Intervento di Lorenzo Del Boca
Lorenzo Del Boca - segretario della Federazione Nazionale Stampa Italiana*
Credo che le poche battute dette finora ci facciano capire quanto siamo vasi di coccio noi giornalisti che, nel tentativo di raccontare la complessità di questa società, non ne comprendiamo nulla e dobbiamo venire a farci raccontare da altri quali sono le tragedie, i titoli che sembrano film d'amore e che in realtà sono le più grandi disgrazie collettive. Vi ringrazio per avermi invitato e soprattutto per aver organizzato questo incontro, perché i giornalisti, in questa società dell'immagine che corre e divora se stessa, qualche volta hanno bisogno di fermarsi, per ragionare un attimo e riflettere su una professione che è diventata sempre più complicata e sempre meno professione. E dove se non in posti decentrati, con qualche ora di tempo, con le notti tranquille senza la pressione dei capi-redattori e dei direttori che vogliono tutto in fretta, quattro minuti prima del momento di chiudere? Mi complimento con voi per aver scelto una strada certo difficile, sempre in salita, comunque impopolare, ma che è la strada che dobbiamo sforzarci di percorrere tutti quanti insieme, se non vogliamo essere aggrediti dagli spot. Volevo dire a Don Vinicio che non credo che siano spot gratuiti. Sono spot non fatturati, ma la marchetta di sotto corre e corre forte, e quindi questa sua iniziativa è doppiamente meritevole. Chissà perché il sindacato e l'Ordine non l'hanno presa per primi. Forse perché l'emergenza quotidiana ci impedisce di ragionare sulle cose banali. Non so se la giurisprudenza ci consente di ricorrere al Garante dell'editoria, però Don Vinicio può contare su di noi, anzi gli chiedo scusa per non averci pensato prima e non essere stati noi a coinvolgere lui. Questi argomenti ci fanno capire perché la nostra categoria abbia raggiunto un livello così basso di credibilità, perché siamo considerati i portinai e non i guardiani del potere, perché siamo considerati megafoni dei potenti, quelli che tutte le sere non hanno nulla da dire, ma tuttavia hanno un posto fisso in Tv.
Poco fa riflettevo su una cosa. Ma noi, noi che siamo giornalisti, che abbiamo degli strumenti culturali maggiori della media comune, abbiamo capito cos'è questa Finanziaria? Perché c'è questa grande polemica sulle deleghe? Cosa sono le deleghe e deleghe di che cosa? Non l'ho trovato sui giornali, non l'ho trovato su Repubblica, né sul Corriere della Sera. Con Repubblica ho trovato incellofanato Il Venerdì e dentro un sapone, il che significa che anche Repubblica non è più Repubblica e la sua credibilità è la credibilità del Cleenex. Se non riusciamo a capirle noi le cose, come pensiamo che le comprendano gli altri? E se non riusciamo a farle capire, perché mai ci dovrebbero comprare? E' chiaro che la categoria ha un livello bassissimo di consapevolezza e di credibilità ed è ovvio che allora la gente aspetta il Referendum sull'abolizione dell'Ordine, equivocandone il valore per cacciare via i giornalisti. Sarà un voto contro i giornalisti che rappresentano il potere, la cinghia di potere e il megafono del potere. Bene, questa è un'occasione per cominciare a dire che almeno noi non siamo così e vogliamo cominciare ad essere diversi.
Difficile dire come è cominciata la china verso il basso, perché ognuno ha dei ricordi personali, legati alla vita che fa nella propria redazione, alle proprie esperienze. Una domenica pomeriggio di alcuni anni fa, mentre stavo a casa con mio figlio a vedere i risultati delle partite, la giornalista Barbara Palombelli, firma prestigiosa di "Repubblica", diventata poi first lady di Roma, comunicò in diretta che lei per fare l'amore mette il Bolero di Ravel. E tutto ciò per dare la possibilità ai giornali, il giorno dopo, di avviare una mega inchiesta e per farci sapere che Ripa di Meana invece preferiva Mina, con Grande, grande, grande. Quello, secondo me, è stato l'inizio della fine, perché poi da qui abbiamo consumato pagine per farci spiegare dalla Parietti se a letto sono meglio gli uomini di destra o quelli di sinistra. Il tormentone dell'estate è stato l'anguilla della Marini e il Merolone, e quando anche vogliamo fare informazione sedicente, impegnata, non riusciamo ad andare oltre le corna di Clinton e Hillary o quelle di Carlo e Diana. Le pagine di politica estera sono diventate questo. Abbiamo appena incoronato il più potente uomo del mondo del prossimo millennio: solo vagamente e fra le righe riusciamo a capire che c'è stata un'inversione di tendenza, che la sua politica è quella di una correzione del Welfare, mentre il taglio dei giornali stamattina è che questo presidente potrebbe avere dei problemi per la vicenda di Paula.
