III Seminario Redattore Sociale 8-10 Novembre 1996

Periferie umane

La macchina di chi sta ai margini: "Svegliare le coscienze"

Intervento di Giulio Marcon

 

Giulio Marcon - portavoce dell'Associazione della Pace*

Ugo Ascoli ha già detto quasi tutto rispetto alle prospettive del Terzo settore e all'importanza che questa nuova organizzazione sociale, così composita, potrà avere nel nostro Paese. Prima di dire qualcosa in più proprio su questo, e di aggiungere anche qualche considerazione, vorrei riprendere il discorso che si faceva prima con i giornalisti. Quando Gad Lerner parlava della tecnicalità di alcuni passaggi, c'erano molti segni di assenso in platea, ma io non sono così convinto che la scelta delle notizie, la scelta di dare rilievo ad una questione che succede nella propria città o nel Paese anziché ad un'altra, sia solamente una scelta di carattere tecnico. Naturalmente ci sono le procedure che un quotidiano, o che un qualsiasi altro mezzo di informazione ha, ci sono i tempi e il numero di battute di un articolo; però credo che l'alternativa che Lerner poneva tra assecondare ed educare i lettori, che è scontata per un editore - un editore naturalmente vuole vendere di più il proprio giornale, quindi assecondare i propri lettori - non lo sia altrettanto per un giornalista, perché lo statuto pubblico, il carattere di responsabilità verso la collettività che un giornalista ha, è tale che la tecnicalità deve essere commisurata ad una scelta di merito rispetto all'informazione che si dà.
Ho una relativa esperienza, relativa nel senso di abbastanza modesta, delle questioni sociali. Ho visto con più attenzione quello che succedeva, ad esempio, rispetto alla politica estera, che è l'argomento al quale mi sono più dedicato negli ultimi anni. Soprattutto relativamente alla guerra in Bosnia Erzegovina: sono stato spesso a Sarajevo, ho partecipato in questi 4 o 5 anni a diverse attività e iniziative di volontariato dei pacifisti in Bosnia e nell'ex Jugoslavia. Per la politica estera esiste un problema di dimensione estremamente ridotte nei mass media e nei mezzi di informazione italiani. Se faccio il paragone tra i maggiori quotidiani nazionali - la Stampa, il Corriere della Sera, Repubblica - e altri quotidiani di Paesi di uguale livello e importanza - Le Monde, El Pais - e se guardo allo spazio che lì danno alla politica estera e la competenza e l'approfondimento che dimostrano, emerge una grave carenza e una grave sottovalutazione della necessità, anche per l'informazione italiana, di approfondire questi temi, proprio alla luce di quei fenomeni di globalizzazione e interdipendenza di cui parlava Ascoli. Ho visto al lavoro molti giornalisti a Sarajevo in Bosnia e devo dire che il modo di raccontare il dramma di quella guerra di quei popoli, attraverso una chiave che semplificava non solo gli avvenimenti ma la complessità di quel conflitto - proprio per cercare di far comprendere ai lettori gli aspetti più simbolici e anche più significativi di quel conflitto - molte volte penalizzava la comprensione reale di quello che lì succedeva e temo che lo stesso possa avvenire per altre aree del mondo. 
Non sono esperto di redazioni, ma credo che l'80-90% dell'informazione dal Terzo mondo che arriva vi giunga filtrata dalle 3 o 4 agenzie più grandi, la Reuters, la France press, l'Associated press e le altre, che vi danno il materiale su cui lavorare. Allora quale visione di questa parte del mondo si può avere, lavorando sulle sintesi delle sintesi, sugli abstract, che vengono da queste agenzie che molte volte hanno lì i loro referenti e che comunque filtrano tutto attraverso i grandi canali di comunicazione? Quale visione si può avere di conflitti e di guerre nel resto del mondo, quando ormai l'evento è prodotto dall'informazione che ne parla e non esiste se l'informazione non ne parla, specie per quanto riguarda posti così lontani? Adesso c'è il caso dello Zaire, del Rwanda e Burundi, ma si potrebbero citare altre realtà del mondo dove sta succedendo o dove è successo qualcosa di analogo e di altrettanto grave e di cui l'opinione pubblica non ha saputo niente. C'è un fenomeno a cascata in cui questa tecnicalità, questo meccanismo in alcuni casi diventa perverso; non parlo dei singoli giornalisti, ma della logica complessiva del fare informazione.

