Intervento di Franco Prina
Franco Prina - docente di Sociologia della devianza, Università di Torino*
1. Il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione statistica
Che cosa indicano gli indicatori?
Nella sua relazione, il professor Garonna, oltre ad offrire molti interessanti dati, ha accennato ad alcuni aspetti metodologici sui quali vorrei anch'io soffermarmi, nella convinzione che un'attenzione a tali aspetti sia necessaria non solo da parte degli specialisti in statistica o dei sociologi, ma anche da parte di chi i dati li utilizza (come i giornalisti) e se ne fa interprete presso il grande pubblico.
Quando ci confrontiamo con dati statistici, ci confrontiamo con dati sempre in qualche modo "costruiti". La loro apparente neutralità ed oggettività nasconde le scelte, le valutazioni, le manipolazioni di chi li raccoglie ed elabora. Ciò significa quindi che non fotografano la realtà nella sua interezza e complessità e che il loro valore deve essere oggetto di attenzione critica, attraverso uno sforzo per comprenderne l'origine, il significato, i limiti.
Troppe volte, per fare un esempio, quando osserviamo le statistiche sulla criminalità, facciamo l'errore di confondere il dato sulla parte conosciuta, la parte visibile, "affiorante" del fenomeno, con il fenomeno nella sua globalità . Ne consegue che ci rapportiamo a dati che hanno una loro specificità (in questo caso, rappresentano il numero e le caratteristiche degli autori noti, ossia scoperti, arrestati e/o condannati, di una parte dei reati posti in essere), e li utilizziamo per descrivere o per tentare di comprendere il fenomeno criminalità nel suo insieme. Eppure è noto a tutti che il fenomeno della criminalità o della violenza "reale" è ben più vasto di quella sua parte costituita dalla criminalità conosciuta o dalla violenza che viene denunciata, portata cioè all'attenzione delle istituzioni di controllo, e ancor di più di quella quota di cui si riescono a scoprire gli autori.
Con un gioco di parole ci si potrebbe quindi domandare: che cosa indicano gli indicatori? Che parte rappresentano degli universi che vogliamo descrivere? Come possiamo utilizzarli?
E' molto frequente osservare che i dati relativi alle caratteristiche di coloro che sono in carcere, dei detenuti (di solito gli unici dati raccolti e a cui è possibile accedere), vengono utilizzati come elementi costitutivi della descrizione dell'identità dell'intera categoria dei "delinquenti". Troppe volte cioè "l'universo dei delinquenti" è rappresentato usando gli elementi conoscitivi che derivano dalla misurazione delle caratteristiche di coloro che sono stati "selezionati" all'interno dell'universo degli autori di reati, dalle istituzioni di controllo, e che sono stati riconosciuti colpevoli e condannati dai tribunali. Ne deriva lo stereotipo diffuso dei delinquenti come individui marginali, con un livello di istruzione inferiore, privi di risorse economiche, in prevalenza stranieri, extracomunitari (ossia in genere maghrebini che spacciano droga o zingari che rubano negli appartamenti). Questa diventa l'immagine prevalente della delinquenza, che viene associata in genere a condizioni di marginalità, povertà, estraneità culturale.
Solamente negli ultimi tempi nel nostro Paese - ancora con molti limiti - si è iniziato a porre attenzione a quanto un criminologo importante e non molto conosciuto, Edwin Sutherland [1], mise in evidenza negli anni '40, che cioè la criminalità e la delinquenza sono diffuse in tutti gli strati sociali poiché esiste una criminalità dei "colletti bianchi", posta in essere da individui non marginali, non poveri, non estranei alla cultura dominante, ma anzi in essa perfettamente inseriti [2].
Ne deriva una doverosa attenzione a come si usano gli indicatori, attenzione che non può discendere che dall'impegno a capire che cosa "indicano".
Un controllo sociale "selettivo"
Gli indicatori, i dati in possesso dell'operatore dell'informazione rappresentano di fatto essenzialmente il risultato delle scelte di chi agisce in direzione del controllo sociale. Più che fotografare il fenomeno, i dati sono indicativi delle scelte che operano le istituzioni e gli individui investiti del ruolo di controllo sociale.
Che in carcere ci siano tanti appartenenti a certe categorie (come evidenziano i dati statistici), significa semplicemente che verso queste categorie si esercita un controllo sociale accentuato, essendo il controllo sociale sempre un controllo selettivo, non esercitato in maniera uniforme, bensì espressione di scelte, che quindi scopre alcuni autori di reato e non altri, che porta in carcere alcuni individui e non altri, che mette in luce alcune violenze e non altre.
Gli indicatori, lungi dal rappresentare il dato oggettivo, ci dicono inoltre quale grado di attenzione, di allarme sociale, di sensibilità, di propensione alla denuncia si manifesta in un dato momento in una data società intorno ad un determinato problema.
Un esempio può essere fatto con riferimento ad un tema che occupa spesso le pagine dei giornali, quello della violenza sulle donne e sui bambini: possiamo affermare che nel nostro Paese è cresciuta, in questi ultimi anni, sotto il profilo quantitativo, la violenza sessuale, o che sono cresciuti gli abusi nei confronti dell'infanzia? Anche se i dati sembrerebbero confermarlo, alla domanda non può essere data una risposta sicura. Con maggiore sicurezza potremmo dire che è in aumento la tendenza a denunciare questo tipo di reati, è in aumento la sensibilità di molti ambienti, di molti contesti verso i diritti dell'infanzia; è in aumento il coraggio delle donne di denunciare abusi che in passato non denunciavano, perché erano sottoposte a condizionamenti così forti che impedivano loro di manifestare la propria sofferenza e il proprio disagio.
