Intervento di Mario Vatta
Mario Vatta - sacerdote, fondatore della Comunità S. Martino al Campo, Trieste*
Il disagio psichico: una doppia sofferenza
Sono molto contento e vi ringrazio per questo invito, perché parlare di disturbo psichiatrico per me significa parlare, oltre che di una grande fetta della mia vita - circa 25 anni - della mia gente, che non sono solo i giovani "disturbati" della mia città, ma anche tutti gli altri giovani con i quali io e il mio gruppo ogni giorno viviamo. Mi sento di parlarvi con il cuore in mano, in prossimità di un 31 dicembre quando, si dice, dovrebbe accadere qualcosa di nuovo riguardo gli ospedali psichiatrici. A proposito: non si sa mai se siano aperti o chiusi; perché se apri un ospedale, è chiuso; se lo chiudi vuol dire che non hai intenzione di aprirlo. Comunque ci saranno ospedali vuoti di pazienti.
Dovrò andare un po' indietro, e cioè a quell'esperienza che Trieste ha vissuto e continua a vivere, che viene chiamata "esperienza Basaglia". Non sono un tecnico di queste cose; sono un prete - non è uno slogan - "di strada", e...i miei dolori reumatici lo testimoniano.
Lo racconto a voi, giornalisti o aspiranti, il lavoro dei quali conosco molto poco. Leggo i giornali per dovere, leggo per piacere soltanto la parte musicale. Non conosco molto bene il vostro mestiere, però credo che scrivere di psichiatria, come mi pare dicesse anche Gino Rigoldi, significa scegliere di scrivere la verità : è semplice, banale, ovvio. Qualche volta dovremmo ritornare alle cose ovvie per accorgerci che forse abbiamo dimenticato dei concetti molto semplici che ci possono aiutare, guidare quando dobbiamo prendere delle decisioni, per esempio questa: se si vuol scrivere è bene scrivere la verità e per poter scrivere la verità è importante conoscerla, cercare, faticare, andare "incontro a", per capire, prima che il problema, le persone che nel problema vivono. Giustamente Rigoldi parlava di giovani. Se voi sentite parlare di giovani nei convegni, nelle riunioni, nei seminari, nei dibattiti, vi accorgerete che i giovani diventano un problema: dovremmo invece parlare e scrivere delle persone e non tanto dei problemi, delle persone che attraversano i problemi. Noi ci siamo trovati a Trieste di fronte a questo grande problema, quando iniziava alla fine del '71 l'esperienza di Basaglia.
Come ho conosciuto Basaglia? Beh, lui è venuto a Trieste, io c'ero, lui non mi conosceva, però io mi ero imbattuto da qualche tempo nel problema della droga, dei drogati a Trieste. Vi siete accorti che una volta li chiamavamo drogati? Ora rinneghiamo perfino il sostantivo - che è un aggettivo sostantivato, comunque è un sostantivo - e li chiamiamo tossici, negando loro perfino la possibilità di possedere un sostantivo: oggi sono stati relegati all'aggettivo, ad un aggettivo per cui si indicano delle sostanze che fanno male, dei funghi che è meglio evitare. Ciò viene scritto, oltre che esser detto. Lo sottolineo anche perché noi abbiamo bisogno di voi e voi, per poter dire la verità, avete bisogno di noi.
In quel tempo si pensava che di un figuro strano come il drogato potesse occuparsi uno strano personaggio qual è lo psichiatra e quindi mi aggiravo per il "comprensorio" psichiatrico - detto anche OPP, che non era il ritmo per una marcia militare, ma significava Ospedale Psichiatrico Provinciale - in cerca di uno psichiatra disposto ad ascoltarmi e a riconoscere che di droghe non ne capiva niente e quindi a mettersi un po' a studiare e a darci una mano, reciprocamente. Come rispondeva l'opinione pubblica in Italia, alla fine del 1970, riguardo il problema tossicodipendenza? Si pensava allora che il problema droga fosse un problema americano, un problema che non ci avrebbe mai toccato. Noi, infatti, eravamo troppo poveri per poterci permettere la grande spesa dell'acquisto dell'eroina o di altre droghe e troppo sani per aver bisogno di stordirci con la droga e di distruggerci.
