Intervento di Franco Bomprezzi
Franco BOMPREZZI
Giornalista, collabora con Corriere.it e il settimanale Vita, portavoce della Ledha.
ultimo aggiornamento 28 aprile 2011
Vi propongo un gioco: girare per la città come se fossimo tutti disabili
Un gioco. Vorrei proporvi un gioco: provate a pensare a una visita a Milano, di questa città così strana e complessa, come se improvvisamente fossimo davvero tutti disabili. Questa è la definizione di disabilità oggi secondo l'Organizzazione mondiale della sanità: qualunque persona, in qualsiasi momento della sua vita, può avere una condizione di salute che in un ambiente sfavorevole diventa disabilità. Una definizione che probabilmente pochissimi di voi conoscono, lo dico senza nessun appunto polemico, perché è il frutto di una nuova classificazione; l"Icf, la Classificazione internazionale sul funzionamento, disabilità e salute.
Concetto di handicap. Magari molti di voi parlano ancora in termini di handicap perché si ricordano di malattia, menomazione e handicap. Le famose tre parole che lanciava proprio l'Organizzazione mondiale della sanità negli anni Ottanta e che furono alla base, in Italia, della legge quadro sull'handicap, la stessa che adesso consente l'attuazione di alcuni diritti minimi di cittadinanza per le persone disabili. Quella era una definizione basata su ciò che mancava alla persona, sulla malattia. Allora si partiva dalla malattia, si diceva che una persona era handicappata. Lo dicevano i medici e pensavano sempre di poter curare e guarire la persona, mettere quei pezzi che mancavano, permettendogli di vivere in maniera normale. Questa visione medica ha contraddistinto, per molti anni, il modo in cui si entrava in contatto con la disabilità e per certi aspetti ha prodotto dei risultati interessanti. Basta pensare a tutte le linee guida per la riabilitazione, a quello che anche nel nostro Paese ha comportato in termini di qualità dell'attenzione verso le persone con disabilità.
Una rivoluzione. Da quello si è passati a un'altra rivoluzione copernicana, che è di questi anni e che produrrà in breve tempo la scomparsa della parola handicap. Non è la persona che è disabile, ma il contesto, le relazioni, la capacità, la funzionalità che può mettere in campo se vive in un ambiente nel quale gli viene consentito di essere pienamente parte della società e della cittadinanza.
Allora proviamo a pensare come davvero in questo siamo tutti disabili. Ho provato ad immaginare questa città pensando alle parole classiche di quando si fa riferimento ai vari tipi di disabilità: non mi muovo, non sento, non parlo, non vedo, non capisco. Sono le situazioni che noi attribuiamo alle persone disabili, non a chi sta bene e non ha problemi. Proviamo però a pensare a "non mi muovo". Ci viene in mente una persona in sedia a rotelle, bloccata, magari con una rotella che non funziona.
Muoversi a Milano. E invece provate a muovervi a Milano, a pensare a come ci si muove, ai tempi. Ecco, mi piacerebbe che ci fosse l'idea di un racconto. A volte nel nostro mestiere di giornalisti la fatica consiste nel tradurre le idee in cose che siano in qualche maniera comprensibile a tutti. Penso che non ci sia niente di più divertente che misurare ogni giorno i tempi degli spostamenti urbani, cioè il tempo che noi togliamo alla nostra vita per muoverci in un contesto territoriale nel quale mancano soprattutto le interconnessioni. Provate a pensare alle attese, quando girate in macchina, provate a guardare le facce di chi attende a una fermata dell'autobus o del metrò. Ormai c'è una cupa rassegnazione. C'è un atteggiamento solipsistico, ognuno fa quello che può. In genere ormai usa il cellulare e basta, cioè continua a messaggiare disperatamente, cercando di comunicare con qualcun altro che è a distanza. Spesso ci mettiamo le cuffie, così non c'è neanche il rischio di comunicare con chi è accanto a te.
