Tavola rotonda con Tana De Zulueta, Roberto Morrione, Stefano Ricci, Giovanni De Mauro, Mirta Da Pra. Conduce Goffredo Fofi
Goffredo Fofi - direttore La Terra vista dalla luna*
Sono due le tensioni che si sono espresse nelle giornate precedenti: quella interna al mondo del giornalismo e alle difficoltà e ai problemi che questo mondo deve affrontare, oggi, in un momento particolarmente delicato e, sotto certi aspetti, negativo per la storia del giornalismo (perché io credo che il vero tema su cui bisogna ragionare è la letterale confusione-fusione tra la politica e i media in un'unica sfera estremamente separata dal resto dei cittadini); e quella della difficoltà di trovare per i cittadini un rapporto con questa sfera.
Partire dal municipale
Occuparsi di politica oggi è un problema molto più grave che in altri tempi, perché il contatto tra la possibilità di intervento individuale o di gruppo e la possibilità di incidere su delle scelte nazionali si è rotto, ha dei meccanismi tutti ancora in via di trasformazione e che per il momento sono meccanismi inceppati. Il cittadino ha la possibilità di intervenire in pochissimi modi nella sfera della politica, normalmente intesa cioè in quella sfera separata che a mio parere mette insieme media e politica, ne fa un unico impasto separato. Si può intervenire soltanto via fax, via sondaggio, via voto; non ci sono, oggi come oggi, altri metodi, salvo quello delle manifestazioni, delle rivolte sui temi sociali più scottanti, che mettano in crisi delle situazioni molto più gravi. Ma nella normalità, nella quotidianità, questo rapporto è saltato, non si sa bene come sostituirlo.
Dall'altro lato forse l'unico spazio possibile resta quello - molto più concreto e preciso, ma che fa molta difficoltà a incidere sulle scelte collettive - dell'ambito municipale. Oltre che dal concreto delle esperienze sociali che si possono mandare avanti come gruppi, come associazioni e simili, credo che bisogna partire da questo ambito per pensare a quale giornalismo oggi sia possibile. Occorre, cioè, pensare a questa separatezza e vedere come è possibile ricucirla da questo piccolo settore, da questo piccolo campo (che è il nostro) delle iniziative legate ad esperienze di gruppi, ecc.
La paura di non esistere
E' poi vero che anche queste esperienze presentano problemi molto grossi e molto gravi, una serie di difetti sui quali è bene ragionare. Anche qui c'è isolamento, narcisismo, autorefenzialità...Credo che questo sia uno dei problemi di quella miriade, a mio parere eccessiva, di piccoli giornali e giornaletti che qualsiasi gruppo o associazione o comitato di quartiere si sente in dovere di fare, perché altrimenti ha paura di non esistere. E' una paura che nasce da una preoccupazione reale, quella che oggi sia molto difficile e anche ingiusto delegare ad altri la possibilità di incidere nella realtà, di intervenire con un qualche controllo sul metodo e sulle possibilità di risultato dei nostri interventi.
Ripeto: occorre cercare il modo di congiungere queste due tensioni, tra ciò che il sociale esprime di buono - e non tutto è buono anche nelle nostre file - e quello che le istituzioni ufficiali, l'ufficialità e i media esprimono oggi, nel loro punto massimo di crisi e di separatezza. Dobbiamo partire considerando questi ultimi, non dico come nemici, ma sicuramente come un'altra sfera con la quale abbiamo pochissimi rapporti, della quale ci fidiamo pochissimo, alla quale non bisogna assolutamente delegare più nulla.
