Intervento di Gianfranco Bettin
Gianfranco Bettin*
Vorrei partire non tanto da una cosa che riguarda in particolare chi fa informazione, chi comunica, ma l'ambiente nel quale arriva l'informazione, la cosiddetta opinione pubblica, la famosa gente, la gente comune che, come dice Altari, non dobbiamo dimenticarci che tante volte è "gentaglia" comune. Ho il dubbio che il discorso dell'autoreferenzialità - che allude ad un riferirsi reciproco degli operatori dell'informazione: i giornali che guardano la TV, la TV che guarda i giornali pur sapendo di essere più potente - rappresenti sicuramente un problema, ma che un problema ancora maggiore sia il riferirsi degli operatori dell'informazione più spesso alle pulsioni, ai sentimenti, al bisogno di inventarsi degli "schemini" con cui spiegarsi la realtà, proprio della cosiddetta gente comune, dell'opinione pubblica. Un problema nasce non tanto dal fatto che gli operatori dell'informazione fanno casta, fanno ceto e sono appunto autoreferenziali, ma che sentono il bisogno di essere uguali alla famosa gente comune, all'uomo della strada, alla casalinga di Voghera, per compiacerne le pulsioni, gli impulsi a semplificare e in sostanza per farsi capire, ma non tanto per spiegare. Per compiacere strati, che possono essere potenziali lettori, pubblico.
C'è davvero, per aspetti più specificamente corporativo-sindacali, un mondo a parte dell'informazione, con tutti i suoi privilegi, con tutti i suoi problemi, ma c'è anche - mi pare che questo ci interessa di più ai fini della qualità dell'informazione e della sua capacità di farci capire cosa accade nel mondo - un limite opposto e cioè proprio seguire le superficiali pulsioni che si danno nella così detta opinione pubblica. In un circolo vizioso. Ho l'impressione che gli informatori, qualsiasi mezzo utilizzino, dovrebbero coltivare un po' di più la propria diversità, la propria separatezza. Naturalmente, essendo la loro materia prima ciò che accade in mezzo alla gente o anche dove non c'è gente, devono, più di quanto non accada, essere sul posto, andare a vedere e tornare a raccontare, ma prendendosi la cura di distinguersi dai luoghi comuni, mentre mi pare che più spesso li inseguano, e da questo nasce la serie di problemi che sono dati per impliciti in questo seminario. Bisognerebbe prioritariamente riscoprire il gusto del non conformismo, della provocazione felice, del punto di vista diverso, del retroscena, di ciò che è alla radice delle cose, mentre questo accade raramente. Quindi, se è vero che c'è un circuito autoreferenziale, è altrettanto vero che dall'altra parte c'è invece una tendenza a lasciarsi omologare, che andrebbe superata come precondizione per rifondare una pratica di informazione originale e quindi anche più attendibile.
Giornalismo, potere tout court
Sono leggermente in dissenso con quanto è stato detto sul fatto che i giornalisti abitano nell'anticamera del potere. Penso che, per tanti aspetti del lavoro del giornalismo, sia vero, ma che per altri aspetti sottovaluti che, in realtà, l'informazione abbia un potere specifico. Per esempio, per quanto riguarda la cronaca, politica o economica, credo che sia vero: naturalmente penso che si alludesse all'anticamera nel doppio senso di chi è tenuto e di chi ama stare in anticamera. Però - a parte il fatto che non si possono omologare tutti in un atteggiamento servile, perché la differenza la fanno le teste delle persone - su altre tematiche, per esempio non tanto la documentazione generale, i grandi reportage o i saggi delle riviste, ma la cronaca sociale quotidiana, sui quotidiani, su quelli a forte presa locale, il giornalismo è potere tout court. Un articolo di giornale sbagliato distrugge mesi di lavoro degli operatori sociali e distrugge anche la possibilità di dire la verità su un fatto per mesi interi, forse a volte per anni, radica luoghi comuni che magari non avrebbero avuto la possibilità di stabilizzarsi, attribuendo loro dignità di verità. In quel caso è potere tout court, esattamente come altri poteri, proprio per quanto cristallizzano di pregiudizi, di luoghi comuni, di fantasmi, di capri espiatori. Sotto questo profilo la responsabilità di chi lavora nell'informazione è ancora maggiore, perché è direttamente egli la fonte della "verità" attorno ad un fatto, attorno ad un fenomeno.