Il Terzo settore, protagonista nel dibattito sul sociale

Ultima questione prima di dire qualcosa sul Terzo settore. Lerner diceva che dovremmo cercare di acquisire potere, per cercare di condizionare i giornalisti e i grandi mezzi di informazione. Alcune organizzazioni del Terzo settore un certo potere l'hanno acquisito e lo hanno anche esercitato - penso ad alcune esperienze come Legambiente o altre organizzazioni del non profit "filantropico-umanitario", come Telefono Azzurro - hanno utilizzato il potere che avevano con la politica, con l'informazione e con grandi aziende per ricavare da questo una serie di spazi di vario tipo, non solo nei mezzi di informazione, ma anche nel mondo della politica e delle istituzioni. Qui bisogna chiedersi - e questa è una domanda che forse facciamo a noi che operiamo nel sociale - quale potere, quali poteri, per fare che cosa, con quale forza, per cosa ne vale la pena? Il giornale che ha pubblicato più articoli sul Terzo settore nell'ultimo anno, negli ultimi due anni, non è l' "Avvenire", non è il "Manifesto", è il "Sole 24 ore". Da tempo ormai sull'inserto "Corriere lavoro" del Corriere della Sera, una settimana sì e una no, ci sono servizi, articoli, interventi che riguardano queste tematiche. Walter Passerini, direttore del Corriere lavoro, fa un editoriale quasi ogni mese su questi temi. C'è un'attenzione dei mezzi d'informazione che probabilmente rappresenta la proiezione delle aspettative di un certo mondo industriale ed economico di utilizzare il Terzo settore, le attività non profit per tappare le falle del Welfare state, per costruire una situazione residuale, in cui appunto il Terzo settore faccia quello che non riescono a fare né lo Stato né il mercato, per costruire un Terzo settore all'americana in cui non c'è lo Stato sociale.
In America c'è un grande sviluppo e una forte presenza del Terzo settore: ormai la mole di reddito che produce è di circa quasi il 7%, quindi una quota consistente, e i due settori in cui aumenta di più l'occupazione negli Stati Uniti sono Terzo settore e guardie giurate: quindi le due facce speculari della necessità di costruire sicurezza sociale e sicurezza di ordine pubblico, rispetto alla situazione diffusa di disagio, degrado e insicurezza. Da questo punto di vista il carattere composito del Terzo settore - in cui c'è volontariato, associazionismo, cooperazione sociale, ci sono le fondazioni, ci sono dai filatelici a chi fa assistenza agli handicappati, il club della bicicletta, ma anche chi lavora dentro le carceri - deve portare alla costruzione di un soggetto sociale, politico e culturale che superi la dimensioni di lobby, di rappresentanza, di richiesta di benefici per sé come categoria, come corporazione e invece dica qualcosa di più sulle politiche sociali, su dove va lo Stato sociale in Italia e in Europa, su come cambiano le formule della rappresentanza e sul fatto che il Terzo settore rappresenta tre cose nello stesso tempo. Per Terzo settore mi riferisco alla parte più consapevole e più importante della sua cultura politica.
La prima cosa è una critica dell'economia e di come si è configurato oggi il rapporto tra Stato e mercato, in tutte le connivenze che si sono create. Il Terzo settore, al di là della pratica dello scambio, del dono, pone un problema a livello di reciprocità: quindi di produzione di beni sociali in cui il rapporto con gli utenti, le persone che usufruiscono di quei beni è paritario e reciproco. 
Poi si pone la questione di nuove forme di rappresentanza democratica e sociale. Nella crisi ormai decennale, ventennale delle forme di rappresentanza politica, il Terzo settore, quindi il volontariato, le forme di lavoro dal basso nella società, hanno rappresentato un'alternativa di espressione di una soggettività in alcuni casi politica, che non trovava sbocco in altre forme più tradizionali, come partiti e sindacati.