L'informazione internazionale che non c'è
Con questo intreccio si può cominciare a ragionare partendo da alcune iniziative forti. Stamattina ce ne sono state due qui presenti: Aspe, che tutti spero conoscete, è un'agenzia di stampa e un bollettino di informazioni a partire dal sociale che periodicamente, con molta assiduità, riflette, presenta documenti, proposte, ragiona sulle scelte di legge, sui fenomeni sociali, ecc.; quindi Internazionale, forse l'iniziativa (all'interno della stampa che si trova in edicola dei media che circolano nell'ufficialità o nella semi ufficialità) più interessante degli ultimi anni, perché è partita da un gruppo di persone giovanissime, ed è riuscita ad imporsi proprio per aver fatto una scelta di metodo d'informare adeguatamente, traducendo e presentando materiali delle riviste, dei quotidiani e settimanali internazionali su tutto ciò che avviene nel mondo; questo a partire da un vuoto, da una carenza che della stampa e della televisione italiane, cioè la pessima o rara o troppo scarsa informazione sulle questioni internazionali. Sui nostri giornali troviamo poco materiale internazionale, gli inviati stanno sparendo sostituiti da certe agenzie internazionali (ovviamente le più ricche) le quali non sempre hanno un'ottica totalmente condivisibile nel loro modo di affrontare le cose: sono quasi tutte americane, quindi qualche rapporto con la politica estera americana ce l'hanno quando devono affrontare le guerre e i problemi che si scatenano in varie parti del mondo…
A partire da queste due iniziative, che mi sembrano le più importanti venute fuori, una dal Iato dell'ufficialità, se così sì può dire, l'altra a partire dal sociale e da quello che il sociale ha bisogno di esprimere, credo che possano venir fuori molti discorsi generali.
Il più bel mestiere del mondo?
Non bisogna assolutamente avere il mito dell'informazione. A me capita di non leggere giornali, di non vedere televisione, non ascoltare radio molto spesso. Mi ci trovo benissimo e credo addirittura di sapere più io cosa succede in questo Paese, di tutti i grandi giornalisti italiani messi insieme. Credo che questo voglia dire qualcosa, cioè che si può anche fare a meno dell'informazione così come oggi si può vivere bene anche senza (...); bisogna smontare questo mito. Lo dico perché ci sono molti aspiranti giornalisti che pensano ancora che quello del giornalismo sia il più bel mestiere del mondo. Non è il più bel mestiere del mondo: è uno dei mestieri più condizionati e più servili che ci sono al mondo, ed anche più responsabili. La responsabilità implica un elemento a mio parere decisivo, quando uno fa la scelta di fare questo mestiere: è un elemento vocazionale e di militanza molto forte.
Il vecchio, saggissimo Luis Buñuel, il mio regista più amato, nel suo libro di ricordi dice testualmente: "I quattro cavalieri dell'Apocalisse agiscono nel mondo contemporaneo attraverso quattro cose, che sono la scienza, la tecnologia, la sovrappopolazione e l'informazione". Forse l'informazione è uno degli elementi che favorisce il disastro invece che il progresso e il miglioramento.dei rapporti all'interno del nostro pianeta.
Se ne può fare a meno
I giornalisti tendono sempre, avendo quel grosso potere che gli viene dalla partecipazione alla sfera separata della politica, a dare di sé un'immagine esaltante; il divismo giornalistico è un divismo paradossale, l'immagine del giornalista conta più che non la sostanza delle cose che dice e che fa. Ci sono pessimi, orrendi giornalisti televisivi, che dal punto di vista del giornalismo non valgono assolutamente un fico secco, ma che sono maestri di pensiero per le masse degli ascoltatori e dei lettori italiani. Anche questo mito va smontato: è il mito del giornalismo trafficato attraverso i modelli del cinema americano, attraverso l'autocompiacimento e l'autoesaltazione che la categoria ha fatto di se stessa, proponendo come divi e come quasi superuomini delle persone che in realtà fanno mediocremente il loro mestiere e che sono molto ben retribuiti. Bisogna smontare queste immagini un po' latenti, che noi tutti abbiamo, per cui pensiamo che l'informazione sia una cosa fondamentale, e che il buon giornalista sia qualcosa di cui non si può fare a meno. No, se ne può fare a meno.
Tana De Zulueta - corrispondente Economist*
Vorrei parlare di un problema molto specifico e attuale, che non è ancora stato affrontato dalla nostra categoria: la questione dei rapporti interrazziali. Prima, però, vorrei rispondere a quello che ha detto il collega Goffredo Fofi; spero che abbiate fatto tesoro di tutte le cose più iconoclaste che lui vi ha detto. E' assolutamente vero, purtroppo sotto tutti i cieli, che questo è il mestiere più servile ma anche di più alta responsabilità. lo però non credo che si possa fare a meno del buon giornalista: purtroppo si può fare a meno dell'informazione com'è oggi, anche se ci sono naturalmente delle bellissime eccezioni.
