Dialogo tra Stefano Boeri e Daniele Checchi. Conduce Franco Bomprezzi
Stefano BOERI
Architetto, direttore di Domus.
ultimo aggiornamento 29 settembre 2006
Daniele CHECCHI
Docente di Economia del Lavoro all’Università Statale di Milano.
ultimo aggiornamento 29 settembre 2006
Franco BOMPREZZI
Giornalista, collabora con Corriere.it e il settimanale Vita, portavoce della Ledha.
ultimo aggiornamento 28 aprile 2011
Franco Bomprezzi
Adesso cambiamo per alcune ragioni tecniche l'ordine degli interventi della mattinata; chiamo Stefano Boeri e Daniele Checchi a dialogare fra di loro. Stefano Boeri è il direttore di Domus. Daniele Checchi è docente di economia del lavoro all"università statale di Milano. Con loro due apriamo il nostro Redattore Sociale proprio su questi temi, sui temi della "città crudele"; credo che avranno delle cose assolutamente interessanti da dirci, dopo di che io vi parlerò di questa provocazione "siamo tutti disabili" e cercheremo di vedere la città da un altro punto di osservazione.
Stefano Boeri
La forma di questa riflessione è quella di un dialogo, proviamo a farlo anche se credo che i problemi, ma anche le risorse di un dialogo come questo derivano dal fatto che Daniele Checchi ed io probabilmente guardiamo cose comuni, ma da punti di vista molto diversi. Io, essendo architetto, le guardo dal punto di vista degli spazi, come urbanista mi sono sempre interessato di guardare la condizione sociale ma a partire dalla visione degli spazi fisici; Daniele, invece, ha un'osservazione più strutturale sui processi economici, sui modelli di organizzazione del lavoro, probabilmente anche più importante, più cruciale. Io vorrei dire 3 cose, tanto per introdurre questa riflessione. Una prima riguarda un'esperienza che stiamo facendo al politecnico di Milano con un laboratorio all'interno di una ricerca sull'abitare a Milano e che stiamo sviluppando con la Fondazione Unidea, cercando di descrivere alcuni nuovi modelli dell'abitare a Milano. L'idea è che Milano diventi oggi un campo di sperimentazione di tipologie e forme dell'abitare inedite. Questo è dovuto soprattutto alle grandi trasformazioni delle popolazioni, che abitano in modo più o meno fisso e temporaneo questa città, e ciò è dovuto anche ad alcune modifiche strutturali che hanno riguardato la città. Nel fare questo lavoro, a parte una ovviamente forte attenzione ai dati quantitativi, a quel complesso sistema dei dati aggregati che ci vengono dall'Istat da analisi di settore, abbiamo deciso d'introdurre un modo di riflessione abbastanza particolare, che però a mio parere è di grandissima fertilità. Del gruppo fanno parte anche alcuni giovani ricercatori e studenti e con loro abbiamo iniziato a lavorare sulla cronaca: nera, giudiziaria, sportiva, quotidiana che hanno riguardato questa città negli ultimi 5 anni. Devo dire che è stato un passo fondamentale, perché soprattutto quando si vanno ad osservare le questioni relative al disagio, all'abitare difficile, una relazione con la cronaca, come chiave di entrata per decifrare le situazioni di vita effettive è fondamentale, perché sblocca il sistema di pregiudizi, di preconcetti che spesso accompagna sia il sapere che noi trasmettiamo come docenti universitari, sia le aspettative che spesso gli studenti hanno rispetto alla formazione universitaria; è fondamentale anche perché ti permette di capire e questo lo dico in modo molto diretto rispetto a Milano, come sia distribuito e articolato oggi il disagio in una città come Milano. Noi abbiamo fatto un lavoro selezionando un centinaio di fatti di cronaca, significativi rispetto ai temi dell'abitare. Siamo andati a prendere la notizia dell'occupazione, la notizia dello sgombero, anche quelle, ma siamo andati a prendere la cronaca in senso stretto, di cronaca nera o giudiziaria che hanno connotazioni riguardo all'abitare: il pensionato che arriva a forme di disperazione che lo portano quasi al suicidio, forme di nomadismo che riguardano popolazioni giovanili inaspettate, una serie di vicende anche come dire non immediatamente legate a fatti spettacolari, ma che ci raccontano, ci danno il polso di questa città.
