I Redattore Sociale 27-28 maggio 1994

Redattore Sociale

L'informazione sui deboli

Intervento di Mirta Da Pra Pocchiesa

 

Mirta Da Pra Pocchiesa *

"Ci troviamo qui dopo aver percorso assieme alcu­ne tappe ed aver dimostrato sensibilità comuni. Signifi­cativi gli incontri organizzati a Gubbio e lo scorso anno a Torino con il convegno "Cronaca Grigia"; la sensibilità dimostrata dalle scuole di giornalismo di Bologna e Perugia; i corsi organizzati presso l'università di Trento; il lavoro del Gruppo di Fiesole, dell'Ordine dei giornalisti. Tanti incontri, insomma, di operatori e giornalisti assieme che fanno dire che qualcosa si muove...
Troppo buona, direte, troppo facile e semplice. Sapete bene che non è cosi.
Se siamo qui, a parlare di etica e ad interrogarci su come si parla dei deboli è perché i riferimenti etici a volte sono nascosti, "persi", in ogni caso da ritrovare, per la professione giornalistica nel suo insieme (ma anche per molte altre professioni) e perché di deboli si parla ancora troppe volte male, o poco.
E credo che sia più che mai importante parlarne oggi quando, come non mai nella storia, l'informazione assume un ruolo così importante, decisivo per la forma­zione e la scelta dei cittadini, per gli "spostamenti politici ed economici; un "attore" (l'informazione) che a volte non appare, sottile ma determinante, costante presenza nelle scelte del nostro Paese, per la salvaguardia o l'affossamento della democrazia. Un'informazione oggi più che mai in pericolo.
I segnali di una logica di monopolio o duopolio sono ormai innumerevoli. Ragionare sull'informazione che si fa sui - dei - coi deboli significa entrare anche in queste dinamiche per cercare di tutelare, ciascuno nel proprio ambito, secondo le proprie competenze - ma già come cittadino in sé - il pluralismo dell'informazione che è uno dei pilastri base della democrazia.

Il contributo che cercherò di portare nasce quindi da questo incontro continuo tra mondo dei media e fonti del sociale, della pace, dell'ambiente. Aspe, con il suo lavorare "a gruppi", ossia mettendo insieme competenze diverse (vedi la redazione di Aspemigrazioni che ha all'interno una Ong e una associazione di giuristi); con le sue redazioni su tutto il territorio nazionale, "antenne " sul campo, sensori di ciò che si muove e vero polso della realtà rappresenta, dal 1983, questa sfida: avere come interlocutori primi, privilegiati, chi vive direttamente o lavora a fianco delle situazione del disagio; essere strumento di dibattito su cui interagiscono e si esprimono tutte le figure che su queste tematiche lavorano e soprattutto essere strumento di lavoro, riferimento per coloro che nei piccoli e grandi giornali operano quotidianamente. Aspe come servizio che si moltiplica, a disposizione di tutti, perché i deboli, chi non ha voce, sia più e meglio rappresentato.

Il mio intervento si articola in tre grossi filoni:
a) alcuni elementi di analisi della situazione su giornali e TV. Un'analisi "cruda", corredata per lo più da esempi concreti;
b) gli aspetti (di cui alcuni positivi) di un mondo (quello dell"informazione) in movimento...
c) alcuni stimoli, alcune chiavi di lettura, che nasco­no dal lavoro di Aspe, per noi giornalisti, per noi operatori, per noi l'uno e l'altro, per l'informazione di oggi e di domani.

Alcuni elementi di analisi, alcuni esempi 

Riporto alcuni esempi e considerazioni tratte per lo più dalla "Rubrica degli orrori, errori e superficialità" istituita su Aspe in seguito al convegno "Cronaca Grigia", ma anche riportando lavori e "osservazioni" apparse su giornali dì categoria e di un lavoro dell'Ordine, dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia: "Dei delitti e delle Penne", pubblicato recentemente e presentato in occasione del convegno tenutosi la scorsa settimana a Trieste dalle donne giornaliste.
Si parla spesso di minori e di tutela degli stessi. La Carta di Treviso ribadisce princìpi e regole definite anche dal Codice di procedura penale. Nonostante ciò le viola­zioni nei confronti dei minori continuano ad essere innumerevoli. Nel "mirino" dei media in particolare i figli di genitori separati, i figli adottivi, i ragazzi nomadi (per loro sembra "implicitamente" annullato il divieto di fare nomi e cognomi). Per i fatti di adozione si ripescano quasi sempre i genitori "di sangue".
Tutto senza considerare, oltre le norme vigenti, il contesto, le altre persone coinvolte, i danni che tutto ciò può provocare su altre persone vicine o "simili", vale a dire con situazioni analoghe. Un esempio: il fatto di Luigi Chiatti, il ragazzo assassino di Foligno. Si è calcato molto sul fatto che è figlio adottivo, quasi fosse un elemento "determinante", tanto che sono state innumere­voli le telefonate giunte di figli adottivi alle associazioni, che chiedevano, angosciati: "Diventerò anch'io un assassino?".

Altri esempi, in ordine sparso.


MINORI. Per non dire il nome e farli riconoscere

Il giornale La Stampa del 14.11.'93, titola "Punito a scuola si getta dal balcone", sottotitolo: "13 anni, aveva dato uno schiaffo ad un compagno". Il quotidiano torinese non rivela l'identità del minore coinvolto, pubblicando solo le iniziali (A.P.), ma subito dopo aver rilevato il fatto, per chi ha dei dubbi, offre al lettore una serie di elementi per individuare di chi stiamo parlando: "Scuola media Belvedere, terza C. Qui, nell'istituto stretto tra i palazzi della collina del Vomero, A.P. primo di tre figli di un impiegato dell'ENEL e di una casalinga, ha deciso di farla finita (...). C'è il professore di lettere, Adolfo Fedi, quando scoppia la baruffa tra i banchi. Uno spintone, la risposta e uno schiaffo appioppato al compagno più vicino, Alessandro Miluccio".
Segnalato da Gruppo interprofessionale "Minori e informazione", apparso su Cronaca degli Orrori, Aspe, 24,1993.