La virtù dell'essere testimoni
E' chiaro che se ci abbandoniamo alla superficialità - mi permetto di riprendere un'altra parola di Don Vinicio - una superficialità che però deve diventare teatro, di strada ne faremo poca, anche perché poi saremo travolti dalle notizie, quelle vere. Il presidente delle Ferrovie dello Stato viene rinchiuso in carcere rivelando un altro scandalo gigantesco. Leggendo queste notizie ho pensato che è da troppo tempo che non facciamo più un'inchiesta vera. Possibile che nessun giornalista poteva capire ciò che adesso sembra così evidente? Dobbiamo renderci conto che è necessario cambiare registro. Non ho ricette, non ho soluzioni e nemmeno consigli. Ciò che ho detto fino ad adesso però non deve essere inteso come pessimismo, perché anche se può sembrare catastrofico, credo che il giornalismo sia comunque una grande professione, abbia comunque un futuro ed è un futuro che comunque dovrà essere esercitato.
Preferisco vedere il bicchiere mezzo pieno, non mezzo vuoto, però è anche vero che non abbiamo più tempo da perdere. Il tempo perduto è stato così tanto e così vistosamente perduto che non ci possiamo più concedere distrazioni. In fondo qui siamo spinti a ragionare sulla professione che non c'è, però dovrà esserci; certo c'era stata, ma dovrà ritornare ad essere, perché noi dobbiamo recuperare il nostro ruolo. Non possiamo più fare i Don Abbondio dell'informazione e se il prete di Trento non si vergogna di essere prete, colleghi, noi non dobbiamo più vergognarci di essere giornalisti. E se lui fa il prete da strada anche noi dobbiamo tornare per la strada. Se lui è un sacerdote che si considera matto, dobbiamo fare i matti un po' anche noi, se la pazzia è segno di libertà. Liberi, per strada, senza aver vergogna di raccontare le cose che vediamo. Credo che la consapevolezza della categoria stia aumentando e questo per motivi sindacali. Certo il sindacato deve rendersi conto che se la professione decade fino al punto di sparire, non potrà più andare a chiedere contratti di lavoro e normative, e garanzie di libertà per una categoria che non c'è, che diventa la categoria dell'effimero. Ma è cresciuta anche la consapevolezza che la nostra è una categoria di valori. Valori certo dimenticati, ma che devono essere recuperati. Chi di voi in questi anni terribili dal punto di vista della serietà, ha voluto fare un giornalismo serio ha scoperto che o doveva accettare di omologarsi per quieto vivere, o era costretto a fare il grillo parlante, meritevole di una bastonata perché diceva troppe verità e si sentiva spiegare che le regole del mercato imponevano un'informazione diversa. Se questo mercato avesse premiato questa tendenza almeno avremo delle case editrici solide, dei giornali forti e degli stipendi ricchi, ma il mercato l'ha rifiutato.
Se non danno il Cleenex, non vendono più neanche la carta. La carta è diventata carta da Cleenex. Queste cose le spiegavano colleghi autorevoli, i Van Basten e Gullit della nostra categoria. Qualcuno magari verrà anche a spiegarci qual è la serietà e la correttezza dell'informazione, perché ha dei ruoli nei giornali e con quei ruoli ha abbassato il livello di credibilità, però ci spiegherà che invece quella era l'informazione giusta. Quindi i valori, valori certo cristiani, ma anche valori laici, come quelli della trasparenza dell'informazione, del valore dell'informare e del giornalismo, che non sono cose nuove, ma erano il patrimonio delle grandi civiltà del passato. In greco virtù si diceva areté, un termine che ha la stessa radice di aristoi, cioé il superlativo di buono, ottimo. Gli aristoi stavano nell'areopago, che comincia ancora con la radice ar,il che significa che virtù e bontà non erano qualità interne, morali, personali, ma che si dovevano vedere, anzi che consentivano di governare. Dunque una virtù visibile, e noi a quella virtù dobbiamo tornare: non la virtù dell'essere buoni, ma la virtù dell'essere visibili, la virtù dell'essere testimoni. Questa è un'altra parola chiave: testimoni e non testimonial. Perché non dobbiamo essere giornalisti dimezzati, dobbiamo tornare ad essere giornalisti disinteressati. Non possiamo più accettare la lezione dei nostri editori e dei nostri direttori che ci chiedono un bel pezzo, ampio, grande, di nulla, ma un bel pezzo che si faccia leggere. Colleghi, scriviamo poche righe, sudate, faticate, ma che si facciano credere!
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.