Informazione internazionale: scarsa, non cattiva
Posso aggiungere la mia opinione sull'informazione internazionale che è disponibile in Italia. Io credo che Internazionale effettivamente sia venuto incontro ad un vuoto di quantità e di qualità su questo fronte, ma non credo che l'informazione internazionale sui mezzi italiani sia pessima; purtroppo è scarsa. Ci sono degli ottimi corrispondenti, tanto di giornali come di televisione, che sono frustrati perché non riescono a farsi sentire, ottenere spazio da parte dei loro caporedattori e direttori. E questo riguarda l"informazione internazionale anche negli altri Paesi, con il ruolo di assoluto dominio che stanno assumendo
Le agenzie internazionali. Voi sapete, per esempio che la Reuter non fornisce più solo parole, ma fornisce anche immagini e lo stesso fa la Associated Press (AP). Questo vuol dire che si va incontro ad una specie di omologazione a livello mondiale della quale bisogna tener conto in futuro. E' anche vero che le priorità delle agenzie rispecchiano delle priorità di real politic americane in primo luogo, e si può anche dire delle potenze occidentali in secondo luogo. Per tentare di vedere un aspetto positivo si può dire che queste agenzie devono distinguersi I'una dall'altra, per riuscire a trovare mercati, spazi, ecc. L'AP, ad esempio, per tentare di dare qualcosa di diverso dai suoi megaconcorrenti, offre ai suoi abbonati la possibilità di fare servizi "su misura": l'abbonato canadese vuole servizi fotografici dalla Bosnia? In Bosnia ci sono soldati canadesi impegnati, per cui l'AP tenterà di fornire servizi che rispecchiano anche le preoccupazioni degli utenti canadesi. Mi auguro che questo elemento, anche se non molto significativo, moderi l'omologazione.
Dalla generosità alla violenza, anche sui media
Torniamo alle nostre responsabilità e alla questione dei rapporti interrazziali (uso una frase direttamente tradotta dall'inglese: race relations). In Italia non esiste ancora la problematica, come tale, dei rapporti interrazziali, mentre, e credo che sarete d'accordo, ormai la questione è di grande attualità anche per noi. Fino a poco tempo fa la questione dell'immigrazione in Italia non era percepita, o era percepita in un modo molto diverso. Sembra che ci sia stato un rapidissimo evolversi di una situazione in cui l'Italia, ricordandosi che era stata fino a pochissimo tempo fa una nazione di emigranti, aveva voluto essere molto generosa nei confronti degli emigranti in casa propria. In poco tempo siamo passati ad un fastidio ed una preoccupazione probabilmente eccessivi rispetto alla quantità del fenomeno: infatti stiamo ancora parlando, anche se prendiamo per buone le cifre più allarmistiche sull'immigrazione clandestina, di una percentuale bassissima di immigrati in Italia rispetto ad altri grandi Paesi che hanno popolazione comparabile all'Italia (la Francia, la Gran Bretagna e la Germania).
Questo velocissimo cambiamento ha fatto sì che nascesse la violenza nei comportamenti, anche quella verbale. E questa violenza verbale è trapelata anche nell'informazione. lo credo che questo derivi da molti fattori; è anche vero che l'immigrazione crea frizione là dove è molto visibile, e in Italia, per motivi che voi conoscete, è entrata massicciamente nell'economia clandestina, per cui abbiamo un'alta visibilità di immigrati nella prostituzione e nello spaccio di droga (non sono sicura se nel traffico).
Solidarietà e interessi
L'Italia non si è mai data una politica di immigrazione. Ce n'era un accenno nella legge Martelli, quando si parlava di concordare i flussi che, secondo l'intento di Martelli e De Michelis, si dovevano concordare con i governi maggiormente coinvolti, cioè in primo luogo per l'Italia i governi del Maghreb. Invece questo non è mai stato fatto, forse perché l'Italia è entrata in una specie di "coma politico" con la decapitazione della precedente classe politica e il succedersi di governi tecnici; i governi tecnici non hanno l'autorità politica per affrontare un argomento così complesso e politicamente delicato, perché esso riguarda le scelte che un Paese fa sul suo proprio futuro e sulla propria composizione.
