Intervento di Rodolfo Brancoli
Rodolfo Brancoli*
Le parole dette ora da Koch mi spingono a ricordare brevemente un caro amico fotografo morto accanto a me, ad un metro di distanza, un pomeriggio di maggio del 1982 in una piantagione di banane del Salvador, ucciso dal proiettile di una fucilata di un soldato della brigata Alcatal, impegnato in un'azione di rastrellamento e di repressione della guerriglia. Eravamo passati indenni attraverso due anni di guerriglia nel Nicaragua, tra Campo sandinista e Campo somozista, e quel giorno stranamente questo mio amico fotografo aveva indossato il giubbotto antiproiettile, però si era sporto troppo, sempre alla ricerca della foto più bella, ma non più bella esteticamente, piuttosto quella che avrebbe reso meglio, con maggiore efficacia ciò che stavamo osservando. Si era sporto troppo e il proiettile gli si è infilato in un fianco. Si chiamava Olivier Ebault, lavorava per una grande agenzia internazionale e aveva 34 anni.
Le molte facce del disagio
E' vero, c'è molto disagio nel mondo dell'informazione e ci sono varie ragioni.
- Alcune possono sembrarvi banali, ma per chi ci vive non lo sono; per esempio c'è l'insicurezza del posto, c'è un senso di precarietà, il mercato dell'informazione italiana è sempre stato molto ristretto e asfittico e lo sta diventando ancora di più. Ci sono più di un migliaio di disoccupati, parlo di giornalisti professionisti, ci sono elenchi di precari, le scuole seguitano a sfornare neo-professionisti attraverso il praticantato, che non trovano inserimento nel mercato.
- Poi c'è il modo stesso in cui si svolge il nostro lavoro. C'è un'accelerazione dei ritmi di lavoro, c'è meno tempo per riflettere e formarsi, c'è un eccesso di fonti non controllabili, una routinizzazione del lavoro - anche per ragioni di badget - si viaggia di meno, c'è meno tempo, si fanno meno inchieste, c'è un forte rischio di una banalizzazione del lavoro. Al di fuori c'è un'idea molto romantica del giornalismo, ma in realtà esso è stato sempre molto meno romantico di come lo si immagina, e oggi, se è possibile, lo è ancora di meno. Ci sono ostacoli strutturali alla crescita professionale: si tagliano i costi, si viaggia di meno, ci sono i prepensionamenti applicati drasticamente, che impediscono il trapasso delle nozioni in redazione.
- C'è la pressione del commercialismo, che spinge a fare i giornali sempre di più in funzione degli inserzionisti - o per lo meno ad accompagnare le campagne pubblicitarie anche quando si tiene distinta l'informazione propriamente detta dalla pubblicità redazionale.
- Poi c'è anche la percezione, almeno in chi è più riflessivo, di una perdita di contattocon settori della società che diventano sempre più estranei: forse è un problema di ceto sociale, di estrazione sociale del giornalista, ma certo troppi settori di questa società ci sono sconosciuti, diventano brevemente noti soltanto quando emergono dall'anonimato come momento e fenomeno di devianza.
- E infine c'è la sensazione di non essere stimati. Oggi vengono rivolte critiche generalizzate all'informazione e al giornalismo. Intendiamoci, non vedo vergini violate: non lo sono i magistrati quando criticano i giornalisti e non lo sono i politici quando criticano i giornalisti, perché sono i primi a usarli o a cercare di usarli e, a costo di dire qualcosa di non necessariamente popolare fra quanti qui non sono giornalisti, c'è anche molta intolleranza dall'esterno. Intanto c'è una totale incomprensione, proprio ignoranza, forse per colpa nostra, del processo produttivo dell'informazione. C'è una visione molto astratta di che cosa significa fare informazione, non c'è nessuna percezione delle pressioni di orario, di spazio, di tempo, della complessità dei processo di stampa di un giornale o di messa in onda di un telegiornale. C'è anche una rivendicazione aggressiva di spazio: ogni gruppo pensa di fare cose di straordinario interesse e rivendica aggressivamente un coverage che, in un'economia generale è assolutamente sproporzionato e, ne ha accennato anche Bettin, da parte della così detta società civile - che poi in tante manifestazioni è anche società "incivile" - c'è il desiderio non di ricevere un'informazione completa e imparziale, ma di veder riflessa e amplificata la propria parzialità.
