Relazione di Marianella Sclavi. Conduce Ivan Berni. Interviene Dario Anzani
Ivan BERNI
Giornalista,caporedattore al Master in Giornalismo dello Iulm di Milano.
ultimo aggiornamento 29 settembre 2006
Marianella SCLAVI
Docente di antropologia al Politecnico di Milano. Ha scritto “Arte di ascoltare e mondi possibili” (Bruno Mondatori Editore, 2003).
Dario ANZANI
Coordinatore di Strada Educativa di St -Zona 6 - Milano.
ultimo aggiornamento 29 settembre 2006
Ivan Berni
Secondo me le periferie sono sparite nel modo di raccontare la città e i conflitti, nel senso che nei giornali un po' tutti, io mi chiamo fuori da questo punto di vista, si è preferito adeguarsi a dei cliché. La periferia è sempre stata sinonimo del disagio sociale, della marginalizzazione, delle povertà, dell'irresolvibilità; rappresenta la fisiologia dei conflitti, ma anche della loro eternizzazione, cronicizzazione. Si è smesso di mettere in relazione questo tipo di problematiche anche con la dimensione generale del cambiamento che sta attraversando la società; per essere più chiari, chi è di Milano mi capisce più facilmente, cito il quartiere Calvairate che è la rappresentazione di un problema eterno che non si risolve, ossia la perimetrazione del conflitto dentro certi confini che li hanno in qualche modo sterilizzati, come se non riguardasse più il resto della città, ma che ha anche eternizzato il problema. Dal punto di vista professionale, da giornalista, devo dire che questa cosa è stata raccontata molto male, molto poco, è stata raccontata con il solito cliché emergenziale, ma solo quando non se ne poteva più e le cantine di Calvairate erano piene di refurtiva o di rifiuti, oppure c'era un allarme sicurezza o di tipo igienico-sanitario, solo in queste occasioni ce se ne occupava.
Io sentirete i nostri relatori per fare in modo che ci sia uno scambio fra questa scrivania e questa platea, nel senso che è fondamentale che mettiate in gioco anche le vostre sensibilità e le vostre esperienze rispetto alle cose che si dicono.
Marianella Sclavi
Io sono Marianella Sclavi e forse qualcuno di voi sa che mi sono occupata di periferie in vari modi come nel mio libro "La signora va nel Bronx", che è stato ristampato anche recentemente per la terza volta da Mondatori. In questo libro io racconto la mia esperienza dei tre mesi in cui sono vissuta con dei nuovi pionieri urbani nel sud del Bronx; mi sono fatta raccontare, ho seguito le persone come un'ombra nella loro vita quotidiana, e li ho descritti. Il mio compito è stato quello di spiegare come la gente del posto ha vissuto un progetto di risanamento di un intero quartiere del sud Bronx, un progetto durato 20 anni; io ho analizzato come leggevano questo progetto e come lo avevano realizzato. Già da questo libro vengono fuori informazioni utili sia per chi fa giornalismo sia che per chi fa opere sul territorio.
Più un quartiere è in crisi, o considerato tale e più chi lo avvicina deve essere un cercatore di perle, è mortale avvicinare un quartiere in crisi con atteggiamento di sufficienza. Che cosa posso imparare dalla gente che sta qua? Quali sono le risorse che hanno già? Come si fa ad aiutarli a potenziare queste risorse? L'ottica deve essere la stessa dei nuovi pionieri urbani che abitano in questi quartieri che dicono noi abbiamo queste risorse, che spesso sono risorse umane, gente in gamba, brava, capace di fare 10 mila cose e quindi capitale sociale. Oggi la sociologia usa questo termine per indicare la fiducia, ma allora loro indicavano il lavoro come capitale. Noi abbiamo le nostre capacità di lavoro, d'iniziativa, di costruzione di terreni sociali ecc., e poi anche la capacità di fare ponti con l'esterno, quindi di non isolarsi ma di agganciarsi con coloro, nella parte più privilegiata della società, sono in grado di collaborare a risanare questo territorio. Quindi questa è già una cosa molto importante.
Un altro modo con cui mi sono occupata di periferie è stato attraverso un lavoro di consulenza come esperta in arte dell'ascoltare. Esistono dei conflitti in progetti inclusivi partecipati di risanamento del territorio. Ho scritto un libro dal titolo "Avventure urbane" con Eleutera, che racconta 10 anni di esperienza a Torino nel progetto delle periferie al centro, progetto del comune di Torino, che ha coinvolto gli abitanti di tutta una serie di quartieri nel fare una diagnosi insieme del quartiere e decidere come risanarlo, cosa fare. Questo è un cambiamento del modo d'intendere la politica e le periferie, nel senso che l'ottica diventa immediatamente un'ottica non più di periferie, ma di città policentrica. Quando noi ci chiediamo come le periferie possono cambiare il centro, secondo me c'è già un difetto nella domanda, cioè come cambiamo l'idea di periferie. Se noi abbiamo l'idea di una città policentrica, il centro cambia perché moltiplichi i centri e l'obiettivo è proprio questo. Questo è anche un lavoro urbanistico che andrebbe fatto in modo partecipato, ma è anche un lavoro antropologico, sociale e di psicologia sociale.
