E' stato uno spettacolo orribile. Non so se voi abbiate mai visto un uomo bruciato vivo, io l'ho visto, è tremendo. I quattro balordi - che non frequentavano il "Punto d'incontro", ma erano persone rispettabili - subito catturati e tutt'altro che pentiti, hanno dichiarato che non vedevano l'ora di uscire per ricominciare da capo ad ammazzare barboni e marocchini. Uno di loro ha dichiarato questo.
I giornali del giorno dopo titolavano a grandi lettere "Un barbone bruciato vivo". Sia ben chiaro che il termine barbone per me è un titolo di grande amicizia. I barboni sono i miei prediletti e quando la gente mi chiama barbone, non soltanto per la mia barba evidente ma per il mio modo di vivere sulla strada, mi danno un titolo d'onore. Ma per la gente comune la parola barbone significa un uomo che non conta nulla, che non vale nulla, un uomo del quale si parla soltanto quando delinque o quando, come in questo caso, viene ammazzato. Io reagii immediatamente gridando che quella persona non era un barbone. I giornali del giorno dopo mettevano in evidenza in centro alla pagina: "Don Dante dichiara con le sue parole" - di solito io non ho peli sulla lingua, ce n'ho tanti sulla faccia, ma sulla lingua neanche uno - "che non era un barbone". Era vero, però gli articoli tutt'intorno continuavano a chiamarlo barbone. I suoi genitori dalla Sardegna, non proprio loro direttamente, perché vecchi ormai sopra gli 80 anni, ma per mezzo di una parente, mi telefonarono, ringraziandomi. Non abbiamo potuto seppellirlo e lo hanno riportato in Sardegna, nel paesino dove era nato e da dove 15 anni prima era partito col cuore pieno di speranza. Passano due o tre settimane e trovano nel lago di Caldonazzo, vicino a Trento, un giovane che frequentava il "Punto d'incontro", anche se non lo vedevamo da alcune settimane e ancora il titolo: "Un barbone trovato nel lago di Caldonazzo". E questa volta la mia protesta è stata piena nei confronti del redattore capo del giornale, a cui ho rivolto tutte le parolacce di cui sono capace, e ne so molte. Sentendomi così non infuriato ma incazzato, il capo redattore mi mandò subito una giornalista, credo che abbia scelto la più carina, nell'illusione forse di... ammansirmi. Ma non c'è riuscita, anche perché la mia protesta era aggravata e avevo protestato a tutt'andare non soltanto per il titolo di barbone, perché anche questo non era un barbone, ma un povero ragazzo che era appena ritornato dalla Germania dove aveva lavorato per qualche mese come cubettista, quindi aveva dei bei soldi in tasca, ma non aveva una casa e aveva avuto una delusione amorosa. Quando uno è emarginato e ha una delusione amorosa, o meglio quando un uomo ha una delusione amorosa gli restano tre strade: o farsela passare, o ammazzarsi, o andare in seminario. Lui aveva scelto la seconda. Delusione amorosa da parte di una ragazza: non dico fosse colpa della ragazza - queste cose solo il Padre Eterno sa perché avvengono - ma quello che mi ha fatto tremendamente incazzare è stato il fatto che, siccome addosso a questo cadavere non avevano trovato una fotografia perché era stata rovinata dall'acqua del lago, avevano pubblicato la fotografia di un suo fratello, un altro cliente del "Punto d'incontro" che aveva il grande torto di stare in galera; perché? Potete immaginarvi come mi sono arrabbiato.
Allora a questa simpaticissima giornalista ho detto tutto quello che pensavo. Il giorno dopo ancora, in grassetto nel centro del paginone, riportano le mie parole: "Non era un barbone, era un povero ragazzo, era un bravo ragazzo". Anche lui aveva avuto delle noie con la giustizia, come tutti i miei amici. L'unico che non è mai stato in galera nella mia comunità sono proprio io. Però non c'era neppure un cenno sulla mia protesta, per il fatto che avevano pubblicato la fotografia di suo fratello che stava in galera.
La mia testimonianza è tutta qui. Capite cosa vuol dire? Signori giornalisti, amici cari ai quali io voglio tanto bene, perché hanno in mano un'arma poderosa, nel bene e nel male: noi preti non abbiamo le vostre armi, perché al massimo la gente viene a confessarsi e perdoniamo - adesso siamo nel periodo del perdono, tutti perdonano, e mi fa ridere, ma noi preti perdoniamo nel nome di Gesù Cristo e siamo legati, grazie a Dio, al segreto non soltanto professionale - ma voi giornalisti avete in mano un'arma tremenda.
Lasciatemi concludere con un'altra piccola considerazione, perché questa era cronaca nera, e voglio fare un accenno anche alla cronaca bianca. L'altro ieri, tutti i giornali mettevano più o meno in rilievo un fatto: il Papa ha la raucedine. Io voglio tanto bene al Papa e mi rincresce che abbia la raucedine, però, Cristo di Dio, i miei barboni che dormono sulle panchine, sotto i cartoni, hanno tutti la raucedine, e più della raucedine, ma nessuno ne parla!
Fausto Spegni - caporedattore Rai International*
Vorrei dire una cosa prima di cominciare a lavorare in maniera costruttiva. Attenti perché Gianluca Nicoletti e don Dante, con i loro interventi, ci possono aver portato fuori strada, cioè ci possono aver fatto credere che noi siamo diversi. Lo ha detto già Nicoletti, lo risottolineo anche dopo l'intervento di don Dante. Siamo sdegnati, siamo diversi? Forse non è vero. Come ha detto don Dante (l'unico della comunità a non aver noie con la legge sono io), forse se siamo stati così fortunati da non aver avuto noie con la nostra legge, con la legge della nostra coscienza, se non abbiamo violato le leggi che regolano la stampa, se non abbiamo violato le carte - che non sono propriamente leggi, però dovrebbero essere leggi della categoria - forse le violeremo domani o le stiamo violando in questo momento, facendo il nostro lavoro. Il giorno in cui ci fu quell'incidente al Galeazzi, una cronista del telegiornale della Rai di Milano faceva quello che siamo chiamati a fare, e che facciamo spesso senza pensare, cioè inseguire i parenti delle vittime, non per chiedere che cosa avessero provato - perché questo ormai sappiamo non farlo, a volte - ma domandando maggiori informazioni. Chiedeva a un parente dell'infermiere bruciato da quanto tempo lavorasse lì. Il parente le ha detto: "Cosa vuole che ne sappia, che cosa m'interessa, ma che cosa m'importa?" Vorrei ripetere quello che ha detto la cronista e che è andato in onda, fortunatamente. Ha detto: "Scusi". Credo che sia stata la prima volta che un cronista ha chiesto scusa. Vorrei che riflettessimo anche su questo.
Cominciamo con la parte più costruttiva, perché esempi come quelli portati da Gianluca Nicoletti e da don Dante ne abbiamo altrettanti, purtroppo. Chiedo di poter dire una cosa in chiave costruttiva ed è questa: molti dei colleghi qui presenti sono della Rai, sono molto contento di questo perché i giornalisti del servizio pubblico che dovrebbe essere, diciamo così, più immuni da certe cose, dovrebbero essere più fortemente interessati a questi argomenti. Allora, in assenza di direttori e di capi-redattori regionali, inviterei i colleghi della Rai, che sono venuti qui per formazione, a fare una relazione delle discussioni, delle proposte, dei mali che verranno sottolineati e di inviarla, chiedendo una discussione in merito ai capi redattori regionali e ai direttori di testata. Perché non si può semplicemente mandare qui qualcuno e poi sentirsi buoni perché lo si è fatto, cioè predicare bene e razzolare male.
Gigi Padovani - Giornalista de La Stampa*
"Un giornalista è la vedetta sul ponte della nave dello Stato. Egli nota i bastimenti di passaggio, le piccole cose che punteggiano l'orizzonte. Egli segnala il naufrago alle navi che possono salvarlo, scruta nella nebbia e nella tempesta per avvertire dei pericoli in arrivo. Egli non pensa al suo salario o al profitto dei suoi padroni. Egli è lì per procurare la sicurezza e il benessere alla gente che crede in lui". Così scriveva Joseph Pulitzer nel 1904 su "The North American Review". Non so quanti miei colleghi oggi si possano riconoscere in questo motto del famoso giornalista americano, che poi diede il nome al premio più famoso in questo campo. Ho dei dubbi anch'io, che pure tento da anni di accompagnare questo mestiere a certi valori sociali ed etici. Come si fa a sostenere che giornali e televisione "procurano sicurezza e benessere" alla gente, oggi? Violenza, cronaca nera, storie umane distorte e utilizzate per fare audience sono sempre più la materia prima sulla quale vengono confezionati quotidiani e notiziari tv. In realtà i media sono accusati oggi di procurare ansia e insicurezza.
Da anni ormai le storie personali, quelli che in Francia vengono definiti faits divers, con la spettacolarizzazione del dolore, sono diventate pane quotidiano per l'informazione italiana: dai talk show alle prime pagine dei quotidiani. Soltanto negli anni '70 e fino alla metà degli anni '80 era inconcepibile affrontare questi temi sui giornali. Ci sono notizie di poche righe d'agenzie sulle quali un tempo si poteva scrivere una breve che oggi vale una pagina intera. Occorrono regole certe, occorre ritornare oggi più che mai a quel vascello di Pulitzer, anche se i mari in tempesta della politica e della cronaca italiana non sempre consentono una navigazione corretta all'informazione.