Gli esempi che si possono fare sono centomila: penso che moltissime delle persone qui presenti potrebbero raccontarne a iosa. Pensiamo al celebre episodio dell'invasione dei nomadi a Genova dove trattavasi di 26 soggetti, cioè 5 o 6 famiglie Rom, diventati un caso nazionale, e a tanti altri meno noti su scala generale, ma localmente molto influenti. Questa partita si gioca soprattutto sulla scala delle redazioni cittadine locali dei giornali, ovviamente alcune cose bucano e arrivano sui grandi Tg, sui grandi media, ma in quel caso parliamo di un potere dove non c'è anticamera, si è nella "camera'', si schiacciano i bottoni, perché lì davvero l'informazione è quello che conta. Ho l'impressione che è a diversi livelli che dovremmo collocare le vie d'uscita dalla situazione attuale, naturalmente col richiamo ovvio, ma giustissimo, alla professionalità, alla correttezza, quindi al discorso delle storie personali, il problema va posto non a questa o quella categoria, non direttamente e solo ai giornalisti o a chi lavora nell'informazione, ma alle comunità, all'opinione pubblica nel suo insieme, evitando anche di scaricare sui giornalisti ciò che appartiene a tutti o alla maggioranza, alle maggioranze in particolare, comprese quelle, come le chiama Benni, "composte da sinceri democratici di entusiastica fede nazista" di cui pullulano molto spesso le comunità, quelli che dicono: "io non sono razzista, però...". Gli abitanti del "paese del però" come li chiama don Luigi Ciotti.
Dunque le questioni mi sembrano un po' più complicate, rinviano ad un clima generale che vive questo Paese, naturalmente per comodità e anche per logica vanno separate e quindi isoliamo pure la questione dell'informazione. Penso che sarebbero utili iniziative in cui si coinvolgano operatori dell'informazione con operatori sociali, operatori della cultura, e che li chiamino a misurarsi con filoni di ricerca, di documentazione e canali di comunicazione, figure diverse messe a confronto in modo meno occasionale che con convegni o seminari; e questo si può fare soprattutto sulla scala locale delle città. A Venezia, proprio in questi due giorni, abbiamo concluso un convegno sul volontariato a cui hanno preso parte anche i giornalisti e la cosa, che non era episodica, nasce da lavori in comune su varie tematiche che dà dei buoni risultati, anche su questioni molto spinose. Per esempio stiamo da tempo lavorando sulla tematica della prostituzione in modo diverso da quanto normalmente non si faccia, con degli operatori che escono la notte, lavorano con le prostitute, con vie d'uscita alternative; una serie di cose che coinvolgono operatori della giustizia che lavorano nel campo della repressione, ma anche operatori sociali nostri, che operano su tematiche loro specifiche, e operatori dell'informazione, per guidare il modo in cui escono le informazioni, ma non tanto per censurare, che sarebbe altrettanto sbagliato, ma per promuovere forme di comunicazione corretta sulle radici del problema, su come si può uscirne, ad esempio raccontando storie di fuoriuscita.
E così, anche per quanto riguarda i nomadi, gli immigrati, la tossicodipendenza, i temi su cui si scatena più spesso l'emotività dell'opinione pubblica, producendo luoghi comuni, ricerca di capri espiatori, soluzioni schematiche e tutto il resto. Abbiamo visto che, in un lavoro che dura ormai da un paio d'anni, sono molti gli operatori dell'informazione disponibili, e penso che dei risultati li abbiamo ottenuti. E' un lavoro naturalmente più praticabile sulla scala delle città, ma credo che si possa tranquillamente replicare in tanti posti. Dal confronto, dalla contiguità - non solo col potere o con le pulsioni più emotive dell'opinione pubblica, che si spera di trasformare in consumatrice di giornali attraverso i titoli sparati e il compiacimento delle sue più goffe o emotive reazioni - credo che possa venire molto.
Ho provato qualcosa del genere non solo nell'esperienza del volontariato o di amministrazione, ma anche facendo il comunicatore: quando mi capita di scrivere vedo che, a seconda degli interlocutori che mi scelgo per documentare, cambia l'input che ricevo, cambia perfino il modo in cui posso trasmettere delle cose, ma soprattutto cambia la materia prima che tratto. Credo che questo implichi un mutamento che non è soltanto strettamente interno alla professione dell'informatore, ma proprio al clima generale di una comunità, al contesto, e che dunque i problemi dell'informazione siano poi i problemi che hanno le comunità.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.