I progetti che ho seguito con i giovani, di maggior successo, sono quelli in cui i giovani che vivono nelle periferie e che sono profondamente frustrati venivano presi e se avevano voglia, venivano portati in altri paesi del mondo a fare dei programmi di inserimento come andare in Romania a lavorare con i ragazzi di strada. Pensate all'esperienza di lavorare in Olanda a consegnare le pizze nei negozi, cioè fare proprio dei lavori precari in altri paesi, nei quali però fare un lavoro precario comporta tutta una serie di privilegi, perché tu non sei solo quello che porta le pizze a casa di un olandese, sei italiano, quindi sei interessante perché sei italiano, impari l'inglese, di solito impari l'inglese più che l'olandese, incominci a conoscere altri ragazzi del tuo mondo che stanno facendo esperienza lì, cioè incominci ad acquisire un'ottica, un'esperienza diversa e quando torni a casa in periferia, non è più una periferia, perché quando tu torni nella tua casa hai capito che in realtà ci sono tutta una serie di privilegi nel vivere lì e anche nel poterlo lasciare, hai acquisito un senso di te diverso, una capacità di leadership diversa, che non è più schiava di uno stereotipo che avevi vissuto fin da piccolo in quel posto lì. Io questo l'ho trovato sempre, ho fatto molta esperienza di questo tipo, anche con i ragazzi neri americani. Facevo parte di un'organizzazione americana e spedivo i ragazzi minimo 3 mesi, 6 mesi, un anno in Ghana, nell'estremo oriente a studiare, partivano che erano supercomplessati e tornavano che erano dei leader, perché quando erano fuori vivevano le esperienze di essere considerati americani, non erano più i neri nel quartiere più poveri della società, li costringevano a raccontare, a parlare, a fare cose e questa era un'esperienza molto importante.
La mia provocazione però è più incentrata su quest'ultima cosa che vorrei dirvi. Credo che anche questa mattina, da quello che mi hanno detto, si sia molto discusso dell'argomento: noi viviamo in un tessuto sociale profondamente logorato e la tendenza principale è quella di costruire dei muri, a chiudersi dentro, a costruirsi intorno delle barriere, delle difese, a non voler comunicare con l'altro che si percepisce come ostile, come troppo diverso, non si ha più fiducia nella capacità di costruire dei ponti e dei terreni comuni. Allora io vorrei farvi degli esempi su come questo può essere ribaltato. Si parla molto oggi di democrazia deliberativa, democrazia comunicativa. C'è una studiosa americana, che purtroppo è morta recentemente di tumore, bravissima, Iris Marion Young, che ha scritto "La democrazia inclusiva". L'esempio è questo: l'università di Harvard aveva invitato degli operatori della sanità israeliani e palestinesi per un workshop, con l'idea di fargli fare un progetto sulla salute comune e quindi di mettersi un bel fiore all'occhiello. La sostanza è che questa gente non riusciva a comunicare, era profondamente ostile e quindi non funzionava assolutamente niente, cioè il workschop non partiva. C'erano tutti questi professori che avevano inventato questo seminario, che erano disperati, era un fallimento e non sapevano assolutamente che cosa fare. Come fai a far parlare e costruire terreni comuni a delle persone, che percepiscono qualsiasi collaborazione come un tradimento, o come un'umiliazione, o come un aumento dell'insicurezza, ecc.? Allora hanno chiamato Susan Podziba che porterò a Milano il 14 novembre, è arrivata e dopo un poco che era lì queste persone si sono messe a collaborare hanno fatto un progetto di assistenza alla maternità, che poi hanno realizzato insieme in Cisgiordania. La domanda è: qual'è il segreto? Come ha fatto? La sua risposta è stata: "non c'è nessun segreto; quello che faccio è cercare di rendere consapevole la gente di quanto è complesso e doloroso comunicare, quando si sono già costruiti dei muri, quindi sono andata da loro e ho detto: è inutile che vi sforziate a comunicare senza rendervi conto, senza aver capito bene la complessità di quello che volete fare, prima fate questo e poi dopo riuscirete a comunicare. Ho chiesto di mettersi due a due, ognuno col suo nemico di fronte e raccontare un episodio che secondo loro era simbolico della situazione del medio oriente, corto, di vita vissuta. La persona che stava ascoltando doveva ripeterlo appena finito più fedelmente possibile, gli altri dovevano segnare cosa notavano di questo passaggio, notavano tutte le difficoltà, le distorsioni, le dimenticanze, cioè l'enorme fatica di fare questa cosa qua. Alla fine di questo esercizio, quando tutti lo avevano fatto con un altro partner, ho detto adesso discutiamo su questa esperienza, vi sembra di avere qualcosa in comune? Tutti hanno riconosciuto di sì, abbiamo in comune l'enorme, eroica fatica emozionale di ascoltarci reciprocamente, che è uguale, proprio simmetrica, a specchio. Già riconoscere questo ha rotto in parte, ha sgretolato questi muri e ha reso possibile una comunicazione, che poi è avvenuta sul piano narrativo, di narrare delle esperienze altrettanto significative di lavoro, erano tutti operatori della sanità e quindi hanno cominciato a raccontare…"
Vi ho raccontato questo piccolo esempio che però ci mostra quanto sia doloroso e complesso comunicare in una società complessa e acquisire la capacità di farlo, vuol dire acquisire un'auto consapevolezza emozionale. Io questa cosa l'ho raccontata a un comitato di Bologna che mi ha invitato in via del Pratello, una di queste stradine di Bologna molto famose e popolari, ma molto centrale anche, vicinissima alla Piazza Maggiore; lì c'erano stati abitanti che avevano protestato per il chiasso, per la sporcizia, tutte le cose che sappiamo benissimo e il sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, aveva reagito vietando di mettere i tavoli fuori dopo le 10 di sera. Questo ha creato di nuovo una reazione dei commercianti ovviamente che si trovavano con grossi problemi a non avere clienti dopo le 10 di sera… Si è formato un comitato di commercianti, abitati e clienti, che ha scritto un documento che mi hanno mandato e che io considero serissimo: lì tutti i problemi veri che ci sono vengono affrontati, c'è grande disponibilità a tentare di fare di tutto per affrontarli bene. Questo documento non ha mai ricevuto nessuna risposta dal sindaco che ha ignorato completamente la cosa; i promotori erano piuttosto arrabbiati e sulle vetrine dei negozi di via Pratello hanno affisso un disegno di un cane da guardia, quei cani quelli lì grinzosi, un bulldog con la faccia di Cofferati con sopra scritto "Vietato l'ingresso ai cani", per dire il clima simpatico che c'è. Hanno organizzato questa riunione, il bar-trattoria di via Pratello era pienissima di gente e abbiamo discusso su che cosa si può fare. Abbiamo ascoltato tantissimi interventi, è stata una serata davvero molto interessante, al sindaco gli ho telefonato più volte, ha mandato delle persone in incognito, cioè tutto un modo di fare molto strano, che è difficile e non si capisce perché si debbano fare queste cose, comunque la sostanza è che alla fine della riunione hanno preso una decisione proprio in base a questo racconto che ho fatto anche a voi, che è stato quello di dire: in realtà qui in via Pratello c'è un comitato che è quello che ha mandato la protesta al sindaco e poi c'è un altro comitato che siamo noi, che siamo i clienti, gli amici… Noi non abbiamo mai parlato con gli altri, perché li vediamo come nemici, perché sono andati dal sindaco invece di venire da noi, cioè ci siamo resi conto che dobbiamo trovare il coraggio e la capacità di parlarci, forse anche con un facilitatore mediatico ed io mi sono anche messa a disposizione. Ecco hanno capito che esiste un modo per fare questo.