Il problema dei minori
L'Italia è il Paese della mamma e dei bambini, è il Paese in cui, come dice Filumena Marturano a Domenico Soriano nella famosa commedia di Eduardo De Filippo, " 'e figlie sò ffiglie". Eppure giornali, televisioni, agenzie di stampa continuano a pubblicare i nomi di adolescenti suicidi, di vittime della violenza parti lese in processi, dei genitori di bambini abusati in modo da permetterne l'identificazione, di figli contesi in coppie sfasciate. Su quei giovani trasformati in notizia si compie così un doppio crimine: soffrono per il fatto di cronaca del quale sono diventati protagonisti (come vittime di violenza, come autori) e subiscono le conseguenze psicologiche di essere "sbattuti in prima pagina".
Chi "manipola" questi casi deve sapere che racconta vicende che per anni e anni condizioneranno lo sviluppo e la crescita di un essere umano, deve rendersi conto che un aggettivo di troppo, un dato che permetta l'identificazione, un particolare pruriginoso possono creare danni irrimediabili. Il cronista lo sa? Ne è consapevole? Non sempre purtroppo. Anche se le cose sono migliorate a forza di battere il ferro da parte di Fnsi e Ordine dei giornalisti. Carte deontologiche, convegni, appelli, anche sanzioni disciplinari hanno un poco modificato la sensibilità su questi argomenti.
I baby killer
Accanto alla violenza contro i minori, negli ultimi tempi è nato un nuovo filone che ha interessato i giornali: bambini, o meglio i ragazzi, gli adolescenti cresciuti troppo in fretta e costretti a sentirsi subito adulti, sono tornati in prima pagina. Non bastavano i bimbi vittime della nostra violenza di adulti, uccisi, rapiti, picchiati, contesi. Adesso i minori fanno notizia in quanto autori e protagonisti della violenza. Si rovesciano i ruoli e l'informazione è sempre molto attenta a questi cambiamenti, la notizia viene creata, ampliata, perché ha un valore aggiunto "nuovo": colpisce come un pugno nello stomaco. Più è giovane l'assassino, meglio è.
Così i modelli giovanili rappresentati con più frequenza sui giornali o in tv rispondono a questi stereotipi :
- giovane componente di banda delinquenziale, cinico e capace di compiere qualsiasi atto di violenza senza mai pentirsene;
- lanciatore di sassi;
- in fuga da casa per un brutto voto o una sgridata dei genitori;
- suicida o tentato suicida per le stesse ragioni;
- divo dello star system, in sport, musica, cinema o moda, possibilmente sempre più giovane.
Una vecchia regola del giornalismo diceva: non fa notizia il cane che morde l'uomo, ma un uomo che morde il cane certamente sì. Ed ecco la nuova "notiziabilità", secondo il termine che è stato inventato dai mass-mediologi americani ("Newsworthiness"): il bambino violento, anziché il bambino abusato.
Baby-killer, baby stupratore, baby-criminale, baby-racket, baby-spacciatore, baby-scippatore, baby boss, baby assassino: si sono usate tutte le categorie della criminologia per definirli, con quell'aggettivo che entra così bene nei titoli da farne ormai un abusato complemento. "Baby-killer" suona come una pistolettata, un atto d'accusa senza possibilità di smentite. E' rapido, efficace, comodo da inserire nelle mascherine dei computer. Mi sono messo a raccogliere questi titoli e l'archivio è diventato rapidamente assai robusto.
Grazie al termine "baby-killer" si afferma uno stereotipo nuovo sull'infanzia: il bambino cattivo. Ma non il divertente Gian Burrasca di Vamba (pseudonimo di Luigi Bertelli, uscito nel 1920) o il simpatico mascalzoncello Lucignolo di Collodi (Carlo Lorenzini, che lo inventò nel 1881 per "Il giornale dei bambini"), eroi negativi tramandati dalla letteratura per ragazzi, che crea monelli per esaltare i modelli positivi. Tom Sawyer è l'eroe americano, in Germania Wilelm Busch inventa "Max und Moritz", in Francia la Contessa de Segur racconta le avventure di Sophie. Questi "bambini di carta" dalle gesta terribili sono più simili ai perfidi ragazzi protagonisti del romanzo di James Ballard "Un gioco da bambini", un noir inglese nel quale viene descritta nei minimi particolari l'esecuzione - uno dopo l'altro - di tutti i genitori di un gruppo di 13 adolescenti tra gli 8 e i 17 anni che vivono in un quartiere residenziale ed elegante nei sobborghi di Londra. O ancora, sono gli eroi del serial televisivo "X-files" e dei film di Oliver Stone ("Natural born killer") e di Luc Besson ("Leon"). E' una regola che si impara appena si mette piede in una redazione: non fa notizia il cane che morde l'uomo ma un uomo che morde il cane. E così, nasce sui media il piccolo assassino. Difficile che qualcuno si fermi a pensare perché succede, rari gli articoli di commento su questo aspetto.
Un commento lucido uscì sul "Corriere della Sera" con la firma del teologo cattolico Sergio Quinzio, che si interrogò sulle ragioni profonde dell'omicidio di Liverpool. Rifiutata la "facile risposta" che "getta la colpa sulla violenza propinata a getto continuo dai mass media", Quinzio ricordava che "proprio perché le città sono quelle che sono, la famiglia quello che è, la scuola quello che è, il mondo quello che è, i mass media hanno sui nostri bambini e sui nostri ragazzi una terribile efficacia". Ma il teologo in qualche modo salvava direttori dei giornali e responsabili di reti televisive, ed è importante che sia proprio Quinzio ad aggiungere, riferendosi al ruolo dei media: "Non fanno che rispecchiare all'infinito una società in cui non valgono altri modelli di vita". Come dire: lo specchio è deformato, ma non può che riprodurre questa realtà. Ed è una realtà in cui la violenza è diventata smisurata, tecnologicamente perfetta, "chirurgica" come si diceva per le bombe americane sull'Iraq durante la guerra del Golfo, ma anche ha acquistato un grande fascino, essendo saltati tutti i valori. "La nostra etica è disfatta - scriveva Quinzio - e gli unici comportamenti che riusciamo ancora a considerare gravemente illeciti sono proprio gli atti di violenza". Ecco perché esercitano sui giovani una "colossale attrazione", diventando "l'unica vera trasgressione".
I due ragazzini che furono uccisi a Liverpool da due loro coetanei, i tre bambini di Vitry-sur-Seine, alla periferia di Parigi, che il 9 ottobre 1993 uccidono un clochard, Pietro Maso che massacra i genitori con gli amici nel ricco Nord-Est, o ancora i giovani di Chivasso, nella cintura di Torino, che spaccano la testa ad un amico per prendergli dieci milioni, confesseranno tutti di aver compiuto quei terribili massacri con grande freddezza, come si vede nei film, per poi andarsene al mare o in discoteca o a guardare la tv. Troppo semplice credere che siano i telegiornali o i telefilm ad averli indotti al crimine. Ma nello stesso tempo, come dimenticare la potenza di quello specchio citato da Quinzio, che li trasforma in eroi?
Va detto per altro che, al di là delle Alpi, i mezzi di informazione sono più corretti dei nostri nel trattare questi casi, proteggendo in modo rigido l'identità dei minorenni assassini. Infatti i giudici britannici vietano ogni possibile riferimento ai due ragazzini, che vengono definiti "il bambino a" e il "bambino b". Non così sui nostri quotidiani, che ne pubblicano i nomi e vengono bloccati all'aeroporto dai giudici inglesi.
Può sembrare logico proteggere la privacy di questi due dodicenni. Ma mi pare interessante riportare un'analisi che di questo caso è recentemente comparsa su un testo che negli Stati Uniti viene adottato nei corsi di giornalismo, "Media Ethics", di C. Christians, M. Fackler e K. Rotzoll (Longman, N.Y.,1995), nel quale si analizzano i diversi comportamenti adottati dai media britannici e inglesi durante il processo. Se la Bbc non ha fornito appunto alcun particolare su di loro, i reporters americani sui loro quotidiani hanno scavato sulle famiglie di origine, sul contesto in cui sono vissuti i due "baby-killer", per capire le ragioni di tanta violenza. E gli autori, nell'introduzione al loro libro, si chiedono: quali valori etici è più giusto seguire? Quelli dettati dalla legge, come hanno fatto i britannici, per la protezione dei ragazzini coinvolti, o quelli professionali - degli americani - che hanno voluto spiegare le ragioni del delitto?
L'autocritica dei giornalisti
Negli ultimi tempi qualcosa è cambiato. I giornalisti hanno fatto autocritica, si sono posti il problema fin dal 23 marzo 1989, quando a Roma si riunì per la prima volta un comitato nazionale minori-informazione. Venne poi, nell'ottobre del '90, il convegno nazionale di Treviso, organizzato da Fnsi, Ordine dei giornalisti e Telefono Azzurro, che si concluse con l'approvazione di un documento deontologico della categoria, il primo in materia di soggetti deboli: la Carta di Treviso. In quel documento vengono fissati i princìpi di autoregolamentazione dei mass-media nei confronti dei minori. Al primo punto, ovviamente, l'impegno a non pubblicare il nome e la foto del bambino, "prevalendo su tutto il suo interesse ad un regolare processo di maturazione, che potrebbe essere profondamente disturbato o deviato da spettacolarizzazioni del suo caso di vita".
