Intervento di Stefano Laffi
Stefano Laffi - sociologo, collaboratore di Radio Popolare*
Malato per definizione
Un po' di tempo fa mi è capitato di seguire, per esigenze di ricerca, la realizzazione di un servizio di telesoccorso in un Comune vicino a Milano. Il telesoccorso è un servizio di pronto intervento di tipo medico che molti Comuni realizzano per aiutare l'anziano solo, che sta male e teme di non fare in tempo ad avvisar qualcuno in caso di pericolo. Grazie ad una sorta di collanina con un segnalatore, se cade o si sente male si attiva il segnale: la centralina dove c'è lo staff medico chiama la persona, se la persona non risponde allora molto probabilmente è caduta e quindi interviene il medico. Un altro sistema è quello delle cellule fotoelettriche messe nei punti di passaggio dell'appartamento dell'anziano: se dopo un certo numero di ore non viene rilevato nessun passaggio, c'è il rischio che la persona sia caduta. Allora la si chiama per telefono e se non risponde si interviene. Questo servizio costa alcune centinaia di milioni l'anno. Dopo un po' di mesi, che cosa è successo? Che il telesoccorso funzionava, l'anziano chiamava, lo staff medico rispondeva e l'anziano iniziava a chiacchierare, il medico gli dava corda, e di lì a poco capiva che non c'era nessuna emergenza sanitaria: l'anziano aveva solo bisogno di chiacchierare.
La storia della sanitarizzazione dei bisogni, cioè il fatto che i bisogni sociali e quindi soprattutto quelli degli anziani vengano letti sotto la lente sanitaria, è un problema radicale dei nostri tempi e del nostro Paese. Perché mai le case di riposo sono state costruite come ospedali, con i classici tempi e modi dell'istituzione totale (sveglia alle 6 e mezza o 7, si aprono le finestre e si passa lo straccio indipendentemente da chi è ricoverato in stanza, la messa viene radiodiffusa indipendentemente dal rapporto con la religione degli ospiti....)? Esiste addirittura un'epidemiologia dell'invecchiamento, cioè l'invecchiamento è considerato tout court come malattia.
Credo che la storia del sociale e del sanitario in Italia assomigli un po' alla storia del treno e dell'automobile, per i diversi destini seguiti dagli investimenti per la rete ferroviaria e quella autostradale. E' una questione di potere ed è noto lo squilibrio di potere tra sociale e sanitario esistente in Italia, ed i danni che questo ha provocato. La demenza senile, per anni, e ancora qualcuno lo fa, è stata considerata una normale patologia dell'invecchiamento. E' vero che con l'età può avvenire un decadimento funzionale e quindi anche cerebrale, ma tutto ciò non è automatico: non è una condanna per l'individuo, non è un'epidemia per la società. Solo che questo ha avuto una pesante conseguenza: per decenni non si è fatta ricerca sulla demenza senile, perché la si considerava una normale patologia dell'anziano. E adesso siamo in ritardo: si fa fatica a diagnosticare la demenza senile e si fa fatica a distinguerla dall'Alzheimer, che sarà un enorme problema del futuro. Si stima che i tempi per risolvere il problema dell'Alzheimer, i tempi di ricerca medica siano addirittura più lunghi di quelli relativi all'Aids: ci vorranno ancora più decenni, bisognerà investire più soldi e si arriverà comunque dopo, perché per anni abbiamo fatto finta che tutti noi, più o meno, dovessimo rincretinire con l'età.
L'anziano malato, quindi l'anziano per definizione malato, diventa tutt'uno con un'altra teorizzazione errata, quella del disimpegno: si è sempre detto che l'anziano ha bisogno di stare tranquillo, in pace, da solo, che non bisogna affaticarlo troppo, perché le relazioni e le attività costano fatica e lui non ce la fa più. Ma così facendo, creando anche il vuoto di opportunità e di attività attorno a lui, l'anziano è diventato davvero inattivo. Il problema invece è un altro, ed è quello dei livelli di autonomia ed autosufficienza in senso proprio, dove cioè per autosufficienza si intende quella di tipo biologico - la capacità di lavarsi, vestirsi, muoversi - e per autonomia invece la capacità di tenere relazioni sociali, di maneggiare il denaro, di usare il telefono. La metamorfosi in corso e a venire è chiara: oggi, a 65 anni ci si arriva con livelli di autonomia e autosufficienza più elevati, però si vive più a lungo e quindi aumenta la porzione di popolazione sopra gli 80/85 anni, l'età in cui i livelli di autonomia e autosufficienza declinano verticalmente. E poi, indipendentemente dall'età, si sopravvive di più a malattie e incidenti, anche se questo può avvenire in condizioni di forte menomazioni: abbiamo cioè spostato in avanti la frontiera della vita ma stiamo anche aumentando la nostra dipendenza da farmaci, presidi sanitari, aiuto psicologico e fisico degli altri.
