II Redattore Sociale Milano 5-6 ottobre 2007

Miglioratori del peggio

Una visione consapevole

Interventi di Alessandra Mauro, Luciano D'Alessandro, Vinicio Albanesi. Conduce Denis Curti

Vinicio ALBANESI

Vinicio ALBANESI

Sacerdote, presidente della Comunità di Capodarco e di Redattore sociale. Dal 1988 ha ricoperto la carica di presidente del tribunale ecclesiastico delle Marche per 15 anni ed è stato direttore della Caritas diocesana di Fermo per altri dieci. Dal 1990 al 2002 è stato presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca).

 

Alessandra MAURO

Alessandra MAURO

Direttore editoriale dell’Agenzia Contrasto. 

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Luciano D'ALESSANDRO

Luciano D'ALESSANDRO

Fotografo. 

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Denis CURTI

Denis CURTI

Direttore dell’Agenzia Contrasto a Milano.

ultimo aggiornamento 05 ottobre 2007

Denis Curti

Il libro che presentiamo oggi s'intitola "I custodi dei fratelli" ed ha un sottotitolo che è abbastanza esplicativo "quando i fotografi denunciano i diritti violati": un libro che presenta il lavoro di alcuni tra i più importanti protagonisti della fotografia di documentazione Devo dire che la presentazione di questo libro, in questo spazio, in questo contesto, come potete immaginare, può immediatamente cogliere il legame: abbiamo voluto presentarlo qui, durante le giornate di lavoro di Redattore Sociale,  perché crediamo che questo lavoro possa davvero dare un contributo al dibattito che c"è stato in questi giorni e che andrà avanti ancora questa mattina. Per cui il filo rosso che abbiamo steso ieri durante il workshop sull'etica delle immagini insieme a Marco Vacca, in qualche modo prosegue anche oggi, quel filo rosso che ci ha fatto discutere parecchio sulla necessità di continuare a mostrare e di continuare ad esercitare quella funzione, quel ruolo che è quello del fotografo. In questo caso qua la fotografia ha svolto un ruolo veramente importante, come ci racconterà adesso Alessandra Mauro che ha concepito e curato questo libro.

Alessandra Mauro

Abbiamo pensato di rintracciare un filo comune nella storia della fotografia, dalla seconda metà dell'Ottocento ad oggi, andando ad individuare una serie di autori, una serie di storie, sono in tutte 20 diverse storie, 20 diversi reportages per 23 fotografi, una storia è stata sviluppata da 3 fotografi insieme, che nell'arco di un tempo molto, molto vasto, praticamente parliamo di più di un secolo e mezzo, hanno comunque cercato di utilizzare la fotografia per raccontare e per denunciare. Ci sono molte foto che sono diventate delle icone, come ormai si dice in modo anche troppo abusato forse. Uno dei fotografi che compaiono nel libro, Lewis W. Hine Louis dice che esistono autori e fotografie che vogliono mostrare cose che devono essere corrette, che devono essere apprezzate, questo è il senso della fotografia impegnata. 

Jacob Riis, un fotografo danese trasferitosi negli Stati Uniti, siamo intorno al 1880/90, che a un certo punto ha capito che una grande parte della città di New York, anzi una metà della città, viveva in uno stato di grande povertà e quindi ha pensato di andarci a fare delle foto, la sua azione di denuncia era molto forte. Ora certo rimane da capire quanto poi l'azione di denuncia, raccolta in questo caso in un libro, ha avuto modo di essere, di avere un valore, di suscitare qualche cosa. Ecco sicuramente hanno suscitato un'ondata generale, delle leggi, ma devo dire in questo caso, in questo momento della fotografia forse era più importante che si capisse che esistevano problemi di questo genere.