Un ulteriore passo avanti fu, nel luglio del '91, la dichiarazione congiunta tra editori (Fieg) e sindacato giornalisti (Fnsi) nella quale si stabilisce "che l'informazione deve riconoscere e rispettare i princìpi sanciti dalla Convenzione Onu del 1989 sui diritti del bambino e (...) le specifiche normative previste dal codice di procedura penale a tutela dei minori".
La convenzione delle Nazioni Unite
Si tratta di un documento fondamentale, che è stato firmato a New York il 20 novembre dell'89 e ratificato dall'Italia con la legge 176 del 27 maggio '91. L'articolo 16 difende la "privacy" dei bambini in famiglia, in casa, nella sua corrispondenza. Ecco il testo: "Nessun bambino/a dovrà essere sottoposto a interferenze arbitrarie o illegali nella sua 'privacy', nella sua vita familiare, nella sua casa o nella sua corrispondenza, né ad illeciti attentati al suo onore e alla sua reputazione. Il bambino/a ha diritto di essere protetto dalla legge contro tali interferenze o attentati". Il 17 si occupa più esplicitamente dell'informazione, in termini più propositivi che cogenti, per la verità: si chiede ai mass-media di interessarsi ai minori, si incoraggiano i libri per bambini e infine al punto "e" si dice che vanno incoraggiati "codici di condotta affinché il bambino sia protetto da informazioni e materiali dannosi al suo benessere".
Le norme giuridiche
Da un punto di vista giuridico, non v'è dubbio che anche l'informazione sui minori rientra nel concetto generale del diritto di cronaca. Questo può però trovare un suo limite - e qui dovrebbe stare l'equilibrio - nel diritto del minore alla riservatezza: una "privacy" sancita anche dall'articolo 700 del codice di procedura penale. A questo principio, un tempo relegato ad una vecchia concezione esclusivamente patrimonialistica, si è rifatta nel 1973 la Corte Costituzionale, affermando che il diritto alla riservatezza è "un diritto inviolabile e costituzionalmente garantito" e che quindi la norma sancita dall'articolo 2 della Costituzione - che riconosce l'inviolabilità della persona umana - debba prevalere, in caso di potenziale conflitto, sull'articolo 21, che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero.
Nella legge istitutiva dell'Ordine dei giornalisti (3 febbraio 1962, n. 69) si chiarisce fin dall'articolo 2 quali sono i limiti dell'informazione, come abbiamo visto, ma evidentemente non era sufficiente. Quando partì il gruppo di lavoro nato per stilare la Carta di Treviso, la legge italiana vietava ancora di pubblicare il nome di un ladro minorenne di arance - imponendo di indicarne solo le iniziali - ma nulla diceva circa le generalità di una piccola vittima di violenze sessuali, fatto certamente più traumatico.
Ora è in vigore il nuovo codice di procedura penale, che per i minori ha sancito una serie di norme assai più rigide: l'articolo 114 infatti vieta di pubblicare le generalità e l'immagine di minorenni testimoni, persone offese o danneggiate dal reato finché non siano divenute maggiorenni. E ancora l'articolo 472 sacrifica il principio della pubblicità per le udienze quando vi sia un minore testimone o parte lesa. Inoltre il Dpr 22 settembre 1988 n. 488 fissa "Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni" e all'art. 13 stabilisce il divieto di pubblicazione e di divulgazione di "notizie o immagini idonee a consentire l'identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento".
Nella relazione che Alfredo Carlo Moro dedicò a Treviso a questo problema, si sottolineavano alcuni punti importanti della nuova normativa: il diritto alla riservatezza non può essere influenzato dalla particolare notorietà del minore; l'informazione, scritta o televisiva, può raccontare il fatto tralasciando il nome della vittima; la tutela non riguarda solo il processo ma anche le indagini di polizia; non solo è vietato pubblicare la foto o il nome del ragazzo coinvolto, ma anche qualsiasi elemento che possa identificarlo.
L'applicazione della Carta di Treviso
E' comunque bene ricordare quali sono i punti cardine di quel documento, che purtroppo resta molto spesso inapplicato:
- anonimato totale del minore se agente o vittima di reato;
- anche se non c'è reato: suicidio, adozioni e affidamento;
- attenzione alle strumentalizzazione degli adulti sui casi;
- si deve badare all'interesse del minore;
- se si pubblica, ci vorrà assenso di genitori e giudice.
Ma è davvero applicata? L'ultimo adempimento previsto dalla Carta di Treviso è stata la nascita, nel giugno '92, di un Comitato nazionale di garanzia, poi allargato agli esperti un anno dopo, che si è riunito formalmente al gran completo il 27 gennaio del '94 a Roma. Il comitato è composto da rappresentanti dei giornalisti, degli editori di carta stampata e televisivi, di giudici minorili ed esperti nel campo della comunicazione; ed è già intervenuto alcune volte con una condanna immediata dei giornali che hanno pubblicato foto e nominativi dei minori coinvolti in un caso. Eppure esiste, comunque, la legge professionale, che fino ad oggi è stata applicata.
I procedimenti disciplinari per violazioni deontologiche (come quelli a cui sono sottoposti i medici o gli avvocati, in Italia) sono decisi dai Consigli regionali dell'Ordine, composti soltanto da giornalisti eletti dai colleghi ogni tre anni, con la possibilità per legge (una legge vecchia, da riformare, varata nel 1963) di applicare questi quattro tipi di condanne:
1) avvertimento, per mancanze di lieve entità: è un richiamo del giornalista ai suoi doveri;
2) censura, per mancanze di grave entità;
3) sospensione: il giornalista non può svolgere la sua attività (da due mesi a un anno), in casi di condotta che abbia compromesso la dignità professionale;
4) radiazione dall'albo, se la dignità professionale è stata gravemente compromessa.
La legge professionale in Italia non era stata molto applicata - perché nei giornalisti italiani rimane forte il richiamo alla corporazione - ma proprio la "Carta di Treviso" ha risvegliato le coscienze. E così negli ultimi tre-quattro anni sono stati inflitti dai 12 Consigli dell'Ordine (soprattutto a Milano, Roma, Bologna e Torino, ma anche nel Sud, a Bari) diversi provvedimenti contro giornalisti che si erano macchiati di "lesa infanzia".
Ecco un riassunto delle sanzioni (dati aggiornati al giugno '97):
· avvertimenti: 62
· censure: 5
· sospensioni: 6
· radiazioni: 1
Sono stati dunque emessi oltre settanta provvedimenti, contro giornalisti di tutte le principali testate italiane (a volte anche il direttore): i quotidiani "Il Corriere della Sera", "La Repubblica", "La Stampa", "Il Giornale", "Il Giorno", "La Provincia Pavese", "Il Resto del Carlino", "L'Unità", "Il Tempo", "La Gazzetta del Mezzogiorno", "Il Quotidiano". Inoltre i settimanali "Epoca" e "L'Espresso", "Visto", l'Agenzia di stampa Ansa e le emittenti locali "Telenorba" e "Rete 7 tv", le testate giornalistiche Rai e Mediaset.
Anche alcuni famosi giornalisti della televisione, noti anchormen, sono stati colpiti da questi provvedimenti: Maurizio Costanzo su Canale 5 Mediaset portò nel suo talk-showuna zingarella che aveva avuto i polsi spezzati a Roma perché sorpresa da un uomo a rubare. Fu colpito da un "avvertimento", ammise poi in trasmissione di aver sbagliato. Giovanni Minoli, che dirige su RaiDue la struttura "Format" e conduce la nota trasmissione d'attualità "Mixer", è stato sospeso per due mesi dalla professione per aver intervistato in tv una ragazza violentata dal padre. Infine la radiazione dall'albo del giornalista Alberto Castagna di Canale 5 per i falsi figli di un pentito, dopo che in precedenza aveva portato in tv un bambino per un riconoscimento in diretta del padre che non aveva mai conosciuto.
Anche grazie a questi provvedimenti, sia pure con eccezioni spesso clamorose, i grandi quotidiani nazionali e i Tg di Rai e Mediaset sono cambiati, sono diventati più consapevoli. Prima di "sbattere in prima pagina" un bambino, oggi, nelle redazioni ci si pensa su. Dieci anni fa non succedeva. Certo non ci deve bastare. Non può bastare a chi fa volontariato, a chi cerca un "redattore sociale" che ancora in Italia non è nato perché la cultura non si è modificata, né quella dell'infanzia né quella di tutti i soggetti deboli. Noi giornalisti, anche attraverso i nostri organismi di categoria, siamo però un po' cocciuti, e nonostante i tanti punti di crisi della nostra professione, cerchiamo di crescere e di cambiare. Soprattutto cerchiamo di conoscere i nostri difetti. Nell'ambito dell'Osservatorio sulla professione voluto dalla Fnsi, che in alcune riunioni ha esaminato anche questi problemi, verrà varata una apposita ricerca - alla quale lavorerà l'Università di Torino, con il gruppo del prof. Carlo Marletti - sul tema "Soggetti deboli e poteri forti, le nuove frontiere della deontologia giornalistica", che cercherà di evidenziare un vecchio vizio del giornalismo italiano: l'abitudine ad essere debole con i forti e forte con i deboli, coloro che non hanno stuoli di avvocati pronti alla querela.