Frequento l'ospedale psichiatrico: è di quei giorni l'annuncio che Franco Basaglia ha vinto il concorso e che verrà a Trieste. Nei primi mesi del '72 ci conosciamo. L'arrivo di Basaglia non turba tanto la città: la mia è una città lenta a turbarsi!
L'apparato sanitario, invece, in particolare quello psichiatrico, si dimostra un po' più preoccupato. Di Basaglia si sa che è uomo "di sinistra", e non leggermente di sinistra: è di estrema sinistra. E' uomo di cambiamento, di contestazione ai "metodi tradizionali" del manicomio di Trieste - e non parlo di un manicomio "puzzolente", ma di un manicomio "ordinato"...un po' austro-ungarico. Basaglia è uomo di sovversione. Chiaramente vuole sovvertire! Non esiterà a denunciare le responsabilità del potere, della società, dell'informazione, della famiglia (anche se su questo ultimo punto i suoi collaboratori si ravvederanno un po', perché capiranno che la famiglia non va colpevolizzata, criminalizzata, ma sostenuta). Comunque queste posizioni estreme di Franco Basaglia erano dovute al fatto che aveva deciso di rompere, di provocare. Di Basaglia si conoscono approssimativamente le sue precedenti esperienze, a Parma, a Gorizia e i suoi maestri. Si mormora di lui che, prima di essere un cattivo psichiatra sia un pessimo medico, impegnato più a far politica che a curare i pazienti, più a proporre un'ideologia che a sostenere chi è in difficoltà. Alcune di queste notizie potrebbero anche essere prese in considerazione come non completamente false, ma andrebbero un po' contestualizzate.
Quella volta ci si chiedeva: quando si parla di malattia, che significa malattia? O che significa buon psichiatra? E' buon psichiatra quello che nel rispetto della legge continua a fare l'elettrochoc? Parlo di quella volta, anche se credo che ancor oggi ci siano delle nostalgie per niente sopite. O buon psichiatra è quello che propone la lobotomia? (L'altro ieri è morta a Trieste una donna di 46 anni che era stata lobotomizzata a 18 anni). L'informazione riguardo a Basaglia continua a snaturare le notizie fornendole in maniera frammentaria, inserendole in contesti inadeguati e una controideologia - fatta di indifferenza, di interessi e di potere - si fa strada nell'opinione pubblica, sostenuta anche da quasi tutta la stampa nazionale che, quando se ne accorge, guarda al personaggio di Franco Basaglia con perplessità e sospetto e, disinformando, punta l'attenzione sulla scarsa scientificità del nuovo orientamento. Credo che, se avrete la possibilità di leggervi l'intervento che Franco Basaglia fece in una conferenza tenuta all'Università di Roma nel febbraio del '75, molte idee che abbiamo e, a riguardo, abbiamo avuto, si potrebbero chiarire. Perché sottolineo tutto ciò? Perché questo tipo di informazione contribuiva al fatto che si verificasse una doppia malattia per il paziente: la prima era la sofferenza psichica, la seconda l'emarginazione sociale.
Gianni, il primo accolto
A tale proposito voglio leggervi una cosa che abbiamo scritto recentemente: "Gianni, uno dei ragazzi che era venuto ad abitare con me in via dell'Istria, nella prima casa di accoglienza che avevamo aperto, fu il primo accolto in comunità. Era in manicomio dall'età di nove anni perché, come è scritto nel verbale di ricovero, aveva manifestato un comportamento strano nei confronti dell'insegnante. All'interno della struttura manicomiale c'era un reparto per bambini. Qui i piccoli pazienti crescevano e molto raramente venivano dimessi, perché nella gran parte dei casi non c'era per loro una realtà esterna, familiare e non, disposta ad accoglierli. Quasi tutti, dunque, raggiunta la maggiore età, venivano trasferiti nel manicomio degli adulti, in un padiglione diverso del medesimo comprensorio. Gianni è rimasto con noi per parecchio tempo, se si sommano le diverse accoglienze che nel corso degli anni ha accumulato. La comunità ha rappresentato forse il momento di maggior sicurezza della sua vita, ancora oggi nell'approssimarsi di una crisi Gianni