David Seymour, polacco, scappato dalla Polonia durante il periodo del nazismo, è andato a vivere a Parigi, dopo la guerra nel 1947, insieme a Robert Kapa e Cartier Bresson e George Rodger fonderà la Magnum Photos. Il dramma della guerra per lui era una ferita molto profonda e ha dovuto lasciare poi anche Parigi di corsa, da un momento all'altro ed è tornato nel suo appartamento soltanto anni dopo, perché la polizia dei nazisti lo stava braccando. La sua famiglia è stata completamente sterminata e la ferita quindi della guerra, la ferita del nazismo, è stato qualche cosa che ha sentito molto profondamente. Subito dopo la guerra è stato lui stesso ad andare dalle organizzazioni umanitarie, quelle che ancora non erano strutturate nell'Unicef, le organizzazioni che si occupavano dell'infanzia, per chiedere di poter lavorare con loro e di poter venire in Europa a dare il suo contributo. Lui era fotografo, quindi il suo contributo era quello di raccontare in che modo vivevano i bambini, il dramma della guerra. Il suo viaggio è stata una sorta, se volete, di ritorno alla sua stessa vita, perché lui è arrivato prima in Italia, poi in Grecia e poi alla fine è riuscito ad andare fino in Polonia a vedere i bambini come vivevano.
Questo lavoro sull'infanzia scioccata, affamata, distrutta, spesso orfani, o anche bambini traumatizzati con grossi traumi della guerra, è stato uno dei lavori forse più forti e anche più intensi che Seymour ha fatto ed uno dei primi lavori che hanno costruito una visione contemporanea della fotografia… 

Bob Adelman invece è un fotografo americano, bianco, ha vissuto in pieno gli anni '50 americani della lotta per i diritti civili dei neri. Era completamente come lui stesso racconta, affascinato da Martin Luter King. Quando racconta dell'emozione di vivere con Martin Luter King, di andare in giro con lui in queste marce, ancora adesso devo dire è una sensazione meravigliosa. Abbiamo scelto quindi le sue foto per questo volume, per raccontare che cosa è stato parte della lotta dei diritti civili dei neri americani. In questa serie di foto si racconta anche del funerale di Martin Luter King, delle marce e appunto della grande storia di persone che si sono messe in fila per ore ed ore, per rendere l'ultimo omaggio a lui, ma anche di quelle scene di aparthaid comune e continuo, che poi si viveva nel sud degli Stati Uniti…

Per parlare del Vietnam, abbiamo scelto un fotografo inglese Philip Jones-Griffith, che in Vietnam ci è andato non embedded, anzi al contrario, proprio per raccontare la sua storia del Vietnam, realizzando poi un libro che ha fatto scalpore nella storia dell'editoria. Racconta i volti di quest'impresa, racconta ovviamente la brutalità dei soldati che trascinano i prigionieri legati per la gola, però racconta anche l'invasione, la lenta, ma continua diffusione della coca cola nel Vietnam e racconta ad esempio dei tanti bordelli che sorgono come funghi dietro all'arrivo dei soldati. Questo suo lavoro è stato, ripeto, ed è ancora, molto importante ed è veramente un capo saldo di quanto un fotografo può cercare di fare con la sua macchina fotografica, cercando di andare in un posto, in questo caso il Vietnam, di calarsi profondamente nella società, di conoscere, di capire, di leggere, di studiare e poi di scattare e di raccogliere tutto quanto in un racconto mettendo insieme immagini e testo.

Li Zhensheng, fotografo cinese, che per tutta la sua vita è stato costretto a fare delle fotografie di cerimonie, molto, molto ufficiali, ma che in realtà aveva delle foto che scattava di nascosto, foto che avrebbero potuto raccontare e denunciare la censura cinese, avrebbero potuto raccontare e denunciare i processi pubblici che venivano fatti ai nemici del regime o ad esempio, come in questo caso, lo scempio dei lavori forzati, o anche gli omicidi, le fucilazioni di massa. Le sue foto sono state tenute nascoste in un modo veramente molto, molto, ma molto fortunoso lui è riuscito a non farle trovare. Le aveva sepolte sotto terra nella sua casa ed è riuscito poi a recuperarle, a portarle fuori dalla Cina. Adesso Li Zhensheng vive negli Stati Uniti e soltanto pochi anni fa questo incredibile documento è venuto fuori ed è veramente di una grandissima forza e ci racconta una Cina, che forse a quei tempi molti di noi neanche pensava che esistesse.