La legge sulla privacy è intervenuta in questa situazione creando una nuova sindrome, sbagliata, nel cronista. E' venuta forse a coprire un vuoto di iniziativa e di autoregolamentazione che la categoria si è un po' voluta. Ma se persino il dottor Masi, nel recente seminario svoltosi a Roma presso la Fnsi, ha ammesso che esistono dubbi interpretativi e problemi, chiedo a chi opera nel sociale di non utilizzare quella legge - nata per le banche dati e per proteggerci dal "Grande Fratello" soprattutto come consumatori - come grimaldello contro la nostra categoria. Sono iniziative come queste, da estendersi sempre più anche in sede locale, che possono aiutarci a crescere, tutti insieme.
Oreste Lo Pomo - Rai, Potenza*
Ho partecipato già l'anno scorso a questo incontro, ed eravamo arrivati ad un punto secondo me importante, che era quello di aver superato le incomprensioni tra giornalisti e operatori del mondo del volontariato e di aver trovato, almeno sulla carta, un percorso comune che ci portasse ad uscire fuori dagli stereotipi. Oggi, dopo l'interessante rassegna stampa di Nicoletti, con le splendide parole di don Dante che già conoscevo per la sua forza, per la sua capacità di portarci di fronte ad una realtà forse meglio della fiction delle telecamere, vorrei dire che ho fatto e continuo a fare il cronista, spesso di nera, e qualche anno fa mi sono trovato davanti un ragazzo tremante che mi ha detto: "Io sono quello del blitz". Per un attimo non avevo capito a cosa si riferisse, poi ho capito. Era un ragazzo che era stato arrestato in una operazione come tante, in un blitz, un ragazzo tossicodipendente che chiedeva di essere aiutato e che era finito in carcere invece di finire in una comunità ed era finito addirittura nelle immagini di apertura del nostro telegiornale. Un episodio che mi ha fatto molto pensare, mi ha portato anche ad una revisione rispetto a quelli che possono essere degli atteggiamenti del giornalista, spesso preso dalla libidine dello scoop.
Ho sentito oggi da don Dante una frase: voi giornalisti avete delle armi. Poi ho sentito quello che diceva Spegni a proposito della mancanza dei direttori, dei capiredattori: beh, spesso noi abbiamo delle armi spuntate. Mi ricordo una volta, una domenica di qualche anno fa, quando arrestarono il presidente degli industriali della Basilicata. Non c'erano molte notizie, e questo fu il secondo pezzo del Tg1 delle 13.30. Il presidente degli industriali della Basilicata - che non è più presidente, che sta male, che è in fin di vita - è stato assolto per non aver commesso il fatto. Per ottenere un rigo di notizia, e non ricordo nemmeno se l'abbiamo ottenuto, abbiamo dovuto scomodare un'intera gerarchia di capi redattori e direttori. Quindi abbiamo armi spuntate. Spesso siamo anche vittime dei titoli. Nicoletti faceva degli esempi di giornale: spesso la tristezza di un giornalista - anche di provincia - è trovarsi di fronte al contenuto di un proprio pezzo, dove cerca di usare un minimo di prudenza, di sensibilità individuale, un titolo sparato con indicazioni che non sono contenute nel pezzo. Ho apprezzato molto la conclusione dell'intervento di don Vinicio quando diceva: venduti e comprati. Mi sono ricordato una vicenda triste di una bambina venduta e comprata, per i giornali. Una storia costruita attorno ad una vicenda in cui la disponibilità di una famiglia a dare aiuto a questa bambina e alla madre, che era tossicodipendente, fu spacciata, per vendere qualche copia in più, per un contratto, per una vendita della bambina, che invece non c'era mai stata. Siamo anche vittime di circuiti più grandi, ma anche di un circuito che comincia a diventare perverso perché riguarda a mio avviso anche gli utenti. L'anno scorso raccontavo proprio qui la vicenda di una coppia che attorno ad una nascita di un bambino anencefalo aveva costruito la sua fortuna: voleva donare gli organi del figlio, cosa che anche dal punto di vista medico non era possibile, e tutti i mass-media si sono interessati. Mi ricordo che il Tg1 ci commissionò un'intervista, io mi misi in contatto con la famiglia, e ad un certo punto venne la richiesta: ma quanto ci dà? Non solo quanto ci dà, in un semplice mercanteggiamento, ma quanto ci dà con la motivazione che quello era uno scoop e i giornalisti lo sapevano. Mercanteggiamento, ma nello stesso tempo, anche con una motivazione di chi, da quel punto di vista, ha capito in una dimensione perversa il circuito mass-mediale. Questo ci pone anche nelle condizioni, spesso, di essere vittime di questo circuito, di non avere noi stessi le armi per poter capire fino in fondo in che situazione ci troviamo.
Ho sentito da qualche parte parlare addirittura della cosiddetta "sindrome del Telefono azzurro", la sindrome di chi ha capito, anche ad una certa età, l'importanza di tale mezzo da usarlo quasi come ritorsione nei confronti dei genitori. Sono delle situazioni che ci mettono di fronte un clima, una dimensione completamente diversa, rispetto a quello che oggi sappiamo. Spesso mi ricordano la durezza con cui certi americani scrivono dei romanzi gialli. Ora non ricordo il nome, ma ne sto leggendo uno che comincia: "Vendo notizie". Noi vendiamo notizie, l'importante è apprezzarci affinché queste notizie abbiamo un minimo, non dico di obiettività, ma rispettino le persone, i nomi, tengano presente la pluralità dell'informazione e delle voci, perché altrimenti da questo non usciamo. Chiediamo anche al mondo del volontariato di fare insieme a noi questo sforzo: noi dobbiamo uscire dal "giornalese", ma loro devono trovare la forza per uscire dal "volontarese". Tentare di capire finalmente, al di fuori della superficialità, come opera ad esempio il settore non profit, e cercare di trasferirlo fuori, per quanto possibile senza far ricorso a quegli stereotipi che spesso sono stereotipi di linguaggio, sono legati alla difficoltà di trovare un sinonimo. Ad esempio la parola "balordo", che dicevamo prima: spesso uno cerca di non ripetersi e invece si ripete. Ci sono tutte queste questioni: non dico ovviamente di assolvere i giornalisti, ma di tentare finalmente di fare un percorso insieme che vada oltre le leggi. Ha ragione Nicoletti: non bastano i codici, non basta portarsi le buste con tutte le leggi, bisogna acquisire una sensibilità che deve essere prima individuale, poi, se riusciamo come dice Spegni ad avere anche una sensibilità di categoria che vada oltre i codici, sarebbe meglio.
Susanna Cressati - Giornalista de L'Unità*
Ho sempre lavorato in cronaca, nella redazione di Firenze e della Toscana. Da due anni sono nella testata locale "Mattina". Dopo una lunga esperienza di lavoro sui problemi della politica e dell'amministrazione della città, ho cambiato settore, anche per mio desiderio personale e mi sono dedicata di più alle questioni sociali. Devo dire che è stato un percorso personale, nel senso che non ci sono molte occasioni di aggiornamento e di maturazione professionale strutturate. Almeno non c'erano quando io ho cominciato questo mestiere, cioè molti e molti anni fa. I maestri molto spesso per i giornalisti sono i fatti, le cose in cui ci si imbatte: una visita prolungata al manicomio di Firenze quando ancora non era più quello di una volta, ma non era nemmeno quello di ora, già destrutturato, è stata sicuramente una lezione importante dal punto di vista personale e professionale. Anche perché ritengo che il problema della cultura, della preparazione sia a questo punto un tema nodale, perché è vero che di tutti i codici, di tutte le norme, di tutte le regole si potrebbero fare barcate, ma se non c'è il coinvolgimento culturale - io lo chiamo etico-culturale - non si va molto avanti. È vero anche che questo mestiere - seguo Nicoletti alla radio da tanti anni e ho ascoltato con attenzione la sua rassegna stampa - in qualche maniera lo dobbiamo fare, anche se mi ribello all'idea che si debba fare sempre, e che sia necessario o ineluttabile farlo come abbiamo visto che si fa. Lo dobbiamo fare con professionalità e con cultura maggiore di quelle con cui non lo facciamo adesso.
Cito un'altra piccola vicenda personale. Quando ho cominciato a seguire le cosiddette "storie" - perché l'Unità ha avuto due pagine di storie - ne ho scritte tantissime, molto spesso anche dalle trasmissioni televisive mi telefonavano per avere gli indirizzi di queste persone. Io generalmente eclissavo o comunque interpellavo i diretti interessati, i quali poi sceglievano per conto loro. Una volta il mio capocronista, che è anche un mio amico, in maniera molto amichevole mi ha detto, "Ah ah, sei il difensore dei deboli!" A questo punto - dato che allora si trattava di un pezzo in cui ho anche sbagliato, nel senso che quella persona che mi era venuta a raccontare delle cose in realtà non le aveva raccontate tanto bene, e tutte fino in fondo, per cui forse avrei dovuto fare una verifica in più - mi sono anche chiesta se in fondo non cominciassi a sbagliare indirizzo. Non è che io, cronista del sociale, sono il difensore dei deboli, sono un cronista che parla delle questioni del sociale e ne parla in maniera corretta e in maniera rispettosa, in maniera da far emergere le cose interessanti per i nostri lettori. Vorrei sottolineare questa laicità di comportamento, perché altrimenti secondo me si perde un po' l'ago della bussola. Voglio totalmente sgombrare il campo dalla questione dei giornalisti vittime: a queste cose non credo, perché il senso della responsabilità, quando si fa il giornale di cronaca, ce l'abbiamo un po' tutti. Vorrei però lanciare un'idea costruttiva. Molto spesso negli ultimi tempi sono stata invitata da associazioni di volontariato, oppure professionali, a parlare del problema dell'informazione in questi settori. L'ho fatto, ad esempio, con le associazioni dei parenti dei malati di mente, con le questioni della sanità, anche molto importanti, e devo dire in maniera costruttiva che per la prima volta non è che l'invito che ci veniva rivolto era per metterci sul banco degli imputati, ma per chiederci: ma voi cosa avete bisogno che noi facciamo? Cioè, il problema della reciprocità dell'informazione, anche nel sociale, mi sembra fondamentale, perché è vero che il sociale ha le sue esigenze, il sociale deve essere trattato in un certo modo, con approfondimento, con cultura, con sensibilità, ma è anche vero che la stampa, in questo caso scritta, e il mondo dell'informazione, ha delle regole e che solo attraverso delle regole, intendo dire le regole corrette e buone della professione, può avvenire quell'incontro tra colui che dà l'informazione e colui che poi la trasmette ad altri, e questo incontro può avvenire in maniera costruttiva e corretta.