Percorso a ostacoli. Pensate a come non ci muoviamo a causa degli ostacoli che sono sopra e sotto la superficie di questa città. Erano molti nei mesi estivi, l'avete visto tutti, sembrava un gioco di ruolo, sembrava "Scherzi a parte" girare per Milano. C'erano delle situazioni incredibili in cui, improvvisamente, ci si trovava inseriti in un cantiere del quale non si capiva l'inizio e soprattutto non s'intravedeva la possibilità che finisse, con deviazioni, piccoli tunnel. Un gioco di ruolo, e probabilmente forse lo è. Forse possiamo scoprire che qualcuno sta pensando anche a questo. Quanto costa uscire di casa, parcheggiare, utilizzare i marciapiedi, accedere agli uffici pubblici? Ecco, questo non muoversi è apparentemente virtuale, ma è solo reale. Quante persone oggi rinunciano a priori a muoversi, perché sanno che non ce la faranno mai? Allora è chiaro che una persona mediamente atletica, sui 33 anni, abbastanza sana, alta 1 metro e 70 forse ce la fa per qualche anno a salire su un autobus, a scendere e infilarsi in metropolitana, fare una rampa di scale di un ufficio pubblico. Tutti gli altri sono tagliati fuori, irrimediabilmente.
Il rumore e i non udenti. Provate a pensare al livello del rumore della metropoli di Milano. Provate, ogni tanto, ad ascoltarlo davvero questo rumore. Io credo che non ce ne rendiamo nemmeno più tanto conto, ma è un sottofondo che ci martella dalla mattina alla sera. Questo tipo di rumore costante, di sottofondo molto forte, intenso, che è fatto di autobus, di clacson, di traffico, comporta poi l'incapacità di comunicare fra le persone. Pensate come a questo rumore di fondo corrisponda ancora di più la difficoltà di dialogare con chi non conosce la nostra lingua. Noi abbiamo una parte della nostra città che è occupata, vissuta da persone che non conoscono la nostra lingua. Anche le domande più banali che ci vengono rivolte a volte all'incrocio della strada, a una fermata d'autobus, piuttosto che ad un passaggio pedonale, non le sentiamo, non riusciamo neanche a darci la possibilità di rispondere. E tutto questo lo notiamo ancora di più nei luoghi iperaffollati. Le nostre nuove piazze sono quelle dei centri commerciali. Provate a sentire quando entrate in un cinema multisala qual'è il livello sonoro, il rumore che ci circonda, che c'è attorno. Paradossalmente le uniche persone a proprio agio in questo contesto sono i non udenti, che vivono in un silenzio perfetto e fra di loro riescono a comunicare, perché hanno sviluppato la capacità di un linguaggio alternativo e sono in grado di costruirsi in maniera molto solitaria un universo più accettabile. E poi la ridondanza dei segnali sonori, è un continuo rincorrersi di segnali. Anche raccontare la città dei suoni credo che sarebbe un esercizio giornalistico non indifferente. Capire quali sono i segnali che oggi vengono narrati.
Corso Garibaldi. Ieri sera ero in corso Garibaldi e c'è stato un improvviso raduno di Harley Davidson. Non c'era ombra di un vigile, ovviamente, perché quella è una zona nella quale non si possono disturbare i ragazzi che vivono lì. Quelle moto sembravano dei giocattoli: tutti giocavano con la loro moto rombante in corso Garibaldi e 100 metri più avanti c'era la festa di una radio molto nota che rimbombava completamente per la strada e nessuno protestava. La sensazione sgradevole era proprio questa accettazione di una situazione che ci riguarda tutti. Credo che noi non vediamo più l'orizzonte.