Il disprezzo nel titolo

Pochi mesi fa in un titolo de "L'indipendente" appariva la scritta: Afri-cani.

IMMIGRATI "portatori di lebbra" 

La Voce del tabaccaio, 48000 copie di tiratura, organo ufficiale della categoria, per sconsigliare l'acquisto delle sigarette di contrabbando inserisce una locandina staccabile, da esporre, con scritto: Avviso al pubblico...In alcuni casi le sigarette vengono maneggiate a vari livelli da operatori clandestini extracomunitari, portatori di lebbra.
Segnalato da Senza Confine, Cronaca Orrori Aspe, 12,1994

La TV che viola la Carta di Treviso (TV)

Un Giorno in Pretura, 23 ottobre1991. E' stata trasmessa sulla terza rete della Rai l'intera udienza tenutasi presso la Corte d'Assisi di Roma riportando in modo assai ampio la deposizione di un minore di 12 anni coinvolto nell'assassinio del padre da parte della madre. La pubblicazione della dolente figura di questo bambino e della sua immagine è in aperto contrasto con quanto espressamente previsto e vietato dal nuovo codice di procedura penale, oltre che umanamente inaccettabile e contrario ai principi sanciti dalla Carta di Treviso. Segnalato dal Consiglio Consuntivo degli utenti, apparso su Tabloid, giugno '93.

"Neri al naturale" e "neri autentici" 

II Messaggero, del 12 luglio 1993. Il quotidiano romano ha pubblicato un articolo sulle pagine cittadine a proposito della stagione lirica di Caracalla. Il titolo "Aida, niente animali e negri autentici a Caracalla". Sotto il titolo la foto di Obambi Bede, presidente del Coordi­namento immigrati sud del mondo (CISMI) e comparsa nello spettacolo dell'Aida, corredata di didascalia "Un negro autentico prima di andare in scena". Il pezzo apre ironizzando sul "risparmio di fondotinta" grazie alle "comparse extracomunitarie" e si conclude con un'affermazione del sovraintendente Cresci: "Neri al naturale e abbiamo fatto anche del bene".
Segnalato da ARCI, Aspe 24, 1993.

Omosessuali "colpevoli" di esserlo 

II Giornale, 23 maggio 1994. Il titolo: "Bimbo massacrato: sorpresi due gay". La vicenda è quella di un bimbo trovato in fin di vita perché picchiato a sangue. "Sugli aggressori gli inquirenti stanno raccogliendo una serie di indizi - scrive II Giornale - E' accertato, intanto, che il primo avrebbe tendenze omosessuali, tant'è vero che in Paese lo chiamano "Raffaella". E L'Arci gay protesta: "Nei titoli dei giornali e nei servizi TV campeggia la parola omosessuale. Nessun giornalista si sognerebbe di fare un titolo tipo: "Bimbo massacrato perché testimone di un rapporto eterosessuale". Un crimine o una violenza rimane tale, a prescindere dall'orientamento sessuale di chi la commette. Cronaca degli orrori, Aspe, 7, 1994.

Giornalista "editorialista" 

Muore una bimba perché malata di Aids. Il giornalista de La Stampa se ne occupa parlando più che della bimba, della madre che avrebbe anche un altro di figlio e alla quale - e qui  il giornalista si trasforma in editorialista - si dovrebbero chiudere le tube. Ma si è chiesto, questo signore, dov'erano i servizi quando quella donna ha avuto il primo figlio? Che cosa hanno fatto per supportarla? Si è chiesto, il giornalista, dov'era e come viveva l'abbandono dalla figlia, la sua morte e la sua vita, la sua malattia (quella della figlia e la stessa che lei aveva)?

Consigli non richiesti e dannosi per i minori 

"I Fatti vostri" del 17 gennaio 1992: "Dando spazio e voce ad un pressante invito ad una bambina a tornare presso la precedente famiglia, ha gravemente leso la privatezza della bambina ed ha messo in concreto pericolo il suo equilibrio e la sua serenità sfruttando l'emotività e la curiosità del pubblico in una trasmissione di puro trattenimento".
Segnalato dal Consiglio Consultivo degli utenti, Tabloid, giugno 93.

I minori al centro

Mixer costume, 22 gennaio 1992: "Sono stati ripetutamente intervistati due minori, uno dei quali in palese difficoltà, coinvolti in una dolorosa frattura famigliare incidendo gravemente sulla sfera della loro affettività con domande pressanti".
Segnalato dal Consiglio Consultivo degli Utenti, Tabloid, giugno 1993.

Un marocchino non è un uomo

  Trieste oggi del maggio 1992 titola "Uccisi a coltellate un uomo e un marocchino".

Lo show dei minori 

Costanzo Show, 26 ottobre 1992: "Trasmissione tutta incentrata sulla sofferta testimonianza di un bambi­no che avrebbe "divorziato" dai genitori, ritiene inam­missibile la strumentalizzazione di un bambino a fini di spettacolarizzazione".
Segnalato dal Consiglio Consuntivo degli Utenti, Tabloid, giugno 1993.