Rosa Buono - Rai, Bologna*
Faccio una riflessione ad alta voce, ma è una cosa che penso e che mi preoccupa. Riguarda il problema dei suicidi. Per quello che è in mio potere, io non do la notizia dei suicidi, semplicemente perché so, come sappiamo tutti, che questo induce all'emulazione. Il depresso che, per televisione o per radio, o sul giornale viene a conoscenza della morte, del suicidio di qualcuno è indotto a fare altrettanto. Un giorno arriva una notizia dell'Ansa: si trattava di una ragazza che si era suicidata, un personaggio anonimo. Io decisi di non passare questa notizia e il giorno dopo si viene a sapere che invece era un personaggio abbastanza noto, che era l'animatrice di una discoteca e quindi, stando così le cose, avevamo preso un buco. Ho difeso di nuovo il mio punto di vista dicendo soprattutto noi, come servizio pubblico, perché dovremmo dare la notizia di una ragazza depressa che si suicida? Il dibattito a quel punto va avanti, si esaspera e mi dicono: "Perché se si ammazza Raffaella Carrà non ne parliamo? Abbiamo parlato del suicidio di Cagliari, di Gardini, non dobbiamo parlarne di queste cose?" Allora io innanzi tutto ritengo che non venderemmo una copia in più o non aumenteremmo l'audience parlandone in generale. Mi domando: ma quanto vendiamo, di quanto aumenta l'ascolto, quando parliamo dei suicidi? Quando ne dobbiamo proprio parlare, perché è la cronaca che lo impone, in che modo lo facciamo?
A me è capitato di dover parlare di un suicida: era un ragazzo depresso, senza lavoro, abbandonato dalla sua ragazza a Modena. Decido di non dare questa notizia per evitare l'emulazione, dopo un'ora un'altra notizia Ansa ci racconta che, sempre a Modena, un ragazzo della sua stessa età si era suicidato, quasi con le stesse modalità, perché disoccupato. Era chiaro che questo problema, a questo punto, ci imponeva di parlarne. Io ne ho parlato in pochissime righe, senza raccontare nessun dettaglio, senza entrare nei particolari, senza ovviamente rendere riconoscibili le persone e ho puntato soprattutto sul dispiacere, sul rammarico che questi giovani perdessero la speranza, e fossero arrivati ad una soluzione così disperata, cioè ho puntato più sulla speranza, sull'aspetto positivo che ci poteva ancora essere, piuttosto che raccontare che uno aveva preso il coltello, che l'altro aveva preso un pugnale e se l'era piantato, che erano stati trovati in un mare di sangue, cioè le cose che noi leggiamo e che vediamo di solito. Quanto sono utili? Questo per raccontarvi alcuni esempi. Ho parlato poi, sia privatamente che in diverse occasioni pubbliche, con degli psichiatri, ho avuto contatto con la sede di Bologna del centro di psicanalisi italiana e questo gruppo di specialisti mi ha detto che l'ascoltare notizie di suicidi, leggere di notizie di suicidi induce i loro pazienti a fare altrettanto, e noi sappiamo che l'istigazione al suicidio è un reato. Mi chiedo, vi chiedo: quando noi parliamo del suicidio, che cosa facciamo?
Fausto Spegni - caporedattore Rai International*
Il problema delle troppe o poche carte dei doveri: anche la semplice carta di Treviso risulta largamente sconosciuta nei giornali. Anche nei più grandi giornali, nelle più grandi testate. Ci sono anche altri problemi accessori a proposito della riservatezza, discussioni vere e concrete: per esempio si nota che molto spesso in provincia è più difficile usare la riservatezza, perché? Perché nel paesino tal dei tali tutti già hanno conosciuto perfettamente il fatto e le persone. Allora come fare? Dare la notizia? Non darla? La cosa però spesso riguarda anche le prime pagine di giornali nazionali. Come Ordine, ripeto, non ci siamo occupati soltanto di Castagna, nel Lazio, ci siamo occupati di molti altri casi.
Ivano Liberati - Giornale radio Rai*
Volevo riallacciarmi a quello che Fausto Spegni ha detto poco fa, quando ha citato l'esempio della collega della sede di Milano che, inseguendo i familiari delle undici vittime del Galeazzi di Milano, è riuscita a chiedere scusa. Per carità, tanto di plauso. Io però vorrei andare oltre e fare una domanda un po' provocatoria. Cosa ci è andata a fare? Chi ce l'ha mandata e a cosa serve? Allora anche io mi rifaccio alla mia sfera personale, che poi vedo che è sempre il mezzo più efficace per raccontare problematiche di carattere generale. Mi trovavo, credo un paio di anni fa, in redazione, ed ero appena tornato da mensa. Il caporedattore mi chiama e dice: "Liberati, è pronta una macchina, devi andare a Tivoli". Gli chiedo che cosa fosse successo. Mi risponde: "Ti ricordi quell'aereo che è caduto ieri sera con i turisti italiani? Beh, quattro o cinque abitavano a Tivoli". Allora chiedo che cosa dovevo andare a fare. Mi risponde di andare a raccogliere un po' di voci e a sentire le reazioni, che cosa provavano. Io gli ho detto che non credevo che provassero momenti di abbandono mistico, di felicità celeste. Cosa vuoi che provino? Proveranno dolore, è inutile che vada lì, se vuoi vado semmai dai carabinieri o dall'agenzia di viaggi che si trova a Tivoli. Posso chiedere che cosa è successo, quando sono partiti, cercare qualche episodio di cronaca che può arricchire il pezzo, ma non me la sento di raccogliere le voci dei parenti, dei familiari. Allora il caporedattore insiste: "Tu devi andare, perché se non vai, vuol dire che non puoi fare il giornalista, che non sei un buon cronista". Faccio una piccola parentesi: io il cronista lo faccio, lui è andato in pensione, quindi non fa più il giornalista, ma questo è un vantaggio semplicemente anagrafico. In ogni caso parto, vado lì, trovo alcuni colleghi che erano anche presenti in quella circostanza e vedo delle facce straziate. C'era il fratello di uno di questi giovani morti, credo che fosse un ragazzo di 25 anni che chiedeva di essere lasciato in pace, era distrutto e non ce la faceva più a parlare. C'era una serie di colleghi della Rai, della carta stampata, delle agenzie che continuavano a fargli domande. Allora io prendo il tecnico e dico, senza sentirmi un eroe, per carità: "Guarda, andiamo in redazione e quando arrivo là dico che la registrazione non è venuta bene e quindi non ho le interviste, non ho le voci dei parenti delle vittime". Torno lì, il capo redattore mi fa una sfuriata dicendo: "Ma non è possibile, lo sapevo che non dovevo mandare te". Contemporaneamente parte il Tg regionale e poco dopo il Tg1, e mi dicono: "Hai visto? Loro ce l'hanno, tu hai preso un buco, noi abbiamo preso un buco". Io ci sono rimasto male; non so, avrò anche preso un buco professionale, però quella che sicuramente non ha preso un buco è la coscienza che è rimasta intatta. Ma ripeto: in queste circostanze a cosa serve andare dalla mamma, dal papà, dal fratello, dallo zio, dalla nonna di una persona che è appena morta, magari in circostanze tragiche come quella, cioè per un incidente aereo e chiedere cosa prova? Ma cosa volete che provino? Cosa devono provare?
Allora faccio una proposta, perché secondo me ogni intervento dovrebbe concludersi con una proposta operativa. Visto che qui alcune persone che contano ci sono - abbiamo il segretario dell'Usigrai, Roberto Natale, abbiamo Fausto Spegni che anche se dice che non conta nulla comunque è un caporedattore di una testata importante - perché non promuovere, all'interno del servizio pubblico, una nuova carta, cioè un codice di autoregolamentazione o magari una semplice postilla da aggiungere a quelle esistenti, per chiedere che il "cosa prova" ai familiari di una vittima non serve a nessuno. Soprattutto non interessa a nessuno. Allora se esiste una carta di Treviso che tutela i minori, facciamo non so la carta di Marghera - così rimaniamo nella stessa area geografica - e diciamo che quando succede un fatto di cronaca così pesante sapere cosa provano i parenti non frega nulla a nessuno, a nessuno.