Io credo che oggigiorno per affrontare i problemi della conflittualità in generale, non solo urbana, ci sia una tale esigenza di quello che ho chiamato in alcuni miei scritti "co-protagonismo universale"; credo che ormai comunicare richieda questo tipo di capacità e che farlo sia anche divertente e interessante, quindi non credo che i giovani si spaventino di fronte a questo, credo invece che venga loro offerto un po' raramente di potersi esercitare su questo terreno.
Ivan Berni
Passo la parola adesso a Dario Anzani.
Dario Anzani
Volevo fare una brevissima premessa che spero non abbia sapore burocratico. Io sono della comunità del Giambellino, che ha questo nome perché ha riunito alcuni gruppi di volontari che negli anni '70 lavoravano in quartiere per formare un'organizzazione che ancora adesso esiste. Lo dico perché la nostra è una storia particolare: credo che siamo l'unica organizzazione a Milano che ha sempre e solo lavorato su una zona di Milano, per una scelta di dedizione al territorio e una credenza, una fiducia nel fatto che soltanto la continuità delle relazioni possa garantire quel livello di conoscenza e di approfondimento che facilita il lavoro di cura reciproca che all'interno della cittadinanza ha molto significato e che si sta perdendo in questa dispersione del senso civico di cui parlava Ivan. Negli ultimi 25 anni la comunità del Giambellino ha stratificato soprattutto sulla questione degli adolescenti che sono il nostro oggetto di lavoro prioritario, insieme alla tossicodipendenza. Abbiamo fondato un centro di aggregazione, poi interventi nelle scuole, il dopo scuola, la terza media popolare, l'avvicinamento al lavoro, i tirocini, i gruppi con i genitori e tanto altro, interventi sull'affettività, l'educativa di strada…
Mi sembrava giusto di dover ricollegare per spiegare un pochino da dove si arriva. Tutte le cose che sono state dette hanno lungamente attraversato i nostri ragionamenti e ancora adesso attraversano le nostre esperienze. Questi cambiamenti del quartiere a cui ti riferivi, che io ho vissuto, perché ci lavoro da 15 anni, in quale modo sono sociologici o urbanistici; io parlo per esperienza, vi parlo dei giovani, perché di questo mi occupo, che vivono nel quartiere e anche vi racconto quello che stiamo facendo adesso e come, perché mi sembra che se posso avere una funzione in questo incontro è quella di consentire a voi che la dovete poi raccontare nella maniera più funzionale possibile, si spera senza filtri di nessuna natura, di aiutarvi ad individuare quali sono gli elementi essenziali, gli elementi di qualità dal mio punto di vista; poi se li condividete li usate, sennò no, ma è bene che li sappiate. Mi sembra infatti che ci sia, e di questo stiamo parlando fin da stamattina, un problema di efficacia del tramite che la stampa costituisce rispetto alla comunicazione sulla periferia.
Spesso si va a cercare solo la storia eclatante in negativo, spesso si arriva e si ricostruisce ogni anno il cliché del quartiere ghetto del Bronx di Milano che una volta è l'uno e una volta è l'altro, di queste esperienze qui da parlarvi ce ne ho fin troppo; solo a volte l'atteggiamento è differente, magari più collusivo con gli aspetti migliori del territorio, da parte di quei pochi giornalisti che vengono a visitarci, dato che quasi tutti infatti telefonano e non vengono di persona e questo mi dà molto fastidio. Il Giambellino è un quartiere operaio come tanti altri, prima di tanti altri, è sorto a cavallo della guerra, ma si sviluppa come quartiere negli anni Cinquanta per alloggiare gli operai che andavano a lavorare nelle fabbriche di via Savona, lungo la linea del treno. In quanto tale era un quartiere essenzialmente popolare e voi dovete immaginarvi una grande distesa di case popolari dentro il nulla, dovete andare fuori di un 15 km per avere il panorama che c'era allora, nel senso che c'erano soltanto prati, intorno il nulla. Pian piano, intorno a questi quartieri popolari è nato il resto della città in maniera un po' sparsa e il quartiere si è animato di presenze molto diverse. Per gli strani percorsi dell'urbanistica noi abbiamo di fianco la linea della metropolitana che ha significato case più costose che nel resto della città per esempio, quindi la natura del Giambellino è una natura non di periferia abbandonata, come per altro ancora adesso sono Quartogiaro, Pontelambro, caratterizzate da uniformità popolare degli insediamenti, ma anzi un quartiere che è un po' all'americana, come siamo abituati a pensare New York, ossia una macchia di leopardo. Ci sono zone più benestanti, piccolo borghesi, impiegatizie, il quartiere popolare e poi l'altro quartiere popolare in fondo e in mezzo comunque gli altri tipi di insediamenti anche molto vari, perché in mezzo c'è tutto un quartiere di casette canadesi costruite dopo la guerra… Questo ha causato il fatto che, quando a metà degli anni 70 per demolire quel movimento così interessante che portava davvero le periferie al centro, le periferie furono inondate di eroina, il tessuto intorno a questo problema ebbe la possibilità di attivarsi in maniera molto più veloce ed efficace, perché riuniva nelle parrocchie, nelle sezioni dei partiti, nella comune esperienza di fabbrica, nella comune frequentazione dei luoghi di ritrovo che erano i famosi bar del Giambellino, di cui parla Gaber, per cui c'erano dentro questi e quell'altri, c'era una conoscenza dei problemi e una capacità culturale di affrontare i problemi, data dalla varietà delle persone che componevano il tessuto sociale del quartiere. La mia cooperativa viene in gran parte da un gruppo scout che era composto di persone della buona borghesia milanese, alcuni dei quali frequentavano Rinascita, scuola ricercata perché sperimentale. Questo fece negli anni '70 del Giambellino la zona, insieme a Baggio, in cui erano più presenti iniziative sulle sostanze, tanto che a Milano ci sono tra i gruppi che ancora adesso la Regione Lombardia riconosce come gruppi ausiliari sulla questione di sostanze che gestiscono le comunità, ben 3 su 10 nella nostra zona, compresa Comunità Nuova di don Gino Rigoldi.
