Introduzione di Stefano Ricci
Stefano Ricci - Comunità di Capodarco*
Introduzione
Il duplice disagio dell'informazione
La mattinata di oggi è dedicata in maniera specifica al confronto sul disagio nell'informazione. Non si tratta di processare qualcuno, oppure di dare bacchettate, ma tutt'altro: si tratta di provocarci come persone, come soggetti che in qualche modo hanno delle responsabilità nel mondo dell'informazione, grande o piccola, rispetto al modo con cui si svolge il proprio lavoro.
Vorrei cominciare da due possibili significati dell'espressione "disagio dell'informazione", da cui poi scaturiranno delle domande che intendo fare ai relatori. La prima forma di disagio è quello dentro l'informazione: cioè la solitudine, l'isolamento, l'indifferenza da una parte, ma anche la violenza, l'aggressività e la chiusura, sono modalità espressive del modo di fare informazione sempre più frequenti del giornalismo di oggi. Un giornalismo che comunque, come gli altri sistemi della nostra società, tende ad essere autoreferenziale e spesso anche intollerante. Oggi nella nostra società ogni sistema trova le ragioni del suo esistere al proprio interno e quindi spesso è chiuso, è una monade che non trova possibilità di relazioni con gli altri e, se questo può essere difficile da accettare, in genere diventa tragico per chi invece deve occuparsi di informazione e di comunicazione. L'altro significato del termine "disagio nell'informazione", che va messo in evidenza, si collega al fatto che, secondo me, il giornalismo italiano si caratterizza come casta, ceto, classe, tra l'altro non omogenea al proprio interno, però spesso lontana dalla realtà che racconta. Ecco quindi un giornalismo lontano e in particolare, se diventa un giornalismo d'élite - ieri si diceva che i giornalisti abitano nell'anticamera del potere - che fa fatica a leggere l'emarginazione, la sofferenza, e quindi le nuove forme di solitudine e violenza. Un disagio che nasce dalla lontananza. Queste due affermazioni non vanno generalizzate, possono essere argomentate in diverse maniere.
Certamente tutti abbiamo notato l'aumento del tasso di violenza nell'informazione: il linguaggio aggressivo/astioso, nei quotidiani, nei settimanali, la scelta delle notizie e la crudezza delle immagini, la riconoscibilità nelle foto, i particolari truculenti e la morbosità nei servizi giornalistici, al di là delle motivazioni che poi possono portare a far questo, sono spesso la norma. Sul versante della solitudine noto un raccontarsi addosso, il compiacersi, l'opinionismo che uccide la notizia e il fatto - non solo sui grandi giornali o in televisione, ma spesso anche nei quotidiani e nelle TV locali, che quindi "fanno il verso a" - che rischia di non rendere un buon servizio all'informazione.
La giustificazione di questo è data da moltissime argomentazioni, come le richieste del mercato, vere o presunte, le mode, la libertà di espressione, il mutamento dei costumi, la maggiore preparazione e coscienza degli utenti. Non voglio entrare nel merito delle diverse opinioni, ma mi chiedo soltanto se non sia proprio possibile sperimentare un altro modo di fare informazione. Quanto alla lontananza del giornalismo italiano dalla realtà, siamo tutti d'accordo nel dire - in fondo "Redattore sociale 3" ne è la riprova -che il giornalismo italiano vive una situazione di crisi abbastanza acuta e lo dicono gli stessi giornalisti. Il corporativismo spesso eccessivo, la forte contiguità tra i giornalisti e i politici - ma non solo, anche con gli industriali, la gente dello spettacolo, dello sport, della finanza - e un approccio professionale che tende a rafforzare la distanza dalla realtà e il legame con una ristretta platea di privilegiati che in qualche modo possono influenzare le scelte culturali del nostro Paese. A parte qualche dovuta eccezione, il mondo dell'informazione appare incapace di trattare con correttezza le notizie dal punto di vista di chi ne subirà le conseguenze, di essere comprensibile e vicino alle fasce più ampie di popolazione, di mettersi al servizio del cittadino per aiutarlo ad interpretare il proprio tempo, ma anche per proteggerlo dagli eccessi del potere.