spunta, cerca me o va in comunità, non mangia, non beve, se ne sta zitto e al limite chiede una sigaretta. La violenza della sua malattia si manifesta proprio in questa forma di chiusura quasi autistica e solo i farmaci riescono ad aiutarlo. La comunità nei periodi di accoglienza ha tentato di trasmettergli un po' il senso della vita, della famiglia, un senso di calore e appartenenza, insieme a tante ore di spensieratezza e benessere. Tutto ciò naturalmente non è stato in grado di guarire Gianni, ma gli ha dato quantomeno un punto di riferimento importante nei momenti in cui la malattia prende il sopravvento su di lui". (M. Vatta, L'anello al dito,EGA, Torino 1995, pp. 31- 32)
La legge Basaglia: un'esperienza da continuare
Forse avrete sentito parlare della nostra comunità di Trieste. Si occupa di tossicodipendenza, di ragazzi con problemi psichiatrici, di alcolismo. Più facilmente avrete sentito parlare di Vladimir Hudolin, un neuropsichiatra croato con il quale abbiamo avuto i primi contatti nel '72. Ci eravamo trovati di fronte al fatto che, da noi, per la droga non c'era alcun tipo di risposta, non c'erano i servizi, mentre noi lavoravamo con l'idea che la comunità un giorno sarebbe dovuta sparire, perché lo Stato, il soggetto pubblico o qualcun altro doveva poter dare la possibilità a tutti, ricchi e poveri, di accedere a dei servizi in grado di garantire la salute, il benessere, l'equilibrio, il lavoro. Occupandoci di droga ci eravamo accorti che l'unica risposta era il carcere. Siamo andati in carcere. Quando i giovani uscivano di prigione senza lavoro, senza casa, senza niente, la prima tappa - come credo capiti nella maggior parte dei casi anche oggi -era all'osteria, al bar, per stordirsi, per festeggiare (!?), ecc. Là ci siamo accorti che l'alcol, per il quale neppure c'era alcun tipo di risposta, faceva da "sostegno" a questi e ad altri problemi irrisolti. Fummo costretti ad andare a Zagabria, dal professor Hudolin appunto, a tentare la disintossicazione e a gettare le basi di una terapia non farmacologica. Per quei giovani che non avevano parenti, noi fungevamo da familiari. Il nostro impegno si stava sviluppando su tutti questi fronti: droga, alcol, carcere, ecc. Naturalmente l'impegno maggiore era quello di abbattere, insieme all'équipe di Franco Basaglia, il manicomio ed aprire le strutture sul territorio. Tutto quanto cioè verrà previsto dalla legge 180, oggi ormai invecchiata senza essere stata fino in fondo applicata. Ecco perchè il 31 dicembre '96, data fissata per la chiusura dei manicomi, è una data importante.
A Trieste abbiamo cinque centri di salute mentale, più un servizio di diagnosi e cura che funzionano 24 ore su 24, con i difetti, i ritardi, con tutti i limiti che il vivere all'interno di un'amministrazione pubblica comporta. Però sono aperti 24 ore su 24, non chiudono il venerdì alle due del pomeriggio, ma continuano ad essere aperti e ad accogliere la gente. Lo dico con la consapevolezza che non tutto funziona nemmeno a Trieste, però quando qualcosa già esiste è possibile migliorarne il funzionamento. Salto un po' di anni e arrivo a oggi dicendovi che attualmente la nostra comunità gestisce una realtà di accoglienza - oltre che una casa per i tossicodipendenti, due cooperative sociali e ad alcuni laboratori - per ragazzi e ragazze con problemi psichiatrici. Dietro la notizia di fatti di cronaca pesanti riguardanti la malattia psichiatrica, sarebbe importante trasmettere tutta quella verità che porterebbe a conoscenza vostra e dei vostri lettori la fatica, i progetti, le ricadute, le speranze, ma soprattutto la fatica del "matto" e di chi, affiancandolo, tenta di dargli una mano. Nel conoscere e nel trasmettere correttamente la realtà faremmo perdere la prima cosa che credo attagli a riguardo l'opinione pubblica: la paura del "matto". In verità sono i matti prevalentemente il frutto della paura che hanno provato di fronte alla violenza nella scuola, nella famiglia, all'interno dei gruppi che escludono.