Questo è il lavoro, forse il più grosso contributo che ha dato l'Italia dal punto di vista fotografico alla fotografia di denuncia e abbiamo raccolto in un unico capitolo 3  fotografi: Luciano D'Alessandro, Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, che negli anni '60 hanno denunciato la situazione dei manicomi. Il primo è stato Luciano D'Alessandro, che ha fatto nel '66-'67 delle fotografie al manicomio di Nocera Inferiore; lui capitava di parlarne con dei suoi colleghi, che dicevano: che hai fatto oggi? Mah, sono stato all'ospedale psichiatrico di Nocera Inferiore a fotografare. E tutti dicevano: e perché? E non capivano quale fosse il motivo, per quale motivo uno dovesse andare a vedere come vivevano i matti. Poi hanno continuato Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che sono andati a seguire Basaglia e a raccontare quello che era la situazione dei manicomi. Hanno fatto un bellissimo libro, "Matti da slegare", anche questo rimasto nella storia della fotografia e dei libri di fotografia e non solo italiano, che ha contribuito moltissimo a denunciare, perché ovviamente la forza della fotografia è quella di mostrare e quindi l'evidenza dell'immagine innegabile; se non altro a dato un contributo, se non a cambiare la legge, perlomeno a muovere l'opinione pubblica intorno a questi temi. 

Josef Koudelka è un fotografo cecoslovacco, ingegnere di formazione, amava fotografare, fotografava gli zingari, amava girare, girovagare per la Cecoslovacchia, per la Romania, per l'Ungheria e cercare di raccontare il modo molto poetico anche in cui vivevano gli zingari. Però in quelle mattine del '68, dell'invasione di Praga era a casa sua, e quindi, molto semplicemente, è sceso con la macchina fotografica e ha raccontato a suo modo, con una sua visione molto particolare, ha documentato quello che erano quei giorni e quei momenti dell'invasione. Le foto sono ancora adesso di una grandissima bellezza, di una forza straordinaria, perché raccontano e documentano quei giorni, quei momenti, le manifestazioni spontanee, l'invasione dei carri armati, ma conservano anche tutta la visione estremamente poetica, tra l'altro poi hanno una storia particolare, perché queste foto sono state affidate da Koudelka a dei fotografi che le hanno portate fuori dalla Cecoslovacchia ed hanno raggiunto il tavolo del presidente della Magnum Photos di allora, il quale quando le ha viste ha deciso immediatamente che doveva provare a distribuirle, a farle uscire sui giornali. Le foto uscirono ovviamente anonime; Koudelka stava in Cecoslovacchia e non sapeva di tutto ciò, soltanto un anno dopo casualmente, facendo il fotografo di scena insieme ad una compagnia di teatro, si è trovato in Inghilterra e ha visto su un giornale le sue foto, ha visto che erano firmate Magnum… Ora è tornato, vive quindi tra Parigi e Praga.

Eugene Smith è considerato il padre del fotogiornalismo. I suoi saggi fotografici su Life hanno fatto veramente scuola e epoca. A un certo punto decise di andare in Giappone a raccontare quello che era chiamato il "morbo di Minamanata". Minamata è un paese in Giappone dove una grande industria chimica aveva buttato nelle acque delle scorie chimiche che avevano cominciato piano piano a far morire di questo morbo particolare le persone e soprattutto i neonati. Quindi c'è stata un'ondata di bambini nati deformi e morti dopo poco. ??? è andato giù aiutato da una fotografa interprete giapponese, con cui ha condotto tutto il lavoro ed è stato molto vicino alle vittime di Minamata, alle famiglie, ha fotografato, ha denunciato il loro stato, ha cercato in tutti i modi di pubblicare queste foto sui giornali internazionali, perché si potesse sapere, si potesse conoscere ed è stato anche molto vicino alle famiglie durante tutti i processi che hanno condotto. È stato anche picchiato brutalmente da alcuni emissari di questa società chimica, quando hanno visto che si muoveva forse un po' troppo liberamente e devo dire che l'hanno picchiato anche in modo abbastanza serio, perché poi le conseguenze sono state molto forti…

Raghu Rai è un fotografo indiano e il giorno stesso in cui ha saputo del disastro di Bhopal è andato immediatamente e ha pensato di dover lasciare da parte il suo lavoro di fotografo che con grandi immagini e energia raccontava e racconta ancora la bellezza dell'India, i suoi colori, i suoi paesaggi meravigliosi, per potersi concentrare invece su quello che era un disastro e che stava accadendo sotto i suoi occhi.