Questo è dunque il primo punto da considerare: i dati, che così frequentemente coloro che fanno informazione cercano con insistenza e propongono come elementi che rendono conto in modo oggettivo di determinate situazioni, presentano sempre dei limiti e quindi vanno manipolati e riferiti con cautela. Sono importanti per fornire informazioni su un determinato fenomeno, ma vanno utilizzati essendo consapevoli, e aiutando il lettore ad esserlo a sua volta, di ciò che rappresentano, senza mitizzarne l'apporto.
Conciliare dati generali e storie vissute
Un altro elemento importante, che è stato sottolineato nella relazione che mi ha preceduto, è il fatto che il contributo della statistica è limitato, perché rappresentare i fenomeni nella loro globalità fa perdere di vista le differenze individuali, le soggettività, le dinamiche, i processi, i percorsi.
Ne deriva la necessità di conciliare i due livelli e di riuscire a trovare un equilibrio tra rappresentazione sintetica e descrizione analitica delle situazioni.
E' questo peraltro il riflesso di un problema che si pongono da sempre gli scienziati sociali e che si esprime nel grande dibattito tra metodologie quantitative e qualitativetra, da un lato, la considerazione dei fatti sociali come cose che trascendono le soggettività, che vivono di per sé e sono quindi spiegabili facendo ricorso alla quantificazione ed alle correlazioni statistiche tra variabili dipendenti ed indipendenti e, dall'altro, la centralità nella costituzione della realtà sociale, delle motivazioni e delle intenzionalità degli attori sociali, di cui è dunque indispensabile analizzare il punto di vista, il modo di concepire la realtà, le relazioni sociali, gli interessi e i valori.
L'esigenza di equilibrio tra i due approcci alla realtà sociale, sentito oggi nell'ambito delle scienze sociali, credo debba diventare anche una preoccupazione di chi fa informazione, che dovrebbe riuscire a conciliare il dato generale, descrittivo del fenomeno, con i punti di vista particolari, espressione delle soggettività, dei percorsi e delle storie di vita.
Equilibrio che porti a considerare che i punti di vista soggettivi a volte dicono molto di più, sono più ricchi di contenuti del dato generale, ma al tempo stesso eviti di utilizzare una singola storia, assolutizzandone le caratteristiche come fotografia di un dato fenomeno. Proprio in questa esigenza sta, d'altra parte, la difficoltà di un mestiere, quello del giornalista, che deve sempre saper conciliare due modi di guardare ai fenomeni e alla realtà, quello generale e quello particolare, del singolo caso che costituisce l'oggetto o il pretesto della notizia.
Districarsi in una realtà complessa
L'utilizzo sapiente dei dati statistici e l'equilibrio tra questi e le singole vicende individuali è un aspetto di un problema più ampio, che attiene, a mio avviso, alla natura stessa del lavoro di informazione. Più in generale, cioè, chi fa informazione è chiamato costantemente ad interrogarsi su come riuscire a svolgere correttamente quel lavoro di interpretazione e di descrizione di una realtà che presenta - per usare una parola abusata - i caratteri di elevata complessità . Tale impegno presenta due aspetti tra di loro intrecciati: come conoscere la realtà, come ridurne i tratti di complessità che essa sempre presenta.
Conoscere fenomeni e dinamiche sociali, andando al di là della semplice descrizione di fatti per proporne una lettura, un'interpretazione, una spiegazione, è impresa (sempre più) difficile, dal momento che molti dei fenomeni di cui un giornalista si occupa non sono per nulla lineari e semplici. I terreni del "sociale" e del "relazionale" (intendendo con questi due termini le sfere entro cui si sviluppano i comportamenti degli individui), diversamente da quelli su cui si misurano le scienze naturali, presentano caratteristiche che rendono non facile ricostruirne i tratti, gli elementi fondanti, le cause.
Un esempio può essere utile: avendo tutti interiorizzato che c'è un nesso lineare tra una luce prodotta da una lampadina accesa e un filo elettrico, anche se non capiamo nulla di elettricità, possiamo agevolmente spiegare, raccogliendo poche ed essenziali informazioni, l'improvvisa mancanza di luce con la causa oggettiva che l'ha determinata. Anche l'operatore che agisce nel campo tecnico sarà d'altra parte molto più avvantaggiato dell'operatore sociale: trovandosi ad intervenire su alcuni fenomeni fisici, saprà cioè con una certa sicurezza (non assoluta, ma relativamente ampia), che per evitare una certa conseguenza non voluta (prevenire i danni che ne possono derivare) dovrà agire in un certo preciso e determinato modo. L'operatore sociale, al contrario, si trova in un campo aperto di possibilità e, soprattutto, si confronta con fenomeni non lineari, mutevoli, in continua evoluzione.
Nel campo dei fenomeni sociali, cioè, l'operatore dell'informazione, come l'amministratore o l'operatore sociale, si confrontano con realtà molto articolate, non semplici, nel determinarsi delle quali entrano in gioco moltissimi elementi. Alla base di certi comportamenti individuali che, ad esempio, qualifichiamo come comportamenti devianti, troviamo una serie di fattori che possono configurare quella particolare situazione solamente se si manifestano in una specifica e unica combinazione spazio-temporale.
E allora riusciamo a districarci in questo quadro di situazioni, soprattutto ponendo in essere meccanismi che consentano quella che, per usare una terminologia sociologica anch'essa piuttosto abusata, viene definita una riduzione della complessità .
Si tratta, peraltro, di qualcosa che viene posto in essere, il più delle volte inconsapevolmente, nella quotidianità di tutti gli individui che nel relazionarsi agli altri debbono potersi in qualche modo regolare, prefigurandone le reazioni e i comportamenti. Tutti noi, cioè, nella nostra vita, nella nostra routine, nei rapporti con gli altri usiamo categorie e schematismi, indispensabili per misurarci con una realtà che, proprio in quanto caratterizzata da una crescente complessità, è sempre più difficile da affrontare, procura ansia, insicurezza.
Ma analoga esigenza di riduzione della complessità ciascuno la avverte (ed in misura forse maggiore, per i vincoli che essi ci impongono) come titolari di ruolo (quindi come giornalisti o come appartenenti a qualunque altra categoria professionale, ad esempio il politico, il giudice, l'operatore sociale).