Tutti in TV, anche chi non può

Un giorno in Pretura, 8 e 9 gennaio 1993. "E' stata pubblicizzata la figura di un minorenne che in una pubblica udienza deponeva come teste in un processo di omicidio del proprio padre da parte della propria madre...". La stessa risoluzione rileva "il divieto per i mezzi di comunicazione di massa di rendere pubblica immagi­ne di minorenni testimoni, persone offese o danneggiate dal reato... a garanzia della personalità del minore il cui processo evolutivo può essere bloccato o compromesso dalla morbosa curiosità della gente a cui è sottoposto e dell'amplificazione della dolorosa vicenda di vita che lo coinvolge".
Denunce del Consiglio Consultivo degli Utenti, Tabloid, giungo 1993.

Una breve carrellata nelle superficialità, negli errori e negli orrori della nostra stampa. Tanti esempi che vogliono farci riflettere sulle responsabilità che ciascuno ha - il giornalista che scrive, il ti­tolista, il capore­dattore che "pas­sa" la notizia e il direttore che pubblica - nel­l'immagine che si dà di un feno­meno, nell'emar­ginare ancora di più, attraverso le parole i giudizi, gli accostamenti non dovuti, ver­so persone che vivono già tante fatiche, e che più di altri hanno bi­sogno di una stampa che "aiuti a capire" e non aggiunga ulteriori distorsioni e giudizi.
Per concludere questa analisi due esempi ripresi da un simpatico testo, "Dei delitti e delle penne", che ironiz­za sui propri errori.

Non c'è spazio, non è una notizia...

Quante volte ci siamo, vi siete sentiti dire, come associazioni e gruppi, ma anche come giornalisti che proponevano un pezzo che trattava di temi sociali: "Non c'è spazio, non è una notizia? Credo tante, innumerevoli volte...
Ebbene, due esempi tratti da giornali friulani, ma ognuno può, nel suo ambito locale, o sulle altre testate nazionali, cercarne molti altri.
"Un gatto a Remanzasco ucciso con una fucilata", II Piccolo, luglio 1993, quattro colonne.
"Panico per una mucca a Gorizia, abbattuta", Messaggero Veneto, ottobre 1992, tre colonne.

Un mondo in movimento

Alcuni passi avanti, nell'incontro tra media e asso­ciazionismo, sono stati fatti. Dallo speciale di Aspe "Cronaca Grigia" del 1990, che ha ufficialmente aperto questo "interrogarsi su come fare di più e meglio, ciascu­no nel proprio ambito informazione sul sociale, la pace e l'ambiente", alcune cose sono cambiate, alcuni se­gnali positivi, di sensibilità, ci sono.
Penso al crescente interesse di gruppi e as­sociazioni verso "comunicazione ai media", alla partecipazione di forze diverse al convegno "Cronaca Grigia" dello scorso anno a Torino dove gruppi, Ordine e Federazione del­la stampa si sono trovati assieme a discutere e proporre. Penso alle scuole di giornalismo, in particolare Bologna, ma anche Perugia e Urbino, che sempre più pongono attenzione, nella formazione, a queste tematiche. La Carta di Treviso. La Carta approvata e diffusa dall'Ordine Nazionale dei giornalisti e le molte iniziative che questo supporta.
A Gubbio, al mio affermare che, a volte, bisogna avere il coraggio di tacere, ero stata vivacemente contestata. Pochi mesi fa, per fortuna, quattro giornaliste, a Torino, di agenzie, televisione locali e carta stampata, hanno detto "basta" al rilancio sui media della vicenda di una donna che aveva scelto di interrompere la gravidanza e il padre del bimbo aveva rivolto un pubblico appello al Papa perché intervenisse. Le quattro colleghe hanno messo uno stop, necessario, alla pubblicizzazione di una vicenda strettamente privata, intima, faticosa, che con l'amplificazione dei media non poteva che dare giudizi, e essere forte strumento di violenza sulla donna interes­sata. E' un esempio positivo. Di cui esserne fieri, come giornalisti.

Altri esempi andrebbero citati, di come molti gior­nalisti che fanno seriamente informazione rischiano in proprio per documentare le situazioni, andando a scavare "dietro" e dentro i fatti di cronaca. Mai come quest'anno i giornalisti hanno pagato, anche con la vita, questa testimonianza. 

Ma sappiamo che non tutto è così. Le Carte volano, dicevamo a "Cronaca grigia". Le norme sui minori, di cui più spesso si discute, vengono continuamente violate. Al gruppo interprofessionale sui minori, a Torino, gli assen­ti per eccellenza erano proprio i giornalisti! Dicevamo anche, in un seminario di Aspe, e ne abbiamo discusso assieme, che "la troppa informazione addormenta", eppure anche le associazioni e i gruppi continuano a "produrre" a "far nascere" iniziative simili ad altre che ci sono, anziché fare uno sforzo per convogliare e far uscire le tematiche in quei mondi che non le conoscono. Il mito della "propria testata" rimane. Il lavorare per la gente, in funzione dei progetti, e non della propria immagine è ancora lontano.

Il sociale fa notizia 

  Con fatica, oggi meglio di ieri, alcune trasmissioni parlano, cercano di fornire ai lettori, ai telespettatori, elementi nuovi sul sociale.
Nell'ambito televisivo "Droga che fare", "Non solo nero", "Insieme", "II Coraggio di vivere": tutte trasmissioni, guarda caso, della RAI, del servizio pubblico.
Tra i quotidiani va ricordato II Manifesto che da sempre, e in modo continuativo, sì è dimostrato attento a queste tematiche, l'Avvenire con l'inserto "Gli Altri" e L'Unità. Tra le riviste l'ambito cattolico ha sempre dimostrato più sensibilità, Famiglia oggi, Famiglia Cri­stiana, II Messaggero di Sant'Antonio... Ne dimentico sicuramente molte e tralascio tutte le riviste "specifiche" di settore e del volontariato o privato sociale. Anche nelle riviste "normali" qualcosa si sta muovendo, penso a Donna Moderna e ad altre riviste femminili, più attente, oggi, a queste tematiche.
Il sociale, quindi, fa notizia, anche se le trasmissioni televisive vivono una situazione di forte precarietà. 