Devo dire che questo ci ha fatto capire una cosa essenziale, cioè che il disagio a Milano è un arcipelago, non è assolutamente connotabile attraverso una localizzazione definita; ci ha fatto capire che l'idea di periferia, che comunque è un'idea potente, perché si basa su un'ipotetica convergenza di una situazione fisica, di una situazione socio-economica, è un'idea oggi molto difficile da usare, perché la periferia comunque continua a spingerci a pensare, continua a proporci un'immagine del territorio e della città che in qualche modo ci suggerisce che le condizioni di maggiore disagio stiano nelle situazioni in cui si misura la maggior distanza geometrica dal centro, dal centro storico, dal centro antico delle nostre città. Non c'è nulla di più dirompente rispetto a questo schema interpretativo che un lavoro sulla cronaca, che ci racconta come le condizioni di disagio, di disagio estremo, le condizioni di abbandono, di emarginazione, siano oggi a Milano anche legati a nuclei, a spazi e a situazioni, a nicchie molto vicine al centro storico, se non addirittura nelle centralità di queste città. Pensiamo alla grande fenomenologia dell'abitare senza casa, quella che si è chiamata con un termine un po' superficiale "baraccopoli milanese", come si è distribuita questa tipologia negli ultimi 5 anni, migliaia di persone che hanno dapprima occupato il sistema delle aree dismesse, poi sono stati in gran parte sgomberati, hanno ritrovato un'altra geografia di luoghi molto più articolata e molto meno collocata sull'anello periferico, ma andando ad individuare anche piccole aree interne al centro della città. Tutto questo emerge nella cronaca? Sì, emerge in parte, ma non emerge sempre.
Devo dire che una delle cose più interessanti del lavoro che abbiamo fatto con gli studenti sulla cronaca è che ti porta a ragionare anche sui criteri di selezione che il giornalismo milanese compie sul brusio della vita quotidiana, perché è il brusio che genera i fatti, ma pochi di questi fatti vengono poi assunti, selezionati e portati, tra l'altro in modo differenziato, agli interni degli spazi dedicati alla cronaca locale, o in alcuni rarissimi casi, alla cronaca nazionale. Ma è un passaggio importante. Abbiamo per esempio provato a ragionare anche se c'è qualcosa che ha a che vedere con l'inconscio di una città in questo lavoro che il giornalismo compie sulla cronaca, sul brusio della vita quotidiana, se c'è qualcosa che ha a che vedere con la capacità di anticipare le aspettative, o i desideri, o i sogni, o gli incubi di una città.
Vi dicevo di questa idea di una periferia arcipelago. Su questo secondo punto affronterò un'idea di una periferia che non è semplicemente misurabile a partire da una connotazione geografica o meramente spaziale: mi riferisco ad esempio ai casermoni dell'edilizia pubblica. Siamo di fronte a dei fenomeni di disagio che come dicevo prima sono fortemente indipendenti dalle connotazioni dello spazio fisico, non voglio dire che non ne siano condizionati, tutt'altro, ma sono fortemente indipendenti. Ci sono situazioni di grande dinamicità sociale, di commistione di stile di vita, di comunità radicate localmente, che nascono all'interno degli spazi che noi oggi siamo abituati superficialmente a connotare come spazi periferici e ci sono situazioni di segregazione, di solitudine, di isolamento all'interno degli spazi del centro storico che di solito siamo abituati a pensare come più in grado di cullare delle forme di relazione, d'interazione personale, di comunità e di reti corte, di comunità calde di relazioni. Del resto io penso che anche l'interpretazione diventata quasi un cliché dei fatti delle banlieue di Parigi dell'anno scorso ci hanno fatto prendere dei grandi abbagli. Abbiamo avuto per un certo periodo studiosi e politici che ci hanno detto che lo stesso fenomeno stava succedendo anche qui, che dovevamo guardiamoci attorno, alle periferie di Milano, di Napoli, di Roma…. Se guardassimo davvero le nostre città, ci renderemmo conto di come ad esempio a Napoli le situazioni di maggior disagio nascono in spazi che sono all'interno del cuore storico della città, nei quartieri spagnoli, così come il centro storico di Genova, così come alcune parti del centro storico di Milano o di Roma, o di Torino, zone dove si producono e si formano delle situazioni di disagio estremo e di esclusione sociale fortissima; d'altro canto sappiamo che oggi le periferie delle città sono periferie dove s'insediano nuclei di ricchezza assoluta.