Questo panorama negli ultimi 20 anni si è totalmente modificato e ciò è dovuto in gran parte al mercato della casa e a come si è evoluto. Il mercato della casa si è spezzato in due tronconi, lo dico in maniera schematica, che comunque sta alla radice dei problemi, di una politica precisa che significa anche responsabilità precisa: hanno smesso negli anni '70 di costruire case popolari e questo ha significato una maggiore competizione delle persone per aggiudicarsi la casa popolare, perché non è che nel frattempo i poveri sono diventati di meno; questo ha significato quindi che le persone che si aggiudicano il diritto di avere la casa popolare presentano problematicità sempre più alte, perché sono quelle che danno punteggio nelle graduatorie per entravi, non perché sono peggiori degli altri. Fuori dal quartiere delle case popolari, complice il mercato della casa, su cui non dico niente, perché tanto lo sapete benissimo, avete tutti un'età in cui avete dovuto confrontarvi con questo dato, gli affitti sono triplicati, quadruplicati… Quindi di fronte al quartiere popolare man mano le persone che non potevano permettersi di pagare quegli affitti si sono allontanate, sono andate fuori Milano, sono andate nel quartiere di case popolari e sono arrivate delle persone che invece sono minimamente più danarose. Risultato: quello che succede nel quartiere è che il muro si forma automaticamente. C'è un fenomeno di estraneità fortissimo che va a crearsi nelle situazioni come quella del nostro quartiere in questo momento, in cui proprio la macchia di leopardo, che prima era una virtù del quartiere, diventa la peggiore ipoteca, perché le differenze sono tali e la comunicazione talmente abbassata e anche perché nel frattempo oltre a questo mercato della casa i negozietti chiudono, il lavoro delle fabbriche non esiste più. Per non parlare della crisi delle sezioni dei partiti dove vivevano i militanti di tutti e tre i grandi partiti di massa, per non parlare delle parrocchie che sono tutte in crisi, se vai lì davanti c'è il prete che è filippino, quell'altro è rumeno…
Questo è il panorama che sta intorno all'esperienza che noi osserviamo, che noi vediamo crescere nel quartiere periferico di Milano adesso. In quel quartiere lì, perché poi credo che a Quartogiaro la situazione sia diversa, cosa succede? Noi siamo in strada dal 1994, io prima facevo l'operatore, adesso ci mando altri ed io faccio il coordinatore; quando uscivamo trovavamo tantissimi gruppi sulle panchine, fuori dall'oratorio, in mezzo a Piazza Frattini, intorno alle case popolari, intorno alle case di via Donati, dove c'è anche la piscina dentro, e noi li seguivamo. Erano gruppi ciascuno con una sua identità fortissima. Incontrare un gruppo era per noi a un certo punto affascinante perché sembrava d'incontrare una persona con le sue sfaccettature, con i suoi modi di fare e i suoi linguaggi e non erano affatto tutti uguali. Tutti milanesi, tutti periferici per certi versi, però anche composti variamente, con caratteristiche, modi di fare, culture, ciascuno diversa dall'altra e quindi anche percorsi con vite differenti ma si riuscivano a fare delle cose, sempre legate alla natura del gruppo affettivo della panchina, che è per l'appunto la natura in cui ci si vuole bene e si è amici, non è che ci si trova per fare quella cosa lì. Non è che vi sto dipingendo il paradiso, noi non siamo mai riusciti a combinare chissà quali slittamenti di senso nella vita del gruppo, però siamo riusciti a fare delle cose importanti; adesso la situazione è completamente differente. I nostri operatori escono in strada e trovano molti meno ragazzi di prima e non soltanto perché il numero di quelle persone di quell'età va diminuendo, ma perché le aggregazioni sono ubicate nei posti più nascosti del quartiere. Una volta il campo Colombo, che è per l'appunto il confine di Milano verso il Dazio di Corsico, era il posto dei tossici e con tutto il bene che gli voglio c'era un significato di profonda emarginazione nel loro stare lì. Adesso è il posto dei ragazzi che ci hanno anche provato a stare sotto le case del quartiere grigioni vicino a piazza Frattini, ma li hanno cacciati perché davano fastidio, perché disturbavano e non c'era nessuna modalità possibile per gestire quel conflitto, perché molto prima che riuscissi a metterla in campo arrivava la polizia a mo' di pala, portava via dagli occhi e dagli orecchi dei bravi cittadini l'aggregazione dei ragazzi.