La terza età: una prospettiva recente
L'anziano inattivo. A parte il fatto che - come sa probabilmente chi lavora nell'ambito del volontariato - la quota maggiore di volontari che si occupano di anziani sono altri anziani, il problema degli anziani inattivi è un problema di modelli di ruolo. E' vero che la terza età, cioè quella dai 65 anni in poi, è in realtà una cosa abbastanza recente come prospettiva di massa. Trenta o quaranta anni fa non era così, cioè non c'era una prospettiva così diffusa di avere qualcosa da fare per decenni dopo la pensione. E' così che abbiamo costruito modelli di ruolo e aspettative basati sulla prima e sulla seconda età. Ma ora cosa diamo da fare a chi è anziano? Sono poi arrivati decenni paurosi - pensiamo agli anni '80 - in tema di aspettative di ruolo, di messaggi emergenti intorno a cosa fare nel corso della vita e quindi a quali valori rifarsi. Pensate al disagio di avere 70 anni negli anni '80 - per la verità il disagio era comune anche a chi aveva 20 anni - cioè assistere al dilagare di stili di vita e modelli di riferimento assolutamente incompatibili con la propria esistenza e condizione.
La prospettiva della terza e quarta età è quindi una prospettiva recente e ci troviamo a non capire che cosa far fare alle persone anziane: il nostro modello sociale, chiaramente sbagliato, origina così una serie di paradossi. Esiste anzitutto il paradosso di una sorta di inerzia di massa. La porzione di persone che lavora si sta riducendo rispetto alla popolazione generale e d'altra parte invece aumenta la vita media, aumentano le persone in età di pensione che non lavorano. Se l'ingresso nel mondo del lavoro è ritardato, in generale c'è quindi il 20-30% della popolazione che potrebbe far qualcosa e non sa bene cosa fare, perché questa nostra società non riesce ad attribuire compiti e ruoli a questa popolazione in aumento, dentro la quale ci sono anche gli anziani.
Poi c'è la questione del denaro, della ricchezza. Mentre denaro e ricchezza sono detenuti e controllati prevalentemente da adulti maschi, la vecchiaia è molto più una questione femminile. Dopo una certa età, dopo i 75 o 80 anni, la questione "anziani" è un problema che si coniuga al femminile, è un problema di vedove. Non a caso gli studi sulla povertà hanno da tempo segnalato le donne anziane sole come categoria prioritariamente in povertà o a rischio di caderci al Nord. Ma occorre stare attenti, per non cadere in altri stereotipi: gli anziani sono poveri? Dipende. Direi, senza entrare troppo nei dettagli, che almeno una distinzione va fatta. Rispetto al reddito sono più poveri degli altri, però hanno il patrimonio e questa è la grossa differenza che conta non solo nel definire le risorse ma anche come collante sociale del rapporto fra generazioni. Con una punta di cinismo si può dire - e chi lavora con gli anziani lo sa bene - che il primo movente della visita e della cura che hanno i figli nei confronti dell'anziano genitore in casa di riposo è un'eredità da spartire. Se in futuro, come io temo possa essere, non ci sarà un patrimonio, cioè l'anziano non avrà più una casa o dei beni immobili da offrire, temo che la scena possa esser diversa, con una maggior disattenzione di figli e parenti. La tendenza demografica che ha visto ridursi agli attuali livelli record il numero di figli, si ripercuoterà anche nell'onere di cura che i tanti figli unici di oggi avranno verso i futuri anziani genitori.
C'è almeno un altro paradosso che vorrei ricordare, quello dell'educazione. Tutti sanno che esistono le università della terza età , perché tra le altre cose che si pensa di proporre agli anziani c'è anche quella di farli riprendere a studiare, a leggere, ad apprendere. Il problema è che la nostra scuola, fra i suoi mille difetti, ha anche quello di essere sostanzialmente poggiata sull'idea di socializzazione, quindi non tanto finalizzata alla formazione di capacità autonome e critiche di lettura e interpretazione (di testi, idee, fenomeni) bensì sull'insegnamento di norme sociali (cosa occorre sapere e come occorre comportarsi per sentirsi integrati nella società). Allora come si fa a reinventare un'educazione per gli anziani se il modello educativo è quello della socializzazione, perché così vuole il controllo sociale sui giovani? Il fatto è che ci mancano proprio i meccanismi di trasmissione delle conoscenze e di apprendimento in funzione di tutte le età: in realtà si omologano i giovani, si stenta a formare gli adulti, non si sa letteralmente come insegnare agli anziani.