Il politico che definisce una norma, il poliziotto che deve agire in un contesto urbano per prevenire e reprimere i reati, il giudice che decide circa la colpevolezza di un imputato, l'operatore che prende in carico una situazione di famiglia problematica, sono tutti soggetti che valutano la realtà con cui si confrontano e adottano grandi e piccole decisioni operando processi di riduzione della sua complessità.
L'operazione che fa un giornalista quando scrive un articolo in cui tratteggia o analizza una situazione o un fenomeno sociale, è un'operazione di riduzione, inevitabile, della complessità della realtà, dal momento che l'alternativa sarebbe quella di scrivere un libro per ogni singolo caso o situazione. Operare "riduzioni" è, per certi versi, costitutivo del suo lavoro.
In questa operazione di riduzione vi è ovviamente il rischio di distorcere e falsare la realtà di cui si parla. Ciò è tanto più probabile quando, ai limiti che derivano dalle peculiarità organizzative del mestiere, ossia dai vincoli strutturali di spazio e di tempo cui si è sottoposti, si sommano limiti di tipo culturale propri del giornalista. Per citarne alcuni: la mancanza di sensibilità e di capacità di relazionarsi con le persone; l'assenza di specializzazione e la conseguente incapacità di cogliere gli elementi qualificanti di una situazione, di distinguere l'essenziale dal dettaglio e gli aspetti più appariscenti da quelli sostanziali; la superficialità di analisi di chi si accontenta di una fotografia statica, senza interesse per come una condizione si collega con altre ed è andata evolvendo nel tempo.
Le vie di fuga da un compito difficile
Due, e di segno opposto, sono le "vie di fuga" adottate da chi assume consapevolezza della difficoltà di rispondere adeguatamente all'esigenza di una corretta "riduzione della realtà".
La prima consiste nel rinunciare all'impegno ed all'onerosità della scelta, nel rinunciare ad assumere l'onere della decisione.
E' questa una strada molto frequentata dai titolari di ruoli politici, i quali rinunciano a scegliere ogni volta che producono - e i politici in Italia sono stati a lungo maestri in questo - politiche confuse e contraddittorie, norme non chiare, decisioni "aperte", interpretabili in tutti i modi possibili, lasciando semmai ad altri (i giudici, gli amministratori, gli operatori) il compito di interpretarle e di applicarle. Si determina di conseguenza un fenomeno che credo sia sotto gli occhi di tutti: un tossicodipendente di Torino ha certi diritti e certe risorse per affrontare il suo problema, mentre un tossicodipendente in Calabria ne ha altri. Non esiste per due cittadini italiani che abitano in due regioni diverse un'uguaglianza sostanziale di diritti, ad esempio il diritto alle stesse prestazioni o alle stesse risorse.
Anche nel campo delle misure per prevenire la devianza o la criminalità si osserva una tendenza in questa direzione. Poiché tutti sanno bene che prevenire è un'operazione, se la si vuole interpretare seriamente, altamente complessa e che tutti gli impegni in direzione della prevenzione che si fondino su progetti sociali di sostegno ai contesti ed alle persone "a rischio" sono "costosi" (non solo sotto il profilo economico) e comportano grandi difficoltà, va affermandosi l'idea che l'unica e la migliore strategia sia quella fondata sulla cosiddetta prevenzione situazionale. Il ragionamento che ne è alla base è semplice: essendo troppo impegnativi, complessi, costosi e sostanzialmente poco valutabili, sotto il profilo dell'efficacia, i progetti che si propongono di incidere sui fattori che sono all'origine dei fenomeni criminali, ad essi si rinuncia e l'attenzione si sposta verso le misure che semplicemente rendano "difficili" tali comportamenti. In quest'ottica, prevenire il crimine significa essenzialmente renderlo difficile, attraverso una serie di misure di tipo protettivo (allarmi, guardie, blindature, ecc.) [3].
Nel campo giornalistico la rinuncia a misurarsi con la complessità di una parte della realtà si manifesta nell'esaltazione del frivolo, nella tendenza a concentrarsi sui fatti meno problematici, rinunciando invece a continuare a lavorare sulle questioni che, proprio perché più difficili, richiedono maggiore sforzo di comprensione e di discernimento.
La seconda "via di fuga" dalla difficoltà o non volontà di accogliere la complessità e di misurarsi con essa sta, all'opposto, nel cedere alla tentazione del riduzionismo.
Sul versante politico questa fuga si concretizza in quello che è definito il decisionismo, finalizzato spesso a null'altro che ad affermare il potere di decidere, a far prevalere una propria idea pregiudiziale, ad imporre la propria visione della realtà, semplificandola ed assolutizzandola. Riduzionista è quel modo di guardare alle cose che prova fastidio per tutto ciò che ritiene riflessione, mediazione, ascolto, impegno articolato.
I giornalisti incorrono nella tentazione del riduzionismo ogni volta che esprimono, ad esempio, un innamoramento improvviso e passeggero per questa o quella spiegazione dei fatti, per questa o quella soluzione, per questo o quell'esperto che propaganda rimedi infallibili.
Tale tentazione è a fondamento di un'informazione che adotta strutture di comunicazione, di racconto di fatti complessi, con gli schemi semplificatori dellafiction, dove il buono e il cattivo si fronteggiano, il bene e il male sono chiaramente distinti e riconoscibili; nelle situazioni disperate arriva il salvatore che libera la città o l'intera società dal male.
Da questo tipo di tentazione deriva la tendenza ad usare le fonti senza discernimento, a collocare i pareri degli specialisti come accessori, elementi di contorno, perché "fa fine" esporli (senza peraltro che essi influenzino il modo di descrivere la vicenda), a rincorrere ed esaltare il dato, ad utilizzare la statistica in quel modo acritico di cui si è detto prima.