I gruppi sono sempre più connotati da un elemento di fondo che è la condivisione di una situazione in difficoltà. Dieci anni fa noi avevamo una maggioranza di studenti, con uno, due, tre ragazzi sui quali fare maggiore attenzione e attivare dei percorsi alternativi, cercare di riportarli a scuola, magari collegandogli l'istruzione alla formazione professionale. Adesso il rapporto è completamente ribaltato. L'esperienza di strada è quasi completamente limitata, dedicata alle persone che la scuola non la frequentano, come se fosse un altro percorso. C'è chi impara a stare al mondo a scuola, c'è chi impara a stare al mondo stando nei giardini del Giambellino… c'è una separazione dei percorsi fortissima. La separazione dei bacini di utenza, che quindici anni fa ha consentito alle famiglie di iscrivere i bambini e i ragazzi dove volevano, invece che nella loro scuola di quartiere, è stato un elemento criminale di distruzione della socialità nelle nostre periferie, perché ha significato che nel giro di qualche anno, tutti quelli che potevano, che avevano un lavoro in centro, o anche semplicemente degli strumenti culturali per augurarsi il bene dei propri figli e distinguerlo nella tipologia dell'insegnamento che gli veniva dato, hanno portato fuori i ragazzi dal quartiere e molto prima che questo si mischiasse con la questione degli stranieri. Ancora adesso, nei nostri quartieri, e questo forse che ci differenzia da Parigi, non c'è l'equivalenza tra straniero e sfigato, perché da noi gli sfigati sono sempre di tutti i colori compresi gli italiani napoletani e calabresi… Questi elementi poi nella vita dei ragazzi si traducono sostanzialmente nell'incapacità di muoversi. Quello che noi troviamo nella cultura dei gruppi quando andiamo a conoscerli è una fase di blocco regressivo e difesa aggressiva che può durare anni, perché alla radice del gruppo, del motivo per cui i ragazzi stanno insieme c'è l'esigenza di difendersi da qualunque richiesta di performance che il mondo adulto a cui sono abituati gli può fare, perché questi sono quelli che sono stati buttati fuori da scuola, cominciano a bocciarli già dalle elementari, a volte non li bocciano ma gli dicono semplicemente arriviamo alla fine dell'anno così il più in fretta possibile. Sono quelli che già 10-20 anni fa sparivano nelle classifiche dell'abbandono; a quindici anni sono già quelli che comunque vengono buttati fuori da tutto. A quel punto li sloggiano da sotto il balcone e siamo a posto. Lo stigma del deviante a 16 anni per una parte consistente dei ragazzi del quartiere ancora adesso è una ineluttabilità, non un'eventualità e in qualche modo prescinde ovviamente a quell'età dalle loro possibilità di scegliere.
Quello che stiamo facendo adesso è questo: noi abbiamo lavorato per anni su questa questione accorgendoci che questi elementi stavano scendendo in campo e che non c'erano degli interventi in difesa. Voi pensate che tutta la zona 6 ha circa 150 mila abitanti, 20 mila sono i minori, i servizi sociali hanno in carico nominalmente più di mille casi e poi con la riduzione dei fondi il comune prende in carico solo le situazioni che gli vengono inviate dal tribunale; sapete quanti sono gli assistenti sociali su tutta la zona 6 a seguire 1000-1200 casi? Sono 7. Vi rendete ben conto che c'è qualcosa che non funziona. Noi, rispetto a questo, abbiamo ovviamente orientato i nostri interventi sull'area del disagio, abbiamo aumentato i posti del doposcuola, abbiamo messo più operatori sui percorsi sulla dispersione scolastica, abbiamo cercato di finanziare il più possibile i percorsi di tirocinio, borsa lavoro e alternativi dove noi lavoriamo con un grosso livello di presa in carico perché come diceva Gino o gli vuoi bene e si fidano, oppure non riesci ad accompagnarli neanche dietro l'angolo, perché questi soltanto nell'identificazione con il gruppo deviante e soltanto l'identificazione col quartiere, riescono ad assumere una faccia che li può aiutare ad andare fuori, perché altrimenti gli è negata qualunque identificazione in positivo.
Davanti a questo fenomeno però negli ultimi due anni ci stiamo accorgendo che questa separazione, questo muro che si è alzato tra le case popolari ed il resto del territorio ci ha in qualche modo inglobati, noi siamo diventati il centro dei ragazzi delle case popolari e in assenza di una cultura, in qualche modo, dell'incontro, dello scontro anche, della differenza. Questo ha significato praticamente che noi non abbiamo più un'utenza che abbia in qualche modo qualche risorsa in più. Quello che secondo noi dovrebbe succedere al Giambellino adesso, che noi stiamo cercando di costruire attraverso delle esperienze che non ho il tempo di raccontarvi, ma vi invito a venire a trovarmi per potervelo raccontare, è quella che ognuno deve lasciare il suo specifico per un attimo o connettere il suo specifico, nel nostro caso il lavoro con i ragazzi, ad uno più generale che è il problema del territorio, della comunicazione sul territorio, della mediazione dei conflitti che esistono sul territorio. Devono esserci delle risorse che vengono destinate specificamente alla cura delle relazioni all'interno dei quartieri e su questo ci sono delle cose da fare, perché i presidi ci sono, perché i comportamenti validi all'interno del quartiere, quelli di cura reciproca, di attenzione reciproca non sono ancora del tutto delegati a chi di funzione professionale deve svolgerli, perché c'è un vicinato solidale, perché ancora nelle parrocchie ci sono delle cose, perché il sindacato comunque delle funzioni le svolge, perché c'è ancora un residuo di tessuto sociale, perché c'è ancora chi riesce a guardare in faccia la realtà. Queste sono le persone con cui parlare quando andate nei quartieri a chiedere che cosa sta succedendo d'importante che non è che c'è lo spacciatore marocchino ma è che io riesco ad andare a parlare con la signora del terzo piano che è spaventata ed è importante che io riesca ad andare a parlare con lei.