Parlare di se stessi     

Un elemento di novità, rispetto al decennio passato, è sicuramente rappresentato dallo spazio dedicato dai giornali a parlare del mondo dei media e in particolare del loro invadente "vicino di casa" la Tv, come lo definisce il rapporto CENSIS sullo stato sociale del Paese del 1993. Questo mette in evidenza come i  giornali, anziché cercare una propria specificità, una propria chia­ve interpretativa, rincorrono, guardano e commentano ciò che rilancia o fa la Tv. Sempre il CENSIS, in una rilevazione su tre quotidiani (Corriere della Sera, II Sole 24 ore, La Repubblica) per quattro mesi negli ultimi due anni ha rilevato che hanno parlato di Tv in 1565 articoli (escluse le rubriche), pari al 21,3% in più del 1992. Ma ciò che diviene di maggiore interesse per la nostra analisi è che due tematiche "forti" di temi sociali, come scuola e sanità, messe assieme, non raggiungono la stessa percentuale.

Co-responsabili degli "analfabeti di ritorno" 

La complessità della società, la molteplicità di strumenti che si "muovono" con combinazioni diverse portano, sempre secondo un'interpretazione del rappor­to CENSIS, a far sì che siano sempre più le persone che non sono in grado di "muoversi", di capire, di decodifi­care. Aumenta così la fascia di esclusione, insomma sono sempre di più le persone che non riflettono, che non sono portate a riflettere sulla realtà circostante. Quelli che il CENSIS definisce analfabeti di ritorno, vale a dire citta­dini e cittadine escluse dai processi di cambiamento e rinnovamento del Paese. E allora torna alla mente l'affermazione "la troppa informazione addormenta".
Alcuni dati: il 44,3% degli italiani legge abitual­mente un quotidiano, il 37,5 legge un libro all'anno. Nel tempo libero, mediamente di 4 ore e 42 minuti al giorno, l'italiano passa 1 ora e 48 minuti davanti alla Tv. Solo il 38% dei giovani, coloro che sono più scolarizzati e rappresentano l'investimento sul futuro, hanno familiarità con un quotidiano.

La "spina dorsale" di molti giornali in pericolo 

A questo aggiungiamo le grandi agenzie, ANSA e AGI in particolare, per le quali si parla da tempo di ridimensionamento del personale, di riassetto. Significa mettere in pericolo, oltre che le testate, la qualità della nostra informazione. Anche perché i dati indicano un buon 60% dei giornali (quotidiani e periodici locali) "coperti" dalle agenzie.


Altre due agenzie sono in pericolo, assieme ad altri fogli di informazione con forte periodicità: Adista e Aspe. La responsabilità è di un decreto del Ministero delle Poste che ha aumento a dismisura le tariffe postali e di un altro decreto lasciato decadere, sempre dal Mini­stro (allora Pagani) che prevedeva provvidenze a coloro che sono iscritti al registro nazionale della stampa. In­numerevoli i tentativi di contatto, le richieste, anche attraverso un Cartello di centinaia di testate "Diritto ad informare ed essere informati" per risolvere nella passata legislatura il problema.

Ma tutto questo riconduce ad una distinzione netta tra ciò che è informazione, notizie, servizio alle persone, e ciò che è propaganda, pubblicità, operazioni commer­ciali. L'informazione non è, non può essere considerata alla stregua di una maglietta o di un pacco di pasta. L'informazione è - e tutti nei programmi e nelle sensibi­lità "dichiarate" lo dicono - un bene di alto valore sociale. Come ciò va trattato. Chi fa informazione va sostenuto e non penalizzato, soffocato, come avviene ormai da anni.
Già nel 1990, un primo aumento postale aveva fatto chiudere nei mesi successivi 400 testate. Oggi saranno molte di più, a meno che non si facciano sponsorizzare, ma sappiamo bene che la presenza di uno sponsor gene­ralmente mal si sposa con la libertà di stampa. Credo che lo Stato debba intervenire subito su questo, in difesa del pluralismo dell'informazione e quindi in difesa della democrazia.

Dopo questo quadro assai inquietante, due segnali, solo esemplificativi, su cui lavorare, da sostenere e che forse fanno sperare che non tutto è dato, è definito, che ciascuno di noi può ancora contribuire a definire.

Il primo grande elemento è il desiderio, la voglia, l'importanza delle espressioni locali: giornali, radio, Tv. Strumenti che dal caso "vicino" possono aiutare a leggere la situazione italiana, europea, mondiale, ma con un coinvolgimento in prima persona del lettore, del radio e tele ascoltatore. E' l'espressione locale il vero filo diretto con la gente. Ma devono essere messi in grado di vivere (economicamente) e operare con grande professionalità e contatti con tutti gli altri ambiti.

Il secondo elemento, che può sembrare di poco conto ma che è un segnale, è che molte persone, in continuo aumento, hanno deciso di spegnere, spesso di non avere proprio la Tv in casa. Hanno deciso di non farsi "invadere" e far invadere la vita dei propri figli da uno strumento che non viene ritenuto di aiuto nella crescita educativa, anzi, fuorviante, ammaliante, in ogni caso affascinante ma spesso, sempre più spesso, non credibile, trasmettitore di illusioni e "valori" deleteri.