Un giornalismo di pubblico servizio
Detto questo, sappiamo che molte delle critiche che vengono rivolte all'informazione sono vere. Molte sono le cause e ci sono ovviamente tante situazioni diverse ma, dovendo generalizzare, a monte di tutto a me pare che ci sia un'idea sbagliata di giornalismo - certamente sbagliata rispetto allo stadio in cui ci troviamo in questo Paese e su cui la categoria appare incapace di riflettere o, quando ci sono occasioni e momenti di riflessione, pare poi incapace di mettere in moto una spinta a cambiare - un'idea tutto sommato elitaria e quindi un'idea di giornalismo popolare profondamente sbagliata perché popolare; dentro questa visione elitaria diventa fenomeno di "fregnacciate e volgare" anziché di accessibile. Viviamo con un'idea di giornalismo sostanzialmente interventista, agitatoria, schierata, e da qui deriva un giornalismo senza regole e con scarsa coscienza. E un giornalismo senza regole è improbabile che generi rispetto. C'è un nesso preciso fra modello giornalistico e regole. Nel modello che si è storicamente affermato in Italia e da cui non siamo riusciti ad affrancarci - cioè interventista e partigiano, ad esempio nei titoli che a volte sono dei mini editoriali - le regole sono un impaccio. E' un modello che non si pone il problema dell'autorevolezza e quindi della credibilità, né del rispetto dei destinatari, che andrebbero trattati da adulti coscienti, non da oggetti da manipolare o da eccitare.
C'è un modello diverso, c'è un'idea diversa di giornalismo? Sì, intanto un giornalismoche concepisce il proprio ruolo come ruolo sociale e non politico, un ruolo di pubblico servizio, indipendentemente dal carattere pubblico o privato della proprietà; parlo di pubblico servizio, perché l'espressione "servizio pubblico" genererebbe immediatamente un equivoco. Un giornalismo che accentui la propria terzietà rispetto ai poteri e che capisca che - se vuoi fare il guardalinee e segnalare i falli dei giocatori - non può stare anche in mezzo ai giocatori; che stia dalla parte del cittadino, cui andrebbero fornite in modo accessibile le informazioni di cui ha bisogno per agire come protagonista della vita democratica.
E non a caso con questa idea di giornalismo c'è anche la più forte elaborazione delle regole, l'idea che se è quasi impossibile essere totalmente obiettivi, si può fare almeno lo sforzo di essere imparziali. Quindi la completezza, il controllo delle fonti, per quanto è possibile, la scrupolosità delle citazioni: le virgolette sono un attestato al lettore o a chi ascolta che la persona citata ha detto effettivamente quelle cose. L'attenzione ai comportamenti, anche individuali, dei giornalisti, ai conflitti di interesse che ci sono e si creano. Perché questa attenzione, questa elaborazione di regole? Perché un giornalismo di pubblico servizio, che svolge un ruolo d'informazione della società e di controllo dei poteri, ha bisogno di essere autorevole e credibile, perciò deve darsi delle regole e deve rispettarle.
Noi siamo molto lontani da questa idea di giornalismo: abbiamo un servizio pubblico che non riesce ad essere pubblico servizio, perché continua ad essere subordinato ai partiti. Cambiano quelli che contano, non la subordinazione. Abbiamo un'informazione privata che rifiuta di svolgere un ruolo pubblico, nel senso che ho cercato di dire, che non avverte questa responsabilità e continua a vivere in una contiguità con i poteri, si presta sempre, in ciò che scrive o in ciò che rappresenta, ad un processo alle intenzioni. Occorrerebbe un cambio di cultura e il quadro non è così fosco. Accanto al disagio, forse proprio per il disagio di cui parlavamo, secondo me ci sono zone della categoria che si interrogano e cercano di muoversi in questa direzione, comprendendo che, nella difficile transizione in cui questo Paese si trova, un'informazione ha enormi responsabilità: dovrebbe accompagnarla a compimento e invece finisce per ostacolarla. Il nostro è ancora un maggioritario imperfetto, ma una democrazia maggioritaria ha bisogno di un'informazione diversa. In fondo il giornalismo italiano è arrivato al maggioritario avendo intatta la cultura del sistema proporzionale; dovrebbe essere parte della soluzione, accompagnare questo processo, svelenirlo, offrire elementi conoscitivi, fare un passo indietro proprio per acquisire autorevolezza, e invece è parte del problema. Occorrerebbe che, accanto ad un vivace giornalismo di opinione, emergesse un'area di informazione non schierata, una sorta di zona franca. Un paio di giornali secondo me si muovono in questa direzione. E' totalmente assente da questa prospettiva, a mio giudizio, l'informazione televisiva, pubblica e privata.