Gli osservatori stranieri (io ne ho anche parlato coi colleghi inglesi) fanno notare che la debolezza della reazione iniziale, per quanto riguarda il traffico delle persone, era in parte dettata da quel motivo dell'aiuto della tradizione di solidarietà italiana, ma in parte anche da interessi. Buona parte dell'agricoltura del meridione pesa letteralmente sulle braccia di persone straniere. La situazione in cui ci troviamo oggi - e credo che anche questi nostri imperfetti giornali ce ne facciano rendere conto bene - è molto difficile: tutto di un colpo, sotto ricatto parlamentare ed anche per una pressione dell'opinione pubblica, il legislatore si trova di fronte alla necessità di affrontare un argomento molto delicato, complesso, che riguarda questioni morali e di identità nazionale.
Argomento: "loro"
Per questo penso che il ruolo dell'informazione in un frangente simile sia molto importante. Voi avete visto che alle questioni degli incidenti di stampo razziale è ormai dato un posto alto nelle scalette dei telegiornali e dei giornali. Il guaio è come il problema viene affrontato. Prendo come esempio il Tg1 e il Tg2 di mercoledì 8 novembre. C'era stato nella notte precedente, non so se prima o dopo mezzanotte, un incidente a Milano: era stata scagliata una bomba - non so esattamente di che tipo perché nessuno me l'ha detto - contro due cittadini marocchini che passavano su una strada della periferia milanese; in questo attentato sono rimasti feriti i due marocchini e un panettiere che stava lavorando lì dietro.
Subito la polizia, a quanto riferiscono i telegiornali, ha fatto sapere, attraverso le parole del questore, che non pensava che fosse un attentato di stampo razzista, bensì un regolamento di conti, presumibilmente di marocchini. Bisogna ricordarsi che il regolamento di conti non era necessariamente fra marocchini, perché se è vero che lo spaccio della droga è in mano spesso a queste persone molto vulnerabili e in ricerca disperata di mezzi di sostentamento, il traffico non necessariamente è nelle loro mani.
Sorvolo sulla natura molto problematica di questa dichiarazione della polizia: credo che in un altro Paese, dove esiste un'esperienza più lunga della questione, la polizia avrebbe fatto dichiarazioni più caute. Comunque è stata subito ripresa dal telegiornale, dai giornalisti che si sono precipitati nel quartiere interessato per fare interviste. Si presume (perché non si sentono in audio) che le domande citino l'opinione del questore, perché tutte le interviste rimandate, prima all'ora di pranzo e poi all'ora di cena, sono contro loro e cioè contro gli immigrati. Si parla di come "non si può più vivere tranquilli", "non sappiamo cosa combinano", "molestano le ragazze, poi la gente scoppia" ecc.; tutto questo ripreso tranquillamente dai telegiornali. Gli stessi telegiornali, decidendo che questa era una priorità del momento, passano a Torino, dove come sapete c'erano state le lamentele del parroco di un quartiere molto interessato dal fenomeno dell'immigrazione, apparentemente clandestina, soprattutto dedita dello spaccio, e pare ad altri tipici modi di sostentamento illegali. Interviste per strada a Torino: argomento, sempre loro. Sembra che il quartiere sia stato ripulito, c'è stata una massiccia azione della polizia di zona, ma le interviste dicono: i criminali, cioè loro, sembra si siano semplicemente spostati.
Esempi "neri" di leggerezza
Nello stesso servizio, e questo è proprio un esempio nero di leggerezza professionale, viene detto che nel carcere torinese delle Vallette, su circa mille detenuti, 400 sono neri: testuale, neri. lo non so da quale fonte del Ministero di Grazia e Giustizia o dell'amministrazione carceraria sia venuta fuori una statistica dove c'è la voce neri. Come sapete non esiste questa voce nelle statistiche giudiziarie e sicuramente la voce era "stranieri", o forse "extracomunitari", ma non è detto, perché l'amministrazione carceraria non distingue tra stranieri cornunitari e extracomunitari in quanto non hanno un trattamento differenziato.