Ivan Berni
Bisogna partire dalla volontà di raccontare la città in modo non scontato o altrimenti torniamo ai clichè; è un atteggiamento esecrabile, ma corrisponde alla bassa sensibilità che in questo momento domina l'atteggiamento interno ai giornali rispetto alla realtà. Il problema è che in linea di massima noi siamo di fronte a un modo di fare giornalismo, che nel tempo è un po' peggiorato e che mentre una volta considerava la cronaca come la palestra fondamentale della professione, adesso lo considera come la periferia del mestiere…
Marianella Sclavi
Io sto al gioco, cioè se io dovessi scrivere una cosa sul Giambellino, partirei dal punto di vista tipo Kapuscinski… Oggigiorno stare al mondo ha un significato completamente diverso da quello che aveva quindici anni fa, oggigiorno vuol dire essere una personalità multipla, avere un'identità multipla. Vuol dire che se tu sei un immigrato dal sud e hanno detto prima che ci sono tanti terroni al Giambellino, se sei un immigrato del sud la tua appartenenza multipla alla Calabria o alla Puglia al Giambellino, oggi è un valore. E tu non sei più solo di Milano, ma sei anche di Milano, cioè tutti noi siamo "anche". Qui ci sarebbe un lungo discorso da fare, sul nuovo cosmopolitismo attuale che non è più o italiano, o cosmopolita, ma è ad esempio essere un marocchino, che però se abita qui e lavora qui è anche italiano. Questo vuol dire recuperare, perché tutta la nostra immigrazione che noi abbiamo vissuta come un dimenticarsi, come proprio per non essere terroni dimenticarsi la zona di provenienza e tentare d'integrarci dentro il nuovo ambiente. Se eri cosmopolita non eri tedesco, se eri del nord non eri del sud, se eri del sud eri un terrone, quindi ecc. Ecco oggigiorno questo cambia, allora che cosa vuol dire chiederci: quali sono i posti del mondo che ho frequentato? Tu che viaggi hai fatto? Qual'è il tuo spazio nel mondo? Dove sei stato? Io ho incontrato vicino a casa mia che era davanti al Corriere della Sera, un gruppo di giovani ventenni belgi alla sera verso le 7 e mezza e in inglese mi hanno chiesto dove si poteva andare a Milano di notte per divertirsi. Ho detto forse andate ai Navigli non so, gli ho indicato come andarci con la metropolitana, non sapevo che cavolo dirgli. Allora mi viene da chieder loro da dove venivano e mi hanno risposto che avevano trovato un biglietto di 9 euro ed erano appena arrivati a Milano e il giorno seguente sarebbero ripartiti in aereo. Erano semplicemente venuti a passare la nottata a Milano, e questo per dirvi che oggigiorno è cambiato tutto il rapporto con lo spazio, con l'esperienza, ecc. Proviamo a vedere questi ragazzi da questo punto di vista, vederli come si raccontano, perché io penso che sia una vera violenza per un giovane oggi non solo non veder valorizzato sé stesso, ascoltato, ecc., che ovviamente lo è, ma anche non veder valorizzato il proprio senso diverso modo di stare nello spazio. Quando uno inizia così fa una vera inchiesta perché non sa minimamente cosa tirerà fuori, è come le vere domande che sono quelle a cui non abbiamo risposta. Io credo che le inchieste migliori nascono dalle domande di cui non abbiamo risposta naturalmente, sennò che gusto c'è ad andare a fare l'inchiesta…
Ivan Berni
Cos'è il centro? Questa è una buona domanda, perché noi diamo per scontato che il centro sia un luogo geografico dove si concentra una grossa carica simbolica, il desiderio di arrivare in centro. Nel tempo questo concetto è piuttosto cambiato nonostante Milano sia una città radiale, quindi un'unica, grande piazza. Butto lì non tanto una provocazione, ma un'osservazione un po' strana, è solo un punto di vista diverso. Il titolo di questo workshop è di come le periferie cambiano il centro, come le periferie del mondo stanno cambiando piazza Duomo per esempio, che obiettivamente per frequentazione umana, non è più la stessa rispetto a una quindicina di anni fa. Già una quindicina di anni fa era snobbata dai milanesi perché hanno sempre chiuso alle 8 di sera negozi e i bar in un luogo d'incontro di una serie piuttosto nutrita di comunità d'immigrati, cittadini milanesi che usano la piazza, l'unica grande piazza di Milano per ritrovarsi, con i problemi, le difficoltà e anche le suggestioni del caso. Già questo è un primo elemento per dire che questo titolo si assume come idea di periferia un concetto un po' più grande di quello che abbiamo. Una volta c'era l'appartenenza al Giambellino, forse c'è ancora in parte ancora adesso, qualcuno la vive o può viverla così, ma io dico che il problema di Milano degli ultimi anni, questo spero che non sia l'avanguardia rispetto al resto dell'Italia, è la perdita di un forte senso identitario di chi vive in questa città e che vive questa città come una situazione nemica. Non è un caso che il titolo di questo incontro generale di questi due giorni sia "la città crudele" e secondo me solo a Milano si poteva dare sensatamente questo titolo senza suscitare qualche reazione, perché è un percepito condiviso. E questo perché? Per una serie di motivi e qui ci vorrebbero altri due seminari, assumiamolo però come un dato di fatto, cioè che questa sensazione di difficoltà, di disagio, di fatica di vivere la città da parte di chi la abita, è purtroppo un dato condiviso.
Come raccontare questa cosa senza che sia un elenco di lamentazioni diciamo neocorporative o singolari, o addirittura atomizzate? Questa è una grande domanda alla quale la stampa e anche i media, la televisione, le radio non hanno risposto. C'è un grande rimosso su questo problema di Milano. Io trovo ci sia un rimosso gigantesco da questo punto di vista. Faccio un esempio piccolo. A Milano c'è un'esperienza importante che è Radio Popolare che però è molto più attenta alle periferie di La Paz che alle periferie di Milano ed è un problema, nonostante il 90% del suo ascolto sia a Milano e in Lombardia. Si può ragionare moltissimo sulla vocazione di un mezzo piuttosto che un altro, conoscendo un po' la situazione, il fatto che è molto più difficile raccontare dall'interno un cambiamento così forte senza utilizzare delle categorie un po' vecchie. I centri oggi sono più d'uno, non sono solo i centri sociali, sono i centri commerciali, sono i multiplex. Paradossalmente o per fortuna i nuovi cinema, o le nuove sale si sono diffuse nella periferia sterminata della regione urbana milanese, da Cerno Maggiore a Rozzano a Sesto San Giovanni. C'è una disponibilità del consumo culturale assolutamente strepitosa, questo segna il cambiamento d'epoca forte, però è un cambiamento d'epoca che va di pari passo allo spossamento identitario. La gente tende ad avere un'appartenenza e non tende più ad avere un'identità. Sembrano contraddittorie queste cose, ma non lo sono. Siamo sempre di più la somma di tante appartenenze diverse, il prodotto di un'assenza d'identità un po' forte. Attenzione, quando dico identità non penso alla Lega, Bossi od altro, penso a una profondità dell'esperienza, a un senso di radicamento ed anche perché no, a un'identificazione e a una simbiosi con un territorio, cioè io sono il prodotto di questo territorio, di quel quartiere, di quell'esperienza, di quella rete, quella socialità.