Imparare a dire dei "no"
I rimedi delle formule, dell'autodisciplina. Anche qui non è tutto nero. Per esempio da qualche anno c'è stata una forte azione di sensibilizzazione rispetto alla tutela dei minori nel giornalismo scritto e nelle immagini: è stata elaborata la carta di Treviso, ci sono sanzioni applicate dall'Ordine dei giornalisti, c'è più attenzione, più sensibilità. Nelle redazioni quando c'è un minore ci si interroga: in fondo la funzione prima di questa pressione e anche di queste carte è almeno quella di indurre a interrogarsi, di avere la nozione che si può sbagliare e che occorre stare attenti. Però è anche vero che la sede forse più efficace in cui andrebbe applicata la sanzione, in cui è più agevole disporre di strumenti per tenere in riga il giornalista, è la singola testata, anche quella in cui le pressioni sono maggiori. Certamente talvolta si rischia anche l'emarginazione. Resta il fatto che, al di là degli Ordini e delle commissioni di disciplina, per chi fa una professione il principio della responsabilità individuale non è eliminabile. Del resto non sono solo i giornalisti ad essere dei professionisti inquadrati in un sistema: ci sono avvocati, medici che agiscono entro strutture, e questo non annulla totalmente la responsabilità individuale: bisogna anche imparare a dire di no. Per quanto riguarda la Tv, anch'io non credo a questa visione apocalittica. C'è stata, come diceva Roberto Koch, una demonizzazione della TV. Intanto distinguiamo tra programmazione e informazione, perché io mi occupo solo di informazione. C'è stato un atteggiamento eccessivamente apocalittico che mi ha fatto venire il sospetto perché, guarda caso, è esploso improvvisamente sulle riviste di sinistra dopo la vittoria di Berlusconi il 27 marzo, quindi quanto meno un sospetto di strumentalizzazione in questo io lo vedo. Di fronte a denunce che entro certi limiti sono condivisibili, poiché il mezzo ha una potenzialità enorme di formazione e di influenza sulle coscienze, affiora un pedagogismo che mi insospettisce molto. Ho più rispetto e più fiducia nella capacità di discernimento del singolo. Vero è però che nel campo dell'informazione televisiva c'è una responsabilità in più per chi la fa, proprio per lo specifico televisivo, come si dice. La forza dell'immagine è enorme, nessuna parola può riuscire a bilanciare l'immagine. Poi c'è la forza dell'ascolto: in una serata media il Tg1 è visto, quando va male, da due milioni e mezzo di persone in più del totale dell'intera tiratura della stampa quotidiana italiana, e quindi un'informazione o un'immagine data in modo non controllato può avere un impatto devastante. Questo significa solo che chi fa informazione televisiva deve avere un quid di attenzione, di scrupolo, di autodisciplina in più. A mio modo di vedere non significa che l'informazione scritta ne sia esentata, perché sui principi, su questa idea di giornalismo non dovrebbe esserci differenza tra i vari media.
Un'informazione sempre più differenziata
Altri due punti. Uno in parte è stato accennato: l'importanza dell'informazione locale, che viene totalmente trascurata, perché noi ragioniamo sempre in termini di informazione nazionale. Anche qui, il quadro italiano è misto. Ci sono giornali regionali che stanno andando allo sfascio per la follia del padrone, ci sono giornali locali invece che stanno radicandosi e che svolgono un ruolo importante, con l'aiuto della tecnologia che ha ridotto notevolmente i costi. E forse un'altra via d'uscita è quella della progressiva differenziazione dell'informazione. Noi abbiamo ancora sostanzialmente, parlo d'informazione scritta, un'informazione indifferenziata, con pochi quotidiani di nicchia; invece, questa è forse una via d'uscita, proprio perché la tecnologia consente di ridurre di molto i costi e quindi oggi fare un quotidiano richiede capitali minori. Ricordo che quando nacque "Repubblica" ci lavorai fin dal primo numero, il break even, il punto di pareggio per un quotidiano che era dichiaratamente un secondo quotidiano, che non aveva sport, non aveva cronaca, erano novantamila copie, che era un numero molto alto. Oggi si può fare un quotidiano con un break even molto più basso, perché i costi possono essere molto ridotti. Stiamo vedendo il fenomeno interessante del "Foglio", che è un giornale dichiaratamente di opinione, e il compito che assegno a questi quotidiani, chiamiamoli di nicchia - penso soprattutto al "Manifesto", in parte a "Liberazione", pur essendo organo di un partito - è proprio quello di esplorare aspetti della vita di questa società che la grande stampa d'informazione non può fare o non è interessata a fare. Per tornare brevemente ad un'osservazione iniziale, alla difficoltà di chi sta nel "main stream" - come dicono gli americani, cioè nei grandi quotidiani o Tv - di capire che succede in aree della società in cui non penetra, forse può essere superata, se e finché vive un giornalismoalternativo - uso questa parola con un po' di diffidenza perché si presta a degli equivoci - un giornalismo che si muove con logiche diverse e che mantiene aperti dei canali. Negli anni '60 - '70 c'è stato un afflusso importante nelle redazioni dei quotidiani cosiddetti padronali, di redattori venuti dall'"Unità", dal "Manifesto", da "Lotta continua", da esperienze sociali e culturali totalmente diverse; questo ha portato ad una circolarità di idee e anche ad una commistione di sensibilità. Temo che questo si sia fortemente inaridito e il rischio grosso è di redazioni sempre più forzatamente omogenee sul piano sociale e culturale. Se non riescono a stare in piedi e a vivere giornali come il "Manifesto", per esempio, credo che ci saranno settori della società totalmente ignoti all'informazione.
Stefano Ricci
Sicuramente le ragioni banali, ma reali, del disagio nell'informazione, che anche chi non è operatore dell'informazione deve conoscere, sono un richiamo importante, come quello ad un giornalismo di pubblico servizio. Questo percorso tra parola, fotografia e televisione finisce qui: la parola va al pubblico, con una brevissima richiesta. Chiederei a Lorenzo Lucianer, della Rai di Trento, di presentare "un oltre" alle cose che abbiamo detto: la solitudine davanti a Internet.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.