ALCUNI STIMOLI, QUALCHE CHIAVE DI LETTURA

Non parlare SUI deboli, ma farlo con loro 

Cercarli, averli come fonte, come "controllori" del nostro operare. "Chi esce cresce" è uno degli slogan di Aspe, significa entrare nelle case della gente, nei quartie­ri in cui vivono le persone. Vuol dire entrare nei problemi, lasciarsi mettere in crisi, ascoltando, con rispetto, storie e situazioni.

Il linguaggio
Deve essere semplice, non semplicistico. Deve essere un linguaggio che non offenda la dignità della gente di cui ci si occupa. Parlando di persone, di situazio­ni difficili, delicate, può succedere. Lo si può fare anche in buona fede. Per questo una vicinanza alle storie, alle persone, aiuta a capire come le parole possano ferire. Alcuni esempi: usare alcolizzato ferisce, è inteso in senso dispregiativo, meglio usare alcolista. Sull'Aids anziché dire "morire di Aids", che presuppone una precisa condan­na a morte, andrebbe utilizzato "vivere con l'Aids". Va evitato "vittima innocente" in quanto suggerisce che qualcun altro sia "vittima colpevole". Anche "paziente con Aids" va usato con attenzione: le persone con Aids hanno lunghi periodi di buona salute, altri no. Tutti siamo "pazienti" a volte e non è il caso di relegare le persone con Aids al "ruolo" di pazienti permanenti.
In merito al linguaggio non va dimenticato un uso non sessista della lingua italiana, un altro modo per alzare barriere e fermare processi culturali di crescita ed eman­cipazione in atto da tempo. 

Avere il coraggio di tacere 

Contestato da molti colleghi dietro la "giustificazione" del diritto di cronaca, sul quale nessuno discute. Ma sta al giornalista, al caporedattore, al direttore, il coraggio, la coscienza di tacere su fatti e persone, valutandone il danno che la notizia rilanciata sui media può dare. Presupposto di ogni buon giornalista dovrebbe essere quello, in primo luogo, di non arrecare danni alle persone, poi spiegare, aiutare a capire. In merito ai suicidi le statistiche parlano chiaro, un certo modo di parlarne, le descrizioni, facilitano l'imitazione. Ma non solo, fanno additare la famiglia, con poche frasi alla ricerca delle cause, schiacciando con giudizi univoci il perché di "risposte" così tragiche a un malessere che, come tutti coloro che si occupano di questo oramai affermano, vanno ricercate in una molteplicità di fattori, tutti importanti; tanti ambiti che si devono interrogare, ma mai uno solo. Il giornalista può aiutare a riflettere sui suicidi, non su quel suicidio, su quella persona, su quella famiglia.
Un fatto di questi giorni fa ulteriormente riflettere: il processo al presunto mostro di Firenze, l'interrogatorio alle figlie. I particolari che la televisione e i giornali hanno riferito delle violenze subite. Che peso avrà tutto questo per quelle ragazze? Le loro ferite, già indelebili per la loro vita, non lo saranno ancora di più perché non sono più solo nella loro memoria e di pochi altri, famigliari, giudici, avvocati, ma di tutta l'opinione pubblica? A cosa serve poi? Hanno chiesto loro di rendere pubblico tutto ciò? Che forza avevano per opporsi in una simile situazione? Me lo sono chiesta. Credo che in nome di nessun diritto di cronaca si aveva il diritto di fare tutto questo. Ve lo chiedo, che diritto si aveva di farlo? E magari di ripeterlo per tanta altra gente ancora?

L'informazione sul, del, col sociale, non deve essere solo "triste"

Parlare di problemi legati alla marginalità, alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo, denunciare soprusi (anche ambientali) può essere non un "servizio volto a rattristare i lettori" bensì un modo per coinvolgere le persone, proponendo strade possibili. La capacità del giornalista sta anche in questo: trasformare il lettore da attore passivo ad elemento attivo, inquieto, partecipe dei fatti. Per questo penso sia importante dare a tutti, su tutte le testate, indirizzi, riferimenti, telefoni, possibilità, insomma di mettersi in contatto con qualcuno per approfondire, fare. L'informazione propositiva e di servizio credo sia anche questa, mettere in circolo informazioni in modo che autonomamente le persone si muovano. Proporre significa anche dare segnali (dimostrandolo con le esperienze concrete) che è possibile superare determinate situazioni: dalla droga e dall'alcolismo si può uscire. La persona che ha vissuto per anni in mani­comio può, aiutata, supportata, gestirsi una casa, un lavoro, il denaro.

Un grande bisogno di eroi 

Oggi c'è un grande bisogno di eroi nello sport, nella politica, nel sociale. E tanto è più alta questa esigenza tanto più basso è il grado di protagonismo della gente. Le persone non si sentono protagoniste e cercano qualcuno che le rappresenti, con forza, a volte con arroganza, in ogni caso semplificano un malessere delegando.

La pietà allontana

Per questo io credo che parlando di sociale non bisogna generare pietà. La pietà allontana. Il coinvolgimento avvicina, può aiutare a far capire il problema e ciò che ciascuno può fare. 

Luoghi comuni da sfatare 

- Il grado di istruzione legato alla marginalità. Non sempre è un basso grado di istruzione. Dall'ultimo rapporto sulle povertà estreme (Aspe n. 26/93) emerge che non vi è un basso grado di scolarità tra coloro che vengono definiti "poveri estremi" e che in questi ultimi finiscono anche coloro che di per sé non lo sono (come gli immigrati) ma che lo diventano perché non vi è dialogo, comunicazione, tra gli stessi e i servizi. Oppure perché se non ci finiscono non hanno possibilità di accedere a qualche forma di aiuto. 