Io trovo che questo sia l'elemento più difficile da raccontare e forse anche il danno sociale più grande di questi ultimi anni che è un mix di generale e locale. È questo che rende Milano molto difficile da interpretare, molto difficile anche da rimettere in moto per alcuni meccanismi. Il territorio esiste in una molteplicità anche di interpretazioni. Non possiamo considerare il concetto di territorio come un concetto fissato una volta nel tempo, cioè è la terra degli indiani di America, è l'appartenenza al centro di Bologna o al quartiere ticinese o è il sentirsi berlinese dei berlinesi primi anni '60, quelli del muro, il sentirsi milanese o bolognese oggi perché sei un city user o sei un immigrato. Secondo me bisogna aggiornare un po' le categorie. Ma vi par possibile che tutti quelli che fanno i giornalisti e che sono tanti in questa città, ne sono sicuro ce ne saranno solo 10 che leggono i giornali delle comunità immigrate? E ce ne sono a Milano, ci sono giornali degli ecuadoriani, ci sono giornali dei cinesi, degli albanesi, c'è anche una gazzetta rumena. Non li legge nessuno, come nessuno sembra porsi il problema politico che c'è più del 10% della popolazione che vive in una città come Milano, che non ha voce, non ha rappresentanti, non vota neanche per una consulta non istituzionale. Manca questo livello di interlocuzione, perché poi alla fine si perpetua quel meccanismo della moltiplicazione delle appartenenze e dello smarrimento totale dell'identità e questa è un'altra cosa che secondo me per chi fa il mestiere del giornalista, va tenuta continuamente a mente.
Marianella Sclavi
Hai sollevato tantissimi problemi, quindi vediamo da dove partire… Io ho abitato per 8 anni a New York a partire dal 1984 e quando sono tornata a Milano all'inizio del 1990, la città era diventata un poco più interetnica, mentre quando tornavo per Natale, mentre stavo a New York dicevo ma come siete noiosi voi italiani, siete tutti uguali, si, siete tutti bianchi, tutti uguali, tutti dello stesso colore… Adesso non è più così. Vai in metropolitana, in autobus, in piazza Duomo, ecc. e c'è un grandissimo mix proprio di strutture fisiche del viso oltre che di colori e questo per me è bello, sono molto felice di questo, perché amo la diversità. Questa diversità oltre ad aver cambiato il centro ha cambiato le periferie, nel senso che se andate nelle scuole elementari e materne delle periferie, lo sapete benissimo, abbiamo fino al 40% di bambini che parlano delle lingue madri diverse. Al quartiere Stadera io ho seguito come consulente un progetto d'inserimento di 44 famiglie di extracomunitari che parlano 20 lingue diverse. A cosa è servito? Fare in modo che queste famiglie convivessero bene fra di loro, perché anche fra di loro c'erano delle differenze enormi, c'erano quelli dello Srilanka e quelli marocchini e quelli del Senegal, ecc... Quando sono arrivati tutti questi extracomunitari i cittadini erano proprio contro, ostili, poi hanno incominciato a chiedere agli stranieri che venivano da tanti paesi diversi, cose cui noi non pensiamo, come ad esempio: per te, cosa vuol dire avere una casa? Hanno incominciato a raccogliere cosa vuol dire per tutta questa gente che viene da tutto il mondo che cosa vuol dire avere una casa. Poi: cosa sono i segni di una buona convivenza? Una convivenza in cui ti senti a tuo agio? In cui ti senti felice? Allora vuol dire quando mi manca qualcosa posso andarlo a chiedere, ogni tanto ci si vede, ci si invita a vicenda, cioè tutta una serie di segni ed hanno scritto delle regole di buona convivenza collettivamente, che è completamente diverso da un regolamento di condominio anche come linguaggio ovviamente. Per esempio ci si saluta quando si entra… Questo è un bellissimo progetto che è stato fatto anche con le scuole e con gli insegnanti che erano molto disponibili, per questo io dico che ci sono delle realtà stupende in questi quartieri. In realtà il problema non è di trattare gli immigrati come uno di noi, è trattarci tra noi come se fossimo degli immigrati benvenuti, perché verso l'immigrato faccio delle domande che fra di noi non ci poniamo, cioè se tu devi mettere in quelle case un italiano non gli vai a chiedere quale è la tua concezione della casa e la tua concezione della buona convivenza, gli dai il regolamento di condominio, invece verso l'immigrato siccome parla una lingua diversa, ecc., ti poni delle domande che anche gli italiani hanno trovato estremamente interessanti ed hanno consentito di costruire dei terreni comuni. Quindi imparare a vederci come se fossimo stranieri ci aiuta a costruire fra di noi dei terreni comuni che altrimenti non ci sarebbero. Inoltre il fatto di avere in queste scuole tanti bambini e quindi tanti genitori che vengono da tanti paesi diversi, vuol dire avere dei canali di collegamento con questi paesi, se solo li sappiamo costruire e sfruttare. Sono canali che poi diventano turismo equo e solidale, diventano tutta una serie di possibilità; io la chiamo diplomazia del terzo livello, perché vivendo nel mondo d'oggi che non è quello di 50 anni fa, questa gente racconta la propria esperienza in Italia a casa…
Il territorio, cioè l'identità è multipla. Il problema quando si diceva che ci sono molte appartenenze e manca l'identità è vero, perché il problema è di riuscire ad avere un'identità che si gestisce le molte appartenenze come una risorsa. Alcuni privilegiati questo lo danno per scontato. Io ho il modello dei miei figli, ci ho insistito molto, ci ho lavorato molto perché fosse così e adesso ho una figlia che è una biofisica, lavora a Parigi, ha studiato negli Stati Uniti, sa l'italiano, il francese e l'inglese perfettamente, un po' di russo, perché pure è stata a studiare il russo, suona, quindi chi è lei? Se le chiedono se è italiana, lei dice sì, sono anche italiana, perché poi ormai è una scienziata francese… C'è uno strato di persone privilegiate che ormai vivono questo ampliamento delle conoscenze e delle possibilità di comunicazione e di trovare lavoro. I ragazzi italiani che stanno chiedendo di andare in Cina a 16 anni stanno aumentando moltissimo, quindi noi dobbiamo trovare le famiglie cinesi che li ospitano, che sono dei professori universitari di solito o roba del genere. Questo è un segno che hanno capito qualcosa di vero tra l'altro: adesso vanno in Cina, imparano il cinese poi il lavoro lo trovano con una certa facilità. L'unica soluzione è di rendere possibile anche per questi giovani la possibilità di fare queste scelte, c'è questa capacità di gestire un'identità su molti piani. Il passaggio che vuol dire tradurre, vuol dire avere senso dell'umorismo, vuol dire avere capacità di trasformare l'imbarazzo in una risorsa, aver smesso l'ideale dell'uomo che sa, dell'uomo che non sbaglia, dell'uomo che è in controllo, che era l'ideale dell'inizio della modernità del secolo scorso maschile. Oggi sei una persona che può sbagliare, ecc., e questo vale anche per il territorio. Il territorio è plurale e se è plurale vuol dire che ci sono tante comunità che lo vedono e lo gestiscono in modo diverso, perché non è solo tante isole occupate da tante comunità, ma è il modo con cui queste comunità parlano tra di loro e si rapportano fra di loro, e si rompono le scatole, oppure si accolgono o si danno spazio.