Io credo che il punto sulla città italiana sia un punto che non può prescindere da due questioni. La prima è una questione che è relativa proprio alla speranza di mobilità sociale e territoriale, che se frustrata genera una situazione di periferia in senso ontologico, non in senso fisico e spaziale. Io credo che quello che è accaduto intorno alle banlieues parigine, un processo che riguarda una terza generazione di migranti, che in molti casi hanno avuto anche accesso alla scuola pubblica, ad alcuni servizi che si trovano poi a un certo punto costretti a tornare nei luoghi da cui sono provenuti, senza più nessuna speranza di mobilità, o di poter accedere ad un mercato del lavoro che non sia quello marginale, o di tornare anche ad avere una qualsiasi possibilità di abitare all'interno dell'area centrale della grande metropoli parigina, una forma di esclusione da qualsiasi ipotesi di mobilità, è molto più vicina alla situazione dei quartieri spagnoli di Napoli per intenderci, che non a una situazione generica delle periferie urbane milanesi o napoletane; questa forma di esclusione unita ad un altro aspetto che è una fortissima segregazione dal punto di vista anche culturale, nel senso che sono spesso queste comunità in cui assenta l'interazione con l'altro, in cui vengono concentrate, come è stato fatto a Parigi, comunità di migranti che hanno provenienze e culture simili. Questi sono gli elementi che scatenano oggi un problema radicale per chi si occupa di urbanistica e cioè il fatto che nelle città europee non solo europee, stanno nascendo delle vere e proprie situazioni di anti-città, situazioni che per molti aspetti sono completamente antagoniste, potenzialmente antagoniste a qualsiasi forma di convivenza civile, situazioni che non sono neanche più rappresentate, raccontate dal mondo della cultura, dell'arte, delle istituzioni. Pensate a Napoli a come negli ultimi anni, forse con l'eccezione di questo bel testo di Roberto Saviano intitolato "Gomorra", che è uscito nelle ultime settimane, ne è mancata una descrizione che non si limiti ai clichè giornalistici su Scampia, o sui quartieri spagnoli, è mancato un racconto che una volta c'era, un racconto fatto attraverso la canzone popolare, attraverso il teatro, delle condizioni di vita, di diverse migliaia di famiglie che dichiaravano reddito zero a Napoli. C'è una situazione oggi che vediamo nelle quasi 10 mila persone che non hanno fissa dimora a Milano, che vediamo nelle migliaia di famiglie che dichiarano reddito zero a Napoli o in alcune grandi situazioni di disagio a Torino, una situazione potenzialmente esplosiva che unisce una fortissima frustrazione circa l'assenza di mobilità e una segregazione nel senso di una semplificazione delle relazioni culturali, delle possibilità di scambio, delle possibilità anche di conflitto con l'altro, che genera oggi una vera minaccia, anche se il termine minaccia è un termine che non mi piace, ma che è una vera potenziale minaccia per uno sviluppo condiviso delle nostre città.
Non ho ovviamente approfondito nessuno di questi temi, ho preferito trattare in modo superficiale i punti di una riflessione che stiamo sviluppando e che a me sembrano importanti e per certi versi vicini a quanto ho sentito discutere fino a adesso. C'è un terzo aspetto che invece è più relativo ad alcuni modelli positivi che però vorrei trattare dopo.