- I dati, i sondaggi. Velocizzano la percezione di fatti e opinioni. Fanno passare per "certe" idee che a volte sono quelle dei committenti della ricerca o del sondag­gio. Per il giornalista sono importanti, ma solo se sono seri, e comunque sempre citando la fonte, la modalità con cui sono stati reperiti, il periodo, il tipo di campione. Anche la fonte aiuta a capire da "dove vengono certe letture". La fonte va citata, sempre, per tutto e non solo quando si vogliono prendere le distanze da una notizia. E' anche questa una forma di serietà professionale. Sappiamo bene come in questi anni, e in questo ultimo periodo in particolare, si siano usati i sondaggi. E nella maggior parte dei casi non c'era scritto a quante persone era stata chiesta una determinata cosa, di che sesso, in che periodo, attraverso questionario, intervista telefonica, per la strada, ecc. Sono elementi di poco conto? Non credo. Bisogna quindi verificare e pubblicare per "validi" solo le ricerche e i sondaggi che hanno tutte le "carte in regola", gli altri vanno pubblicati, demolendoli. Si farà un grande servizio all'opinione pubblica spesso frettolosa nella lettura e nel recepimento delle notizie TV.

Tenere vivo il dibattito quando è spento 

Spesso un argomento, legato ad un fatto di cronaca ma che tocca un ambito del sociale, tiene le prime pagine dei giornali. Anche qui un esempio: la persona con forte disagio psichico che accoltella il medico, o la madre, o il vicino di casa. Se ne parla, tanto. Poi, improvvisamente, scompare. Ma i problemi rimangono, da quello della singola persona al problema della casa, del lavoro, dei servizi che non riescono a rispondere alle esigenze delle persone. Sul perché di tutto ciò non si ritorna. Perché? Non è forse notizia, servizio alle persone, sollecitazione per le autorità competenti chiedersi perché quella perso­na aveva chiesto un appuntamento ai servizi pubblici e gli era stato dato dopo due mesi? E perché i servizi hanno poco personale, poco posto dove operare, pochi progetti articolati e flessibili in cui inserire le persone e, per talune situazioni, impreparazione a gestire le stesse? Risalire a come - e chi - spende il denaro pubblico (per l'assistenza, per la formazione, per le strutture, ecc.) secondo quali logiche è un ambito importante in cui i giornalisti dovrebbero operare. Con competenza, esigen­do chiarezza e trasparenza.

Essere critici, più critici, anche con il "sociale"

II sociale - lo dicevo già quattro anni fa a Gubbio - sta diventando un business. Attenzione! Lo ripeto e chiedo ai giornalisti che sono "fuori" da questo giro di entrare più dentro per capirne di più le sfumature, le diversità di metodi (per poi spiegarle alla gente), il modo con cui si opera, le scelte che si compiono e ciò che le ha determinate. Oggi, specie nei gruppi più grandi ma non solo, c'è un grande pericolo di "appoggiarsi", di "farsi appoggiare" per ottenere sicurezze, soprattutto economiche. Le difficoltà delle associazioni in questo senso sono in continua crescita ma fare alcune scelte "di comodo" significa, di fatto, non rappresentare tanta gente, quella che fa più fatica, quella scomoda, nascosta, che non dà immagine. Si "vende" la gente, come è già successo che ai giornalisti si vendono le storie. Si diviene gruppi di facciata, che più che parlare delle persone parlano di se stessi.
Su questo mi permetto di ricordare due passaggi che don Tonino Bello fece a Maglie durante un incontro dei gruppi del volontariato del Sud e che dovrebbe aiutarci, come associazioni e come giornalisti a riflettere sul nostro fare e sul perché lo facciamo e anche sul nostro dire, e sul valore di ciò che affermiamo. Una parola messa in discus­sione da don Bello è stata proprio "solidarietà": "E' in nome della solidarietà internazionale che l'anno scorso abbiamo fatto la guerra nel Golfo e impinguato tanti governi sfrutta­tori dell'Africa; è in nome della solidarietà nazionale che abbiamo sbattuto fuori l'anno scorso, il 10 agosto, gli albanesi dal porto e dalla stadio di Bari, è in nome della solidarietà civile che ghettizziamo i malati di Aids, i tossicodipendenti, tutti i diversi, cioè coloro che mettono in crisi la nostra identità".
E ancora don Tonino Bello (non voleva essere chiamato monsignore) ai gruppi di volontariato: "Il vo­lontariato deve sentirsi padre di cultura, non produttore di servizi, generatore di coscienza critica, non gestore degli scarti residuali dell'emarginazione, oggi così remunerati dalle ditte appaltatrici del bisogno, dalle lobby del bisogno. Deve essere fattore di cambiamento della realtà e non titolare di assistenzialismo inerte, che spesso legittima lo sfruttamento o addormenta quel moto di irrinunciabilità ad ogni forma di oppressione".
Sempre su questo filone l'aiuto che va chiesto ai giornalisti è di scoprire "nomi nuovi" (senza nulla togliere agli "esperti" che già ci sono) ma soprattutto di non delegare la sensibilità - finta - verso queste tematiche ad un articolo firmato da qualche personaggio, anche significa­tivo, ma che non porta un cambiamento nell'impostazio­ne del giornale, non porta continuità e sensibilità vera.