Un aggancio con la realtà
Torniamo all'esempio di prima, il telesoccorso. La storia era molto semplice. Era sufficiente parlare con una qualunque assistente sociale per capire che in quel territorio non c'era bisogno di un pronto intervento medico all'erta 24 ore su 24, ma di un semplice "telefono amico", perché poi il telesoccorso è diventato questo. Occorre una lettura dei bisogni un po' più attenta e più raffinata, meno complice e più attenta alla lente che si sta usando per guardare la condizione anziana. Prima di tutto occorre chiedersi quanto la lettura del bisogno è sbilanciata rispetto alle due chiavi, sociale e sanitaria: il sanitario fa più notizia, evoca emergenza, specializzazione, una terminologia tecnica che appunto si presta di più ad una certa informazione.
La vicenda del telesoccorso era già tutta scritta. Bisogno chiave dell'anziano è quello di relazione, questo è chiaro. Però non è di relazione tout court, perché, diciamo la verità, l'anziano non è uno che ami ascoltare, l'anziano è uno che ama essere ascoltato. Non raccontiamoci la favola che l'anziano è una persona estremamente disponibile al dialogo. Ci sono molte ricerche che dimostrano non solo che l'anziano prima di tutto ha come bisogno essenziale l'essere ascoltato, ma anche il fatto che dà pochissima importanza a chi lo ascolta e alla cosa di cui si parla: ciò che conta è quanto a lungo viene ascoltato. E' un bisogno molto particolare: la telefonata durerà il più a lungo possibile e attraverserà i temi più vari, che sono quelli che a lui permettono di mantenere un aggancio con l'interlocutore, quindi, se vogliamo, con la realtà. I bisogni fondamentali degli individui - il bisogno di stima e autostima, di legame, di relazioni, di appartenenza ad un luogo, di realizzazione di sé - nell'anziano si sono concentrati nel fatto di poter essere ascoltato da qualcuno. L'anziano, proprio su questo, è in difficoltà, perché non partecipa più al mondo del lavoro (e perde così i legami sociali connessi a questo) e perché ha capacità uditive (e sensoriali in senso ampio) ridotte. E poi non ha più l'agire come forma prima di risposta, e quindi è, tende ad essere in qualche modo un po' immobilizzato, perché non sa cosa fare; parlare diventa la sua forma di stare in vita, di stare al mondo (forse l'unica che gli è concessa). L'anziano è egocentrico, tende a chiudersi su se stesso, fa molta fatica a calarsi nei panni degli altri. Si dice che è come il bambino, nel senso che effettivamente è vulnerabile come il bambino, ma del bambino ha anche le crudeltà, l'incapacità di ascoltare, perché è completamente chiuso nel suo bozzo. Certo, per l'anziano è una questione di sopravvivenza: quello è il suo mondo, energie da investire nel mondo esterno non ne ha, quindi diventa estremamente autoreferenziale.
Un'avvertenza: ho usato il singolare "anziano", ma non andrebbe mai fatto. Credo che al singolare vada declinato proprio lo stereotipo, perchè gli anziani sono tanti e diversi.
Presidiare i passaggi cruciali
Per esigenze di ricerca, ma anche di formazione, credo che occorra utilizzare un'economia di sguardo, cioè non possiamo guardare a tutti gli anziani, a tutti i giovani, a tutti i negri, a tutti i malati di mente e così via. Per esigenze di ricerca mi trovo a dover capire sostanzialmente dove si trovano i problemi, devo usare un principio di economia, un "rasoio di Occam" che lascia in evidenza solo i nodi cruciali. Usare il criterio dell'età non serve, non basta, evidenzia solo una porzione di popolazione, per la definizione Istat. Credo che una chiave di lettura forte, per capire gli snodi cruciali e quindi cogliere al varco i problemi, anziché disperdere lo sguardo da tutte le parti, sia quello di analizzare i passaggi cruciali. Nei punti di passaggio della nostra esistenza - non lo dico per primo, ma sono cose abbastanza consolidate nella letteratura scientifica - nei punti di snodo, le persone rivelano risorse, capacità o vulnerabilità, e lì i problemi affiorano, oppure esplodono, oppure vengono compressi nel nucleo familiare, che è un classico modo di affrontare il problema. Quali sono i passaggi cruciali? Cioè, dove puntare l'attenzione? Per esempio, l'uscita dal mondo del lavoro e l'ingresso nell'età pensionabile è uno snodo cruciale, è un'uscita scandita dall'età, un'uscita normativa. In essa avvengono sicuramente una serie di cose: perdita di contatti, di relazioni, ritorno in famiglia, necessità di reinventarsi un ruolo che non si è mai avuto. Pensate a come si