Laura Ripani - Corriere Adriatico*
Sono una pubblicista part-time, lavoro nella redazione di cronaca locale a San Benedetto del Tronto del Corriere Adriatico. Voglio raccontare due episodi che ricordo e che sono abbastanza impressi nella mia mente. Innanzi tutto faccio parte di quel giornale che ha parlato del suicidio e dirò di più, il mio giornale, i suicidi non solo li pubblica, ma li dà con tutti i particolari che avete visto e questo è un comportamento da cui in redazione in qualche modo abbiamo provato a sottrarci. E' successo che di una ragazza che si era buttata sotto un treno avevamo detto - per dare la notizia, perché sappiamo che il nostro giornale vuole che siano date - che semplicemente questa ragazza, per cause in corso di accertamento, era finita sotto un treno. Insomma, avevamo cercato un po' di mascherare la notizia evitando appunto la parola suicidio. Siamo stati pesantemente redarguiti perché gli altri giornali avevano parlato di questo, magari in trafiletti; noi l'avevamo data molto grossa però avevamo evitato la parola suicidio. Nel frattempo però posso raccontare un altro esempio positivo, che mi è capitato recentemente, e che riguardava un sacerdote. Un giovane sacerdote di un piccolo paese del nostro hinterland, che dicevano avesse preso una sbandata per una donna sposata, madre di tre bambini. Come nel film "Uccelli di rovo". Io ero sola in redazione - tra l'altro, spesso faccio anche le sostituzioni di un collega professionista - con un collega da poco assunto anche lui part time. Erano le 21,30 e vengo a sapere di questa notizia, sapendo soprattutto che gli altri giornali l'avrebbero pubblicata. Breve consultazione con quello che dovrebbe essere il mio caposervizio e che in realtà è un collega professionista che si trova nella redazione centrale a cui io faccio riferimento. Lui mi dice ovviamente di verificare la notizia: visto che conosco l'ambiente, telefono a un altro sacerdote (tra l'altro in questo paese ci sono due chiese, quindi due parroci, quindi se non era uno era l'altro) che mi dice: guarda io so che questo ragazzo ha avuto una crisi, però non ti confermo la vicenda del fatto che siano scappati insieme, perché io questa donna l'ho vista due o tre giorni fa qui e so che il ragazzo invece è in una pausa di riflessione, diciamo che si è allontanato. Riferisco testuali parole al mio collega, e dopo breve consultazione mi dice: la notizia non la diamo. Io sono stata perfettamente contenta perché mi rompeva un po'. Il giorno dopo il mio direttore, guarda caso, si trovava ad Ascoli, dove vede le locandine degli altri giornali e telefona per sapere perché avevamo preso il buco. Detta la parolina magica "querela" ovviamente sono spariti tutti i patemi d'animo. Poi la querela tra l'altro c'è stata - il giorno dopo noi abbiamo dato la notizia in maniera molto soft, non dicendo neppure il paese, e comunque dicendo che si trattava di una questione personale che riguardava eventualmente la sfera privata del sacerdote, perché non c'erano denunce, non c'erano fatti oggettivi, non c'erano conferme. L'unica conferma - che avevamo chiesto ad una fonte primaria - ci aveva detto il contrario, per cui io sono stata molto contenta che questo mio collega si sia comportato in questo modo.
Mi ritengo una giovane giornalista, nonostante i 12 anni di professione, però in effetti questo problema c'è. Una mia collega - fra l'altro quella che ha scritto di quel suicidio - è una persona che con una storia simile, di un sacerdote, dopo qualche mese è diventata professionista. Io mi sono sentita al bivio, mi sono detta: ho in mano uno scoop che mi potrebbe in qualche modo favorire la carriera, che faccio la do o non la do? Lo chiedo a voi...
Paola Springhetti - Rivista "Volontariato"*
Faccio tre annotazioni brevissime. Fanno informazione sociale, soprattutto nelle Tv e alla radio, molte persone che hanno molto peso nell'opinione pubblica e non sono giornalisti. Conduttori, gente di spettacolo, direttamente o indirettamente, commentano, danno le notizie, fanno di tutto. Non sono giornalisti: sono, per questo, liberi di dire quando vogliono quello che vogliono? Questa è una domanda che butto là. La seconda riguarda il fatto che qui ci sono molti giornalisti della Rai e questo mi fa molto piacere, però mi dispiace che non ci siano quelli delle reti private. Capisco che, nei confronti del servizio pubblico, bisogna essere più esigenti, però mi piacerebbe che certi discorsi sull'etica e sulla formazione personale venissero fatti anche da coloro che lavorano nelle reti private radiofoniche e televisive e che forse vivono troppo in pace su questi argomenti. Terzo punto: volevo riprendere il problema posto dalla giornalista dell'Unità: ho lavorato per molto tempo in Rai, per fortuna per meno tempo in Tv private, adesso faccio un mensile che si chiama "Volontariato", che è il mensile della Fondazione italiana per il volontariato, quindi faccio quasi quotidianamente il confronto fra cosa vuol dire lavorare in una testata che in qualche modo è del sociale, in qualche modo è del volontariato, e cosa vuol dire lavorare in una grande testata che si occupa di tutto o che comunque non appartiene al volontariato. Lavorando nelle varie trasmissioni Rai, avevo spesso la necessità di contattare organismi, personalità del mondo del volontariato, che sono comunque fonti d'informazione. Apro una parentesi: ho rifiutato dei contratti quando temevo che mi avrebbero chiesto di trovare un ragazzo down con i genitori fotogenici, cioè ho sempre avuto la fortuna di fare trasmissioni, sotto questo punto di vista, dignitose, però devo dire che non per questo il rapporto con il mondo del volontariato è stato facile, nel senso che trovavo disponibilità e collaborazione quando a loro faceva comodo e spesso invece trovavo chiusura, scostanza o semplice disinteresse quando la cosa che proponevo era anche professionalmente corretta, però a loro in quel momento non interessava. Allora ripropongo anche questo problema: adesso che lavoro in una rivista del volontariato mi è capitata gente che mi telefona e mi dice: "Facciamo questa bellissima esperienza, siamo i più bravi, dovete parlare di noi e dovete dire queste cose". Allora penso: "Calma, se volete vi vengo a trovare poi decidiamo in redazione se parlarne e che cosa dire". Da una parte ci sono le difficoltà dei giornalisti che sono dentro gli ingranaggi, però dall'altra parte ci sono anche quelle di chi lavora nel sociale, che pure dovrebbe essere una fonte di informazione e che se fosse capace di stabilire dei rapporti corretti con il giornalista e gli organi d'informazione, forse ci darebbe una forte mano. Tanto più quando si parla d'informazione locale: credo che l'informazione locale spesso sia ad un livello peggiore di quella nazionale - non sempre, però a volte ho visto veramente cose allucinanti sui giornali locali, che sono forse per alcuni versi i più condizionabili nel bene e nel male, perché la notizia di un suicidio, forse, paradossalmente, su una testata nazionale ci si può permettere di non darla, ma per una testata locale è più difficile non darla. Per lo stesso motivo, per chi lavora nel sociale dovrebbe essere più facile influenzare, anche positivamente, gli organi di informazione locale. Don Dante si è arrabbiato giustamente, comunque un po' d'ascolto glielo hanno dato.
Fausto Spegni - caporedattore Rai International*
Confermo che, tra l'altro, come Ordine, riusciamo con maggiore difficoltà a seguire quanto avviene in periferia. C'è un problema d'informazione anche per gli stessi Ordini. I piccoli giornali hanno un pubblico ristretto, ma è più difficile controllare se seguono la deontologia.
Antonio Preziosi - Giornale radio Rai*
È importante chiarire che, prima di arrivare a fare il cronista parlamentare, ho fatto quasi tre anni a Palermo, nella sede regionale della Rai ed è stata un'esperienza veramente molto bella, molto formativa, a stretto contatto con tutti i problemi di cui ci stiamo occupando questa sera. Ho deciso di prendere la parola quando Fausto Spegni ci ha detto apertamente di rilanciare questi discorsi, che per noi devono diventare ovvii, addirittura banali, nelle nostre redazioni, con i nostri capiservizio, con i nostri capiredattori, con i nostri direttori. Ho deciso di farlo perché vi voglio raccontare un aneddoto curioso che grazie a Dio ha poco a che vedere con la Tv del dolore, con lo sfruttamento della sofferenza, ma come curiosità è comunque sintomatica di quella leggerezza, di quella mancanza di coordinamento, di quella sprovvedutezza che coinvolge non il singolo giornalista ma tutto un insieme di apparati all'interno dei giornali. Chi conosce il sistema "Argo" della Rai sa che soprattutto nelle sedi regionali esiste un sistema di dossier, nei quali vengono accumulate automaticamente le notizie che arrivano dalle varie agenzie. Vi faccio un esempio: in Sicilia c'è il dossier Agrigento, Catania, Palermo, uno per tutti i vari capoluoghi di provincia. Man mano che arrivano le notizie vengono inserite in questi dossier e il giornalista può aprirli e consultarli. C'è anche un dossier Sicilia, dove finiscono tutte le notizie che riguardano quella regione; io sono rimasto allibito quando ho trovato il dossier Sicilia intasato di notizie che arrivavano da Pavia, Venezia, Mestre, Firenze, rubricate e titolate in questo modo:Siciliano arrestato per spaccio di droga. O ancora, Tre siciliani tentano di violentare una ragazza. Rapina in banca: arrestato un siciliano. Vengono dalla Sicilia a derubare in Veneto. Il problema pare risibile, ma è serio: che ci sia un collega la cui sensibilità, il cui filtro personale rispetto agli avvenimenti è tale da poter immaginare che tutte le nefandezze di questo mondo debbano attribuirsi ai meridionali, o segnatamente ai siciliani, è un conto, ma è ancora più grave che non ci sia un caposervizio, un caporedattore, che non esista in questa redazione benedetta una dialettica che porti a verificare queste notizie che vengono inserite in rete. Ho voluto dire questa cosa proprio per dire che soprattutto le sedi locali, regionali sono dei grandi laboratori nei quali si può parlare, discutere di queste cose. Io sono d'accordo con Enzo Biagi quando dice che queste cose sono talmente ovvie che forse non è il caso di farci delle carte, però apriamo quanto meno un dibattito, parliamone, discutiamone, troviamo insieme i modi, cominciamo a parlare di obiezione di coscienza ad esempio rispetto a determinate notizie e situazioni. Questa è la provocazione contro: non soltanto la Tv del dolore e lo sfruttamento della sofferenza, ma anche contro queste coloriture che possono essere ideologiche.