E dall'altra parte c'è l'esigenza di un rinnovamento delle politiche sociali che non sia né residuale rispetto allo Stato, né residuale rispetto al mercato. Citavo prima il "Sole 24 ore" e il "Corriere della Sera" e l'accento che questi giornali hanno messo sull'importanza che il Terzo settore può avere. Non sono gli unici mezzi di informazione che hanno discusso e approfondito questo tema. C'è ormai la decennale esperienza della TV che ha intrecciato un rapporto, per certi versi noioso, con tutta una serie di soggetti, associazioni, gruppi, organizzazioni che, sull'esigenza di raccogliere solidarietà e aiuti umanitari, hanno creato un meccanismo in cui tutto viene metabolizzato, viene reso amorfo, in cui questa forma di solidarietà "del cuore", questa forma di ambiguità dell'umanitarismo fa cadere il discorso che noi sempre abbiamo fatto di incidere sulle radici e sulle cause che producono le forme di sofferenza e di disagio. Ci sono una serie di pregevoli presenze nel mondo della stampa e dell'editoria - penso anche ad alcuni servizi che fanno le agenzie, l'Asca, l'Ansa, penso a certe attenzioni che naturalmente l'editoria del mondo cattolico ha avuto, come nel caso dell'Avvenire, penso a quella miriade di bollettini delle associazioni. E qui devo dire che i bollettini molte volte sono anche inutili, perché oggi abbiamo circa 10.000 associazioni di volontariato censite dalla Fivol, ma abbiamo decine di migliaia forse, ma forse il doppio di bollettini, rivistine, e piccole imprese editoriali, che molte volte parlano solo a se stesse e si legittimano e si giustificano solamente per l'esistenza di riconoscimento dei propri aderenti nel gruppo e non producono né dibattito, né approfondimento. E poi vi è un approccio, soprattutto di una parte della stampa, mi riferisco al "Manifesto" in modo particolare, rispetto a questo tema, dove il Terzo settore diventa una sorta di campo di battaglia ideologico, per cui da una parte si ha, non so, Rossana Rossanda o Burgio e altri che attaccano, criticano il Terzo settore perché ci vedono il cavallo di Troia per affossare lo Stato sociale, ci vedono in qualche modo un meccanismo e uno strumento per indebolire i risultati storici che il movimento operaio ha accumulato in questo secolo; e chi invece, come Marco Revelli, Mario Pianta e altri, vede nel Terzo settore il recupero di un'istanza originaria che anche il movimento operaio aveva, perché esperienze come quelle del mutualismo o della cooperazione di inizio secolo cos'altro erano se non forme di Terzo settore, in cui quei soggetti sociali costruivano anche gli strumenti per dare una risposta ai bisogni sociali che essi stessi creavano?
Da questo punto di vista il titolo di questa sessione, cioè "Terzo settore, prima il pane", è molto attuale, perché i prossimi giorni si riuniranno non solo i capi di Stato della Fao, ma anche centinaia di organizzazioni del Terzo settore da tutto il mondo, che chiederanno proprio questo: "Prima il pane". Chiederanno alla Comunità internazionale, all'Onu, ai governi occidentali e ai Paesi più ricchi innanzi tutto di dare una risposta a questa esigenza così drammatica. Vedremo cosa ne uscirà, come l'informazione tratterà questi temi. Noi speriamo che, per esempio, il corpo di proposte e di esperienze che da quell'assise verrà fuori possa essere valorizzato. Però l'attenzione rispettosa che l'informazione deve avere verso la complessità di questi temi, deve recuperare il merito, le scelte, i contenuti delle notizie, cercando di trovare un compromesso con la tecnica, con tutti quei passaggi fondamentali che l'informazione e i media hanno e che però, essendo il giornalismo una professione pubblica, essendo un giornale o una trasmissione televisiva un prodotto che non può essere assimilato agli altri, deve probabilmente trovare su questo una giusta sintonia.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.