Quante volte succede di leggere in faccia al giornalista una forte delusione se il sociologo o l'operatore interpellati su una questione ricca di sfumature non hanno sottomano il dato semplificatore. Paradigmatica è, nel campo delle tossicodipendenze, la fatidica domanda che i giornalisti rivolgono sempre ai responsabili dei servizi o delle comunità terapeutiche: "Ma quanti ne salvate?". E classica è la delusione di fronte all'argomentare di chi è interpellato e che si sforza di dire: "E' improprio usare la parola salvati, si tratta di un processo lungo, la valutazione dei risultati è operazione complessa, ecc...". Di solito si viene cancellati dall'agenda dei riferimenti del giornalista che si rivolgerà a chi ha imparato ad esaltare la propria immagine (come alcuni dei personaggi "prezzemolo" interpellati su tutto da tutti) fornendo certezze, dati numerici, non importa se attendibili e indicazioni di rimedi sicuri. Chi, facendo il mestiere di giornalista, opera questo tipo di fuga nel "riduzionismo" ha bisogno inevitabilmente di personaggi che vendono (spesso nel senso proprio del termine) certezze e/o che si presentano come taumaturghi.
2. La solitudine: le situazioni, i modelli interpretativi
La solitudine: da problema individuale a condizione collettiva
Premesse queste considerazioni generali, possiamo entrare nel merito delle due condizioni che sono indicate nel titolo del nostro incontro, la solitudine e la violenza. Non pretendo naturalmente di analizzare tutti i dati proposti nella relazione precedente, ma intendo dire alcune cose sui modelli dominanti di interpretazione e di rappresentazione dei due temi.
Parlando di solitudine dobbiamo constatare che oggi siamo in presenza di molti tipi o, se si preferisce, di molte facce della solitudine, alcune evidenti e altre nascoste: esistono cioè solitudini "gridate" che manifestano apertamente la loro condizione e solitudini silenziose, solitudini frequentemente "rappresentate" e solitudini invisibili, assolutamente ignorate.
Certamente è facile pensare alla solitudine del diverso, quella di chi, portando uno stigma o avendo una disabilità, viene posto ai margini, escluso dalle opportunità, isolato dal contesto delle relazioni.
Esiste poi la solitudine del deviante: essa trae origine dal fatto che la reazione sociale che accompagna di solito quelle istituzionali (la più classica delle quali è rappresentata dall'internamento in carcere) produce separazioni, isolamento, rottura dei legami, difficoltà di accettazione, non rispetto dei diritti fondamentali. Naturalmente molte volte il deviante non è solo, o non lo è apparentemente, perché spesso questa solitudine rispetto al mondo "per bene", normale, il mondo dei non devianti o di coloro che non sono riconosciuti come tali, produce aggregazione degli individui considerati devianti in mondi a parte, che sono le subculture. Si tratta di gruppi che si autoalimentano e che naturalmente incrementano l'allontanamento di chi vi appartiene da tutta una serie di opportunità: in una spirale perversa, ciò alimenta sentimenti di ribellione, di reazione oppositiva, le cui manifestazioni, che preoccupano altamente la società, costituiscono rafforzamento dell'emarginazione degli individui.
Naturalmente la ribellione preoccupa anche se atto individuale, ma molto di più quando diventa un fenomeno di gruppo, un fenomeno collettivo. L'aggregarsi in subculture devianti, per superare la solitudine, con quanti condividono una stessa condizione, è il segno dell'espulsione dal mondo delle relazioni, dal mondo delle opportunità accessibili alla maggioranza delle persone.
C'è infine la solitudine della e nella normalità , che è la faccia più nascosta, sicuramente meno appariscente del problema. E' la solitudine di chi, pur abitando la normalità, è solo; pur nell'apparenza di condizioni di vita accettabili, è privo di relazioni.
Pensando a questo tipo di solitudine, si può dire - anche se il termine può apparire una contraddizione, dal momento che la parola solitudine fa necessariamente riferimento ad una dimensione individuale - che oggi la solitudine è una condizione collettiva. Intere categorie di persone sono sole: oltre che di singoli individui, la solitudine è cioè condizione caratterizzante le categorie cui tali individui appartengono, che condividono le condizioni di marginalità.
Si pensi a chi è solo insieme alla sua rete di relazioni primarie, alla sua famiglia: sebbene essa, almeno in Italia, rappresenti ancora un punto di riferimento per gli individui che la compongono, sempre più si tratta di un nucleo isolato, chiuso nelle sue mura. Tale isolamento può essere considerato elemento decisivo nel manifestarsi, al suo interno, di abusi, di maltrattamenti, di violenze. Se la famiglia fosse più integrata, se non fosse isolata come nucleo, se fosse più trasparente, aperta alla partecipazione di altri appartenenti alla comunità in cui essa è inserita, molte delle storie incredibili di abuso e di violenza che i giornali si trovano a volte a raccontare, non si trascinerebbero per anni, come invece avviene, perché in quelle famiglie nessuno ha mai voluto, potuto o saputo guardare [4]. Collettiva è poi anche la solitudine generazionale che investe, sta investendo e investirà sempre di più gli anziani, come generazione, non solo come singoli.
Pluralità di situazioni di solitudine, dunque, e molteplici le sue interpretazioni.
Le interpretazioni della solitudine
Prima di tentare di rispondere alla domanda circa i modelli di lettura prevalenti, è opportuno domandarsi se esiste un modello prevalente oppure convivono interpretazioni diverse, in quella sorta di Babele che sono le voci dei media.
La risposta è che molteplici sono i modelli di lettura, di interpretazione, raggruppabili in due categorie: una che fa riferimento alle caratteristiche dell'individuo, una che pone attenzione alla qualità delle interazioni individuo-società .