Disarmonia urbana. In questa città abbiamo perso l'idea di dove stiamo andando: perdere l'orientamento a Milano è facilissimo. Se non si è proprio in centro dove ci sono quei 2 o 3 riferimenti assolutamente evidenti come il Castello, il Duomo, San Babila, insomma fin lì ci si può arrivare. Come a qualche porta, Porta Venezia magari, anche se la si può confondere con un'altra. Pensare che Corso Sempione era nato ed era stato concepito come gli Champs-Elysées di Parigi: c'era l'idea di costruire un luogo dove la gente si potesse incontrare. Provate ad incontrarvi in Corso Sempione! Credo che sia assolutamente da evitare, a parte l'impossibilità di parcheggiare. Non la vediamo, questa disarmonia urbana, non ce ne accorgiamo più. La segnaletica è impossibile. Se ci fate caso a tutti gli incroci si può andare a Linate: praticamente dappertutto a Milano ci vogliono mandare sempre a prendere l'aereo. Ma se poi uno deve veramente andare a Linate e segue i cartelli non ci arriva, perché continua a girare tra un incrocio e l'altro. Questo è un problema. Io non so chi debba essere il responsabile della segnaletica, ma la segnaletica a Milano è davvero incredibile, difficilmente ho trovato altre situazioni così. E che dire dell'illuminazione? Di sera uno non ci vede o ci vede poco: c'è veramente il coprifuoco! Ci sono delle strade, delle zone centrali, semicentrali assolutamente abbandonate al buio. Ed è nel buio che crescono la paura, l'angoscia, l'ansia. Noi siamo dominati da un'ansia che ci avviluppa, che è dentro. Dovremmo misurarla. Io credo che ognuno di noi faccia fatica a riconoscere il livello di stress al quale siamo ormai costretti.
La pubblicità eterna. A volte non si vede più il contesto delle strade per le pubblicità invadenti, non si vedono più i palazzi. I restauri durano secoli perché così intanto si vendono bene le pubblicità intorno. Anche il Duomo è un bell'esempio, da questo punto di vista, ma non è certo il solo. Sono pubblicità ciclopiche. Ma è possibile che una città rinunci ad un qualcosa che è il proprio messaggio architettonico e urbano, per i soldi? Semplicemente per i soldi? Poi, invece, quando si entra nei posti nei quali la segnaletica sarebbe indispensabile, i musei, le mostre, troviamo cartelli piccolissimi, tutto stretto, piccolo, non si legge niente. Voi provate adesso ad andare a vedere una mostra alla Triennale, che è un posto accessibile anche per chi come me è in sedia a rotelle. E' tutto un andare e venire dal lontano del quadro al cartellino per leggere che cos'è. E questo continuo andirivieni dei visitatori irrita perché sinceramente se c'è una cosa da fare a una mostra è stare tranquilli, guardare le cose da una certa distanza.
Ma noi capiamo? Noi parliamo molto spesso della disabilità intellettiva, pensando che non ci riguardi, ma noi siamo sinceramente convinti di capire quello che ci circonda a Milano? Cioè, di avere la percezione del messaggio, di sapere dove sono le informazioni di servizio, dove sono le cose che ci servono? Siamo sicuri davvero di fare qualunque cosa? Se il nonno ci chiede: mi dai una mano per andare a fare questo certificato? Ognuno di noi sa dove dovrebbe andare? Io credo che ci sia uno smarrimento rispetto alla rete di servizi nel territorio che porta ad un disagio di relazione intellettiva, perdiamo le coordinate. A questo proposito mi viene sempre in mente una canzone di Vasco Rossi, Sally, poi cantata molto bene non solo da lui, "la vita è tutto un equilibrio sopra la follia". Ecco, io credo che noi viviamo costantemente in equilibrio precario e molto spesso perdiamo i nervi, siamo fuori registro. Quando siamo in macchina vediamo fare alla gente cose che sinceramente sono imbarazzanti, forse anche per effetto di sostanze di qualche tipo. Credo che tutto questo stia connotando la nostra vita di disabili urbani con una caratteristica pazzesca, la più grave di tutte, che è il vero nuovo handicap della società: la solitudine.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.