Daniele Checchi
Io mi ero preparato delle cose diverse da dire però cerco di tenere la stessa scaletta che ha tenuto Stefano Boeri, appunto perché siamo in dialogo. Al concetto di periferia territoriale non più localizzata, io che sono un economista che si occupa di questioni molto al confine con l'analisi sociologica, risponderei col concetto di marginalità economica. Se analizziamo dei dati puramente numerici risulta che la Lombardia sia una regione ricca, con una ricchezza personale eccedente i 500 mila euro, dove il tasso di disoccupazione è altrettanto basso, ma entrambi questi dati fanno a pugni con la percezione diffusa. La percezione diffusa di povertà e insicurezza è aumentata. Dal punto di vista teorico, prima ancora che sociale, la cosa che interessa è cercare di capire questa dissonanza da dove origina, cioè come mai dovremmo nuotare nell'oro, essere pieni di lavoro, mentre la percezione specialmente diciamo per chi opera ai confini della città, per usare l'espressione precedente, è quella completamente diversa. Un terzo indicatore di nuovo che compare spesso sui giornali e che è sintomatico è l'aumento del livello d'indebitamento: il debito all'interno della ricchezza delle famiglie è raddoppiato nell'arco degli ultimi 10 anni. Come mettiamo insieme tutte queste informazioni?
Cercherò di darvi alcuni elementi. Il primo è il fatto che le famiglie hanno una forte propensione a conservare gli stili di vita e di consumo che avevano in precedenza, vale a dire che se sono abituato ad andare in ferie 2-3 settimane all'anno, anche se ho un peggioramento del mio reddito, cerco di mantenere questa abitudine, e l'unico modo in cui mi viene permesso è quello di indebitarmi. Il problema è, nel caso delle famiglie ceto medio-basso, come già sta avvenendo, che si arriva a ipotecare la propria ricchezza principale, ossia la casa. Fonti di tipo giornalistico segnalano il fenomeno di non pagare la rata del mutuo; certo sono dati da prendere con le pinze, ma sono degli indicatori che dicono che la strategia di cercare di resistere al peggioramento delle condizioni economiche, porta sostanzialmente le persone a migliorare, o a salvaguardare la cosa nel breve periodo e peggiorarlo nel lungo periodo perché nel momento in cui uno non riesce a pagare la rata del mutuo scatta l'ipoteca bancaria, nel momento in cui scatta l'ipoteca bancaria, uno perde il diritto ad abitare lì e poi va ad alimentare diciamo la catena della marginalità che arriva fino al senza fissa dimora.
Cos'è che ha messo in moto questo peggioramento? Fondamentalmente due elementi. Il primo è il fatto che dal punto di vista dell'ingresso sul mercato del lavoro le condizioni sono fortemente peggiorate per i nuovi entranti; quella che viene chiamata la flessibilizzazione al margine, vale a dire l'applicazione di nuovi standard lavorativi per i nuovi entranti a seguito delle leggi sul mercato del lavoro, prima la Treu e poi la Biagi, fanno sì che i giovani ormai fronteggino 2 o 3 anni di contratti che non danno prospettiva. La Biagi poi ha moltiplicato questi tipi di contratti, adesso ci sono i contratti di apprendistato di alto livello che possono essere siglati dai laureati i quali possono essere sottopagati fino al 30% perché stanno apprendendo, e questo fino a 35 anni. E' chiaro che queste figure contrattuali hanno provocato due conseguenze: vengono spostate verso l'avanti le scelte di radicamento territoriale, formazione della famiglia, ecc., la seconda cosa è che hanno posto un onere maggiore a carico delle famiglie.