Alla prima categoria, in genere prevalente, appartengono tre modelli diversi:
1) Il primo modello è quello che potremmo definire della solitudine per scelta. E' un modello diffuso e può rappresentare un comodo alibi per chi governa le politiche sociali. Il riferimento obbligato di questo modello è la visione romantica dei "barboni", dei senza dimora: c'è tutta una letteratura e un modo di raccontare le loro storie, che ne spiega le vicende facendo riferimento alla scelta di libertà. E' la visione romantica, che ben rappresentava alcune situazioni dell'America degli anni Venti, quando N. Anderson scrisse il libro sugli Hobos [5], i vagabondi che viaggiavano di città in città alla ricerca di lavoro e vivevano la loro condizione come espressione di libertà. Oggi tale visione di chi è solo come individuo che sceglie la libertà viene addirittura esaltata nei media, ad esempio, quando parlano della condizione del single, di cui si illustra la situazione di indipendenza e l'assenza di legami, percepiti come ostacoli alla realizzazione personale.
2) Un secondo modello di interpretazione è la solitudine come colpa: l'essere soli come non normalità, come rifiuto delle convenzioni e degli obblighi, come espressione di una volontà perversa di adozione di stili di vita devianti o non conformisti. Questo è un modello che vedremo riprodursi nella lettura della criminalità e della violenza, considerate modi di agire volontariamente colpevoli.
3) Un terzo modello è rappresentato dalla visione della solitudine come fatalità , come fatto inevitabile, quasi naturale corollario a determinate condizioni. Si tratta spesso di una lettura delle condizioni di marginalità come espressione di inadeguatezza nella lotta per la vita, nella lotta della vita: in tutti i campi ci sono coloro che cadono, che non ce l'hanno fatta, i perdenti, e costoro è naturale che stiano da parte, fuori dal flusso, dalla rete delle relazioni che contano.
Al fianco dei modelli che leggono la solitudine facendo riferimento essenzialmente all'individuo, altri modelli pongono attenzione all'interazione individuo-società.
1) Innanzitutto troviamo l'immagine della solitudine come conseguenza di condizioni dipovertà materiale: si tratta di un modello molto radicato in tempi passati, oggi riconosciuto come parziale, dal momento che la povertà materiale di solito è solo una componente di situazioni più complesse. Non necessariamente in società povere esistono fenomeni di solitudine a livello esteso, anzi spesso la povertà è terreno di crescita di forme intense di solidarietà, mentre egoismo e solitudine sono diffusamente presenti tra chi ha più risorse economiche.
2) Un secondo livello è invece quello del rapporto tra solitudine e povertà di relazioni, povertà delle reti di relazione. Tale modello è di solito utilizzato per spiegare fenomeni di solitudine in realtà in cui le risorse economiche sono consistenti ed i bisogni materiali non costituiscono un problema. E' appunto quel tipo di solitudine quotidiana, che si manifesta non nelle situazioni di marginalità, bensì nella normalità, che sempre più è una normalità connotata da molte assenze, o da presenze che potremmo definirepresenze assordanti. Oggi tutti sono bombardati di rumori, di sollecitazioni, di stimoli e per molti il rapporto più significativo con la realtà è quello mediato da un'emittente che produce suoni, sollecitazioni, stimoli, ma non è certamente un interlocutore, essendo la comunicazione unidirezionale. A volte queste presenze, questi rumori sono assordanti: l'immagine che si potrebbe richiamare è quella del rumore costituito dal livello della musica nelle discoteche, in cui la difficoltà a comunicare è data dalla presenza di un rumore troppo forte.
3) Un terzo modello interpretativo è quello che vede la solitudine come conseguenza di traumi o di rotture. In una società altamente complessa, ciascuno avverte la sensazione che gli appigli, i punti di riferimento non siano molti. O meglio, potenzialmente sono molti, poiché davanti a ciascuno si apre una miriade di opportunità, ma in realtà ciascuno sperimenta la distanza tra queste opportunità teoriche e le possibilità reali. Venute meno le grandi certezze ideologiche, molte delle sicurezze sono di fatto legate esclusivamente alla vita di relazione ed ai ruoli occupati. Ecco che, essendo il lavoro l'unica fonte d'identità, di riconoscimento da parte degli altri, un trauma come la perdita del lavoro diventa fatto estremamente gravoso, simile alla rottura delle relazioni familiari. Numerosi studi hanno esaminato gli effetti devastanti non solo della perdita del lavoro, ma anche della cassa integrazione che, pur non provocando gravi problemi dal punto di vista economico, ne provoca enormi sul piano dell'identità [6].
In sintesi
Dovremmo dunque ragionare, rispetto a questi modelli di interpretazione, pensando alla limitatezza degli schematismi che a volte applichiamo o alla non correttezza di interpretare la solitudine in termini esclusivamente individuali.
E' invece necessario guardare alla solitudine come ad un processo esistenziale, un percorso alimentato dalla qualità delle relazioni, che si autoalimenta nella misura in cui porta a comportamenti di reazione che appaiono non comprensibili, i quali, a loro volta, in un circolo vizioso, spingono sempre di più le persone a isolare coloro che li pongono in atto.
In una società sempre più complessa, gli universi di riferimenti sono accessibili in maniera sempre più parziale e l'individuo è costretto a muoversi in modo non lineare e in maniera diversa da quella in cui si muovono gli altri individui.
Il percorso esistenziale di ciascuno si dipana attraverso sentieri che si strutturano e si destrutturano continuamente, rendendo fragili e precari i legami, le relazioni, i riferimenti, per cui è sufficiente che ne venga meno uno perché crolli tutto l'insieme.
3. La violenza
La violenza, disperata forma di comunicazione
Anche gran parte della riflessione sulla violenza può essere posta in relazione, oltre che con i tratti individuali di chi manifesta attraverso comportamenti aggressivi carenze o bisogni non soddisfatti, con molte delle condizioni sociali che alimentano il sentimento di insicurezza. E' da esso che discende quell'atteggiamento diffuso che porta, per difendersi, ad affermare sempre più diffusamente la logica perversa del classificare ciascuno e l'insieme delle relazioni con le categorie "amico-nemico", "uguale-diverso", "noi-gli altri". L'espressione di questa percezione, di questo sempre più condiviso modo di ragionare, è la propaganda a favore della difesa di un "noi" che preserverebbe dai pericoli percepiti come insiti nel confronto con il diverso.