declinano i percorsi, per esempio, rispetto al genere: gli uomini, avvantaggiati nell'ingresso sul mercato del lavoro (e non solo su quello), sono invece fragilissimi all'uscita. E' noto alla ricerca che una donna che finisce in cassa integrazione, dopo una settimana viene facilmente e completamente assorbita dalla famiglia, quindi dalla routine a cui lei è abituata; l'uomo invece non sa cosa fare, l'uomo è capace, anche per mesi, di uscire di casa la mattina e di tornare alla sera fingendo di andare a lavorare, perché si vergogna e non sa come dire e vivere la nuova condizione. La perdita del riferimento con l'ambiente lavorativo è evidentemente un punto fondamentale. Pensiamo anche alla vedovanza, cioè alla perdita di chi contribuisce in modo determinante a definire il mondo intorno a noi, oppure alla perdita di autonomia e autosufficienza, un altro momento critico dell'anziano. L'ingresso in strutture residenziali, come le case di riposo o gli ospedali, è un altro passaggio traumatico, molto duro da affrontare. Le dimissioni dall'ospedale, dopo un periodo di malattia o convalescenza, sono un altro punto cruciale. Sono momenti in cui peggiora o tende a peggiorare lo stato di salute e cominciano a nascere condizioni di rischio, vale a dire la perdita della capacità di affrontare il problema, l'isolamento relazionale, la paura di ricadere nella situazione appena lasciata...
I progetti migliori che ho visto, anche nell'ambito del volontariato, lavorano su questi snodi, su questi passaggi, non sulla "popolazione con più di 65 anni", che non vuol dire niente. Due suggerimenti operativi rispetto a questo: credo ci siano due modi per affrontare bene i passaggi cruciali, che si riassumono sotto un concetto e cioè che bisogna presidiare i passaggi. La vita è scandita da una serie di passaggi che non sono più ritualizzati, non c'è più una forma collettiva di affrontare i cambiamenti (di ruolo, di condizione) che avvengono nel corso della vita. L'unico passaggio rimasto presidiato è il matrimonio, con il corso per fidanzati che si fa in parrocchia: è l'unico momento istituzionalmente conservato in cui arriva qualcuno che è dall'altra parte della barricata e racconta (più o meno bene) cosa succede dopo. Gli altri passaggi sono rimasti tutti sguarniti.
Cosa vuol dire presidiare i passaggi? Prima di tutto gradualizzare il cambiamento. La cosa fondamentale è sciogliere il passaggio in più punti. I progetti migliori che ho visto per gli anziani in case di riposo sono quelli dove l'ingresso avviene a poco a poco, sul modello dell'inserimento dei bambini in asilo nido. La persona entra, vede la struttura, torna a casa; ritorna, sta lì un'ora e torna a casa; il giorno dopo prova a mangiare lì, poi a dormire. L'ingresso è progressivo e in questo modo il trauma viene sciolto in una serie di tappe graduate di ambientamento progressivo. Analogamente per l'entrata in pensione: le persone stanno molto meglio là dove (in Danimarca) l'uscita dal mondo del lavoro può venir affrontata per gradi, in progressivi part-time, fino all'ingresso vero e proprio nel tempo libero: a quel punto il tempo è davvero libero nel senso che si sa cosa farne , e non bisogna inventarsi da zero una giornata fino a ieri e per decenni impegnata nel medesimo modo.
Presidiare vuol dire allora anche informare su quello che avviene dopo. Bisogna assolutamente informare le persone che affrontano i passaggi su quello che avverrà, perché è solo così che si abbatte l'ansia. Gli ingressi traumatici nelle case di riposo portano una caduta della curva di sopravvivenza, anche se è difficilissimo darne prova perché non si ha il coraggio di far ricerca in proposito: epidemiologia dell'istituzionalizzazione, questo sarebbe un ramo importante della medicina. Però si sa che quando l'anziano entra in casa di riposo la sua condizione di salute crolla, perché evidentemente peggiora la sua situazione di vita. Non sappiamo che cosa c'è al di là della barricata, non sappiamo che cosa ne sarà di noi una volta perso il lavoro, o quando saremo entrati in condizioni di non autosufficienza fisica o non autonomia sociale: è questa l'ansia che va sciolta nella comunicazione continua con chi vive il cambiamento.
Un ultima suggerimento: bisogna stare molto attenti alla famiglia che sta attorno a chi è in difficoltà, perché quasi certamente su di lei si scaricano ansie, tensioni e fatica fisica del lavoro di cura. Ad aiutare chi aiuta non si sbaglia mai.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.