Non abbiamo in Italia un sistema di sicurezza sociale per cui il welfare italiano è la famiglia, allora nel momento in cui le famiglie devono prospettarsi davanti l'idea di dover mantenere i figli, di dover offrire loro una garanzia fino a 30-35 anni, ecco che questo è un onere. In più la mia generazione è quella che si becca contemporaneamente l'onere del figlio che resta in casa tardi e il genitore che non se ne va… e questo è un aggravio di costi significativo. A fronte di un sistema sociale che non è in grado di farsi carico di questo, si aggiunge un terzo elemento che è il peggioramento della ricchezza prospettica, quella che chiamano la ricchezza pensionistica. Io ricado in quelli che si sono beccati in pieno la riforma Amato che ha tagliato del 40% la prospettiva di reddito durante il periodo pensionistico; se mettete insieme questi 3 elementi, voi capite il perché della dissonanza cui facevo riferimento all'inizio, fra dati e percezione della realtà.
Inoltre vorrei analizzare alcuni elementi di riflessione su quali siano i percorsi che oggi ingenerano disagio e poi emarginazione che possiamo andare a prendere fin dalla scuola. Dall'indagine triennale "Pisa" sulle competenze degli studenti effettuata nel 2003 risulta che la media delle competenze posseduta dagli studenti lombardi è buona, nel senso che, messa una media europea a 500, gli studenti della Lombardia hanno un punteggio medio di 520-530, quindi è diciamo al di sopra della media, tenete conto che al sud la media, in una regione come la Calabria è 400: c'è già un divario territoriale. Disaggregando poi i dati di Milano per tipo di scuola, il livello di competenza degli studenti negli istituti professionali è intorno a 430, come in Calabria. Credo che un sistema scolastico che offre dei percorsi di qualità inferiore è una prima strada per l'uscita, oltre al fatto che proprio in questi istituti c'è il tasso di bocciatura più alto: venire indirizzati su questi percorsi scolastici e poi esserne buttati fuori è probabilmente il primo passaggio per l'ingresso alla marginalizzazione. Ma ce n'è un secondo: le ricerche sugli ingressi nel mercato del lavoro ci dicono che oggi la percentuale dei laureati che usa il lavoro interinale è più o meno equivalente alla quota dei laureati, cioè ai laureati non fa schifo andare a fare un lavoro interinale, tuttavia mentre i laureati escono dal lavoro interinale, gli altri ci restano intrappolati. Questo significa che il contratto di lavoro marginale è per qualcuno un ostacolo in più di passaggio che poi porta ad un ingresso nell'occupazione stabile, per qualchedun'altro invece è una trappola da cui non esce più. Per dare un'idea del fenomeno, quest'anno i contratti di lavoro a tempo determinato nelle assunzioni in Italia hanno superato i contratti di lavoro a tempo indeterminato: oggi si stipula, per ogni contratto a tempo indeterminato, più di uno a tempo determinato. Questo vuol dire che anche la modalità in cui si entra, segna sostanzialmente le persone.
Il terzo elemento riguarda gli effetti del cambiamento tecnologico. Ci sono alcuni settori che progressivamente stanno chiudendo, della struttura produttiva di tipo industriale e li ci sono persone di 50-55 anni che vengono disoccupati e difficilmente sono reimpiegabili. La nostra regione non ha una buona struttura formativa diciamo a livello adulto. Il nostro paese non è un paese che ha un sistema di sussidi disoccupazione di lunga durata, se si tratta di grandi aziende c'è la mobilità, ma se sono aziende piccole ci sono i 6 mesi della disoccupazione ordinaria e quindi questo crea sostanzialmente un terreno fertile per lavoro nero.
Franco Bomprezzi
Mi permetto di fare due domande: in fondo c'è stata una specie di geografia urbana e geografia del lavoro che è cambiato nella nostra metropoli. A un architetto mi verrebbe da chiedere: ma qual'è l'identità urbana oggi di Milano? Possibile che noi nelle nostre cronache vediamo sempre raccontare dei progetti di uno sviluppo rispetto a degli obiettivi di questa metropoli, che poi magari non sono neanche davvero realizzabili in termini economici di nuovo mercato e invece questo tipo di tessuto che hai perfettamente raccontato non sembrano avere dei medici intenzionato a curarlo, sembra che nessuno si preoccupi davvero di ricostituire un tessuto sociale negli interstizi di questa città che è apparentemente molto malata?