Sebastiao Salgado forse è il nome forse più celebre, è un fotografo brasiliano, ha deciso che forse la macchina fotografica era il mezzo migliore per raccontare quello che vedeva nel mondo e uno di questi suoi racconti fotografici dopo aver raccontato il suo Brasile, il suo sud America, è stato quello di raccontare il Sael, la fame nel Sael, la siccità nel Sael, la situazione impressionante di vita…

Igor Kostin è un fotografo russo che ha fatto dell'importanza di testimoniare un punto centrale della propria vita, rispetto al disastro di Chernobyl. Esattamente come per Raghu Rai in India, anche lui è andato immediatamente a Chernobyl.

Donna Ferrato è una fotografa americana che a un certo punto ha pensato che una delle piaghe nascoste dell'America era la violenza domestica sulle donne e si è impegnata molto e a lungo, non è semplice riuscire ad entrare dentro le mura domestiche, forse è una delle intimità più difficili da violare e lei è riuscita ad entrarci con l'aiuto di una serie di organizzazioni che si occupano di assistere le donne che hanno subito violenza. Alcune di queste sue foto hanno scioccato l'opinione pubblica ed hanno vinto numerosi e importantissimi premi fotografici. Molti hanno detto: ma come è possibile fare queste immagini, documentare una donna che viene picchiata dal marito. Perché non ha fermato il marito invece di fotografare? Ha documentato anche il recupero di queste donne, cioè come nei vari centri di accoglienza queste donne riescono a tornare a sorridere, riescono piano, piano a ritrovare una loro vita.

 

Gilles Peress è un fotografo francese che vive in America da tanto tempo; qui abbiamo raccolto 2 storie, il genocidio in Ruanda e la ex Jugoslavia. In entrambi i casi lui è andato con degli antropologi, che hanno cercato, una volta avvenuti i massacri, di recuperare i frammenti, i frammenti proprio fisici, di ricostruire i crani, di cercare di ritrovare le ossa e di cercare di capire, di dare una forma a quelli che erano ormai gli scheletri delle persone uccise, pensando che appunto forse era molto importante dare anche un senso e una dignità, ritrovare una dignità e cercare in questo modo di rintracciare una storia per tutti loro. Sono dei reportages molto forti, molto toccanti con un grandissimo valore da un punto di vista fotografico, ma anche giornalistico e umano.

Tom Stoddart è un fotografo inglese che ha deciso di raccontare l'Africa, ci ha passato moltissimo tempo e forse il suo impegno più grosso è stato quello di raccontare l'Aids e in che modo si riesce a intervenire, come e in che modo si potrebbe fare di più.

Marc Garanger invece è fotografo danese, che in realtà nella sua vita si occupa più che altro di pubblicità però è stato rapito dalla storia delle donne che in Bangladesh vengono sfigurate con l'acido, probabilmente ne avete sentito parlare e quindi anche qui di nuovo, esattamente come in altri casi riportati in questo volume, Garanger ha lasciato tutto per un periodo e ha deciso che questa forse era una storia che valesse la pena di seguire, certamente anche poi per dargli un risalto giornalistico, perché no? Comunque era più importante di tutto andare a vedere, andare a documentare e poi di nuovo anche porsi il problema in che modo si potevano migliorare le cose.

Juan Medina è un fotografo che vive nelle Canarie, dove, esattamente come avviene nelle nostre spiagge del sud Italia, molto spesso arrivano dall'Africa dei barconi pieni di persone che cercano di sbarcare, è una delle porte principali dell'immigrazione clandestina per arrivare in Europa. Per molte notti Medina ha cercato di raccontare il modo in cui arrivano questi barconi, in cui affrontano le onde, in cui vengono salvati, quando e dove è possibile, dalla guardia costiera, come poi al mattino dopo si ritrovano sulle spiagge, quelle stesse spiagge dove magari poi a pochi metri ci sono i turisti che prendono il sole… ??? dice appunto che è incredibile pensare che mentre noi dormiamo avvenga tutto questo, questa consapevolezza non gli ha permesso di dormire e l'ha spinto invece a fare tutto ciò.