Non mi soffermo su altri esempi di leggerezza, come la copertina dell'Espresso con la bomba e le facce di stranieri africani dentro, per cui è chiaro che l'allusione è che questa è una bomba che scoppierà in Italia. E nemmeno sulla leggerezza dei cronisti di cronaca nera: riportando un delitto a Padova in cui sono morti un ragazzo e una ragazza, un giornale nazionale ha titolato: "Lui nero, lei bianca"; la fotografia smentisce perché lui evidentemente non è nero (leggendo il testo s'impara che era del Maghreb, però somaticamente potrebbe essere italiano).
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna su questi argomenti non si improvvisa. Molti giornali e compagnie televisive hanno un codice che affronta esplicitamente anche questa questione. In Gran Bretagna esiste da più di venti anni una legge proprio sulla questione dei rapporti interrazziali. Quando questa Legge fu varata, gli scettici dicevano: non si possono modificare i comportamenti con una legge, e soprattutto non si possono modificare le attitudini, cioè quello che pensa e sente la gente. L'intenzione del legislatore era di cancellare o di tentare di far sopprimere il razzismo palese, che per fortuna qui in Italia non si vede. Per razzismo palese intendo cose come un cartello: no blacks, che sarebbe illegale, adesso, in Gran Bretagna.
Un test per i giornalisti
Questa legge ha avuto anche un impatto sui mezzi di comunicazione. La legge dice che è reato incitare all'odio razziale e cita anche come questo si può fare. Ciò ha consentito alle persone che si sentono a rischio di avere tutela legale grazie alla legge. Per esempio, nel caso della bomba dell'Espresso, le persone ritratte in quella fotografia avrebbero potuto andare in tribunale e fare ricorso contro quella copertina. Questo ha avuto un effetto di responsabilizzazione nei confronti dei mezzi di comunicazione.
Il sindacato dei giornalisti inglese ha un codice etico che i suoi membri si impegnano a rispettare. Questo codice affronta anche la questione dei rapporti interrazziali. Il nocciolo è questo: quando noi lavoriamo per riportare un fatto di cronaca non dobbiamo menzionare il colore, l'etnia di origine, il sesso, la religione, lo stato matrimoniale delle persone se ciò non ha attinenza diretta con l'informazione sul fatto. Per esempio: quando il generale Colin Powell scrive un libro e sembra essere candidato, ci si è soffermati molto sul fatto che Powell è nero (un africano direbbe un po' nero...). Questo è molto importante, ed è percepito come tale dalle persone che, negli Stati Uniti, si considerano nere, per cui il fatto del colore di Powell è importante perché ha un'attinenza diretta con le sue possibilità di elezione a presidente degli Stati Uniti. Quando due ragazzi sono sgozzati a Padova e non si sa assolutamente il perché, il fatto che uno dei due sia cittadino del Maghreb non è necessariamente, nel primo momento, attinente. Il test che noi giornalisti ci possiamo dare, quando trattiamo di rapporti interrazziali è: dove io ho scritto nero, avrei scritto bianco? C'era bisogna di quella parola o no? Aiuta la comprensione del lettore?
"A caccia di neri"
Lo scopo di questo codice di comportamento è di ovviare a distorsioni che possono veramente falsare la percezione dei fenomeni da parte del pubblico. Per esempio, se si parla sempre dell'origine etnica dello strupatore, può succedere che gli stupri vengano riportati soprattutto se coinvolgono persone immigrate, persone straniere, e questo può creare nel pubblico la percezione, forse falsa in base ai dati statistici, che gli stupratori sono soprattutto stranieri. Le stesse statistiche della polizia possono essere fuorvianti: anche se la polizia arresta, per esempio in Gran Bretagna, molti più neri che bianchi, questo non significa necessariamente che ci sono più delinquenti neri che bianchi. Può anche essere un fatto che la polizia sia più sensibile alle devianze nere che a quelle bianche. Ci fu il caso molto interessante di un poliziotto che aveva avuto molti premi dal corpo della polizia per meriti: diceva che si era convinto che lui andava a caccia di neri quando stava facendo lavoro di pattugliamento (dovete ricordare che la popolazione immigrata inglese è molto, molto più grande che in Italia; stiamo parlando di interi quartieri abitati, spesso in stragrande maggioranza, da persone che sono cittadini inglesi, ma non anglosassoni etnicamente). Il poliziotto disse di temere che lui e i suoi colleghi stavano sottovalutando e ignorando fenomeni di delinquenza bianca; tentò anche di sollevare il problema presso la stampa e soprattutto in mezzo ai suoi colleghi ma non ci riuscì, e lasciò la polizia.