Questa dialettica appare accentuata in una società che in questi ultimi anni si è confrontata col problema dell'immigrazione, del contatto tra culture diverse e che, invece di coglierne gli aspetti arricchenti, avverte sempre più forte l'esigenza di ergere steccati per difendere la tribù, per difendersi da un "altro" che mette in crisi le già scarse certezze.
L'insicurezza e l'istinto di preservazione delle proprie certezze da parte della maggioranza sembra alimentare, in una spirale perversa, il passaggio alla violenza in chi si sente escluso, di chi prova sentimenti di solitudine radicale. L'esasperazione o la disperazione portano spesso alla malattia mentale, condizione che chiude in un cerchio di solitudine non solo i protagonisti, non solo i malati, ma anche il loro nucleo relazionale più ristretto.
Ma esasperazione e solitudine possono portare alla violenza contro di sé o contro gli altri, violenza che può essere interpretata come forma di comunicazione. E' stato scritto più volte che la violenza è una forma di comunicazione, anche se, spesso, la conseguenza è una rottura totale delle comunicazioni: il figlio che uccide il padre, anche se, di fatto, rompe per sempre la possibilità di comunicazione, esprime un bisogno di comunicazione, l'esigenza di farsi riconoscere da lui, di imporsi alla sua attenzione, di suscitare reazioni, magari reazioni di punizione. Al tempo stesso egli esprime il bisogno di rendere evidente, al mondo intero, la propria sofferenza.
La violenza, come la solitudine, si presenta in molte forme: esiste una violenza individuale ed una violenza che si esprime in comportamenti collettivi; esiste una violenza urlata, manifesta, ed esiste una violenza nascosta, non denunciata, patita in silenzio, in ambiti chiusi e impermeabili agli sguardi; esiste, per effetto della selezione operata dai media, una violenza sovra-rappresentata ed una violenza ignorata.
Il rapporto vittime ed aggressori
E' interessante interrogarsi anche sulle relazioni tra vittime e aggressori. Molta della violenza e dell'aggressività, oggi non è più collocabile nel modello che si potrebbe definire il modello Robin Hood, che vede l'aggressività e la violenza, come pure la criminalità generica, le attività "predatorie" [7], come azioni che dal basso della società si dirigono, con direzione verticale, verso l'alto: chi ha poco se la prende con chi ha molto, chi è frustrato se la prende con chi vede essersi realizzato. E' il modello utilizzato da Cohen nel suo famoso libro sui giovani delinquenti [8], in cui descrive la nascita e le caratteristiche delle subculture delle bande minorili: la loro delinquenza è gratuita, maligna, violenta, proprio perché, appartenendo alle classi inferiori, vivono un sentimento di frustrazione che porta ad aggredire coloro che stanno in posizioni sociali privilegiate.
Molte ricerche oggi ci permettono di intravedere - anche in virtù di quanto detto sopra circa lo sviluppo di azioni di prevenzione situazionale [9] - uno spostamento verso un modello che potrebbe essere definito "compagni di sventura": vittima della violenza è sempre più spesso chi vive condizioni di debolezza e deprivazione.
Ad esempio, in America, la violenza risulta essere oggi prevalentemente intraclassista e non più interclassista; intrarazziale e non più interrazziale. Ed anche nel nostro contesto è più facile, anche se rende di meno, prendersela con l'anziana donna che va a ritirare la pensione alla posta piuttosto che con chi riceve la sua pensione sul conto corrente in banca; con chi va in giro col borsellino dei soldi piuttosto che con chi usa la carta di credito; col vicino che non può permettersi l'allarme e le porte blindate piuttosto che con chi usa tutti i mezzi di protezione per difendersi.
Ne deriva la necessità di ripensare ai molti stereotipi che permangono sui rapporti tra vittime e aggressori: la comunicazione violenta, l'agire in termini violenti coinvolge sempre di più fasce deboli, deprivate, sia come aggressori, sia come vittime.
La violenza sui giornali: uno specchio deformante
Gli elementi essenziali della rappresentazione della violenza possono essere sintetizzati in alcuni punti
1. La rappresentazione della violenza fa un uso acritico dei dati, delle statistiche: come abbiamo detto nella parte prima di questo contributo, la violenza apparente (quella cioè che viene conosciuta, in quanto denunciata agli organi di controllo) e la violenza legale (quella di cui si vengono a scoprire e a condannare gli autori) diventano quasi sempre, senza la doverosa cautela ed attenzione, gli elementi su cui si costruisce la rappresentazione complessiva della violenza reale.
2. La violenza rappresentata è espressione di un'opera di selezione non casuale: dall'universo dei comportamenti violenti si selezionano quelli che più si prestano ad una rappresentazione spettacolare. Certo, spesso si tratta della violenza più grave, ma deve far riflettere lo squilibrio tra la rappresentazione quotidiana della violenza dello scippatore - naturalmente condannabile, soprattutto quando agisce ai danni delle persone più deboli - e la sotto-rappresentazione della violenza di chi utilizzando capacità e mezzi, a volte sofisticati, mette sul lastrico famiglie intere, facendo bancarotta o compiendo quegli atti che appartengono alla sfera della criminalità o delle illegalità economiche.
3. La rappresentazione della violenza è spesso intrisa di morbosità e voyeurismo,soprattutto quando si descrive l'ambito della violenza sessuale. Ciò conduce, soprattutto nei casi più gravi, ad aperte violazioni dei diritti degli individui alla riservatezza. Questo vale anche nel caso di minori la cui identità, il cui diritto ad essere tutelati e difesi viene violato dalla costruzione del racconto: anche in assenza del nome del minore, egli viene identificato attraverso una serie di altri elementi che lo rendono facilmente riconoscibile, soprattutto nei piccoli centri di provincia.