Dario Anzani
Tra territorio e comunità ovviamente m'interessa la comunità, nel senso che il territorio è comunque sempre controllo, che sia un controllo poliziesco, commerciale, malavitoso; mi interessa in quanto c'è una comunità, c'è una realtà dei rapporti, c'è la possibilità di avere dei rapporti veri e non telematici, virtuali, senza negare l'utilità in certi casi e la possibilità di crescere anche via internet però mi sembra che ci sia una radicalità delle relazioni ancora, forse sono già vecchio. Purtroppo è vero quello che dici tu, il territorio in questo momento, almeno stando a quello che vedo io è per lo più il territorio degli sfigati esistendo quegli steccati, cioè è il territorio di chi è costretto, per motivi di incapacità di spostarsi, perché non ha i soldi, perché non ha la cultura per immaginarsi cosa trova dall'altra parte, perché è malato, perché è vecchio, perché ha paura, questi sono gli sfigati e quindi il territorio è la loro unica casa. Tutti gli altri sanno che fuori dal territorio c'è qualcosa di più ricco, c'è la possibilità magari di incontrare davvero le persone, avere delle soddisfazioni e delle delusioni, che è il motivo per cui oltre a mangiare e bere usciamo di casa la mattina… Siamo animali sociali e quindi questa è la funzione dell'incontro, della relazione e per questo ci stiamo accanendo così tanto in questo quartiere che non funziona…
Io poi non volevo lasciare lei senza risposte… Credo che la tua sia una sfiga vera, nel senso che io mi ricordo quando ero piccolo e stavo a Quartogiaro e per l'appunto le persone si spaventavano, dicevano: come fai a vivere in quel posto? Dicevo: ma veramente è una figata vivere a Quartogiaro, perché quando io ero piccolo agli inizi degli anni '70 il mio quartiere era, come ho spiegato del Giambellino, pieno di iniziative. Io mi ricordo la piazzetta che c'è in "Fame chimica" ritratta nel film coi portici di via Capuana che era una meraviglia. C'erano le femministe estreme, c'erano un sacco di feste, c'erano diecimila gruppi, un sacco di discussioni, cioè era un posto dove la mia mamma, che pur era una casalinga moglie di un operaio, mi portava quasi tutte le sere d'estate, perché c'era un sacco di discussioni e tipicamente però ci sono anche un casino di delinquenti, sì ma mica stanno lì, soprattutto perché non c'è niente da rubare a Quartogiaro nelle case degli operai e allora dove andavano? Andavano in centro. Adesso sono tutti sotto casa tua quelli cattivi… Io mando mio figlio che ha otto anni in piazzale Brescia perché l'oratorio è una figata, io non l'avrei mai immaginato prima… Ci sono ragazzini che sono di tutti i colori che stanno insieme, i più grandi con i più piccoli. Ci sono 4 o 5 partite di calcetto e di basket contemporaneamente sul campo e non c'è nessun grande che fa un atto di prevaricazione rispetto ai più piccoli.
Credo che su questa questione della socialità e di come usiamo il nostro territorio, se lo usiamo come una possibile, almeno potenziale comunità, dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento e agire con l'atteggiamento e lo sguardo intorno, uno sguardo interessato, che vuole andare a capire, che vuole andare a conoscere che vuole aprire e scoprirsi. Mi sembra che siano finiti in qualche modo nel dimenticatoio i luoghi comuni, le persone si sono emancipate rispetto alla qualità della vita che non pensano sia per forza vivere qua o vivere lì, ma per l'appunto dipende dalle relazioni che esistono anche in periferia. Ci sono persone, anche coppie molto giovani che per l'appunto fanno la vita come quella di tua figlia che sono venute a vivere al Giambellino e ci dicono: a me piace, io vado giù, c'è la fontana, ci dispiace un po' essere in pochi a farlo, cioè mi metto lì sulla panchina, mi leggo il giornale, vado al bar, bevo il caffé e sono interessata che di fianco ho un vecchio signore eritreo e un rom che ha dormito fuori… non so, mi sembra una cosa carina da vedere. Io credo che dobbiamo cercare di potenziare questo tipo di sguardo e dare occasione a questo tipo di persone di frequentare, di ricreare quei legami che si sono persi, che ci hanno anche costretto a lasciare.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.