Nico Aurora - Il giornale di Trani, La Gazzetta del Mezzogiorno*
Devo assolutamente prendere le distanze da quello che diceva la collega poco fa sul fatto che le redazioni locali non sono sufficientemente attente a certe realtà e magari si cullano sul loro orticello da coltivare, dando notizie con molta leggerezza. Non è il mio caso: sono pubblicista, direttore responsabile di una radio di Trani e del giornale quindicinale della stessa redazione che si chiama "Il giornale di Trani", nonché corrispondente della "Gazzetta del Mezzogiorno". Trani ha una storia abbastanza particolare: è culla del diritto, lo sappiamo tutti, città già capoluogo di regione - poi passato a Bari e anche la Corte d'appello è passata a Bari - ma anche culla del famoso Salvatore Annacondia, il boss che tutti conosciamo. Per cui devo riallacciarmi a quello che diceva il collega della sede Rai di Potenza, quando parlava di processi, di arresti-spettacolo e di assoluzioni, che poi trovano sì e no un rigo; questo succede nelle grandi redazioni, ma sarà perché il mio giornale è un piccolo giornale, un giornale cittadino, che sono riuscito a gestire un'iniziativa credo deontologicamente importante: quella di dare uguale rilievo alle assoluzioni. Nel 1993 il Consiglio comunale di Trani fu sciolto per infiltrazioni mafiose: i magistrati erano convinti che Salvatore Annacondia e il suo clan avessero a tal punto influito sull'operato degli amministratori da pregiudicarne lo stesso operato e quindi da incidere negativamente sugli interessi della collettività. Il Consiglio comunale fu sciolto e successivamente vi sono stati tutti i dibattimenti giudiziari, i processi, che stanno via via sfociando in assoluzione. Alcune clamorose. Ci sono stati alcuni ribaltamenti totali, in sede d'Appello, di quelle che erano state le sentenze nel processo di primo grado. E proprio recentemente è capitato che un ex-sindaco, che era stato arrestato e in carcere, è stato assolto in appello, così come un assessore della sua giunta. Abbiamo dato risalto a questa cosa, scrivendo che - così come in passato si era dato risalto agli arresti spettacolo perché la notizia era quella - ci sembrava opportuno, doveroso per la tutela delle persone, ma anche per la dignità di una città bollata come mafiosa, dare lo stesso risalto alle assoluzioni, senza poi esprimerci in giudizi, senza prendere le parti di nessuno, ma semplicemente per indurre il lettore a riflettere. Questo poi ha portato - e arrivo alla parte abbastanza strana dell'esperienza - ad una distorsione clamorosa. E' successo che - e devo citare l'articolo uscito oggi sulla "Gazzetta" - nell'ultimo Consiglio comunale convocato d'urgenza c'era un finanziamento da approvare di 187 milioni per il progetto "Dedalo" curato dalla comunità "Oasi 2" di Trani, di cui è responsabile tra l'altro Felice Di Lernia, consigliere del Cnca. Il Progetto Dedalo, finanziato dallo Stato, è stato approvato nell'ultimo giorno utile dal Consiglio comunale, altrimenti sarebbero scaduti i termini. Il progetto fu presentato nel '95 quando tutti i processi erano in atto. La relazione introduttiva, che fa un'analisi precisa e dettagliata del territorio, va alla ricerca delle cause per cui a Trani c'era e c'è tuttora un gran numero di tossicodipendenti. Nell'analisi, l'estensore di questo progetto cita un preesistente intreccio politico-affaristico-mafioso ed una lunga serie di arresti prevalentemente dovuti a dichiarazioni di un tranese, Annacondia, personaggio di spicco della Sacra Corona Unita e poi collaboratore di giustizia. Dalle sue confessioni emerge un quadro nel quale il nome di numerose imprese edili e commerciali si fonde col giro dell'estorsione, del traffico di stupefacenti, del contrabbando di sigarette, del riciclaggio di denaro. Quest'ultimo tipo di reato sembra emergere tra gli altri in maniera particolare soprattutto a carico di personaggi di rilievo. La realtà nel '95 era questa, c'è poco da dire. Anzi, lo stesso sindaco, che è un generale dei carabinieri in pensione, l'ha confermato: attenzione alla relazione del '95, i fatti erano quelli. Alla luce però delle assoluzioni che ci sono state, il Consiglio comunale - che è un luogo politico, dove si fa politica - è diventato un tribunale della censura. Si è parlato tre ore di queste dieci righe, la città si è voluta rifare, i politici della città di Trani hanno voluto ricreare a tutti i costi una verginità politica a Trani, censurando quelle dieci righe, e si è votata l'omissione di quel brano. E' come se io di un'opera d'arte vado a togliere una parte che non mi piace, cioè l'analisi di un progetto per ottenere un finanziamento per aiutare i tossicodipendenti e la tossicodipendenza, un'analisi fatta nel '95 che sicuramente aveva come fulcro l'attività di Annacondia - che poi abbia interessato o meno gli amministratori questo è un altro dato di fatto, le frequentazioni ci saranno state o non ci saranno state. L'aver pubblicato, dato risalto, come era doveroso, alle assoluzioni, ha portato poi ad un clima di innocentismo, a ricreare verginità a tutti i costi e quindi il Consiglio comunale ha cancellato dieci righe, ma forse non una storia.
Vincenzo Varagona - Rai - Ancona, segretario del Sigim*
Preferisco sempre parlare come responsabile del sindacato dei giornalisti, visto che mancano i rappresentanti delle categorie e dei giornalisti delle Marche. Ho la fortuna di partecipare ormai alla quarta edizione di Redattore sociale, e ciò mi pone ad un livello tale per cui posso rinunciare alle auto-flagellazioni, ma passare alla fase - raccogliendo l'invito di Fausto Spegni - propositiva. Dunque parto dall'intervento di don Dante, che è molto importante perché il passaggio in cui dice di aver esercitato il diritto di cittadino e di utente alla rettifica, mi ha portato ad ottenere un primo risultato parziale. Tralascio tutto il discorso sulla sensibilizzazione della categoria e dei giornalisti e il lavoro che stiamo facendo come sindacato: noi da tre anni pubblichiamo l'Agenda del giornalista marchigiano che entra nelle redazioni con la carta di Treviso, con la carta dei diritti e dei doveri, con un'agenda specifica con punti di riferimento per chi fa giornalismo sociale. Tralascio tutta questa parte, per aprire un altro binario, di cui secondo me si deve cominciare a parlare. Si richiedono tempi lunghi per aprire la porta della sensibilizzazione delle redazioni, però già i primi risultati si vedono. L'altra porta che si deve aprire, e bisognerebbe partire dall'interno della categoria, secondo me, è quella della sensibilizzazione dei cittadini sui diritti. Allora è vero quello che diceva Gianluca Nicoletti, cioè che dovremmo andare avanti con una valigia di carte, ma è vero anche che, se delle leggi esistono - e non parliamo soltanto delle sanzioni disciplinari ai giornalisti, ma parliamo delle leggi sulla stampa, quindi del diritto di cronaca - molte volte la gente non lo sa. Quando gli utenti si rendono conto di avere avuto una prevaricazione reagiscono, ci mettono l'avvocato di mezzo, la legge sulla stampa, e poi riescono ad ottenere un primo risultato. La realtà è che pochi lo sanno, e soprattutto molto pochi lo fanno. L'esperienza nostra, come sindacato dei giornalisti, è stata quella di tentare di aprire le porte al cittadino. È partita dal sindacato, è una cosa abbastanza anomala, dopo un'esperienza di tre o quattro anni fa, l'apertura del patto giornalisti-utenti nelle Marche, di cui l'unico ricordo, alla fine, è stata la presenza di Lilli Gruber in un bel pomeriggio ad Ancona. La gente lo ricorda soltanto per quello. Quest'anno abbiamo fatto un altro tipo di esperimento e cioè, innanzi tutto, abbiamo dato il nostro periodico sindacale "Il sommario" in mano alla cosiddetta "gente", alla cosiddetta società civile, l'abbiamo presa "a campione", tra amministratori, uomini di cultura, uomini di economia, e abbiamo detto loro: "Scrivete voi questo giornale, operazione che anche un quotidiano potrebbe fare, scrivete soprattutto che cosa pensate del modo di fare giornalismo nelle Marche". Un'esperienza che ha lasciato due indicazioni: la prima, rettori di università - e non massaie e coltivatori diretti - mi hanno telefonato dicendo: "Ma che cosa volete, cosa devo scriverci qua dentro? Che tipo di articolo volete?". Ho risposto che era una cosa banalissima, di dire quello che pensavano su come vengono gestiti il giornale, la televisione pubblica, la televisione privata nelle Marche. La prima sensazione è stata di grande imbarazzo, cioè scattava la molla secondo la quale era improponibile che dalla categoria, dai giornalisti partisse l'input per chiedere indicazioni, o comunque un suggerimento, su come fare meglio questa professione. Era un dato, secondo me, di estrema importanza e di estremo interesse.