Lucinda Devlin era una fotografa americana che forse chiameremo concettuale, la quale ha pensato di fare un suo lavoro molto particolare sulle omega suites, cioè sulle stanze della morte in alcune prigioni degli Stati Uniti. Che cosa sono queste stanze della morte? Queste stanze appunto dove ancora adesso si perpetra la pena di morte? Questi strumenti di tortura o anche ad esempio la visione ravvicinata o dietro un vetro della giuria, di coloro che devono testimoniare l'avvenuta morte… 

E poi i lavori di Ulrik Jantzen e Peter Magubane 

Ecco, queste sono le 20 storie che abbiamo raccolto per cercare di dare una panoramica molto ampia su quello che la fotografia ha potuto e soprattutto ha voluto fare quando è stata sorretta da un grandissimo bisogno di documentare e soprattutto da una grande consapevolezza di quello che la fotografia può fare.

Vinicio Albanesi

Questo è un libro di consolazione: che cosa si vede in queste immagini? Al di là delle tragedie, perché alcune immagini sono veramente violente, dietro, ed è stato bene che le varie biografie siano state accompagnate da un racconto, vedi l'impegno delle persone per i diritti civili. Marcello Flores nell'introduzione dice: "quando uno ricorre al rispetto dei diritti civili, significa che è un disperato", cioè che non ha più risorse per far valere i propri diritti. E qui trovate 20 autori i quali hanno fatto del loro impegno, quindi del rispetto di questi diritti, una loro professione. Vi sono tra l'altro fotografi molto noti, hanno vinto decine e decine di premi internazionali. Questo significa che loro hanno scelto di stare da una certa parte. E la storia si ripete: se vedete le prime foto sull'emigrazione, quelle baracche abitate dagli italiani sono esattamente le baracche dei romeni di oggi, sono uguali. Se voi cambiate un attimo i vestiti, oppure se vedete i bambini negli Stati Uniti che vendono i giornali, sono i bambini romeni che oggi con la fisarmonica vanno in ricerca di elemosina, per dire che poi nell'arco del secolo non è che le cose siano migliorate tanto. Questi fotografi hanno scelto di stare da una certa parte, hanno raccontato, hanno fotografato con un linguaggio anche più efficiente e più efficace della penna; quel fotografo ha scelto di raccontare una realtà da un certo punto di vista, cioè d'impegno sociale.

Questo per quanto riguarda il problema delle scelte dell'informazione: è vero che c'è la lunga catena che parte dall'editore e arriva fino al redattore, però bisogna far emergere, fare attenzione, impegnarsi, in determinati termini invece che altri, raccontando la realtà. Uno di questi fotografi ha detto: fotografare significa anche interpretare, quindi non è vero come a volte si dice, io racconto la realtà, bensì io racconto la realtà e la interpreto. Qualche autore questo lo rivendica perché ritiene che è suo diritto mediare, perché tra la realtà e l'immagine, in mezzo, c'è il mezzo meccanico, ma ci sta anche il fotografo, per cui l'angolatura, per cui un dettaglio, per cui qualcosa che tu esalti, è una tua scelta, perché la realtà nel momento in cui tu la vedi, anche da un punto di vista naturale, è una realtà che risponde alla tua razionalità, perché posso guardare tante cose in mille maniere diverse, la stessa cosa in mille maniere diverse. Quindi c'è un'interpretazione della realtà. Questi fotografi hanno un grande rispetto delle situazioni, hanno fotografato roba micidiale come le donne trasfigurate, violentate con l'acido, però vi si legge il rispetto, non c'è quel voyeurismo, quella voglia di fare sensazione, bensì sono storie che uno raccoglie, naturalmente interpretandole con  propri canoni, ciascuno con la propria sensibilità ma anche la propria tecnica.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.