Un patto tra i cittadini
I rimedi a questo sono stati pensati e tentati, ma mi chiedo e chiedo ai relatori e a voi tutti se sono stati effettivamente applicati con correttezza e con efficacia. Pensiamo alle varie carte di autoregolamentazione, agli organi di autocontrollo della categoria, allo strumento della rettifica, alla verifica e alla diversificazione delle fonti, al monitoraggio quantitativo e qualitativo delle notizie. Ricordo il primo lavoro che abbiamo fatto insieme tra la Comunità di Capodarco e i giornalisti ormai nel '90, "II margine e la notizia", in cui gli operatori della solidarietà e dell'informazione si sono messi a leggere giornali, ognuno con la propria professionalità, ma cercando di capire i bisogni dell'altro. Poi c'è il Garante degli Utenti oppure la possibilità di dare voce al cittadino utente. Faccio parte di un simpatico carrozzone che si chiama Co.re.ra.t, Comitato radiotelevisivo marchigiano, carrozzone perché normalmente nelle diverse regioni d'Italia questa struttura non ha una funzione più o meno seria. Stiamo per dar vita, anche con la collaborazione del Cnca, ad un progetto che spero sia simpatico. Si chiama "Il pollice radiotelevisivo": è un numero verde che dà la possibilità a tutti i cittadini di segnalare trasmissioni radio o televisive, che favoriscono la consapevolezza del cittadino, oppure che ledono in qualche modo i suoi diritti. Quindi, nel doppio senso, un pollice che può andare in su o in giù. Vogliamo cercare di dare la parola al cittadino, ma questo con molta fatica e onestamente col rischio di velleitarismo che abbiamo presente. Tutti questi strumenti, quando non sono stati finti cavalli di battaglia, oppure veri e propri depistaggi, sono usati con poca convinzione e poca collegialità. Manca un patto tra cittadini: quindi operatori dell'informazione, operatori della solidarietà, soggetti deboli, istituzioni, ma comunque cittadini. Da questa doppia riflessione sul disagio dell'informazione emergono due domande che poniamo ai nostri interlocutori. La prima è: come evitare di proporre un'informazione chiusa e violenta, a quali stili, a quali tecniche, a quali principi teorici occorre rifarsi per qualificare la professionalità del giornalista? I giornalisti con quali strumenti possono uscire da questo disagio dell'informazione? E' una domanda "tecnica", proprio rispetto allo stile di essere giornalista.
L'altra domanda invece è sull'etica. Come favorire la prossimità dei giornalisti allarealtà? Quali indipendenze e quale autonomia, correlate al radicamento sul territorio, sono praticabili per il giornalismo nel nostro Paese? Quale etica dell'informazione è possibile recuperare concretamente nel contesto attuale povero di riferimenti deontologici per tutte le professioni? Non è che i giornalisti siano peggio di altri, tutt'altro. Altri neanche si pongono questi problemi. Queste sono le domande per i tre protagonisti che lavorano in campi diversi dell'informazione: qui nasce un percorso abbastanza simpatico, forse più casuale che voluto, fra la parola, la fotografia e la televisione. Ognuno di loro muove da un peculiare punto di osservazione, quindi potrà dare risposta alle due domande con una sensibilità, una cultura, un'esperienza propria, estremamente utile a cogliere le molteplici sfaccettature di questa professione. Alle due domande comuni aggiungerei una domanda specifica per ognuno. Per Gianfranco Bettin, una domanda non da giornalista in senso stretto, anche se poi scrive - e bene - ma da esperto di comunicazione e d'informazione, perché ci può aiutare a cogliere il valore che può avere oggi la narrazione, divisa tra esigenze di cronaca, di conoscenza e di comprensione. In particolare, per la sua esperienza specifica, mi sento di chiedergli di aiutarci a capire quanto pesano, per chi racconta e per chi legge, il fascino della violenza e il delirio della solitudine.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.