Io non credo che siamo ancora nemmeno vicini ad una situazione comparabile in Italia. Però sarei ben felice di passare questo codice di comportamento alla federazione della stampa e al mio attuale sindacato, l'associazione stampa romana, perché credo sia ora che ci assumiamo le nostre responsabilità.
Roberto Morrione - Rai*
Se dovessi presentarmi televisivamente, per usare un termine israeliano purtroppo oggi tristemente ritornato all'attenzione, e applicandolo sul mio territorio professionale, mi definirei un sabrah. Ho passato la bellezza di 33 anni della mia vita (ero un ragazzino, non sono vecchissimo) dentro la Rai TV. Quindi il mio approccio ai problemi di cui stiamo parlando non potrà non essere dall'interno di quella che Fofi giustamente ha definito un'istituzione della comunicazione e dell'informazione. Per alcuni versi giustamente, per altri con una definizione almeno potenzialmente limitativa. Ho voluto partecipare a questo seminario fin dal primo momento perché mi interessava molto calarmi nell'esperienza del volontariato e vedere, sentendolo dalla viva voce dei protagonisti di questa importante esperienza, che tipo di legame e di connessione c'era con il mio lavoro, con il mio mondo, con i nostri problemi di operatori dell'informazione.
Un problema per la democrazia
Devo dire che avrei voluto, diciamo, la presenza del soggetto televisione più incisiva, in questi due giorni di dibattito; per molti motivi. Forse non è stato sufficientemente sottolineato quel che oggi la televisione significa in questo Paese, soprattutto nel rapporto tra informazione e società. Per ora mi limiterò a dei titoli, che ciascuno potrà poi riempire in qualche modo, ma che comunque ritengo facciano intravedere ciascuno dei percorsi complessi e molto importanti. Primo punto: l'assetto televisivo sarà decisivo, ed è già decisivo per il futuro della democrazia di questo Paese, e non solo di questo Paese. E' come se ci fosse nel mondo un nuovo protagonista. Io capisco alcune provocazioni intelligenti di Goffredo Fofi riguardo l'informazione; ma anche senza citare un grande filosofo che ha parlato del giornale come del vangelo dell'uomo moderno, ritengo che lo sviluppo della democrazia e del mondo avrà sempre di più nell'informazione - in particolare nell'informazione radiotelevisiva - un punto, nel bene o nel male, decisivo.
Secondo punto: c'è un problema di nuove regole per l'informazione. Non esiste stato democratico moderno che non regolamenti nei punti fondamentali un settore così decisivo per il futuro, per la difesa e lo sviluppo delle istituzioni democratiche. La partita che si giocherà sulle regole del mercato e delle istituzioni radiotelevisive sarà decisiva anche per consentire o meno lo sviluppo di un rapporto tra televisione e società. Basta pensare alla redistribuzione delle risorse, che significherà la vita o la morte di iniziative editoriali, di televisioni, di radio e di emittenti locali delle stesse istituzioni pubbliche e della grande televisione privata.
Perché questa passività?
Terzo punto: la televisione forma i modelli di comportamento e di costume, direi di vita, che sono decisivi per alimentare il cosiddetto mercato. Si chiedeva Guastamacchia ieri: perché tanti milioni di cittadini italiani, che pure fanno parte di associazioni, movimenti, sindacati, gruppi socialmente rilevanti e organizzati, poi non contribuiscono a creare un grande mercato che elevi la qualità della comunicazione e invece sono di fatto dei fruitori passivi di un'informazione e di una comunicazione sempre più rivolta verso il basso? E' una domanda vitale. lo non dico che la televisione (non voglio assolutamente demonizzarla) sia una risposta a questa domanda. Ma negli ultimi dieci -dodici anni, certamente da quando esiste una competizione del privato su questo terreno, tali modelli di comportamento si sono in buona parte formati attraverso l'uso e il consumo della televisione. Ed hanno impostato di sé tutto, dallo sviluppo economico, alle scelte del consumo, al costume, alla politica, ecc. Chiediamoci perché oggi la politica si faccia solo attraverso la televisione. Non c'è Paese nel mondo sviluppato in cui la competizione politica coincida con la competizione televisiva; l'Italia ha queste caratteristiche.