Più sociale e ambiente in redazione 

In tutte le redazioni, per qualsiasi redattore una formazione, una sensibilità e una preparazione di base su questi temi penso sia necessaria per affrontare qualsiasi fatto: di cronaca, di politica, di economia, di sport o altro. Solo così, forse, si possono decodificare quelle situazio­ni "spia" di malesseri che hanno cause e responsabilità lontane, nella gestione del territorio, del denaro pubblico, nell'organizzazione e nell'indirizzo delle politiche sociali e ambientali.
Una grande intuizione del Cnca fu, anni fa, la provocazione di "cittadino volontario", vale a dire essere volontario nello stile, nelle cose di tutti i giorni, anche a seconda delle capacità e competenze ma soprattutto nella normalità, calando la solidarietà nella vita, non distin­guendo in modo netto tanti mondi (professionale, sfera privata, volontariato). Una provocazione che i giornalisti possono cogliere nel "far entrare in redazione" sociale e ambiente, vale a dire farli entrare nella vita, come provocazione e come ricchezza.

Sentire i "veri" interlocutori e, in ogni caso, più donne

Oggi si discute molto di tematiche delicate, che fanno parte della sfera personale di ciascuno. Gli interlocutori però sono quasi sempre uomini, i quali hanno, ovviamente, la loro lettura dei problemi. Poche volte viene sentito il parere di una "pretrice", di una poliziotta, di una avvocatessa. Perché? E se questo non avviene con le figure professionali ancora meno avviene per sentirle come casalinghe e madri, anche se si discute di figli, di famiglia. Questa tematica diviene particolarmente im­portante oggi tenendo conto di alcune importanti tematiche in discussione. Tanto per citare alcuni esempi: la legge Merlin e la proposta di riaprire le case di tolleranza (donne da giudicare, donne da controllare, e i clienti?); la legge sull'interruzione di gravidanza, la legge sull'affidamento e l'adozione; le proposte su quanti figli "fare". Tutti ambiti su cui invito le giornaliste presenti ad occuparsene in prima persona, per far discutere uomini e donne, assieme, per dare a tutti elementi per capire e non lasciare che su tematiche così personali continuino ad interferire, spesso con prepotenza, Chiesa e Stato.

L'archivio, le inchieste, le riunioni di redazione per abbandonare la "sensibilità da convegno"

Per fare bene un articolo ci vuole un buon archivio, tanti riferimenti, un po' di umiltà e tempo. Ma non solo. Il confronto con gli altri, le sollecitazioni sono fonda­mentali per "costruire" quello che sarà poi una "lettura" della realtà, che potrà contenere più o meno sfumature, più o meno informazioni, essere servizio o, se ciò non avviene, nella peggiore delle ipotesi, creare danno. For­mazione e archivio, messa in discussione, se serve, dell'organizzazione della testata, in modo da avere nella riunione di redazione un'occasione di dibattito sono dei tasselli irrinunciabili verso un cambiamento della profes­sione. Discutere all'interno, insomma, e non acconten­tarsi - non serve - di esprimere solidarietà ai convegni, lamentandosi di "non poter fare". Penso che ciascuno debba attivarsi nel suo ambito, per il ruolo che gli compete, soprattutto nelle sedi "istituzionali".

Sempre su questo credo sia importante sollecitare l'Ordine dei Giornalisti perché promuova momenti di confronto-incontro, formazione, con i caposervizio, i caporedattori e i direttori.
Per tutti, comprese le riviste del volontariato e del privato sociale, credo sia importante esigere la coerenza della testata nel suo insieme. Accettare informazione pubblicitaria - come molte testate hanno fatto - è un modo per "infinocchiare" la gente, per avere un'entrata economica certa ma una informazione di parte che non è pubblicità ma "informazione mascherata". Rifiutarla si­gnifica contribuire a cambiare questa logica.

Affrontare i temi tenendo conto delle diverse angolature dei fenomeni     

Vale a dire tener presente i problemi che più appaiono e quelli vicini, che a essi si intrecciano e che a volte hanno alcune "cause" comuni. Occuparsi di carcere, ad esempio, significa sentire, ed avere come interlocutori primi i detenuti, non dimenticando però di ascoltare, di sentire le altre figure presenti: dalla polizia penitenzia­ria, agli operatori, ai cappellani, ai direttori. In quest'ottica Aspe ha aperto questa nuova rubrica sulle "vittime", per creare dibattito, confronto e, perché no, incontro.


La trasparenza, l'accessibilità delle fonti

Un tema, questo, di enorme interesse come giornalisti e come operatori che lavorano nel sociale. Poca o nulla trasparenza, nonostante alcune leggi, difficoltà di accesso alle fonti (in particolare pubblica amministrazione) ma anche archivi di atti pubblici "vuoti", vale a dire senza traccia di passaggio - o solo su cose inesistenti - del lavoro degli assessori. Pezzi di storia e responsabilità politica annullata o, comunque, trasferita, nascosta, non accessibile.

Alcune grosse tematiche su cui lavorare

Dal nostro lavoro quotidiano, dalle sollecitazioni con mondi diversi, vi propongo alcuni filoni, alcune tematiche particolarmente importanti e delicate su cui lavorare.
Entrare nei mondi nascosti, quelli della grande sofferenza, della grande oppressione. Sono le istituzioni chiuse: i manicomi, le carceri, le caserme.

- La legge Merlin, il pericolo di liquidare un problema che riguarda sempre più uno squilibrio tra Paesi ricchi e Paesi poveri con un tentativo di "chiusura" nelle case, di controllo per l'Aids, di "ripulire", in pratica, le città dalla prostituzione. Senza interrogarsi sui clienti, la domanda che determina l'offerta, per i quali non va usato - come per le prostitute - alcun moralismo. Senza conoscere la vera situazione delle donne straniere che si prostituiscono - nella prostituzione ci sono però anche uomini - i soprusi che subiscono. Non a caso viene definita la nuova schiavitù una tratta di persone in continua crescita in Europa e di cui anche gli organismi internazionali si stanno occupando.