Il secondo dato è stata la grande disponibilità al confronto. Tra l'altro c'è anche un articolo di Luisanna Del Conte, che domani mattina verrà a parlare, e dirà presumibilmente molte di quelle cose che ha detto anche all'appuntamento del 6 giugno. In quella data siamo riusciti in un altro risultato, cioè portare in un'aula magna del padiglione fieristico di Ancona, mettere intorno a un tavolo sette giornalisti, i rappresentanti di ciascuna delle testate, che sono stati interrogati, intervistati dall'opinione pubblica. Deserto da parte dei lavoratori cittadini - che si erano organizzati insieme a Cgil, Cisl e Uil - però la grande sorpresa è stata la presenza dei 300 studenti, cioè la sensibilità delle scuole su questi temi. Allora è vero che il rettore, l'uomo di cultura, l'economista si trovano spiazzati di fronte ad un invito di questo genere, ma è vero anche che non è così laddove questo tipo di cultura e quindi l'educazione alla lettura critica, all'esercizio dei propri diritti vengono coltivati, cioè quei 300 studenti hanno fatto una pioggia di domande che non finivano più, e il grande imbarazzo, questa volta, si è trasferito dalla parte dei colleghi. Altro dato: la grande difficoltà da parte dei colleghi a uscire fuori dalle redazioni e quindi tutta la riflessione che si innesca sui professionisti nelle redazioni, sugli inviati che non esistono più, sul lavoro d'inchiesta che è sparito dai nostri giornali. Concludo con una battuta, Vinicio diceva: portate questo dibattito nelle redazioni; ma i capiredattori molte volte se ne lavano le mani, mandando i giornalisti. Ma qui mi pare che il problema sia un altro: è difficile strappare l'occasione per venire a Capodarco, ma probabilmente cinque minuti di questa assemblea e di questo incontro valgono più di un quarto d'ora di telegiornale.
Gianni Renoldi - Consigliere dell'Ordine dei giornalisti di Bologna*
Voglio ripetere in pubblico quello che ha detto il primo collega di Torino, col quale tra l'altro mi sono spiegato poco fa, affinché i colleghi, soprattutto quelli giovani, non si facciano un quadro troppo nero dei giornalisti e dell'Ordine. È stato detto che l'Ordine dei giornalisti non applica mai, non commina sanzioni per violazioni alla carta di Treviso. Io sono consigliere dell'Ordine dei giornalisti di Bologna e dirò che quasi non facciamo altro. Tutti i giorni in cui ci ritroviamo c'è sempre purtroppo da affrontare un'infrazione alla carta di Treviso e comminiamo delle sanzioni, non solo nei confronti dei colleghi, ma anche nei confronti di capiredattori e di direttori, che addirittura vengono chiamati due o tre volte. Ma bisogna dire che i direttori molto spesso sono veramente sordi. E poi non solo per la carta di Treviso ma, di recente, poco prima di venire qui, abbiamo comminato una punizione per pubblicità occulta: è molto più raro, però anche questo succede e, a Bologna, anche questo non passa inosservato. Il guaio è che tutte queste cose non compaiono in pubblico, ma troppo spesso restano soltanto dentro la categoria.
Roberto Natale - Tgr Lazio, segretario dell'Usigrai*
Farò quattro osservazioni rapide. La prima su "Redattore sociale": abbiamo chiesto per anni l'istituzione di redazioni "società", ma segnalo il rischio - che Padovani chiamava "mielizzazione" e in Rai più frequentemente si chiama, negli ultimi anni, "rossellizzazione" - che diventino, se non lo sono già diventate, luoghi di cultura del fatuo. La parte dedicata a costume e società, in alcune redazioni, rischia d'essere l'alleggerimento del giornale, la parte rosa. Secondo tema, il dolore. Ivano Liberati diceva di adottare una norma che ci vieti di andare a chiedere ai parenti delle vittime cosa provano. Lego a questa norma un'altra osservazione: negli stessi giorni in cui succedeva la tragedia del Galeazzi, abbiamo visto, con un sincronismo tragicamente perfetto, la sentenza del processo per il Moby Prince: giuro di essere rimasto sbalordito dal rilievo scarsissimo che questa notizia ha avuto nei Tg. Mi sono detto: Roberto, probabilmente preso dalle questioni della Rai ti sei distratto, il processo di primo grado c'è stato, tu non te ne sei accorto, questo è il processo d'Appello, e come spesso capita nei processi d'appello... Ho chiesto conferma a colleghi più attenti di me che mi hanno detto che era il processo di primo grado. È una cosa ancora più insultante, irritante del dolore del momento, perché non siamo nemmeno così seri da tradurre quel dolore in quell'indignazione, da tenere viva fino al momento in cui arriverà la sentenza, perché i parenti delle vittime - quegli stessi che stiamo a schiacciare al muro nel momento del dolore - lì invece ci stavano. Direi che non avere memoria è una cosa addirittura peggiore del microfono vicino alle bare. E' una battuta naturalmente, ma c'è una differenza sostanziale. Quello non era dolore puro, era dolore che suscitava indignazione, ecco la spiegazione dell'assenso.
Terzo elemento: le carte. Credo che ne abbiamo a sufficienza, il problema è quello delle sanzioni. L'Ordine negli ultimi anni si è mosso, non credo però che sia sufficiente finché questo dibattito rimane tutto interno alla categoria dei giornalisti, mi scuso di questa ricostruzione storica, sarò breve. Nell'89 è stata scritta la carta di Treviso, nel '90, permettetemi di ricordare, la Carta dei diritti e dei doveri del giornalista del servizio pubblico, nel '92 la Carta dei doveri della federazione dell'Ordine, quella carta - dico al collega Padovani - è bloccata sostanzialmente da 5 anni, sul punto finale. Chi debba essere a far comminare sanzioni in caso di violazione: il punto sul quale la nostra categoria ancora non s'è sbloccata è il fatto se all'interno di quello che si chiama "Giurì per la lealtà e la correttezza dell'informazione" possano o debbano esserci anche elementi esterni alla categoria, perché poi diciamocelo - qui credo nessuno possa evitare di denunciare le sue colpe - la vecchia logica del "cane non morde cane" è anche umanamente comprensibile. Vedi una schifezza del tuo giornale, l'ha fatta un collega o l'hai fatta tu il giorno prima, che fai? Avverti l'Ordine perché ci sanzioni? Da questo punto di vista è indispensabile che ci sia un elemento esterno, non corporativo, che inneschi il meccanismo della sanzione. Quarta e ultima considerazione: ricordando il fatto che abbiamo la sigla Usigrai, sindacato giornalisti Rai tra i promotori di questa iniziativa, di questo siamo ovviamente orgogliosissimi. In queste settimane la cosa è servita anche ad alleggerire il peso delle polemiche. Avrete forse sentito parlare - uso un eufemismo - delle polemiche che hanno investito l'informazione Rai in queste ultime settimane. Ma possibile che all'informazione Rai debbano essere imputati solo i difetti di tipo politico o partitico? La Commissione parlamentare di vigilanza ha fatto, a febbraio di quest'anno, un bellissimo documento sul pluralismo, sulle diverse accezioni del pluralismo, e s'intreccia in maniera eccellente con alcune delle cose che qui oggi ci stiamo dicendo. Il punto però rimane che, stringi stringi, quando c'è da giudicare i giornali Rai, l'unico criterio di analisi che c'è è il minutaggio, pur importante, intendiamoci, dell'osservatorio di Pavia riguardo allo spezzone dell'informazione politica. Allora mi chiedo, impegnandomi naturalmente a portare questo nel dibattito con la Rai e con la commissione di vigilanza, se non sia possibile mettere in piedi altri criteri di analisi - sfruttando anche l'esperienza fatta a Capodarco in questi anni, per far sì che l'informazione della Rai non abbia meno controlli, ma controlli più articolati in base a punti di vista, che magari non interessano il singolo partito, ma possono interessare i milioni di cittadini che pagano il canone.
Fausto Spegni - caporedattore Rai International*
Concludo con un tema che è stato sollecitato da varie parti: attenzione al fatto che in vari contenitori e trasmissioni generali e generaliste ci sono dei conduttori che in pratica fanno i giornalisti, senza avere la preparazione specifica su determinati settori. Il presidente dell'Ordine del Lazio ha cercato di sollecitare il dibattito su questo, ma c'è stata una sollevazione perché sembra che così si violi la libertà costituzionale di fare domande. Però è un problema vero, perché l'impreparato generico sta soppiantando perlomeno il tentativo del preparato, che dovrebbe essere il giornalista professionista.
[1] Padovani è stato tra gli estensori della Carta di Treviso ed è membro della Commissione nazionale di garanzia (istituita da Fnsi e Ordine) sulla sua applicazione. Quello che segue è un contributo scritto da lui e preparato per "Redattore Sociale".
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.