L'esperienza Basaglia diventa realtà concreta in una città come Trieste che, piena di contraddizioni, è stata quasi sempre occupata, raramente abitata: quando si abita si ama, quando si occupa si prova rabbia, ci si difende, si offende. Una città del Nord con tanti problemi, pochi sbocchi, nessun retroterra, in conflitto con le altre città della regione, con un alto tasso di disoccupazione per il Nord, con 70 suicidi all'anno: una media piuttosto alta, non solo di anziani, ma anche di quei giovani che non contano nella nostra città e, ciò che è più tragico, spesso convinti che sia giusto così. Comunque questa città piena di contraddizioni - la cui identità sembra essere quella di non averne una - ha sempre mostrato un'attenzione particolare alla sofferenza psichica. Non dimentichiamo che la dottrina di Freud è entrata in Italia proprio attraverso il triestino Edoardo Weiss. In questa città molte cose sono state possibili, con tante contraddizioni, con tanta sofferenza, in questa città molte cose continuano ad essere possibili.
Martina, dalla disperazione alla speranza
Vorrei concludere con l'argomento paura. Conoscere il disturbo psichiatrico, conoscerlo a fondo, condividerne la fatica significa in primo luogo perdere la paura del "matto". Leggo ancora una cosa, ma è una cosa che ho scritto pensando ad una nostra ragazza: "La storia di Martina è parte dell'oggi della comunità. Martina nasce in una famiglia di tradizione contadina nell'Istria croata. La madre a Trieste ha una sorella sposata, che non ha mai potuto avere figli pur desiderandoli ardentemente e decide, forse per una qualche tradizione atavica, di cederle Martina. Nella mente della bimba cominciano a sorgere le prime confusioni di tipo affettivo. Ha una zia che le fa da madre, uno zio che le fa da padre, ed un padre e una madre che non le fanno da genitori. Questo disorientamento affettivo si traduce in un rifiuto della razionalità che costituisce poi il fondamento del suo disagio. La morte improvvisa dello zio scatena in Martina la prima grave crisi. Altre dolorose vicissitudini la conducono al centro di salute mentale e infine in comunità. Da circa tre anni Martina vive con noi, in un alternarsi di alti e bassi. E' una ragazza intelligente, dotata di umorismo, di autoironia, riesce a sorridere di sé e del suo disagio. E' capace di reggersi abbastanza autonomamente, conoscendo bene i limiti che le sono imposti dalla malattia. Molto femminile, profondamente tenera, sensibile, affettuosa, ha capito l'importanza della comunità nella sua vita e sa giocare in squadra. La perdita degli zii-genitori le ha precluso ogni riferimento di tipo affettivo. Ogni tanto - non riusciamo bene a capire se nei momenti di disagio o in quelli di serenità - Martina ci parla di un fratello che però, come tutta la famiglia di origine, non si è mai fatto vivo. Penso che lei sia stata definitivamente rifiutata, espulsa dalla famiglia quando si è venuto a sapere della sua confusione mentale. Posso dire che se i familiari di Martina potessero provare le cose che noi proviamo con lei, la ricchezza del suo affetto e della sua amicizia, la sua forza nel momento della crisi, certamente rivedrebbero questa posizione di rifiuto. Oggi ci stupiamo del fatto che Martina stia male da così tanto tempo. Eppure lei continua a lottare, continua a programmare le sue giornate, fedele agli impegni presi. La sua sofferenza è sorda, oscura, non illuminata da una logica razionale. Quando la crisi si fa più intensa, quando i colloqui con gli operatori non riescono a distogliere Martina dal suo delirio e a nulla giovano i farmaci, ci viene spontaneo abbracciarla. Il contatto fisico denuncia tutta l'impotenza dell'operatore, ma afferma anche l'amicizia, il desiderio di fare con lei questo pezzo di strada faticoso, angusto, buio. Altre volte abbiamo visto che situazioni apparentemente prive di soluzioni e prospettive hanno avuto svolte insospettate a motivo di un'amicizia profonda, di un affetto apparso all'orizzonte, di un rapporto possibile, anche tra persone disagiate. Spesso si pensa all'unione tra due persone "matte" come ad un'unione tarata, disperata, che comunque finirà male. Noi possiamo dire che a volte questi rapporti, sostenuti, possono dare risultati grandissimi. Ogni essere umano, per quanto confuso, è in grado di sentire l'amore quando passa. Con Martina abbiamo imparato ad inoltrarci nel buio più tenebroso col segreto di tenerci per mano e questo trasforma la solitudine in condivisione, l'abbandono in accoglienza, la disperazione in speranza" (M.Vatta, op. cit., pagg. 57-58).
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.