Ancora un punto: siamo il solo Paese al mondo, non solo dell'Occidente sviluppato - e lo dico con grande serenità - in cui la persona che concentra in sé la proprietà del maggior numero di reti televisive esistente, si candida come uomo, come formazione, come gruppo di interessi e di forze a guidare il Paese. Anche questo fa della televisione una protagonista oggettiva (...).
I programmi che abbiamo oggi
Ci sono programmi di qualità (per esempio Linea 3 di Lucia Annunziata), dove il teatro della politica è assolutamente dominante, dove il protagonismo e l'elemento individualistico sono una delle componenti dei processi informativi che stiamo esaminando. C'è poi il format, una grande occasione perduta: sono quelle trasmissioni su Rai Due curate da Minoli, che sarebbero una straordinaria occasione per tentare quella strada nuova e diversa alla quale faceva riferimento Goffredo Fofi. E invece seguono la strada dei misteri, le anatomie degli ufo, tutto ciò che è curioso e che può rappresentare il sensazionale, anche con il grido nel ritmo narrativo. C'è poi la scomparsa delle rubriche di servizio. Solo un anno fa il Tg2 aveva rubriche di servizio che si chiamavano "Diogene", "Non solo nero". Il Tg3 aveva "Insieme"; c'era "Ho bisogno di te", c'erano degli spazi certamente ghettizzanti in una certa misura - perché, ve lo dico con franchezza: capisco la provocazione ma io al redattore sociale non ci credo; io credo al bravo giornalista e il bravo giornalista è redattore sociale, perché deve esserlo nella sua genetica, perché tutti gli elementi costituenti della sua formazione, direi della sua vocazione, portano in quella direzione; altrimenti è uno che tradisce se stesso.
Tuttavia le rubriche di servizio sono importanti, perché rappresentano per il volontariato e per chi ne ha fatto il proprio impegno di vita la possibilità di veicolare contenuti e rapporti con la società. Ma sono sparite. E cosa abbiamo adesso? Al di là di qualche frammento (come quello di Anversa) in fasce completamente ghettizzate, abbiamo due grandi contenitori: sono i talk show di cui si parla tanto. Cecchi Paone per Canale 5, Alda D'Eusanio per il Tg2. Lascio il giudizio in assoluta libertà a chi ha visto questi due contenitori. Ritengo che i loro esiti non rispondano a quel modello di giornalismo e d'informazione critica unitaria di cui parlavo, ma siano all'insegna del pietismo, del perbenismo, di una "TV del dolore" - che poi non è fatta di quel dolore vero che è parte della condizione della nostra esistenza, come ieri ci è stato giustamente spiegato a proposito dell'Aids.
Le guerre civili striscianti alla Rai
L'altro elemento che voglio portare alla vostra attenzione è la vita delle redazioni. Una volta, quando incontravo qualche vecchio amico, collega o tecnico, che diceva: "Io penserei di andarmene prima, voglio andare in pensione", gli rispondevo: "Pensaci bene, perché poi rimpiangerai, ho avuto tanti amici che l'hanno fatto e poi....". Adesso a chi mi dice, e sono sempre di più, "intendo andarmene" non dico più "pensaci bene", perché lui ci ha pensato bene.
Sono usciti tecnici di straordinario valore, e quando in un'azienda della comunicazione escono i tecnici è una campana a morto. In questo momento l'Olivetti, con L'Omnitel, sta costruendo la sua rete con l'ex capo del personale della Rai Pierluigi Celli (era il capo del personale al tempo dei famosi ''professori") e con una trentina di tecnici usciti tutti dalla Rai. Montatori, operatori, capotecnici, esperti di trasmettitori, di ponti, la vita di una grande azienda della comunicazione che vive di tecnica e di tecnologia, magari aprono fuori studi e gruppi di apparto e continuano a lavorare per la Rai a prezzi certamente non semplificati.