- I suicidi. Si continua a parlare di come, dove e chi si uccide. E non si parla del numero dei tentativi di suicidio, dei tanti messaggi lanciati e non raccolti che rappresentano. Aspe sul tema dei suicidi farà uscire un ASPEDOSSIER in autunno.

- Il razzismo in doppio petto. Che passa attraverso il linguaggio, il dire "Io non sono razzista ma..." E non si può non far interrogare il dato pubblicato nell'inchiesta di Aspemigrazioni sul tema, degli atti violenti a sfondo razziale che sono in costante aumento in Italia. 352 nel 1993 di cui ben 290 a Roma, dove vive un quarto degli immigrati presenti nel nostro Paese. I più colpiti, secon­do l'Osservatorio nazionale sulla xenofobia istituito dal Forum delle comunità straniere di Roma sarebbero i nordafricani e le persone provenienti dai Paesi dell'Est.
Le violenze hanno interessato 24 gruppi etnici, nel 7% dei casi anche donne.

- Il  lavoro, il non lavoro, il poco lavoro e la sua ridistribuzione. Ma non solo. Il lavoro può essere ancora proposto come "valore" o dobbiamo ridefinire gli ambiti in cui "realizzarci", esprimerci, ecc., perché sarà un elemento molto incerto e variabile?

- L'omosessualità. I dati riportano che sono 15 milioni, non meno di 32 milioni tra cittadini e cittadine gay e lesbiche della Comunità europea. Nono­stante ciò la risoluzione del Parlamento europeo ha suscitato scandalo. I giornali si sono scagliati sulle adozioni, ma chi aveva chiesto questo? Non i gay.

- La legge 180 sulla riforma psichiatrica. A 15 anni dalla sua emanazione in Italia ci sono ancora 104 mani­comi, con 27.000 pazienti, per lo più anziani entrati non sempre per problemi psichiatrici. La situazione, docu­mentata da una Commissione parlamentare e riportata in un'inchiesta di Aspe, rivela maltrattamenti, sporcizia, persone abbandonate a se stesse.

- Le povertà non rappresentate. Oltre a quelle "classiche", conosciute come i senza dimora, i malati, di mente, vanno ricordate:
a) le persone che vivono un forte disagio psichico ma che matte non sono;
b) i tossicodipendenti da alcool, farmaci e altri che con queste sostanze vivono e non sono definibili, per molto tempo, né tossicodipendenti, né alcolisti, né malati;
c) le persone che non vogliono chiedere sussidi perché non vogliono essere catalogate.

Il giornalista, oltre il fatto, dovrebbe cercare di entrare, anche attraverso l'utilizzo di storie, nella norma­lità. Vuol dire raccontare storie non eclatanti ma "norma­li", sono le storie che colpiscono meno la fantasia ma influiscono molto di più sull'identificazione del lettore con la persona e lo coinvolge, lo spinge a capire.
Nelle povertà non rappresentate rientrano anche i "ricchi poveri" e il padre di famiglia che si prostituisce perché non vuole rubare e non ce la fa a mantenere la famiglia. Entrambi nello stesso anno, nella stessa città. Una città organizzata per categorie, dove chi non rientra è doppiamente escluso: non esiste.

La mafia, le mafie 

Non uno, non tre, ma tutti, tanti. Caselli, Violante, Arlacchi nelle minacce di Riina. Accanto a loro pochi altri. Anche alcuni colleghi giornalisti hanno pagato: Fava, Impastato, Rostagno, solo per citarne alcuni. E questo andrà ancora avanti, e saranno ancora in pochi, se dalle nostre pagine non emergeranno, nel locale come nel nazionale, nello specifico come Narcomafie, ma anche nel giornale diocesano le connessioni tra sud e nord Italia e nord e sud del mondo in termini di interessi economici, di criminalità organizzata, di sfruttamento delle fasce più deboli.     
II contributo di ciascuno per far uscire un messag­gio univoco, chiaro: NON SONO SOLI, NON SONO I SOLI. E lo si deve fare denunciando costruzioni edilizie abusive, distruzione ambientale barattata con posti di lavoro e proponendo, da ogni testata, al nord come al sud, una cultura della legalità, non della rassegnazione; una cultura che deve passare anche attraverso la nostre penne, tra le righe dei pezzi, nei discorsi chiari, inequivocabili. E chiudo questi flash su temi "caldi" di cui occuparsi con ciò che Giancarlo Caselli, nell'editoriale di Aspe di quest'anno, sollecitato su chi e come si poteva fare la lotta alla mafia, ci aveva detto che "nonostante tutto non possiamo dire di aver vinto. La repressione da sola non basta. Per questo è importante lavorare assieme, tutti, magistratura e forze sociali per intraprendere iniziative che mirino ad un cambiamento culturale. Senza mai abbassare la guardia".
E in quest'ottica, sollecitati anche dalle altre tematiche, credo che non si possa che pensarci come giornalisti facenti parte di un processo di cambiamento che deve avvenire dentro e fuori dalle redazioni. E questo mestiere, bellissimo, che permette di dare un valore aggiunto ad ogni cosa se sa cogliere le sfumature che le ricerche non colgono e gli attimi del tempo che i libri inevitabilmente perdono, può essere un gran mestiere, più che mai sociale, più che mai politico. Giornalisti cronisti, critici. Non giudici ma testimoni, protagonisti di un modo di fare informazione che renda giustizia a tutti e soprattutto a chi non ha voce. Non giornalisti che fanno informazione sui  deboli, ma con i deboli. Farlo è possibile. Molti, in testate di diverso tipo, lo stanno dimostrando. Credo si possa fare di più: osando, osando di più, con rigore, umiltà e tanta passione.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.