4. L'atteggiamento dei mezzi di informazione appare spesso contraddittorio ed esprime una forte dose di ambivalenza. Si pensi a quante volte, in un giornale, la denuncia della latitanza delle istituzioni quando emergono casi di abuso sessuale o di maltrattamento reiterato nei confronti dei minori è affiancata, se non nella stessa pagina, in altra parte del giornale, dallo scandalo per l'azione dell'assistente sociale che interviene in una situazione di grave pregiudizio per il benessere psico-fisico di un bambino. Da un lato troviamo la giusta denuncia della latitanza delle istituzioni, dall'altro la protesta per l'ingerenza contro la libertà ed il diritto "naturale" dei genitori di tenere con sé, comunque, i propri figli.
5. La rappresentazione della violenza è spesso schematica e incapace di cogliere la complessità delle situazioni che la generano: all'origine di ogni storia di violenza c'è sempre un complesso rilevantissimo di problemi. Quante volte, invece, rimanendo nel campo dell'abuso ai minori, vicende complicatissime, oggetto di analisi approfondita e di decisioni collegiali da parte di giudici, operatori sociali ed esperti diversi, diventano, nel salotto di Maurizio Costanzo, la rappresentazione "a una voce sola" delle ragioni del cuore della mamma, giustamente turbata da un provvedimento che le sottrae un figlio. Misure di allontanamento dei bambini, di affidamento, difficilissime da prendere in situazioni di abbandono psicologico e di inadeguatezza dell'adulto alla funzione genitoriale, vengono rappresentate come situazioni in cui si tolgono i bambini solo perché il padre o la madre sono poveri o disoccupati, arrivando a lasciare intendere che il Tribunale per i minorenni "ruba" i bambini alle famiglie povere per darle a quelle dei ricchi.
6. Infine possiamo osservare una rappresentazione parziale e distorta delle ragioni che sono all'origine della violenza descritta. A questo concorrono, da un lato, la cultura e i relativi pregiudizi di cui sono portatori i giornalisti, dall'altro la confusione esistente nell'universo dei saperi scientifici che trattano questi problemi, una vera e propria babele di interpretazioni e di linguaggi.
Le cause della violenza: stereotipi e schematismi nell'esempio dei titoli dei quotidiani
Su quest'ultimo punto, la babele dei linguaggi nella rappresentazioni delle cause della violenza, bisogna porre, in sede conclusiva, l'attenzione.
Possiamo osservare alcuni titoli di giornali che commentano fatti di violenza o fenomeni sociali che possono essere ricondotti alla sfera delle devianze. E' interessante osservare articoli non di cronaca nera, perché, se già troviamo riduzioni in termini semplificatori e l'abbandono della voglia di scavare nelle cose quando si scrivono articoli e resoconti seri, o quando si presentano i contributi di specialisti, a maggior ragione ciò avviene nel quadro della cronaca di ogni giorno, in cui i giudizi e le semplificazioni abbondano.
Tre sono i modi prevalenti di rappresentare le ragioni della violenza e del crimine
1. C'è un approccio secondo cui, alla base dei comportamenti criminali o violenti c'è la responsabilità dell'individuo, una sua scelta razionale in direzione del male, la sua malvagità. Di fronte alla malvagità dell'individuo la risposta non può che essere strutturata in termini sanzionatori. L'esempio è costituito da un articolo ("Perché non punire i minori?") di commento al dibattito sull'opportunità dell'abbassamento a 12 anni dell'età di imputabilità dei minorenni (oggi fissata a 14 anni). Ma in questa stessa direzione si colloca la frequente tendenza alla rivalutazione della funzione deterrente della sanzione, espressa da chi sostiene che l'unico modo per rispondere al crimine è alzare il livello di risposta penale. In questo clima si giunge a quelle posizioni estreme che considerano la violenza come l'unico modo per rispondere alla violenza e che giustificano la pena di morte. Tutto ciò indipendentemente dai dati, perché è accertato in modo incontrovertibile che non c'è alcuna relazione tra aumento delle sanzioni e diminuzione dei tassi di criminalità, nessun rapporto tra introduzione della pena di morte e diminuzione della criminalità violenta.
2. Un secondo modo di guardare al crimine è quello secondo cui il criminale o il deviante sono tali perché costituzionalmente diversi dai non criminali. E' questa una visione che i giornali negli ultimi tempi veicolano con facilità estrema, anche perché molto del sapere disciplinare, molta parte della comunità scientifica oggi fa ricerca in questa direzione, essendo fortemente sostenuta dal sistema politico. Ecco allora che gli scienziati, di volta in volta, scoprono il gene giusto, come testimonia il titolo: "Pericoloso chi ha il cromosoma X fragile", che ha come naturale conseguenza, secondo un progetto inglese, di rendere obbligatorio per tutti il test genetico. Così per la prostituzione, che in un altro articolo è diventata "una malattia". E ancora: "Scoperto il gene del suicidio", "Individuato il gene dell'omosessualità ". Qui ci troviamo di fronte non tanto a meccanismi di riduzione della complessità, quanto a semplificazioni estreme e a rinuncia a qualunque discorso serio. Alla base c'è la speranza di trovare soluzioni semplici e poco costose ai problemi della violenza e della criminalità o al problema del suicidio o della prostituzione. Naturalmente non si può nascondere che la responsabilità non è solo dei giornali, ma anche dei ricercatori: al pari del mercato della moda e del mercato dei motori, c'è oggi anche un mercato delle notizie scientifiche, in cui scienziati in cerca di fama o di risorse economiche propagandano come scoperte mirabolanti lavori per i quali le cautele sono indispensabili. Nello specifico, poi, occorre considerare che i programmi di ricerca genetica, ad esempio il programma "Genoma" negli Stati Uniti, sono finanziati in maniera molto consistente: moltissima della ricerca sul crimine violento si è spostata dalla ricerca sociale alla ricerca delle neuroscienze, perché la speranza di trovare la causa semplice e il rimedio sicuramente efficace - magari rivalutando pratiche obsolete, come l'elettrochoc o la lobotomia, oppure andando alla ricerca di farmaci che possano impedire la violenza o sedare gli impulso devianti, o ancora vagheggiando di possibili trapianti di geni - attira molto di più che non continuare a perseguire progetti difficilissimi e "costosissimi" (sotto il profilo dell'impegno necessario e dello scarso ritorno di immagine per il potere politico)[10].