Se ne vanno giornalisti: se n'è andato Stefano Balassone, che era il braccio destro, direi l"alter ego", il programmatore tecnocratico di Angelo Guglielmi, e quindi ha creato la terza rete come l'ha creata Guglielmi, l'unica esperienza creativa che la televisione pubblica e privata abbia sfornato nella storia di questo Paese; poteva piacere o non piacere, ma stimolava, sollecitava, metteva in circolo antidoti contro l'intossicazione della politica, contro il teatro del protagonismo. Perché Balassone se n'è andato, dopo mesi di inattività forzata, a Telemontecarlo? Perché la Rai ha fatto andar via Angelo Guglielmi, che è un genio della televisione (non è una definizione mia ma di Fedele Gonfalonieri)? Dicono: "Era andato in pensione"; ma anche Livio Zanetti ha quasi 70 anni e sta ancora sulla piazza; non parliamo di Enzo Biagi (che è stato il mio primo direttore, quello che cominciò a farmi lavorare alla Rai nel lontano 1962) che è fresco come un ragazzo: può non piacere il suo tipo di giornalismo, ma lui è un ragazzo con più idee e una capacità forse migliore di arrivare a tanta gente.
Le redazioni sono divise, c'è una specie di guerra civile strisciante. Stranamente, ma fino a un certo punto, i due poli dei sistema maggioritario sono diventati due poli anche tra i giornalisti della Rai. Fa forse eccezione il Tf3, dove ho lavorato per qualche anno, che è una specie di "tribù curziana" nel bene o nel male: lì anche quelli, e ci sono, non di sinistra che non la pensano come la maggioranza della redazione, hanno tali impronte di tipo genetico, di linguaggio, di comunicazione, di appartenenza alla tribù, che sostanzialmente fanno squadra. Ma nel Tg1, Tg2 e TgR ci sono guerre civili striscianti. Si dividono i servizi, da che parte questo e da che parte quello, si riequilibra... Non si discute più, non circolano le idee, le riunioni di sommario finiscono in meno di mezz'ora (in un giornale la riunione di sommario è come il pane), non c'è possibilità di confrontarsi, di scambiarsi idee, di litigare; ciascun caporedattore recita il copioncino delle cose che la giornata gli offre con i sommari dell'Ansa alla mano; il direttore decide e si fa un rapido sommario che magari viene cinque volte capovolto nel corso della giornata, anche lì da parte di direzioni monocratiche che non lasciano nessuna possibilità né di dialogo né di discussione, né di dialettica; e si va a notiziare.
Anche noi abbiamo i codici, ma...
Questa è la vita delle redazioni oggi. Figuratevi se c'è la possibilità, in questo imbuto dal collo strettissimo, di far arrivare dal territorio problemi, richieste, istanze, lotte, denunce, drammi, storie... I giovani, dicono a Roma, si sentono nati imparati e nessuno dà loro più l'Abc del mestiere radiotelevisivo.
Vengono presi e messi in video, lanciati subito. Vivono l'intervista come il massimo che la professione del giornalismo televisivo può produrre. Giustamente, è stato detto qui, si possono fare interviste e interviste: ma, state tranquilli, quelle che faranno questi giovani, costretti all'analfabetismo, non saranno di livello qualitativo alto, inevitabilmente.
E quell'elemento del giornalismo servile di cui parlava Fofi, lì diventa una condizione di sopravvivenza. Nonostante l'entusiasmo, la vocazione, il perché di quella scelta.
Tana De Zulueta è portatrice di una cultura alta, quella del giornalismo anglosassone. Purtroppo non è, geneticamente, la cultura dell'informazione che si è venuta a formare in questo Paese, i codici esistono anche qui. La federazione della stampa e l'ordine dei giornalisti hanno creato un codice, ma chi se lo tiene davanti? Chi, nell'organizzazione verticale del lavoro, che è imposta oggi, nella specie di magma infernale che è diventata l'informazione di questo Paese, chi si mette di fianco un codice deontologico? Chi lo segue, nelle cose, nelle scelte, nella capacità di lavorare e confrontarsi con la realtà? Mi riservo in un secondo intervento di darvi qualche mia personalissima idea su un altro tipo di giornalismo - perché è possibile, nonostante tutto. Ma forse, dalle cose che vi ho detto in negativo, credo che facendo un ribaltone concettuale e culturale sia già possibile ricavare delle cose in positivo".
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.