Dall'altra parte la marginalità del lavoro, il lavoro precarizzato costantemente: qual'è il livello minimo che sarebbe realmente compatibile con il sentirsi cittadini oggi a Milano? Insomma io stesso nell'agenzia nella quale sono capo redattore so bene quale è lo stipendio d'ingresso per un giovane collega laureato che ha fatto tutto quello che doveva fare per accostarsi a questo mestiere e che inizia francamente con un reddito per il quale se non è già con famiglia abbondantemente agiata, non è assolutamente in condizione di arrivare alla fine del mese…
Stefano Boeri
La domanda è molto difficile; io penso che uno spunto potrebbe essere quello di riconoscere a Milano oggi un carattere distintivo di essere una delle città che ospita delle forme di temporaneità dell'abitare più articolate. Oggi Milano non è solo la città in cui ci sono 800 mila persone che si muovono con un movimento ciclico entrando e uscendo dal sistema delle tangenziali; è anche la città a livello italiano dove c'è la quota maggiore di studenti che si muovono con la forma di pendolarismo. È una città che ospita quote significative di mondi professionali internazionali che vengono per fasi temporali più ristrette legate ai grandi eventi che la città produce nella moda, nel design, negli altri settori commerciali. Ma è anche la città dove ci sono forme temporanee di permanenza di popolazioni migranti che passano, si fermano, poi si muovono, o di popolazioni invece che tendono ad avere una dimora fissa, ma che non la trovano e che quindi hanno la temporalità obbligata. Allora questo a me sembra un carattere importantissimo oggi della Milano contemporanea, tra l'altro visibile ovunque, anche nelle aree centrali. Un progetto sull'abitare temporaneo, secondo me, potrebbe dare il senso della sfida di questa città, cioè di capire come una città che fa dell'accoglienza, che ha sempre fatto dell'accoglienza uno dei suoi grandi tratti distintivi, possa saper declinare quest'accoglienza, rispetto a un sistema di temporaneità dell'abitare così articolato. Questa è una primissima risposta, naturalmente ci sarebbe da dire molto di più.
Daniele Checchi
Se vogliamo parlare del mondo dei sogni, l'ideale sarebbe che esistessero delle risorse economiche che permettessero di offrire quello che è stato offerto in Italia su un campione di una cinquantina di comuni, tra cui quello di Cologno Monzese, ossia il reddito di cittadinanza; poter garantire a tutte le persone un reddito per quanto basso, ma diciamo indipendente da condizioni di famiglia e da condizioni di lavoro, sicuramente è un grande atto di civiltà. Questo risolverebbe un sacco di problemi dal punto di vista sociale, dalle convivenze forzate a livello di coppie che stanno insieme solo perché non ci sono le case, ai giovani che potrebbero in qualche modo sbloccare queste situazioni di convivenza altrettanto forzata e garantirebbe una specie di rete di salvataggio di fronte agli eventi traumatici che comunque accadono. Se leggete la letteratura sui percorsi di povertà, le cause d'ingresso nella povertà sono sempre le stesse: rottura del rapporto familiare, grave malattia e licenziamento o perdita del posto di lavoro. Questi sono i 3 grandi imbuti con cui si entra all'interno della precarietà. Poter avere questo antidoto che in qualche modo lo tampona sarebbe già una soluzione.
Fin qui abbiamo parlato di precarietà economica, in molti casi si associa ad una povertà relazionale. Il fatto di non essere in grado di comunicare e dialogare proprio perché il background culturale delle persone è molto differenziato, produce due mondi che sono distanti 30-40 metri, che parlano due lingue totalmente diverse e questo non è un problema economico, bensì un problema culturale. Allora come si fa a creare un vaccino culturale che permetta a mondi e persone con storie lavorative, classi sociali così diverse, quanto meno di parlarsi a 30 metri di distanza? Devo dire poi che la pianificazione territoriale non va in questa direzione. Una soluzione economica non risolverebbe il problema, ci darebbe degli strumenti forse per poter affrontare la questione successiva che è quella di parlarsi insomma.
* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.