3. Ad un terzo modello si ispirano tutti i riferimenti ai condizionamenti esterni. Se il primo modello rimanda alla responsabilità individuale, il secondo ai condizionamenti genetici, biologici, il terzo modello vede l'individuo deterministicamente orientato da fattori sociali o culturali di volta in volta assolutizzati come "la" causa. Qui troviamo le responsabilità della famiglia, della scuola, della società genericamente intesa come somma di mali. Altro esempio chiaro di questo approccio sono i frequenti richiami alla colpa del cinema o della TV, anche in questo caso con la grande semplificazione che si può vedere in alcuni titoli. "L'arma letale: una ricerca condanna senza appello i network americani", magari affiancato, tanto per confondere il lettore da un commento di senso opposto che dice: "La violenza in America. E' inutile incolpare la TV". Si arriva all'assurdo di affermare che se c'è un crimine la responsabilità è di Oliver Stone, regista del film "Assassini nati", addirittura arrivando a trascinarlo in Tribunale.
4. Conclusioni
Le semplificazioni contenute nei giornali, su quelli che sono i prevalenti modelli interpretativi della violenza, hanno quella caratteristica di fuga dai problemi derivanti dalla complessità di cui parlavamo all'inizio.
Il problema su cui occorre portare l'attenzione di chi opera nel campo dell'informazione è che il nesso tra rappresentazione dei problemi ed elaborazione delle norme e delle politiche è molto forte. Così la contraddittorietà delle istanze e delle posizioni rappresentate dai media viene riflesso, almeno in parte, nell'oscillazione e nell'analoga contraddittorietà delle norme e delle politiche, con l'affannosa rincorsa di questo o quel bisogno, di questo o quell'interesse particolare da parte di un legislatore o di amministratori mai come oggi bisognosi di legittimazione e di consenso.
In questo senso la responsabilità dell'operatore dell'informazione appare molto rilevante. Se infatti l'adesione alle spinte prevalenti in direzione di forme di controllo "forte", di intensificazione del controllo repressivo o di ricerca di soluzioni miracolistiche è certamente il riflesso, tra le altre cose, di sentimenti diffusi di insicurezza, ciò non toglie che questi sentimenti siano di fatto in genere amplificati dai media. Agli stessi media chi ha responsabilità politiche sembra di solito rivolgersi nella sua azione e negli orientamenti delle scelte.
Il terreno della violenza diventa così luogo di reciproci rinforzi, con una perdita di senso delle proporzioni sempre preoccupante, ma soprattutto con effetti "boomerang" di cui tutti dovrebbero prendere maggiore coscienza.
[1] E. H. Sutherland, Il crimine dei colletti bianchi, Giuffré, 1987.
[2] Un recente libro di V. Ruggiero, intitolato Economie sporche (Bollati Boringhieri,1996), mette bene in luce i rapporti, i legami strettissimi tra l'economia legale e l'economia illegale, in un'area grigia dove stanno moltissime persone per bene che non compariranno probabilmente mai nelle statistiche giudiziarie.
[3] Si tratta naturalmente di misure che alcuni si possono permettere, altri no, tanto da determinare l'effetto sostanziale di uno spostamento dei bersagli delle azioni criminali, con una vittimizzazione delle persone e delle aree più deboli, impossibilitate a difendersi. Non a caso, come diremo più avanti, sempre più si parla, in luogo della tradizionale criminalità e violenza inter-razziale e inter-classista, di criminalità e violenza intra-razziale e intra-classista.
[4] Su questo punto non si può tuttavia sottacere quanta ambivalenza vi sia nei giornali che, da un lato, quando succedono tragedie, accusano le istituzioni pubbliche di non aver saputo intervenire per tempo, dall'altro difendono regolarmente le famiglie dall'ingerenza dei giudici dei tribunali per minorenni o dalle assistenti sociali che tentano di tutelare i minori entrando nel merito delle vicende famigliari.
[5] N. Anderson, Il vagabondo. Sociologia dell'uomo senza dimora, Donzelli, 1994.
[6] Ad esempio sono stati studiati i percorsi di malattia mentale legati, derivati o scaturenti da questa perdita d'identità: essi esemplificano chiaramente quanto ci possa essere di devastante nella perdita, nelle rotture, nei traumi legati al ruolo ricoperto nel mondo del lavoro (vedi E. Bruzzone, a cura di, Cassintegrati e disagio psichico, Sagep, 1990).
[7] Così riassume una serie di comportamenti M. Barbagli, L'occasione e l'uomo ladro, Il Mulino, 1995.
[8] A. K Cohen, Ragazzi delinquenti, Feltrinelli , 1974.
[9] Mai come negli ultimi tempi sono cresciute le polizie private, gli organismi di vigilanza ed hanno fatto affari d'oro le industrie che producono sistemi di allarme e tutto ciò che in qualche modo consente, a chi può, di attrezzarsi per rendere difficile al criminale la commissione dei reati in quella specifica situazione.
[10] Negli Stati Uniti, dove tutti possono entrare in un'armeria e comprarsi un'arma, si potrà continuare tranquillamente a vendere armi a chiunque; al massimo basterà individuare coloro che eventualmente quell'arma sono "predisposti" ad usarla in maniera impropria, con buona pace e con buon successo degli interessi delle fabbriche di armi.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.